LA VITA DEI PADRI DEL GIURA
Falso del IX secolo, oppure originale del VI secolo?
La storia ecclesiastica del Giura non ha nessun documento più antico della
raccolta intitolata Vita Patrum Iurensium,
di autore anonimo, che comprende le tre vite dei santi Romano, Lupicino,
Eugendo. Vi si possono studiare la fondazione ed i primi sviluppi di una vasta
struttura monastica che, tramite le sue comunità, presto cominciò ad irradiarsi
da un lato e dall'altro lato della montagna del Giura e ben presto si trovò
coinvolta in tutti i grandi avvenimenti civili e religiosi del paese.
Data l’importanza di questa fonte, è necessario garantire che sia pura. Ci sono
poche vite di santi che siano state contestate come queste. Né Surius, che ha
pubblicato la prima vita di sant’Eugendo, né Bollandus che la ripubblicò dopo di
lui, né Henschen, che sviluppò la vita dei santi Romano e Lupicino negli
Acta Sanctorum, né Mabillon, che ha
ripreso sant’Eugendo per la sua collezione di santi benedettini e che, nei suoi
Annali, riassunse tutta la raccolta Vita
PP. Iurensium, manifestano la minima esitazione sull’antichità e la
veridicità di questa storia. Il famoso P. Quesnel è stato il primo che l’ha
criticata. Il modo in cui egli comprendeva la storia di sant’Ilario d’Arles e
del papa san Leone, richiedeva che il vescovo Celidonio, deposto da Ilario e
ristabilito da Leone, fosse stato vescovo a Vienne. Ma la vita di san Romano gli
assegna il vescovado di Besançon. Questo bastò a Quesnel per trovare molte cose
incongruenti nelle tre vite dei Padri del Giura, e persino per dichiarare
interpolato il passaggio in cui si parla di Celidonio. Il P. Papebrock,
bollandista, che ha avuto a che fare con questa questione su sant’Ilario d’Arles
[1], si è unito alle conclusioni di Quesnel,
senza troppo riflettere. Ma in seguito il caso è stato riesaminato da Tillemont,
da Pagi, dai fratelli Ballerini, che scartarono una per una tutte le obiezioni
di Quesnel e confermarono ciò che il documento diceva, ovvero che Celidonio era
vescovo a Besançon.
In questo secolo gli studiosi non hanno esitato ad usarlo come un documento
antico e autentico. Basta citare i nomi di Rettberg
[2], di Binding
[3], di Loening
[4], di Bruno Krusch
[5]. Tuttavia, ci sono occasionalmente dei
risvegli di opposizione. Jahn, nella sua
Storia dei Burgundi
[6], ha dichiarato che queste storie sono
state realizzate da un impostore del XVI secolo. Ma siccome sono state
pubblicate partendo da un manoscritto del X secolo, questa ardita congettura è
ormai irrilevante.
Ho citato Bruno Krusch tra i sostenitori dell’autenticità. Tale era la sua
opinione nel 1885, quando ha commentato Gregorio di Tours. Egli era anche
saldamente ancorato su queste storie perché, in caso di conflitto tra Gregorio e
il biografo del Giura, non esitava a preferire quest'ultimo:
Quod ad fidem pertinet, anonymus
praeferendus est Gregorio, cuius fons ex ipsis vitis pendere mihi persuasum est.
(Per quanto riguarda l’autenticità,
L’Anonimo è da preferire a Gregorio, poiché mi sono persuaso che la sua fonte
dipende dalle vite degli stessi. Ndt.) Ma questa persuasione si è dissipata.
Lo stesso Krusch nel 1895 ha dato alle
Mélanges Havet una memoria intitolata
La falsificazione delle vite dei santi burgundi, dove è tornato con la
massima decisione sul parere di Quesnel. Non è che ignorasse che i fratelli
Ballerini sono di parere diverso, ma, ha detto, Henschen (si
legga Papebrock) lo segue. Avrebbe potuto aggiungere che se Papebrock ha
seguito Quesnel, è stato subito dopo la pubblicazione di quest’ultimo, molto
prima di quella di Pagi, di Tillement e dei Ballerini. Il Krusch ha riprodotto
il suo schema nella prefazione all'edizione che egli ci ha recentemente dato
della Vita Patrum Iurensium
[7].
L'argomento principale dell’opposizione è che, in una delle tre vite dei Padri
del Giura, il vescovo di Besançon è chiamato
supradictae metropolis patriarchii.
Questa espressione, si dice, è doppiamente errata, in primo luogo perché
Besançon non era metropoli nel VI secolo, e poi perché nel VI secolo non c’era
l'usanza in Gallia di chiamare patriarchi altri metropoliti al di fuori di
quello di Lione.
A questa affermazioni io rispondo che non vi è alcuna prova che Besançon non
fosse metropoli nel V secolo. Nel VI, è vero, il suo Vescovo rimane, nei
concili, al di fuori del posto riservato ai metropoliti
[8]. Non è la stessa cosa nel VII secolo;
concili e documenti lo presentano tra i titolari delle metropoli
[9]. Perché questo cambiamento? Noi non lo
sappiamo. Forse il declino della metropoli ecclesiastica di Besançon si
ricongiunge agli eventi che così profondamente turbarono le chiese della Grande
Sequania. In effetti, fu allora che il vescovo della
civitas Helvetiorum si trasferisce da
Windisch a Avenches e da Avenches a Losanna; è allora che vediamo apparire il
vescovo di Belley, il quale sembra essere il successore di un vescovo della
civitas Equestrium di residenza a
Nyons; è allora che il vescovo di Basilea o d’Augst scompare del tutto. In
queste vicende ci sono molti argomenti che spiegano il declino subito dalla
metropoli di Besançon. È vero che, al di fuori del testo in esame, noi non
abbiamo alcuna traccia di questa metropoli, dal punto di vista religioso, per
quanto riguarda il V secolo. Per lo meno possiamo invocare l'analogia. Besançon,
capitale della Maxima Sequanorum, era
diventata una metropoli ecclesiastica così come altri capoluoghi di provincia,
Sens, Rouen, Tours, Reims, Colonia, Magonza. Per negare questa trasformazione,
che è la regola, bisognerebbe avere documenti particolareggiati, e noi non ne
abbiamo.
Inoltre, una cosa è la situazione riconosciuta ad una sede nei concili
ufficiali, altra cosa la situazione che la medesima rivendica e che crede
esserle dovuta. Quand’anche, al tempo di san Romano, il vescovo di Besançon
fosse stato trattato altrove come un vescovo ordinario, ciò non poteva impedire
al Sequani di attribuirgli dei titoli superiori, corrispondenti, lo si deve
ammettere, alla situazione amministrativa del sua città episcopale. Besançon era
sicuramente una metropolis, come dice
il nostro biografo; essa è contrassegnata come tale nella
Notitia Galliarum.
Quindi, niente di straordinario che la vita di san Romano dell’Anonimo parli del
vescovo di Besançon come d’un metropolita. Ma perché lo si chiama patriarca? Qui
mi limiterò a sottolineare che, se la vita di san Romano fosse stata scritta nel
IX secolo, come asserito, questa espressione sarebbe molto, ma molto, difficile
da spiegare. Infatti, nel IX secolo, non vi è alcun esempio dell’utilizzo
ufficiale in Gallia, di una tale formula, mentre non è difficile da trovare nel
VI secolo. La provincia Sequanese era la più orientale delle province galliche;
essa confinava ad est con quelle di Milano e Aquileia, ad ovest con quella di
Lione. Ora noi troviamo, in un decreto del re degli Ostrogoti, Atalarico, il
termine patriarca utilizzato per
indicare i metropoliti italiani oltre al Papa, vale a dire quelli di Milano,
Aquileia e Ravenna
[10]. Questo decreto è contemporanea alla
vita di san Romano. Perché il termine
patriarca, ammesso a Milano e ad Aquileia, sarebbe stato ripugnato a
Besançon? Questo termine lo portava anche il Vescovo di Lione, San Nizier, nella
generazione successiva, poiché Gregorio di Tours glielo attribuisce. Il suo
successore Prisco lo utilizza come lui; sembra anche che gli abbia dato un
significato più alto e che lo abbia utilizzato per caratterizzare un certo
primatus Galliarum, di cui goderono i
vescovi di Lione nel VII secolo.
Del resto, questo termine subisce la stessa sorte della situazione metropolita.
L’amplificazione dei favori è sempre
stata parte della natura umana, nel V secolo come nel XIX secolo, in Sequania
come negli ambienti più remoti del Giura. Nel VII secolo il vescovo Didier di
Cahors qualifica come patriarca il metropolita di Bourges e questa espressione
si trova centocinquanta anni dopo, nella penna di Teodulfo d’Orleans. In
Oriente, proprio all'inizio del VI secolo, il metropolita di Tiro è stato
chiamato
[11] patriarca, in una riunione tenutasi a
Tiro (518). Un’iscrizione
[12] dello stesso periodo dà anche questo
titolo al vescovo di Hierapolis di Frigia, che non era nemmeno metropolita. Il
Vescovo di Salonicco a volte se lo lasciava conferire, ed è risaputo che, se ora
c’è un patriarca di Venezia è perché il vescovo di questa città ha ereditato la
denominazione che i re Ostrogoti attribuivano un tempo a quello di Aquileia.
Un altro indice sfavorevole all’autenticità è la menzione di san Gregorio Magno,
al quale, partendo da un enorme errore, il biografo ha attributo un fatto che
Rufino racconta a proposito di san Gregorio Taumaturgo.
Naturalmente, se il nostro autore avesse confuso il papa san Gregorio con il
noto vescovo di Neocesarea avrebbe fatto un grave errore; si sarebbe sbagliato
ancora più pesantemente se avesse immaginato che Rufino abbia potuto parlare di
un papa vissuto due secoli dopo di lui. Questi errori sono così enormi che ci si
chiede se possano essere possibili. Lo scrittore del Giura non è un illetterato;
lui conosce i classici, sa anche un po’ di greco; egli testimonia di aver letto
san Girolamo, san Eucherio, Cassiano, Rufino, le regole di san Basilio, di san
Pacomio, di Lérins. Il Krusch lo riconosce. Come, in queste circostanze, avrebbe
potuto cadere nelle confusioni che gli si attribuiscono? Dato che aveva letto
Rufino ed è da questo autore che deriva il suo ricordo di Gregorio il
Taumaturgo, deve aver ben visto che Rufino caratterizzava questo personaggio
come un santo del III secolo e non come un santo del VI secolo, come vescovo del
Ponto e non un papa di Roma.
Ma, mi si dirà, perché lo ha chiamato Gregorio Magno? Ebbene, questa questione,
che si è posto B. Krusch e che altri
[13] hanno ripreso seguendo le sue tracce,
testimonia una grande negligenza, per non dire niente di più. Sembra che, per
loro, questo soprannome di Grande sia stato dato subito al famoso papa di Roma e
che non sia mai stato attribuito a san Gregorio il Taumaturgo. Ora io ho cercato
invano, negli autori anteriori al IX secolo, un testo in cui san Gregorio di
Roma sia stato chiamato Magnus; io
non saprei nemmeno dire se questa qualifica fosse in uso nel IX secolo e quando,
esattamente, sia stata introdotta. D'altra parte, è certo che, a partire dal IV
secolo, san Gregorio il Taumaturgo era comunemente chiamato Gregorio il Grande.
Basta aprire le opere di san Basilio
[14] e di san Gregorio di Nissa per vederlo
designato così, e ciò non incidentalmente, in uno slancio oratorio, ma
costantemente, in evidente conformità con la prassi consolidata. Questo modo di
esprimersi si trova anche presso i Latini, per esempio in Facondo di Hermione
verso la metà del VI secolo
[15].
Così, il passaggio incriminato, lungi dal contenere qualsiasi cosa sfavorevole
all'attribuzione dell’antichità dello scritto, ci offre invece un tratto di
conformità con un’antica consuetudine. Non è il biografo anonimo che ha commesso
un errore, ma quelli che lo criticano.
Ammetto che si è sbagliato nel designare (Vita di sant’Eugendo, par.174) san
Pacomio come un vecchio abate siriano; avrebbe dovuto dire egiziano. Si tratta
di una distrazione abbastanza leggera. Non si potrebbe dire altrettanto
dell’errore grossolano che B. Krusch gli attribuisce; egli lo accusa di situare
Lérins in Oriente.
Tuttavia, dovremmo pensarci due volte prima di imputare alle persone tali
errori. Quale misura di buon senso occorre applicare per credere che un uomo che
conosce bene le regole monastiche, che ha letto e riletto quelle di Oriente e
Occidente, che conosce in particolare Cassiano e che lo dichiara, proprio nel
passaggio contestato? Che si vada a rivedere. Si scoprirà che egli ha voluto
opporre la regola relativamente mite del Giura alle abitudini orientali da cui
ci si era ispirati a Lérins e che lo stesso Cassiano, benché scrivesse in
Occidente, illustrava con le sue storie di monaci egiziani e siriani.
Ma veniamo ad altri segni di epoca relativamente bassa.
Il biografo del Giurautilizza alcune volte i termini
sacerdos, sacerdotalis, sacerdotium,
parlando di semplici preti. Ora, dice B. Krusch, ai tempi merovingi,
sacerdos significava sempre vescovo,
a meno che non si aggiungesse secundi
ordinis. Dunque il nostro autore ha scritto dopo l'anno 800.
L’affermazione è chiara. Ma quanto vale? Apriamo solo tre brevi trattati di
Gregorio di Tours, il De Gloria martyrum
ai capitoli 55, 60, 72, 79; il De
Virtutibus S. Iuliani ai capitoli 6, 15, 16, 32; il
De Gloria confessorum ai capitoli 20,
30, 47. Si vedranno le parole sacerdos,
sacerdotium etc. impiegate a proposito di semplici preti, proprio come nella
vita dei Padri del Giura. Il capitolo 30 del
De Gloria confessorum non le ripete
meno di sette volte, nel significato indicato e, naturalmente, senza la benché
minima frase esplicativa. Potrei citare molti altri testi
[16]: se io mi limito a questi è perché sono
stati pubblicati dallo stesso B. Krusch. Non gli rimane che classificare
Gregorio di Tours tra gli autori di epoca carolingia.
Un'altra osservazione a proposito dei monaci preti: Krusch ha visto in un
passaggio della vita di sant’Eugendo (paragrafo 151) che questo santo abate
proibiva ai sacerdoti l’amministrazione dei sacramenti, perché li trovava poco
preparati nel discernimento degli uomini. Il testo dice in realtà tutt'altro.
Ovvero dice che l'abate prende le sue misure in modo che i sacerdoti possano
distribuire i sacramenti senza conoscere i rimproveri che lui, come superiore,
ha creduto di dover fare a qualcuno di loro. L’abate si riserva l'esercizio del
potere disciplinare, la correzione. E’ ciò che hanno sempre fatto i capi delle
comunità. Per quanto riguarda il divieto
ai preti (non dico a uno di loro) di amministrare i sacramenti, è ciò a cui
non pensavano assolutamente né sant’Eugendo, né il suo biografo.
Ci vengono anche segnalate come un tratto carolingio le critiche indirizzate dal
biografo ai monaci del suo tempo. Sant’Eugendo mangiava con i suoi religiosi
“non ebbe mai un suo proprio tavolino, come ho recentemente appreso che fanno
alcuni” (cfr. par. 170). Questo modo di parlare indica l'inizio dell’eccesso;
difficilmente sarebbe stato appropriato al IX secolo, quando l’eccesso era molto
diffuso. – Sant’Eugendo non cercava il sacerdozio "come vediamo", dice il
narratore. Un altro abuso tardivo, secondo Krusch. Tuttavia lui stesso ricorda
alla pagina precedente (p. 126) che, nel tempo in cui morì sant’Eugendo, uno dei
suoi monaci, Vivenziolo, lasciò il monastero per diventare vescovo di Lione, ciò
che dovette preoccupare sant’Avito e fece un po’ male ai monaci di Condat.
Il nome di Condat mi porta a riconoscere che il nostro anonimo biografo, pur
essendo erudito, non era molto forte in linguistica. Egli sa che
Condatiscone significa confluente;
ma, invece di cercare questo significato nella lingua celtica, che non
conosceva, molto ovviamente, egli l’ha dedotto, a torto, dal verbo latino
condere. Poco più avanti, egli vuole
dare il significato del nome di luogo
Isarnodurum e lo interpreta erroneamente dal tedesco, che egli chiama
lingua gallica. Non ci si deve
sorprendere del fatto che, vivendo in un paese burgundo, non lontano dal confine
alemanno, abbia conosciuto alcune parole germaniche, e che ne abbia un po’
abusato per le sue etimologie. Il termine
lingua gallica invece di germanica
è sicuramente un termine improprio. Ma questo errore ha una data? E’ forse più
impossibile commetterlo nel VI secolo piuttosto che nel IX secolo?
Krusch ha qui raccolto alcune espressioni per le quali Ducange adduce solo
esempi carolingi. Questo dimostra solo una cosa, già ben consolidata, e cioè che
Ducange può essere completato. Il biografo, ci viene ancora detto, ha ignorato
il nome del predecessore di sant’Eugendo, Minauso. Pertanto non lo conosceva;
l’Anonimo era troppo posteriore a lui per conoscerlo. - Forse non gli era
gradito. Il fatto che non si parli di qualcuno, ma se ne accenni solamente, a
causa di insofferenza, è abbastanza in stile in questo tipo di composizioni.
Insomma io non vedo nulla, assolutamente nulla, in queste tre vite che
contraddica la data sostenuta dall'autore.
Anche Gregorio di Tours ha scritto la vite dei santi Romano e Lupicino. Tra il
suo racconto e quello del biografo del Giura ci sono spesso differenze. Krusch,
l’ho già detto, una volta dava la preferenza a quest'ultimo
[17]. Aveva ragione; ora ha torto. Ma vediamo
il dettaglio.
Secondo Gregorio, Lupicino era il maggiore dei due fratelli; era stato sposato,
mentre Romano rimase celibe. Alla morte dei genitori, vennero tutti e due a
stabilirsi nelle solitudini del Giura. Secondo l'Anonimo, Romano era il più
anziano; non parla assolutamente del matrimonio di Lupicino. Romano è stato il
primo a lasciare il mondo; solo molto tempo dopo è stato raggiunto da Lupicino.
Entrambi i racconti sono inconciliabili su questo punto. Ma quello di Gregorio
combacia perfettamente con un'altra storia riportata dall’anonimo e che si
ricollega agli inizi della fondazione di Condat. I primi che vennero ad
aggiungersi ai due fratelli erano due giovani chierici del municipio di
Noiodunum (Nyons) il più anziano era
vedovo, l'altro celibe. Sono arrivati a Condat, non isolatamente, ma insieme.
Questa è, ovviamente, la storia che Gregorio racconta dei santi Romano e
Lupicino. Egli ha scambiato due tradizioni.
Gregorio dice poi che il diavolo faceva piovere delle pietre sui santi ogni
volta che cominciavano a pregare, tanto che lasciarono la loro solitudine, non
potendo più sopportare ciò. Ma sulla strada incontrarono una donna che li fece
vergognare della loro vigliaccheria e con ciò decisero a tornare. Questa storia,
in chiave abbastanza leggendaria, manca nella vita dell’Anonimo, ma si parla
molto, senza alcuna leggenda, di monaci che fanno fatica a sopportare la durezza
della loro vita, fuggono, poi ritornano.
La lezione di sobrietà data da san Lupicino ai monaci di san Romano è raccontata
dai due autori con diversi dettagli; ma il racconto di Gregorio, per quanto
pittoresco, è meno probabile di quello dell'anonimo. In Gregorio, Lupicino
arriva inaspettato nel monastero. I monaci sono nei campi. Egli entra in cucina
e scopre che stanno preparando una cena sontuosa, dei piatti diversi, dei pesci.
Egli si indigna, riscalda una pentola e vi getta alla rinfusa pesci, erbe,
verdure. I monaci si mostrano molto adirati; dodici di loro si arrabbiano così
tanto che se ne vanno. Questi fatti furono rivelati a San Romano in una visione;
quando Lupicino torna da lui, Romano gli fa delle obiezioni riguardo alla sua
durezza. - Bah! dice Lupicino, dodici orgogliosi di meno, non è una perdita. -
Ma il buon Romano non vuole che periscano anche quelli. Egli prega affinché i
dodici fuggitivi si convertano e ritornino in grazia di Dio. Così fu: si
convertirono, fecero penitenza, riunirono, ognuno per conto loro, una comunità e
fondarono dei monasteri di cui divennero capi.
Nel testo dell’Anonimo è Romano stesso, che, trovando che i suoi monaci fanno
troppo i loro comodi e non riuscendo ad correggerli, prega il fratello di dare
loro una lezione. Lupicino viene e si stabilisce con Romano nella comunità
ribelle. Per due giorni egli osserva e riconosce che in effetti vi è un eccesso
di cibo. Il terzo giorno dice che gli sarebbe piaciuto mangiare solo una zuppa
d'orzo, senza olio né sale. E infatti viene cucinato questo menu ridotto. I
monaci non hanno il coraggio di dire nulla; ma poiché Lupicino estende
l'esperienza per diversi giorni, i monaci volubili approfittano della notte per
lasciare il monastero. Dopo la loro partenza si ritorna ad un normale semplice
menu, ma un po’ meno duro.
Credo che questo racconto sembri meno leggendario rispetto all’altro; ed ha
anche un aspetto del tutto storico. Un superiore di religiosi non agirebbe
diversamente nel tempo in cui viviamo. Ma c’è da credere che si asterrebbe
dall’offrire alla sua comunità la straordinaria cucina di cui parla Gregorio. Se
doveva essere trasmessa qualche informazione, non sarebbe avvenuto per
rivelazione in una visione; se ci fossero stati degli avversari, probabilmente
non sarebbero stati appena dodici, e non avrebbero terminato la loro carriera
alla testa di dodici comunità su cui fare affidamento.
Quest’ultimo dettaglio, ma spogliato di ogni aspetto leggendario, si ritrova
nella biografia anonima. Lì si fa dire a san Romano che, tra coloro che hanno
abbandonato la solitudine del Giura, molti hanno solo cambiato posto senza
cambiare vita ed hanno meritato per le loro virtù di essere posti a capo di
monasteri e chiese (cfr. par. 32).
Ecco un proposito ragionevole e probabile.
Si può fare lo stesso confronto tra le due storie di guarigione dei lebbrosi.
L’Anonimo parla solo di due lebbrosi, Gregorio ne conta fino a nove:
fama crescit eundo. Proprio per
questo dettaglio l’Anonimo ha il vantaggio della verosimiglianza. Ed è vero che
ciò che egli riferisce lo ottiene da un testimone autorizzato, Palladio, il
compagno ordinario dei viaggi di san Romano.
Lupicino va a Ginevra per trovare il Re burgundo Chilperico. Lo fa, dice
l’anonimo biografo, per difendere la libertà di alcuni poveri, che un potente
funzionario aveva ridotto in schiavitù. Questo personaggio è presente
all'udienza di Chilperico. Egli accusa Lupicino di aver pronunciato, dieci anni
prima, profezie sinistre riguardo la sorte dell'Impero Romano nel suo paese. Il
santo si accontenta di indicargli con la mano il re barbaro, che ora si
qualifica come patrizio e giudice al posto dei magistrati che si sono dileguati:
" Ecco! – dice Lupicino rivolto al funzionario - o perfido e perverso! Osserva
il flagello che annunciavo a te ed ai tuoi simili " (cfr. par. 94). Il principe
burgundo, lungi dal sentirsi offeso da questa libertà di parola, dice che, in
effetti, il cambiamento avvenuto è un colpo della Provvidenza divina; quindi,
giudicando il dibattito, dà ragione a Lupicino e rende la libertà ai suoi
protetti. Infine egli offre alcuni doni per il suo monastero.
Che cosa potrebbe essere più semplice, più naturale? Non è sicuramente un
falsario del IX secolo che avrebbe ritrovato il patrizio Chilperico nei panni
del re burgundo. Gregorio di Tours conosce solo il re. Ma diamo uno sguardo a
quello che dice Gregorio.
Lupicino si presenta nel palazzo di Chilperico, quando il principe è a tavola.
Aveva appena fatto un passo sulla soglia che la sedia del re si scuote; Ilperico
crede in un terremoto. Ma i suoi ospiti non hanno sentito nulla. Li manda ad
informarsi alla porta, per paura che non
sia arrivato qualche cospiratore. Per quei tempi, ancora lontani da quelli
in cui fiorì la sovversione, il legame che ci possa essere tra i terremoti e le
cospirazioni non è di una evidenza perfetta. Gli uomini del re trovano un
vegliardo vestito di pelli di animali. Portato davanti al re ed interrogato sul
motivo della sua visita, Lupicino dice che viene a chiedere qualcosa per la
sussistenza dei monaci. Il re gli offre dei campi e delle vigne; lui rifiuta,
non volendo accettare che un’offerta. Il re acconsente e, da allora, il fisco
reale dà ai monaci di Condat 300 misure di grano e di vino con cento sacchi di
oro.
Da questo confronto è chiaro, credo, che la tradizione, nel momento in cui è
stata raccolta da Gregorio di Tours, era già un po’ impreziosita da dettagli
leggendari. Nel testo del biografo anonimo appare più sobria e più precisa. Il
biografo è più vecchio di Gregorio. Nulla impedisce che abbia vissuto, come
dice, all'inizio del VI secolo. Scrisse a Condat; conobbe sant’Eugendo; ci
riferisce, senza dubbio con grande fedeltà, ciò che si raccontava al suo tempo
nei monasteri del Giura, riguardo ai santi della generazione precedente, i santi
fondatori Romano e Lupicino. Noi ci sentiamo di ritenere i suoi racconti come
aventi un serio valore tradizionale.
LOUIS DUCHESNE
Mélanges d'archéologie et d'histoire
T. 18, 1898. pp. 3-16.
Questa memoria è stata scritta per il Congresso degli studiosi cattolici
tenutosi a Friburgo (Svizzera) nel settembre 1897, ed è stata riprodotta negli
atti di questa assemblea.
Atri testi della raccolta del Krusch sono stati da me studiati nel
Bollettino critico dell’anno scorso
(1897) n. 16, 17, 20, 22, 24, 25, pagine 301, 325, 381, 418, 451, 471.
NOTE
[1]
Acta Sanctorum, maggio,
t. VII, p. 596 (687).
[2]
Kirchengeschichte Deutschlands,
t. I, p. 96.
[3]
Geschichte der Burg. Rom. Königreichs,
p. 65.
[4]
Gesch. des deutschen Kirchenrechts,
t. I, p. 480.
[5]
Monumenta Germania Historica - Scriptorum Rerum Merovingicarum,
t. I, p. 663.
[6]
Gesch. der Burgundionen,
t. I, p. 523; t. II, p. 356.
[7]
M. G. Script. Merov.
t. III, p. 125 e seguenti, approvato dagli
Analecta Bollandiana t. XV,
p. 91; t. XVI, p. 85; ho motivi sufficienti per credere che queste due
adesioni sono della stessa mano, e io spero che non saranno mantenute.
[8]
Epaone 517; Orléans 549; Paris 573; Mâcon 581, 585.
[9]
Paris 614; Clichy 627 (prima Trêves e Cologne); Châlons 650; decreto per
Rebais (636); decreto di Thierry III en 680.
[10]
Cassiodoro, Var. IX, 15.
[11]
Hardouin, Concili, t. II, p.
1356 e seguenti.
[12]
C. I. G. 8769, cf. Journal of
hellenic studies, t. VI, p. 341.
[13]
Anal. Boll.
t. XV, p. 91.
[14]
Basilio, De Sp. Sancto, 29;
ep. 28, 207, 210; Gregorio di Nissa,
Vita di san Gregorio il
Taumaturgo, passim.
[15]
Pro defens. trium capitulorum,
X, 6.
[16]
Ce n’è uno che ha, in questa questione, un’eccezionale importanza. E’
una formula impiegata, ai tempi merovingi, nell’ordinazione dei
sacerdoti (Origini del culto cristiano, p. 357). Il vescovo chiede al
popolo il suo suffragio per il sacerdote che sta per essere ordinato:
...ut huic testimonium
sacerdoti... tribuatis.
[17]
M. G. Script. Merov.,
t. I, p. 663, nota 2.
Testo italiano e con latino a fronte:
-
VITA DI SAN ROMANO
in lingua italiana -
VITA DI SAN ROMANO in lingua latina con testo
italiano a fronte
-
VITA DI SAN LUPICINO
in
lingua italiana -
VITA DI SAN LUPICINO in lingua
latina con testo italiano a fronte
-
VITA DI SAN EUGENDO
in
lingua italiana -
VITA
DI SAN EUGENDO
in lingua latina con testo italiano a fronte
APPENDICI
- Eucherio di Lione: PASSIONE DEI MARTIRI D'AGAUNE
- Gregorio di Tours: GLI ABATI LUPICINO E ROMANO
- Eucherio di Lione: L'ELOGIO DELLA SOLITUDINE
Per la traduzione dal latino, non essendo io un esperto latinista, ed essendo il latino di questi testi non proprio semplice, ho "sfruttato" questi libri:
- la traduzione francese "Vie des Pères du Jura" a cura di François Martine - Sources Chrétiennes 142 - 1968,
-
la traduzione tedesca
-
e quella
inglese "The lives of the Jura Fathers" - Autori vari - Cistercian
Publications 1999.
| Ora, lege et labora | San
Benedetto | Santa Regola |
Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo |
A Diogneto | Imitazione
di Cristo | Sacra Bibbia |
7 febbraio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net