Regola di san Benedetto

Capitolo XLIX - La quaresima dei monaci: 1. Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, 2. visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, 3. profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell'anno... 5. Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, 6. in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione di fede; 7. si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio.



 

Convertirsi alla comunione

Estratto da "Carissimi del Signore..", di Anna Maria Canopi O.S.B., Edizioni Piemme 2003

Carissimi,

ogni tempo forte dell’anno liturgico reca con sé la sua grazia speciale. Quale può essere quella della Quaresima, proprio di questa Quaresima?

Il Signore ce lo indica facendoci considerare la necessità a tutti i livelli mondiale, ecclesiale, familiare di migliorare le relazioni per fare comunione.

E un’arte molto difficile, perché i mezzi che umanamente abbiamo a disposizione sono spesso difettosi. I nostri limiti personali, le nostre sensibilità ferite, i nostri pregiudizi e tante altre vulnerabilità possono condizionare negativamente il nostro modo di incontrarci, di comunicare, di collaborare. Ne derivano malintesi, diffidenze, tensioni e dissidi che - più o meno palesemente - ostacolano i rapporti e finiscono con il dividere le menti e i cuori. Il vivere insieme diventa allora faticoso, e facilmente si può essere tentati di evitare tale fatica. Facilmente si pensa che sia inutile sostenere lo sforzo per una profonda intesa pacifica e si preferisce starsene in disparte, magari guardando con distacco le situazioni e le persone, senza lasciarsi coinvolgere.

La comunione, effettivamente, richiede abnegazione, dono di sé senza riserve, in umiltà d’amore, come fece Gesù fino allo svuotamento di sé nell’ora della croce. Sì, soltanto allargando le braccia sulla croce come e con Gesù anche noi possiamo fare comunione senza esclusione di alcuno.

Bisogna anzitutto mettersi e tenersi in atteggiamento di ascolto degli altri, con stima e benevolenza, per saper valorizzare il positivo che è in ciascuno. Se si guardano i dettagli e si perde di vista l’essenziale, anziché andare verso gli altri si ingombra la strada dell’incontro con mucchi di sassi. E ben presto questi diventano una montagna insormontabile, anche perché - bisogna riconoscerlo - su quei sassi siede, beffardo, il maligno esperto nell’arte di dividere.

Lavorare per fare comunione significa, dunque, anzitutto fare spazio al dono dello Spirito Santo che purifica le menti e i cuori, mitigando e frenando le reazioni impulsive, le ostinazioni nel sostenere il proprio punto di vista. Non si arriva alla comunione fraterna senza accettare la legge della complementarietà. Come per fare una melodia occorrono note diverse e pause di silenzio, così per fare comunione si devono comporre insieme pensieri e sentimenti diversi. Il «diverso» non è sinonimo di «contrario», bensì una nota da sintonizzare con altre: una gamma di colori che, fondendosi con le altre, dà come risultato la trasparenza della luce. Ciò che è indispensabile è puntare sempre sul positivo. Anche se sembra poco, potrà bastare quale punto di leva per far emergere nella persona un maggior bene.

La capacità di amare gratuitamente, di anteporre gli altri a se stessi, di consumarsi per tutti, anche per quelli che ci rifiutano o ci fanno soffrire, ovviamente non è naturale: la si deve attingere dal cuore di Gesù. Perciò alla radice della vita di comunione c’è la contemplazione del mistero di Cristo, la partecipazione al suo sacrificio redentore, la più ardente preghiera.

Le comunità ecclesiali e religiose, le famiglie, ogni forma di vita comune hanno bisogno di consolidarsi mediante un più intenso ascolto della Parola di Dio e l’assiduità nella preghiera. Così avvenne all’origine della Chiesa. La prima comunità cristiana di Gerusalemme rimane il prototipo e il modello della vera comunione anche per i cristiani del Terzo Millennio (cfr. Atti degli Apostoli 1,12-14; 2,42-48). Davanti a una società fortemente intaccata dal germe della discordia frutto di orgoglio e di egoismo noi sentiamo l’urgenza di una globalizzazione autentica nell’amore vicendevole. «Amatevi come io vi ho amati» (cfr. Giovanni 13,34-35): è il testamento che Gesù ci ha lasciato. Egli ci ha amato fino a dare la vita per noi. Questa deve essere anche la nostra misura. Crediamo che è possibile, perché egli non si è limitato a comandarci di amare, ma ci ha pure riversato nel cuore il suo Spirito, il divino Amore che fa di lui e del Padre una cosa sola.

L’augurio più bello che possiamo scambiarci all’inizio di questa Quaresima è dunque quello di arrivare insieme alla Santa Pasqua con i volti raggianti della gioia del Signore, gioia che è frutto di comunione, di partecipazione al mistero della Santissima Trinità (Isola San Giulio, 17 febbraio, prima domenica di Quaresima 1/2002).

 

Il cuore del Padre nel sacrificio del Figlio

Carissimi,

la Quaresima e la Pasqua ci pongono davanti ancor più vivo il mistero della redenzione per farcelo non solo comprendere, ma anche sentire in atto nella nostra esistenza personale, nella Chiesa e nella storia dell’umanità di oggi. L’iconografia del Medioevo ha spesso rappresentato il mistero della redenzione con la figura di Dio Padre che regge le braccia della croce su cui è immolato il Figlio, mentre su entrambi apre le ali la bianca colomba, simbolo dello Spirito Santo, da cui si irradia una luce calda e avvolgente. Il significato è di tale trasparenza da non aver bisogno di spiegazione.

Sarebbe del tutto errato pensare il Padre come il Dio severo e giustiziere che colpisce crudelmente il Figlio fatto uomo e caricato di tutti i peccati dell’umanità. In realtà il Padre consuma nel suo cuore tenerissimo - con viscere materne! - la passione che il Figlio consuma nel suo corpo umano appeso alla croce. E ad alimentare tale passione è lo Spirito Santo, l’Amore che li fa Uno.

«Stendendo le mani sulla croce, o Cristo, tu hai riempito l’universo della tenerezza del Padre», esclamava san Giovanni Crisostomo. E santa Caterina da Siena: «O misericordia che esce dalla tua divinità, Padre eterno; nella misericordia tua fummo creati; nella misericordia tua fummo ricreati nel sangue del tuo Figliuolo... La tua misericordia dà vita. Nell’altezza del cielo riluce la tua misericordia... Se io mi volgo alla terra, ella abbonda della tua misericordia... Il cuore si affoga a pensare di te, perché ovunque io mi volto a pensare non trovo altro che misericordia, o Padre eterno!» (Il Dialogo, Ed. Cateriniane, Roma 1980, pp. 68-69).

Nel sacrificio redentore di Cristo si manifesta dunque l'infinita compassione del Padre nostro celeste. È questo un motivo di immenso conforto per noi così facilmente paurosi del giudizio di Dio e inclini a leggere in chiave di castigo le circostanze dolorose della nostra vita. Noi siamo purtroppo di vista corta e ancora influenzati dalla mentalità del mondo; abbiamo bisogno di acquisire una più limpida mentalità cristiana, per credere di essere amati davvero «follemente» da Dio. Egli, infatti, ha concepito e attuato per noi un disegno di salvezza che lo ha coinvolto fino in fondo con la nostra miseria e con il nostro conseguente dolore. Le piaghe del Figlio, grazie alle quali siamo stati redenti, si sono aperte anche nel cuore del Padre. Se non fosse così, Gesù ci avrebbe detto: «Il Padre stesso vi ama...» (Giovanni 16,27)? Questo ci può bastare per crescere nella gratitudine e per dire senza posa con l’apostolo Paolo: «Ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferito nel regno del suo Figlio diletto per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Colossesi 1,12-13).

Quali «figli della luce» cantiamo con la vita la nostra santissima fede e la nostra incrollabile speranza, senza lasciarci turbare dagli sconvolgimenti del mondo, poiché il male non è più forte del bene. La via della croce è necessariamente da percorrere, ma per arrivare alla luce e alla gioia della Risurrezione.

In comunione di preghiera prepariamoci a una Pasqua radiosa (Isola San Giulio, 28 febbraio, seconda domenica di Quaresima - 1/1999).


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30 marzo 2020        a cura di Alberto "da Cormano"     Grazie dei suggerimenti      alberto@ora-et-labora.net