«SARÒ SEMPRE CON VOI»

di Gianfranco Ravasi

Estratto da "I VANGELI DEL DIO RISORTO" – Paoline Editoriale Libri 2010


 

La nostra riflessione parte ancora una volta dal famoso brano paolino della Prima lettera ai Corinzi: «Vi ho trasmesso quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e apparve...» (15,3-5).

Questo testo risuona costantemente all'interno delle chiese cristiane disperse nel mondo. In esso si condensa quello che gli studiosi hanno chiamato con un termine tecnico greco il kerygma, cioè l'“annunzio” fondamentale cristiano, radicato nell'evento pasquale, senza il quale - è Paolo che lo dice ai Corinzi - «vana sarebbe la nostra predicazione e vana anche la vostra fede». Ora, l'ultimo elemento di quel Credo-kerygma è racchiuso in un verbo, «apparve», in greco oftê, letteralmente “fu visto”, e Paolo elenca con puntiglio i testimoni di questa particolare esperienza di “visione” del Cristo risorto: «Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo tra tutti apparve a me come a un aborto» (15,5-8).

Gli stessi quattro Vangeli testimoniano questa esperienza, anche se la esprimono soprattutto con altri verbi che rimandano piuttosto a una rivelazione o a un incontro o a un ingresso inatteso: “venire, avvicinarsi, accostarsi, stare in mezzo, manifestarsi, mostrarsi”. Certo, da parte dei discepoli di Cristo la reazione è quella del “vedere, guardare, riconoscere”. Proprio sulla base di questo particolare e molteplice “vocabolario” usato dal Nuovo Testamento la prevalenza del solo termine “apparizione” non è giustificata. Anzi, ai nostri giorni col diffondersi di un gusto morboso per il paranormale, l'astrologico, la magia, l'“apparizione” acquista un sapore spettrale, da visitors o ghostbusters, da alieni...! Forse il vocabolario più pertinente sarebbe quello dell'“incontro” tra il Cristo risorto e la sua Chiesa.

I Vangeli, però, non si accontentano di esprimere con un vocabolo quell'esperienza ma ce la descrivono attraverso alcune trame fisse, modellate certamente sulla scia delle cosiddette “teofanie” o apparizioni divine dell'Antico Testamento: Dio o il suo angelo o la sua “gloria” si presentano ad Abramo, a Mosè, a Davide, a Salomone, a Elia, talora in una coreografia accecante di luce oppure in una specie di cataclisma fatto di terremoto, tempesta, tuono, squilli di tromba. Il modello biblico è presente agli occhi degli scrittori neotestamentari ma è ben presto superato, semplificato, reso più quotidiano ed essenziale. Anche il fondale è quello dell'esistenza terrena del Cristo. Per Matteo, Luca e Giovanni è una stanza di Gerusalemme, quella del Cenacolo, o un strada che conduce al sepolcro o alla periferia della città (Emmaus). Per Matteo, Marco e Giovanni c'è anche la Galilea, la regione settentrionale della Palestina, sede della prima predicazione di Gesù.

Se poi volessimo confrontare tra loro tutti i racconti di questi incontri del Risorto coi primi credenti, ci accorgeremmo dell'esistenza di due trame o sequenze o schemi narrativi fissi. Il primo gli studiosi l'hanno definito come apparizione di riconoscimento e ha per sfondo Gerusalemme. Ai discepoli riuniti o in viaggio Cristo si presenta all'improvviso. Stranamente essi non lo identificano subito: paradossale è il caso di Maria Maddalena che lo scambia col custode del cimitero ove era stato sepolto il corpo di Gesù. Il momento centrale della scena (narrata nel capitolo 20 di Giovanni) è proprio nel “riconoscimento” che è aiutato dal Cristo stesso con parole e segni. A questo punto il racconto si conclude con una separazione di Gesù, improvvisa com'era stata la sua “apparizione”. Ma anche nello stupendo racconto lucano dei discepoli di Emmaus il viaggio è contrassegnato da una specie di cecità: «I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo» (Luca 24,16). Sarà solo allo «spezzare il pane» che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista» (24,31).

Anche la narrazione posta in appendice al Vangelo di Giovanni, pur essendo ambientata in Galilea, sul lago di Tiberiade, contiene questo strano elemento di “cecità”. Sette discepoli sono tornati alla loro professione di prima insieme con Pietro. Dopo una notte faticosa e infruttuosa, vedono un uomo sul litorale ma, osserva Giovanni, «non si erano accorti che era Gesù» (21,4). L'unico a cui si aprono subito gli occhi è il discepolo amato da Gesù, emblema del perfetto credente, che si rivolge a Pietro gridandogli: «È il Signore!» (21,7). In un'altra “apparizione” di Galilea, quella che sigilla il Vangelo di Matteo - della quale parleremo -, ritorna questa misteriosa incapacità di riconoscere nel Cristo risorto il Gesù di Nazaret con cui si era vissuto per due o tre anni. Nota, infatti, Matteo: «Gli Undici gli si prostrarono innanzi; alcuni, però, dubitavano» (28,17). In un caso riferito da Luca, il Cristo che appare è scambiato dai discepoli con un fantasma ed egli per convincerli deve compiere un gesto “fisico” di riconoscimento.

Nella stessa linea si colloca quell'incontro nel Cenacolo che Giovanni distribuisce nell'arco di una settimana, prima coi discepoli assente Tommaso e poi con quest'ultimo (20,19-29). Anche qui c'è l'invito di Gesù a un contatto “fisico” per il riconoscimento: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato!» (20,27).

A questo punto è legittima una domanda: come può darsi che i discepoli non riconoscano subito Gesù nel Cristo risorto? Perché hanno bisogno di verifiche “fisiche”? La risposta che noi ora abbozziamo è stata ampiamente formulata e documentata nei moltissimi studi esegetici e teologici che sono sorti in questi ultimi anni attorno all'evento centrale della Pasqua cristiana. Essa ha come base l'evento pasquale che è, sì, un dato che incide nella storia e lascia tracce verificabili, ma è anche e soprattutto un evento trascendente, soprannaturale, misterioso, divino, che supera la storia.

Per avere il “riconoscimento” del Cristo risorto non basta essere stati con lui per qualche anno lungo le strade palestinesi, aver mangiato con lui, averlo ascoltato mentre parlava nelle piazze. È necessario avere un “canale” di conoscenza e di comprensione superiore, quello della fede. È solo attraverso l'adesione della fede che gli occhi si aprono: non per nulla, dicevamo, il primo a “riconoscere” Gesù risorto è il discepolo amato. Non per nulla è solo alla voce del Pastore, «che chiama le sue pecore per nome», che anche Maria Maddalena riscopre nella figura che le sta di fronte il Signore. In questo senso dobbiamo dire che l'esperienza delle “apparizioni” non è ristretta ai testimoni privilegiati delle origini che avevano incontrato anche il Gesù storico ma è aperta anche a tutti coloro che crederanno.

Significativo al riguardo è il racconto lucano dei discepoli di Emmaus. Luca, infatti, fa intravedere in filigrana la trama della celebrazione liturgica domenicale. Da un lato c'è la proclamazione della Parola di Dio, accompagnata dall'omelia: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (24,27). Già a questo livello inizia a dissiparsi il velo dell'oscurità: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (24,32). D'altro lato, il racconto ha come approdo lo “spezzare del pane”, cioè l'eucaristia, che è il momento del “riconoscimento” pieno, è l'atto supremo di fede e di comunione col Risorto.

E necessario, perciò, ricondurre le “apparizioni” pasquali di Gesù al loro vero ambito di incontri e di esperienze di fede, spogliandole di tutti gli apparati paranormali o parapsicologici che talora sono immaginati da certe descrizioni superficiali o troppo letteraliste. Tuttavia c'è un altro dato da sottolineare. L'esperienza di fede non vuole dire fantasia, evanescenza, assenza del reale storico. Ecco perché nell'altra narrazione di Luca sopra citata si insiste sul Cristo che «mangia una porzione di pesce arrostito», come avverrà anche lungo il lago di Tiberiade secondo il Vangelo di Giovanni («Gesù prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce»). La Pasqua incide nella storia, Cristo non è un fantasma, la fede non è un'esperienza “spiritica”, la presenza di Gesù continua all'interno dei nostri giorni anche se in forma diversa, la sua azione all'interno di noi è così reale ed efficace da mutare radicalmente la vita di una persona come Paolo.

Oltre alle cosiddette “apparizioni di riconoscimento” i Vangeli ci offrono anche un altro schema narrativo che è stato chiamato dagli studiosi con la terminologia di apparizioni di missione. Il Cristo risorto incarica i discepoli di un compito missionario, ed è in questo il centro del racconto. L'“apparizione”, ambientata in Galilea, che fa da vertice al Vangelo di Matteo (28,16-20), è l'esempio più luminoso. Gli apostoli devono proclamare il Vangelo e battezzare, devono insegnare la morale cristiana e farla praticare, devono impegnarsi nell'evangelizzazione e nell'amministrazione dei sacramenti della salvezza. Ed è appunto questa la missione della Chiesa nata dalla Pasqua di Cristo. Anche la Maddalena è invitata ad «andare dai fratelli» per annunziare loro la risurrezione. Anche per Luca il Cristo che ascende alla gloria del cielo lascia come testamento ai discepoli che «nel suo nome devono essere predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (24,47). E tutta la seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli, è la testimonianza di questo impegno missionario che ha la sua radice nella risurrezione del Signore.

Destinatari di questo incarico sono innanzitutto gli apostoli. Primeggia, infatti, nelle “apparizioni” pasquali la figura di Pietro, Cefa come lo chiama Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Anche Luca, quando i due discepoli di Emmaus ritornano la sera a Gerusalemme, fa rispondere loro da parte della comunità cristiana con questo annunzio: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Pietro!» (24,34). Accanto a Pietro ecco il gruppo degli Undici, ai quali si aggiungono altri discepoli non sempre nominati, come i sette del lago di Tiberiade o i due di Emmaus (dei quali un solo nome è evocato, Cleopa). Di Paolo si è già detto: nello stesso scritto indirizzato ai cristiani di Corinto egli dichiara: «Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?» (9,1), mentre la triplice relazione che negli Atti degli Apostoli egli fa della sua conversione, avvenuta sulla strada di Damasco, ha al centro una vera e propria “apparizione” pasquale.

Come si è visto, i vangeli apocrifi - sorti dalla pietà popolare e intrisi spesso di leggende - hanno allargato l'orizzonte e hanno cercato di mettere Gesù risorto sulla strada di tanti personaggi evangelici, a partire proprio da sua madre Maria, che curiosamente nei Vangeli canonici non è destinataria di nessun incontro col Figlio risorto. Così, nel Vangelo di Gamaliele, un'opera copta (quindi egiziana) del V sec., Maria è consolata da Gesù: «Hai versato abbastanza lacrime. Colui che fu crocifisso è vivo e parla con te e ora indossa la porpora celeste». Maria allora risponde: «Sei tu dunque risorto, mio Signore e mio figlio? Felice risurrezione!». E s'inginocchia per baciarlo e per essere da lui benedetta mentre riceve la missione di «correre dai fratelli e portare la notizia e il felice annunzio della sua risurrezione dai morti».

Anche Pietro è di scena negli scritti apocrifi, ma lo è con un incontro inedito col Cristo risorto, un incontro che diverrà celebre nella tradizione popolare, tanto da offrire lo spunto a un famoso romanzo (e al relativo film), il Quo vadis? dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz (1846-1916), premio Nobel nel 1905. Il racconto originario è presente negli Atti di Pietro, un antico apocrifo composto tra il 180 e il 190: «Mentre attraversava la porta, Pietro vide il Signore che entrava in Roma e gli disse: “Signore, dove vai?”. Il Signore gli rispose: “Entro in Roma per essere nuovamente crocifisso”. Pietro, allora, rientrato in se stesso, vide salire il Signore in cielo. E se ne ritornò sereno a Roma». E ancor oggi, sulla via Appia antica, una chiesetta rifatta nel '600 conserva la memoria di questo incontro.

Se continuiamo a sfogliare l'immenso materiale apocrifo a noi giunto troviamo anche un'apparizione pasquale riservata all'apostolo Bartolomeo nell'omonimo vangelo. In quell'occasione Gesù svela al discepolo tutti i segreti dell'Ade, cioè del soggiorno dei morti in cui il Cristo aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l'alba di Pasqua. In un altro testo, da noi già citato, è Giuseppe d'Arimatea a incontrare il Signore risorto. Arrestato dai Giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede venir avanti nella prigione, durante la notte, Gesù col ladrone pentito: «Nella camera risplendette una luce accecante, l'edificio fu sospeso ai quattro angoli, si aprì un passaggio e io uscii. Ci mettemmo, allora, in cammino per la Galilea, mentre brillava attorno a Gesù una luce insopportabile ad occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso». Il Risorto apparve anche a Nicodemo, il capo dei farisei che aveva voluto un incontro notturno con Gesù. Ce ne parlano le Memorie di Nicodemo, un apocrifo giunto a noi in diverse redazioni e lingue. Dopo averlo vanamente cercato sui monti, Nicodemo apprende da Giuseppe d'Arimatea la notizia della risurrezione e può anch'egli incontrare il Signore risorto.

Ma l'apparizione apocrifa più sensazionale è quella riservata a Pilato e riferita dal citato Vangelo di Gamaliele. Il procuratore incontrò colui che egli ha condannato a morte in una visione notturna: «Lo vidi a fianco di me! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli Ebrei. Mi disse: “Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull'albero della croce e sono io il Gesù che oggi è risorto dai morti. Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri dunque alla mia tomba: troverai le fasce mortuarie rimaste e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere. Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli Ebrei negheranno”». E difatti Ponzio Pilato, giunto al sepolcro di Cristo, passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto e diventando così quel santo che certe Chiese antiche d'Oriente inseriranno nel loro calendario.

Ma lasciamo queste e altre pie creazioni della fantasia popolare e ritorniamo, in conclusione, ai Vangeli canonici, alla loro sobrietà e purezza, alla loro intensità di rivelazione e di fede. Le apparizioni del Signore risorto, diversamente da tante pseudo-apparizioni o rivelazioni che anche ai nostri giorni affiorano qua e là e seducono molti, sono eventi non clamorosi, non smuovono il sole, non producono esaltazioni, non sono neppure accompagnate da grandi guarigioni e segni impressionanti. Sono solo (e questo è il tutto e la cosa fondamentale) la testimonianza della salvezza operata dal Cristo, il Figlio di Dio, all'interno della storia e del mondo. Entrato nel grembo del male, della morte e della terra, egli vi ha deposto il seme del divino e la scintilla dell'eterno. È per questo che «la morte è stata ingoiata per la vittoria»: sono queste le parole finali che l'apostolo Paolo indirizzava in quei giorni primaverili del 57 da Efeso ai cristiani di Corinto. Sono queste le parole decisive che ancor oggi la Chiesa indirizza a tutti coloro che nella liturgia incontreranno il Signore risorto e glorificato.


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1 aprile 2018        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net