VITA PATRUM IURENSIUM

 ROMANI, LUPICINI, EUGENDI.

III

VITA SANCTI EUGENDI ABBATIS.

 estratto da: Monumenta Germaniae Historica a cura di Krusch Bruno - Hannover 1896

(Manoscritto "Parisinus", ma con divisione e numerazione in paragrafi secondo il testo del Martine - Sources Chrétiennes)

 

VITA DEI PADRI DEL GIURA

 ROMANO, LUPICINO, EUGENDO.

III

VITA DEL SANTO ABATE EUGENDO

 

 (libera traduzione)

118. Quantum, beatissimi fratres, desiderio fervorique vestro ex debiti summa subpleverim, sicut ex ratione apicum ex parte sum, opitulante Domino, iam securus, ita conscientiae propriae extraneique iudicii incertus ago haec quae iniungitis non praesumptione indocti, sed oboedientia, ut cernitis, regulari. Sic adnuens divinitas faxit, ut umana proclivior in diiudicando fragilitas dum melo delectatur aut musicis, dumque oratorias venustates, vocabulorum quoque ac temporum signata proprietate miratur, ΘΑΠΙΝΩСIЅ (tapinosis) haec nostra nequaquam iactantia superborum iudicum ventosa superfluitate calcetur. 119. Porro nos, ut prefati iam sumus, vobis proprie opuscula ista dicavimus, quos novimus non oratorum, sed piscatorum esse discipulos, nec in philosophia sermonis regnum Dei, sed in virtute prospicere, magisque pura ac iugi observantia Dominum exorare, quam vana perituraque facundia perorare. Hinc ergo iam nobis in relationem vitae beatissimi viri narrationis sumatur exordium.

120. Sanctus namque famulus Christi Eugendus, sicut beatorum patrum Romani ac Lupicini in religione discipulus, ita etiam natalibus hac provincia extitit indigena atque concivis. Ortus nempe est baud longe a vico, cui vetusta paganitas ob celebritatem clausuramque fortissimam superstitiosissimi templi Gallica lingua Isarnodori, id est ferrei hostii, indidit nomen, quo nunc quoque in  loco, delubris ex parte iam dirutis, sacratissima micant caelestis regni culmina decata christicolis. Atque inibi pater sanctissimae prolis iudicio pontificali plebisque testimonio extitit in presbiteri dignitate sacerdos.

118. Nella misura in cui ho già sciolto con l'aiuto del Signore, beati fratelli, una parte del mio debito per soddisfare il vostro appassionato desiderio, mi sento certamente in parte rassicurato, considerando il numero di parole (già scritte). Ma, davanti alla mia coscienza e davanti al giudizio altrui, rimango dubbioso nel proseguire il compito che mi imponete, non per ignorante presunzione ma, come vedete, per obbedienza alla Regola. La debolezza umana è abbastanza propensa alla critica, mentre si diletta nell’udire un canto o una musica e ammira le grazie di un discorso rimarcandone la proprietà dei termini e dei tempi; pertanto che la Divinità, favorevole alla nostra impresa, conceda che il nostro umile stile non venga in nessun modo calpestato dall’arroganza di superbi giudici, gonfiati di parole inutili. 119. D’altra parte, come abbiamo già detto nella prefazione, è proprio a voi che abbiamo dedicato questi libricini e sappiamo che voi non siete discepoli di oratori, ma di pescatori. Voi cercate il Regno di Dio non nello stile del discorso, ma nella sua qualità e preferite implorare il Signore con puro e continuo rispetto piuttosto che perorarlo con una vana e deperibile verbosità. Possa quindi essere questa la nostra premessa alla narrazione della vita del beato uomo.

120. Il santo servo di Cristo, Eugendo, discepolo in religione dei beati Padri Romano e Lupicino, fu anche, per la sua provincia di nascita, un loro compatriota e concittadino. Infatti nacque non lontano dal borgo che l'antico paganesimo, a causa della fama e delle solidissime mura di un santuario dove fioriva la superstizione, chiamò nella lingua dei Galli «Isarnodurum», cioè «Porta di Ferro». Oggi in quel luogo il santuario è in parte distrutto, ma vi risplende il santissimo edificio del Regno celeste, dedicato ai devoti di Cristo. È là che il padre di un figlio così santo, con decisione episcopale ed approvazione del popolo, fu elevato alla dignità sacerdotale e costituito sacerdote.

 

121. Igitur cum beatissimum pignus ab ipsis poene incunabulis quodam instinctu successuque felicitatis ac luminis, virtute divina, ut reor, praesagante, succresceret, nocte quadam, ne venerabilis pater ipsius vel subolis sancta ab effectu profectuque futurae beatitudinis tenerentur incerti, in visione puer sanctus a duobus religiosis viris sublatus, ultra domus paterne vestibulum sistitur, ita ut Orientis plagam caelique astra, quasi condam multigenis Abraham patriarcha intuitu diligenti prospiceret, atque ipsi typice iam quodammodo dicebatur: Sic erit semen tuum. 122. Post intervallum namque modicum hinc unus, ast hinc alter atque alius inde, donec succrescens multitudo efficeretur innumera, beatum puerum vel sanctos procul dubio Romanum ac Lupicinum patres, qui eum in spiritu de coeno paterne domus eduxerant tamquam inhormitas apum in modum mellificantis uve quadam constipatione sepserunt. 123. Et subito a parte prospicua videt instar amplissimae portae culmina patefacta caelestia, ex lento etiam deductoque ad se usque ae caeli vertice cum lumine clivo, in modum reclinis scale cristata proclivitate, descensum et niveos fulgidosque angelicos choros ad se usque vel socios trepudiantes in Christi laudibus adventare, ita tamen quod, crescente semper in loco societate, nullus omnino reverentia divinitatis adtonitus aut sermonem movebatur aut muttum. Cumque sensim cauteque mortalibus multitudo sese inseruisset angelica, collectis copulatisque sibi terrestribus. concinentes angeli, ut venerant, caelestia sacra repedantes ascendunt. 124. Hoc solummodo puer sanctus inter carminum modulationem percipit, quod post annum circiter monasterio intromissus ex euangeliis recitari cognovit: istud nempe vice antiphonae, ut bene, ipso dignanter referente, commemini, reciprocis vocibus multitudo concinebat angelica: Ego sum via et veritas et vita. Recepta igitur ingenti multitudine, post contemplationem diutinam area quoque sese clausit astrigera, et solum semet puer contemplatus in loco, excussus e sonino concutitur, ac visionis terrore perculsus, rem gestam ilico refert patri. Confestim namque presbyter sanctus, cui potissimum prolis sanctissima dicari deberet, agnovit.

 

 

121. Il bimbo benedetto cresceva, mosso quasi fin dalla culla da un istinto interno verso la felicità e la luce, ed una forza divina, come credo, gli presagiva un sicuro avvenire. Ma una notte, perché questo degno padre e il suo santo figlio non rimanessero nell'incertezza quanto alla delizia ed alle promesse della futura beatitudine, il santo bambino, in una visione, fu portato via da due religiosi. Fu posto davanti all'entrata della casa paterna, in modo da potere contemplare con uno sguardo attento le regioni orientali del cielo e le loro stelle, come un tempo il patriarca Abramo guardò alla numerosa discendenza. Ed anche a lui fu detto, con linguaggio figurato: «Tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,5). 122. Poco tempo dopo iniziarono ad apparire qui un personaggio, là un altro, poi un altro ancora, fino a che la loro crescente moltitudine divenne innumerevole, e circondano ed avvolgono il beato bambino ed i santi Padri come un enorme sciame di api, simile ad un grappolo dolce come il miele - senza alcun dubbio i santi padri erano  Romano e Lupicino che lo avevano spiritualmente tolto dal fango della casa paterna. 123. Ed all’improvviso, dalla parte dove è rivolto il suo sguardo, Eugendo vide aprirsi nelle altezze celesti come una larga porta. E vide venire fino a lui e ai suoi compagni dei cori di angeli, vestiti di bianco e splendenti come neve, che scendevano dal sommo del cielo lungo una strada in dolce discesa, circondata di luce e simile ad una scala lievemente inclinata, coi gradini di cristallo, ed esultavano di gioia nell'elogio di Cristo. Tuttavia, nonostante il numero sempre crescente dei personaggi, nessuno di loro disse una parola o mosse un muscolo, colpiti come erano dal sacro timore della divinità. Poco a poco, con precauzione, la truppa angelica si mescola ai mortali; gli angeli raccolsero queste creature terrestri, le unirono a loro e, cantando tutti uno stesso canto, risalirono verso le sacre dimore del Cielo, così come ne erano venuti. (Cf. Gn 28,12)

124. Fra le melodie dell’inno il santo fanciullo comprese soltanto una frase che, circa un anno dopo, quando entrò nel monastero apprese essere una frase del Vangelo: ecco infatti ciò che diceva, come antifona, il coro alternato della folla di angeli e che io ricordo molto bene, poiché Eugendo stesso ebbe la bontà di riferirmelo: «Io sono la via, la verità e  la vita» (Gv 14,6). Quindi la folla immensa si ritirò; la volta celeste, riempita di stelle e a lungo contemplata da Eugendo, si richiuse anch’essa ed il bambino, vedendosi solo in quel luogo, si svegliò di soprassalto. Terrorizzato da questa visione raccontò subito dell’evento a suo padre. Il santo presbitero capì immediatamente a chi doveva in primo luogo essere consacrato un figlio così santo.

 

125. Mox igitur litterarum eum instituit aelementis, et anni exacto circulo, tamquam Samuhel quondam non in typico excubaturus tempio, sed ipse potius Christi efficiendus templum, sancto Romano oblatus est patri. In quo vere ita beatorum abbatum, qui eum in spiriti de incolatu terrestri eduxerant, gratiarum gemina confluxit ubertas, ut succidua quoque posteritas, utrum in Eugendo Lupicinum potius suspiceret an Romanum, iudicio fluctuaret incerto. 126. Illis dumtaxat huc illucque necessitate misericordia e monasterio saepe progressis, iste vero a septimo ultra sexagesimo vite quo transiit anno nusquam exinde post ingressum extulit pedem. Lectione namque in tantum se die noctuque, expletis consummatisque omnibus, quae a proposito vel abbate iniuncta sunt, dedit et inpendit, ut praeter Latinis voluminibus etiam Greca facundia redderetur instructus.

127. In vestitu autem duabus tunicis numquam est usus atque unam ipsam nullatenus immutavit, nisi antea fuisset plurima vetustate consumpta, simili quoque coculle ipsius condicione servata. Paleis vero lectuli ineventilatis multo tempore vilique sagello constrictis pellicioque superposito, conquievit. Aestivis namque temporibus carecaIla vel scapulari cilicina utebatur vetusta, quod ei quoque vir sanctitate conspicuus Leunianus Viennensis urbis abba pignore transmiserat karitatis.

 128. Fuit namque sanctus iste de Pannoniis quondam, expargente barbarie, in Galleis vinculo captivitatis abductus et non solum in Viennensi, sed etiam in Augustudunensium urbe multo tempore claustro peculiaris cellae conclusus, ita ut amplius quadraginta annis in utraque civitate cohercitus, nulli hominum ex prima retrusione vultu aut corpore praeter sola sermonis notitia nosceretur. Monachos iuxta cellulam haud plurimos regens, monachas vero procul intra urbem monasterioque conseptas ultra sexagenario numero admirabili ordinatione rexit et aluit praemisitque maximas, magnas interim succiduasque in spiritu non dimisit. Sed sursum redeo.

129. Habebat namque Eugendus beatissimus calciamenta fortia rusticaque in modum priscorum patrum, constrictis ocreis cruris fasceolisque plantis. At vero nocturnis matutinisque conventiculis nec in frigidissimis pruinis nec in magnis nivibus quicquam nuditati pedum praeter ligneas Gallicanasque caligas addidit umquam atque in hunc quoque modum eminus saepissime matutinis oris ad fraternum cimiterium oraturus gradiebatur in nivibus. 130. Nemo namque eum umquam aut in diurna aut in nocturna sinaxi ante expletionem conspexit egredi foras. Nam cum ipse noctibus certe oratu longissimo atque secreto cunctos in oratorium diutissime anteiret, post omnium quoque discessum nihilominus formulae suae incumbens oratione diutina pascebatur in spiritu. Atque ita exinde quolibet  tempore vultu hilari ac laeto egrediebatur ad fratres, ut solet exsatiata ambitio vultus hominum lasciva iucunditate dissolvere.

 

 

125. Immediatamente gli insegna i fondamenti del sapere e dopo un anno Eugendo fu offerto al santo Padre Romano come lo fu un tempo Samuele, ma non per garantire la guardia di un tempio simbolico, ma piuttosto per diventare lui stesso il tempio di Cristo. In lui confluì veramente la duplice abbondanza di grazie accordata ai beati Abati che lo avevano spiritualmente fatto uscire dalla sua residenza terrestre, tanto che la generazione che seguì (quella di questi Abati) non sapeva decidere se in Eugendo si dovesse contemplare l'immagine di Lupicino o quella di Romano. 126. Osserviamo soltanto che, mentre i suoi due predecessori, per opere di misericordia, furono spesso obbligati ad uscire dal monastero e ad andare di qua e di là, lui, al contrario, una volta entrato non mise mai piede al di fuori, a partire dal settimo anno della sua vita fino a dopo il sessantesimo, età in cui morì. Non appena eseguiti e portati a termine tutti gli incarichi affidatigli dal priore o dall’abate si dedicava di giorno e di notte alla lettura e si impegnava a tal punto che acquisì una solida conoscenza, non solo delle opere latine, ma anche dell'eloquenza greca.

127. Quanto al vestirsi non utilizzò mai due tonache e la sola che egli possedeva non la cambiava per nessun motivo prima che non ne fosse consunta dalla vecchiaia. La stessa regola osservava per la sua cocolla (cappuccio con mantello N.d.T.). La paglia del suo giaciglio era chiusa in un grezzo sacco e solo raramente veniva scossa. Qui dormiva coprendosi con una pelle di animale. Durante l'estate, utilizzava una lunga tunica con maniche e un vecchio scapolare in pelo di capra che gli aveva inviato l'abate Leoniano di Vienna, un uomo di rilevante santità, come pegno di fraterna amore.

128. Un tempo, quando i Barbari si sparsero fino alla Gallia, il sant’uomo (Leoniano) era stato portato dalla Pannonia come prigioniero: visse molto a lungo nella clausura di una cella particolare, non soltanto a Vienna, ma anche ad Autun. Restò rinchiuso più di quaranta anni nell’una o nell’altra città, tanto che, dopo la sua segregazione, nessuno lo conobbe più di viso o di corpo, ma solo dal suo modo di parlare. Dirigeva una piccola comunità di monaci vicino alla sua cella; più lontano, all'interno della città, guidava più di sessanta monache di clausura, nutrendole nella vita religiosa con un’ammirevole saggezza: le più anziane le ha lasciate partire prima di lui (per il cielo), ma tuttavia non ha abbandonato spiritualmente le anziane che sopravvissero a lui. Ma ora torno al racconto originario.

129. Il beato Eugendo portava scarpe resistenti e rustiche, al modo degli antichi Padri, e le sue gambe erano strette in gambali ed i suoi piedi in fasce. Ma per l'ufficio del mattutino e per quello delle lodi, non mise mai ai suoi piedi nudi altra cosa che zoccoli di legno all’uso gallico, anche con i più rigidi freddi ed anche quando c'era molta neve. In questo modo molto spesso nelle ore mattutine camminava a lungo nella per recarsi a pregare al cimitero dei fratelli. 130. E mai nessuno lo vide uscire prima della fine, durante la sinassi del giorno o della notte. Se durante la notte si recava nell'oratorio un bel po’ di tempo prima degli altri per pregare a lungo e nel segreto, così pure, quando tutti erano usciti, continuava ancora a nutrirsi spiritualmente con un lunga preghiera, appoggiato sul suo banco. E, qualunque fosse l'ora, usciva di là avvicinandosi ai fratelli con un’aria serena e lieta, allo stesso modo che gli uomini (del secolo) hanno un viso inondato di una spensierata allegria, una volta soddisfatta la loro ambizione.

 

131. Refectio ei omni tempore semel in die fuit, quae tamen aestivis diebus nunc in sexta cum ceteris fatigato, nunc vero cum his, qui iterato reficiebantur, terminabatur in vespera, ita tamen quod nihil umquam, excepto his quae cunctis adponebantur fratribus, degustavit in mensa. Igitur ad inquoationem administrationis ipsius revertamur.

132. Cum ergo pater ille, quem beatissimus Romanus vel Lupicinus Condatescensi coenobio signaverant successorem, praeter labores sollicitudinesque coenobiales etiam corporeae inequalitatis frangeretur incommodis, vocatis ad se fratribus, sic sanctum Eugendum vice sua sollicitudine innexuit, quod sibi tamen ius paternae eminentiae in nullo penitus inminuit aut subtraxit.

Temptavit namque idem abba, ut antedictum sanctumque Eugendum cum administrationis onere etiam presbiterii dignitate artius inligaret. 133. Sed non solum voluntati ipsius in hac parte saepissime, immo sanctissime contradixit, verum etiam sacrosanctos pontifices, qui illic orationis causa confluxerant, reverentia tanti honoris caute ac diligenter aufugit. Mihi tamen crebro secretissime testabatur, utilius multo esse abbati propter iuniorum ambitionem liberum a sacerdotio praeesse fratribus et non inligari dignitate, quam abrenuntiantes ac remotos minime convenit adfectare. 134. Novimus namque, aiebat, praeter hanc quam prediximus causam multos etiam patres post humilitatis professe culmina hoc officio gravius ac latentius superbisse et plus se efferre fratribus, quos exemplo humilitatis convenerat anteire. Suscepit ergo Dei sanctus, sicut etiam pater Lupicinus, absque sacerdotali aeminentia iniunctae sibi vicissitudinis societatisque laborem, ea maxime securitate fretus, quod de paterna sollicitudine ac provisione non habebatur incertus; sed mox evidentissima revelatione percellitur, ne de plenaria administratione, velut in aliquo incertus, redderetur ambiguus.

 

131. In tutte le stagioni prendeva un solo pasto al giorno. Durante l'estate alle volte a mezzogiorno con tutta la comunità, quando era stanco, ed alle volte alla sera, con i monaci che prendevano un secondo pasto. Tuttavia non gustò altro a tavola al di fuori di quello che era servito a tutti fratelli. Ma riprendiamo il nostro racconto dai primi giorni della sua guida.

132. Dunque, quando il padre che i beati Romano e Lupicino avevano designato come successore per dirigere il monastero di Condat perse il vigore, non soltanto per gli impegni e le preoccupazioni della comunità, ma anche per i disturbi di infermità fisiche, convocò presso di sé i fratelli ed associò sant’Eugendo alle preoccupazioni del suo incarico, senza tuttavia allentare o rinunciare per niente alla sua paterna e superiore autorità. Questo stesso abate tentò anche di legare più strettamente lo stesso sant’Eugendo invitandolo ad unire alla fatica del governo l'onore del sacerdozio.

133. Ma, su questo punto, (Eugendo) non solo si limitò a resistere molto spesso e così molto santamente alla volontà del suo superiore, ma anche schivò con prudenza ed attenzione i venerabili pontefici che si erano riuniti in questo luogo per pregare, per la soggezione di un tale onore. Del resto spesso mi confidava segretamente che è molto meglio per un abate, a causa dell'ambizione dei giovani, dirigere i fratelli essendo libero dal sacerdozio, senza essere legati da questa dignità, a cui non conviene per niente aspirare da parte di uomini rivolti alla rinuncia ed alla solitudine. 134. «Del resto, aggiungeva, noi sappiamo che, oltre a questa prima ragione che ho appena dato, anche molti padri, dopo avere praticato alla perfezione l'umiltà del loro stato, si sono profondamente e segretamente inorgogliti del ministero sacerdotale e si sono sentiti superiori ai fratelli che avrebbero dovuto precedere come esempio di umiltà». Dunque il santo di Dio ricevette il pesante impegno di sostituto e di collaboratore che gli era stato imposto senza la dignità sacerdotale, come già il Padre Lupicino; trovava soprattutto la sua serenità nel fatto di poter contare sulla sollecitudine e la previdenza del padre. Ma ben presto fu sconvolto da una rivelazione molto chiara, affinché non avesse alcun dubbio sull'attribuzione dei pieni poteri e non rimanesse in lui alcuna incertezza.

 

135. Nocte igitur subsecuta subito raptus in visione, beatissimis quoque Romano ac Lupicino abbatibus, ut in iniciis quondam, ita nunc in oratorii secretario a parte dextera praesentatur necnon etiam inter ipsos seniores ac superstites circumspicit fratres cereos ac lampades gestare lucentes. Et data sibi a sanctis patribus oratione vel pace, ilico benedictum illum abbatem, decessorem sibi utique mox futurum conspicit intromitti ac super dorsum ipsius vel scapulas, rigentibus clavis purporeis, pallium album aspicit dependere. 136. Soluto namque beatus Romanus sancti illius cingulo constringit ilico lumbos Eugendi. Dehinc excusso quod desuper, ut diximus, gestabat pallio, huius adeque umeris superinponens, ait: “Hec tibi ad praesens nosce interim adsignari”; et digitis dalmaticam praedicti decessoris adstringens: “Etiam hanc tibi”, inquid, “probata in acceptis utilitate, noveris adsignandam.”

Mox adstantes cum cereis fratres, incipiente primitus uno, confestim cuncti claritatis hac solatii lumina inpacta parieti depremunt et extingunt. 137. Cumque vir beatus tenebrarum angustiis cohercitus, eventum rei adtonitus praestolaretur in visu, vox ad eum facta est: “Noli”, ait, “te, Eugende, fraude horum praesentium hac materialium luminum contristare; orientalem namque cellulae huius adtende prospectum, et videbis ilico tibi absque opitulatione humana lumen divinitus ministrari”. At ille confestim illic porrigens visus, aspicit, sensim deluciscente aurora, radium ad se diei ac lucis influere, et in semet reversus, lectulo laetus excutitur. Nec mora visionem sequitur effectus.

138. Nam ad Christum decessore ilico migrato, volens nolensque administrationem subterfugere non potuit subarratam. Illi vero qui per visionem luminis solatia prestata subtraxerant, humanitatis malo aliquid passi, livoris zelo fiammati in beatissimum virum invidiae ardore turgescunt et sanctum Eugendum abbatem nunc dispectione animi, nunc quoque monasterii professionisque desertione tamquam novitium ac rudem monachorum laicorumque patiuntur subiacere contemptui.

139. At non ille divinae pietatis obtutus famulum suum passus est prolixa fatigatione vexari. Confestim namque ipsi potentiae ac virtutis suae dexteram affluentissima signorum largitate porrexit, dando atque ostendendo per servum suum sanitatum dona, prodigia multa, ita ut summae saeculi potestates sospitari se crebro ac benedici eius litteris exorarent nec se clementiam divinam crederent habere placatam, nisi prius Christi amici gratiam sive suffragia aut visu aut litteris potirentur electa: 140. episcopi quoque ac suspicientissimi sacerdotes prae se omnimodis ferre, si eum corporaliter cernere aut affatu litterario obtinuissent familiarius conpellari. Ipsi etiam pseudofratres, qui pridie coturno elationis inflati discesserant. tamquam infelices atque degeneres notabantur a laicis, nisi, deposito invidiae virus, ad sanctum Christi famulum quantocius repedarent.

 

135. Nella notte seguente, improvvisamente fu rapito da una visione: i beati Abati Romano e Lupicino si presentarono a lui come durante la sua infanzia, ma questa volta nella sagrestia situata alla destra della chiesa. Lì intorno insieme a loro vide anche gli anziani e i fratelli del monastero che erano sopravvissuti ai due fondatori e che portavano candele e lampade accese. Non appena i santi Padri gli diedero la benedizione ed il bacio della pace, vide entrare questo abate benedetto a cui ben presto egli sarebbe subentrato nell’incarico: vide che lungo il dorso e le spalle di questo abate cadeva un mantello bianco ornato di fasce di porpora. 136. Il beato Romano slegò la cintura di quest’uomo santo  e, senza indugio, la passò attorno alle reni di Eugendo. Quindi tolse al medesimo il mantello che, come abbiamo detto, portava sopra gli altri suoi abiti e, posandolo sulle spalle di Eugendo, disse: «Sappi che questo incarico ti è fin d'ora attribuito per un certo tempo». Poi, afferrando con le dita la tunica dalmatica dello stesso predecessore, aggiunse: «Sappi che anche questo (ornamento) ti sarà conferito, per aver fatto buon uso di ciò che hai già ricevuto». I fratelli erano là in piedi con le candele ma, ben presto, su iniziativa di uno di loro, queste luci che spargevano luminosità e conforto vennero gettate contro il muro, furono schiacciate e si spensero. 137. Soffocato dalle tenebre e colpito da stupore, il santo attendeva di vedere la conseguenza di quella visione, ma fu una voce che lo informò: «Non affliggerti, Eugendo, diceva (la voce), a causa dell’attuale mancanza di questa luce materiale; osserva all'Oriente di questa celletta e subito vedrai una luce divina che ti offre il suo aiuto, in mancanza del soccorso umano». E subito, girando lo sguardo da quella parte, vide un raggio di giorno e di luce che scendeva fino a lui mentre poco a poco si illuminava l'alba. Ritornato in se stesso, saltò giù felice dal suo letto. Questa visione non ritardò a realizzarsi.

138. Infatti, andatosene a Cristo il suo predecessore, Eugendo, volente o nolente, non poté sottrarsi al governo (del monastero) di cui aveva già ricevuto l’ipoteca. Ma gli stessi che nel corso della visione gli avevano sottratto il conforto della luce, dopo averglielo offerto, quelli stessi soccombettero alla cattiveria umana e, in preda alle passioni della gelosia, si gonfiarono di un ardente odio contro il beato uomo: disprezzandolo nel loro cuore, a volte anche lasciando il monastero e la vita religiosa, permettevano che monaci e laici calunniassero il santo Abate Eugendo come un novizio ed un ignorante.

139. Ma l'amore divino che vegliava su di lui non permise che il suo servo fosse tormentato da prolungate sofferenze. Immediatamente, infatti, tende verso lui, con una straboccante abbondanza di segni, la sua destra potente ed efficace: grazie al suo servo, Dio concedeva visibilmente guarigioni e molti prodigi, tanto che, spesso, i più importanti e potenti personaggi del secolo lo supplicavano tramite le loro lettere di essere protetti e benedetti da lui. Costoro pensavano di non essersi riconciliati con la clemenza divina se prima non avessero acquisito, con una visita o con una lettera, gli speciali favori o intercessioni di questo amico di Cristo. 140. Persino vescovi e ammirevoli sacerdoti si mostravano in tutti i modi lusingati, se avessero avuto il privilegio di vedere fisicamente Eugendo o di ricevere da lui una lettera in cui egli si rivolgeva a loro con tono familiare. Ed anche questi falsi fratelli che qualche tempo prima se ne erano andati gonfiati dall’arroganza dell’orgoglio, erano additati dai laici (e considerati) come infelici e degeneri, a meno che, ricusando il veleno dell’invidia, ritornassero al più presto dal santo servo di Cristo.

 

141. Dum haec odorifera fama geruntur, puella quaedam iuxta saeculi dignitatem non infima, circa Secundiacensim parrochiam a daemonio atroci correpta, solum claustris retrusa, verum etiam ferreis vinculis tenebatur obstricta. Cumque sanitatis causa a multis, ut solet, exorcismorum scripta nexae cervicibus necterentur, atque illa ignotas sibi scriptorum personas per inmundum spiritum cum nomina, quod dolendum est, carperet et vitia se magis illos qui scripserant iam olim in ilio atque ilio peccato, latentibus apud humanitatem indiciis, adsereret possidere, tum ad ipsam inerguminam  de adstantibus unus: 142. Quid nos, inquit, istis alienis, immo propriis vitiis terres, inmunde? Vere in Christi nomine non solum istorum quos derogas virorum, sed cunctorum quoque, si potuero, scripta sanctorum ita cervicibus tuis innectam, ut vel multitudine imperantium obruaris, si hos paucos audire dispicis et contemnis. Tu mihi, inquit diabulus, Alexandrina, si placet, cartarum onera exarata inponas, numquam tamen ex obtento vasculo poteris propulsare, dummodo mihi solius Eugendi Iurensis monachi ex hoc non adferas iussionem.

143. Confestim namque rapientes proximi dictum, ad beatissimum virum plenissima fide concurrunt, ac rem gestam pedibus provoluti narrantes, non se reddituros esse testantur, nisi misericordiam Christi praestaret exoratus obpresse. Victus igitur vel ratione vel precibus pater, breviter cum longa oratione, ut Gregorius quondam Magnus Apollini, in hunc modum scribens atque consignans, sporcissimo transmisit epistolam: 144. Eugendus servus Christi Iesu in nomine domini nostri Iesu Christi, Patris et Spiritus Dei nostri praecipio tibi per scripturam istam : Spiritus gule et ire et fornicationis et amoris, et lunatice et Dianatice et meridiane  et diurne et nocturne et omnis spiritus inmunde, exi ab omine, quae istam scripturam secum habet. Per ipsum te adiuro verum filium Dei vivi : Exi velociter et cave, ne amplius introeas in eam. Amen. Alleluia. Et orans atque conplicans, subplicibus tradidit deportandam. Quid plura? Necdum itineris medii spatia confecerant, cum ecce! furcifer ille frendens atque eiulans prius egressus est ex obsessa, quam calcarent domus limina revertentes.

145. Ab hoc fere tempore beati viri longe lateque fama nomenque enituit, ut qui sanctus iam habebatur indigenis, potens etiam et vere apostolicus porrogenitis haberetur. Materfamilias quondam Siagria nunc quoque ecclesiarum monasteriorumque per elymosinam mater, cum gravi obsessa incommodo iam iamque haberetur a medicis desperata, epistolam beati viri, quae casu ad eam delata pervenerat, de amariolo sibi vice dextere beati viri exosculandam praecepit ad tingi. 146. Cumque adprehensam, contactis ex eadem cum oratione oculis, lacrimis quoque haut minime deciduis infecisset, ori dehinc insertam aliquantisper dentibus cum oratione constringens, mox, recuperata sanitate, surrexit. Quo gaudio atque miraculo non solum ipsa suique, verum etiam civitas maxima Lugdunensium exultatione mira relevata atque laetata est.

 

141. Mentre accadevano questi fatti, la cui fragrante fama (si diffondeva ovunque), una ragazza di non piccolo rango, secondo la considerazione del mondo, e che abitava vicino alla parrocchia di Secundiacum, era posseduta da un terribile demonio: non solo era tenuta rinchiusa, ma la si teneva legata con catene di ferro. Secondo l'abitudine, molte persone legavano sulla nuca di questa ragazza delle formule d'esorcismo per guarirla. Essa, tuttavia, sotto l’influenza dallo spirito immondo e senza conoscerle, purtroppo offendeva le persone che avevano scritto queste formule, dicendo i loro nomi ed i loro vizi e affermando che lo stesso spirito immondo possedeva da tempo coloro che le avevano scritte, a causa di questo o quel peccato, pur rimanendo le prove nascoste agli uomini. Allora, uno dei presenti sfidò la potenza maligna: 142. «Perché, dice, provi a spaventarci con questi vizi altrui, piuttosto che con i tuoi propri vizi, essere immondo? Per il nome di Cristo, non mi accontenterò degli esorcismi di cui screditi gli autori, ma chiamerò tutti i santi, se potrò, a redigere formule che legherò alla tua nuca, in modo che tu sia oppresso da una moltitudine di padroni che ti comandano, se rifiuti di ascoltare, e diffami questi pochi che sono qui». «Su di me, risponde il diavolo, se ti fa piacere puoi mettere un carico di papiri di Alessandria tutti scritti, ma tuttavia non riuscirai mai ad espellermi dal vasetto che ho occupato, finché non mi porterai l'ordine imperativo di un solo uomo, Eugendo, monaco del Giura».

143. I (testimoni) più vicini afferrano immediatamente queste parole e corrono verso il beato con incondizionata fede. Gettandosi ai suoi piedi gli raccontano il fatto, affermando che non se ne andranno finché, mosso a pietà, non accorderà la misericordia di Cristo alla (ragazza) posseduta. Vinto dunque sia dalle loro spiegazioni che dalle loro preghiere, il padre agisce come un tempo Gregorio Magno nei confronti di Apollo: dopo una lunga preghiera scrive una breve la lettera in questi termini. Poi la sigilla e la fa recapitare all’infame creatura: 144. «Io, Eugendo, servo di Cristo Gesù, in nome del nostro signore Gesù Cristo, del Padre e dello Spirito del nostro Dio, ti ordino con il presente scritto: Spirito di golosità e di rabbia e di fornicazione e d'amore, Demone della luna e di Diana e di mezzogiorno e del giorno e della notte, Spirito immondo, chiunque tu sia, esci dalla creatura umana che porta su di sé questo scritto. È per Lui, il vero Figlio del Dio vivente, che te ne scongiuro: esci in fretta e guardati dal rientrare in futuro dentro di lei. Amen. Alleluia». Quindi prega, piega la lettera e la rende a coloro che lo supplicavano perché la portino a destinazione. Cosa (devo aggiungere) di più? I messaggeri non avevano ancora percorso la metà del cammino quand’ecco che il furfante, stridendo i denti e gemendo, uscì dalla ragazza posseduta prima ancora che gli stessi superassero la soglia della casa.

145. Proprio a partire da quel momento la notorietà del beato uomo si diffuse in lungo e in largo e il suo nome brillò tanto che, già considerato un santo dagli abitanti del paese, fu riconosciuta anche da genti lontane la sua autorevolezza ed il suo carattere da vero Apostolo. Siagria, un tempo madre di famiglia, ed oggi anche madre delle chiese e dei monasteri per le sue elemosine, era in preda ad una grave malattia, ed i medici consideravano ormai il suo caso come disperato. Ma ecco che prese dal suo armadietto una lettera che aveva ricevuto dal beato uomo, proprio a lei indirizzata, e la baciò come se fosse la mano del beato. 146. Afferratala la pone sui suoi occhi pregando, la bagna con le abbondanti lacrime che le cadono e poi la mette in bocca stringendola per un po’ di tempo tra i suoi denti senza cessare di pregare: ed ecco che, tornata in buona salute, si alza. La felicità di questo miracolo non riempie soltanto lei ed i suoi, ma anche la molto nobile città dei Lionesi, rasserenata, si rallegra con straordinaria gioia.

 

147. Cum ergo fama vitaque viri virtutum dilatatione succresceret, tanta miserorum acervatim coepit in monasterium turba concurrere, ut secularium, immo tribulantium multitudo paene catervis videretur numerosior monachorum. Interea dum inibi mox nonnulli, alii etiam post bidui triduique, quidam vero post mensibus quommoda votiva percipiunt, Dei sanctus manum ad salutare compendium mittens, fatigationem miseris auferebat. 148. Dabat ergo subplicibus atque sospitibus  deportanda inligandaque infirmis cum sancti olei quantitate superius contra larvis ac miseris scripta mandata, quae ita, quooperante fide, porrigebant in provinciis longe positis medicinam, ut illi quoque obtinebant, qui eius in monasterio praesentabantur aspectui. Neque solus beatissimus pater in  coenobio, sed et presbiteri multique inibi fratres potiebantur charismata meritorum, et zeli ambitione cessante, illis potissimum quam sibi Dei homo medendi delegabat officium.

149. Et hoc studebat omnimodis, ut unusquisque illi rei vel studio in monasterio deserviret, in quo eum dono sancti Spiritus pollere eminentius praespexisset. Atque ideo mansuetum ac lenem illi ordinabat officio vel loco famulari, ubi mansuetudinis ac patientiae bonum nullatenus inquietudo decoloraret alterius; rursumque superbiae forsitan aut vanitatis naevo notatos non patiebatur esse sepositos, ne iudicio virosae ac propriae elationis inflati, altius graviusque corruerent, cum culpas ac vitia sua non agnovissent, in medium crebrius increpati. 150. Si quos sane, ut sese habet natura fragilitatis humane, aedacis tristiciae morsibus interea noverat sauciari, illis quoque inopinantibus, ita spiritaliter ex industria blandus superveniebat ac laetus et sancto dulcique fovebat alloquio, ut, deterso tristiciae perniciosissimum virus, quasi quadam salutaris olei perunctione, exasperata sanaretur austeritas. Dissolucioribus vero ac levioribus acriorem se severioremque semper exibuit.

151. Presbiteris quoque ipsis, quorum officio, constrictus saepe ab episcopis, humilitatis causa noluit, ut diximus, implicari, ita semper ob ministerium sacrificii salutaris quodam remotionis opere conscientiae purae tribuit facultatem, — ut illo cuique pro delicto mordaciter forsitan quippiam, ut assolet, succensenti, illi vero, dum reatum culpamque ignorarent, absque notitia vel participatione alieni reatus corpus dominicum traderent ab altari, — ut nec se conscii plecterent communione delicti nec alterum severitate paterna ante emendationem forsitan sacramentorum indultu subtraxisse viderentur in aliquo.

 

147. Mentre la fama e la vita di Eugendo crescevano grazie al moltiplicarsi dei suoi miracoli, iniziò a correre in massa al monastero una tale ressa di infelici, che la folla dei secolari, o meglio degli afflitti, sembrava quasi superare in numero la schiera dei monaci. Intanto che nel monastero alcuni beneficiavano subito dei vantaggi sperati, altri dopo due o tre giorni, alcuni dopo mesi, il santo di Dio dispensava gli infelici dalla fatica, ricorrendo a mezzi di guarigione più convenienti. 148. Alle persone sane che venivano a supplicarlo per dei malati, dava da portare via, oltre ad una certa quantità di olio santo, anche delle ingiunzioni scritte contro i demoni e le malattie e che dovevano essere attaccate sul corpo dei pazienti; questi biglietti, con l'aiuto della fede, portavano fino alle lontane province il conforto che ottenevano coloro che si presentavano alla vista del santo nel suo monastero. Ed il beato padre non era il solo nella comunità a beneficiare della potenza miracolosa, ma anche i sacerdoti e molti fratelli avevano questo privilegio. E, mettendo a tacere gli stimoli della gelosia, l'uomo di Dio preferiva delegare loro i suoi poteri di guaritore piuttosto che esercitarli lui stesso.

149. Egli tendeva in tutti i modi ad assegnare ad ogni monaco le mansioni o i compiti per i quali intuiva fosse particolarmente dotato per grazia dello Spirito Santo. In questo modo un fratello moderato e mite si vedeva assegnato un servizio ed un posto dove i vantaggi della sua mansuetudine e della sua pazienza non fossero in alcun modo guastati dalla veemenza di un compagno irrequieto. Se, al contrario, notava altri che forse avevano il difetto dell'orgoglio o della vanità, non permetteva loro di vivere separati, per paura che, gonfiati di proposito dalla loro stessa meschina esaltazione, cadessero più in basso ed in difetti più gravi, non riconoscendo neppure più i loro peccati ed i loro vizi, nonostante i frequenti e pubblici rimproveri. 150. Se nel frattempo veniva a sapere che proprio alcuni fratelli che soffrivano la natura della fragilità umana ed erano in preda ai morsi di una tristezza divorante, appariva all'improvviso mostrando di proposito tanta gentilezza e gioia soprannaturali, riscaldava il cuore degli infelici con parole sante e delicate. Questi, purificati dal veleno molto pericoloso della tristezza, si trovavano guariti dal loro esasperato pessimismo, come con l'unzione di un olio salutare. Ma l’Abate mostrò sempre più rigore e severità nei confronti di monaci troppo negligenti e frivoli.

151. Quanto ai sacerdoti - abbiamo detto che, a motivo dell'umiltà, non volle mai essere incaricato lui stesso di queste funzioni, nonostante le ripetute richieste dei vescovi -, (considerando che sono) i ministri del sacrificio salvatore, permise loro di tenersi in disparte per custodire la purezza della loro coscienza: in questo modo, se per caso il Padre si infiammasse nei confronti dell'autore di un colpa e si mostrasse, come succede spesso in questi casi, un po' brusco, i sacerdoti, loro che ignoravano sia il difetto che la penitenza inflitta, potevano distribuire all'altare il Corpo del Signore senza conoscere il peccato di questo fratello e senza nessuna compartecipazione: così in coscienza non dovevano rimproverarsi per una complicità nella colpa e neanche sembrava loro di sottrarre il colpevole alla severità del padre, prima che egli se ne fosse emendato, accordandogli per caso i sacramenti.

 

152. Hic namque fuit, immo est aput Christum beatissimus homo, ex cuius ore, Deum testor, numquam processit obloquium. cuius aures numquam polluit maliloqui oris ferale contagium. Tantum namque detestabatur hoc vitium, immo flagitium, quantum quis letiferi anguis non solum venenum metuit, verum etiam occursus ipsius vitat atque conspectus. In tantum mens ipsius, abstrusis viciis, pura pollebat, ut etiam beatissimos Christi apostolos Petrum ac Paulum sanctumque Andream, adaeque apostolicum conspicuumque virum Martinum episcopum et conloquio fuerit potitus et visu.

153. Quodam namque tempore, antequam ipsi administrationis onus incumberet, diebus aestivis ultra monasterium, iuxta semitam qua Genua usque transcenditur, sub arbore solito quiescenti subito tres sese per soporem adventantes offerunt viri. Quorum cum post orationem et pacem novitatem ac vultus abitusque contemplatur adtonitus, interrogat quoque, quinam ipsi venerabiles essent, quorum benedici meruisset adventu. 154. Tum unus: Ego, ait, Petrus, ast hic germanus meus Andreas et iste frater noster est Paulus. At ille confestim in spiritu ad eorum vestigia provolutus: “Et quid est”, inquit, “domini, quod vos in haec rura cerno silvestria, quos in magnis urbibus Romae hac Patras post sanctum martyrium legimus corpore contineri?” Verum  est, inquiunt, et illic quidem, ut asseris, sumus et hic quoque nunc abituri venimus. Et in haec verba visio finivit et somnus.

155. Cumque, confricata facie, torporem somni depulisset ex vultu, conspicatur eminus duos qui ante biennium circiter discesserant fratres eo adventare calle, quo sanctos apostolos per visionem conspexerat advenisse. Et prosiliens ilico in occursu, consalutatos quoque ex more, consulit, unde dulcissimi fratres post tam diutinum commeatum ad coenobium repedarent. “Nos”, inquiunt, “inter alia ad Urbem usque progressi, obtentis quoque sanctorum patrociniis, sub trina martyrum sera quidem, sed fida intercessione revertimur. Dominorum namque apostolorum Petri et Pauli atque Andreae ditati reliquias, ad caulas repedamus antiquas. 156. In loco igitur, ut moris est, subsistentes, currens Eugendus sanctus ad monasterium, ipse patri ac fratribus adventantium sanctorum efficitur nuntius, qui fuerat paulo ante contemplator in visione. Prosiliunt confestim obviam, et consalutatis fratribus deosculatisque reliquiarum vasculis, cum trepudio et exultatione atque psalmi sono exhibitis, inclusis quoque sub altari, patrocinantur nunc exorantibus indefessa virtute, quorum laudes ac merita nequeunt localiter coherceri.

 

152. Fu, o meglio è, beato presso Cristo, quest'uomo dalla cui bocca, Dio mi è testimone, non uscì mai un'ingiuria, le cui orecchie non si lasciarono mai sporcare dal distruttivo contagio di una bocca maldicente. Poiché egli odiava questo vizio, o meglio questa infamia, quanto si può odiare un serpente mortale: non solo si teme il suo veleno, ma si evita persino di incontrarlo e di vederlo. La sua anima, sgombra dai vizi, era talmente pura che fu capace di vedere e di conversare persino con i beati apostoli di Cristo Pietro e Paolo e sant’Andrea, ed anche con quest'uomo apostolico e famoso che fu il vescovo Martino.

153. Infatti, un giorno d'estate, prima che incombesse su di lui il carico della direzione, egli dormiva fuori dal monastero, sotto un albero che gli era familiare, proprio vicino al cammino che conduce a Ginevra superando i monti: improvvisamente, durante il suo profondo sonno, tre uomini si avvicinano e si presentano a lui. Dopo l’orazione ed il bacio della pace Eugendo contempla, stupefatto, la loro stranezza, il loro aspetto, il loro abito, quindi chiede loro chi siano questi venerabili uomini, di cui ha meritato la visita come una benedizione. 154. Allora uno di loro: «Io sono Pietro, dice, quanto a lui, è mio fratello Andrea e quello è nostro fratello Paolo». Eugendo si inchina subito in spirito ai loro piedi e dice: «Come può essere, signori, che vi vedo in queste campagne, in mezzo alle foreste, voi i cui corpi, come leggiamo, sono seppelliti nelle grandi città di Roma e di Patras dopo il vostro santo martirio?» «È vero, rispondono, noi siamo laggiù come tu dici e ora siamo venuti per dimorare qui nello stesso luogo». Su queste parole la visione finisce ed anche il suo sonno.

155. Essendosi sfregato gli occhi per cacciare dal volto l'intorpidimento del sonno, scorge a distanza due fratelli che erano partiti (da Condat) da due anni circa. Essi si avvicinavano sulla stessa strada dove aveva visto arrivare i santi apostoli durante la sua visione. Subito si precipita loro incontro e, dopo averli salutati secondo l’uso, si informa da dove vengano questi carissimi fratelli che rientrano al monastero dopo una così lunga assenza. «Oltre ad altri luoghi, rispondono, noi siamo andati fino alla città di Roma e abbiamo ottenuto la protezione dei santi. Ma ora ritorniamo sotto una tripla intercessione di tre martiri, accordataci tardi ma affidabile. Infatti, oggi rientriamo al nostro vecchio ovile arricchiti dalle reliquie dei signori apostoli Pietro, Paolo e Andrea. 156. Mentre (i due viaggiatori) rimangono sul luogo dell’incontro, secondo l'abitudine, santo Eugendo corre al monastero e lui stesso, che aveva appena contemplato i santi in una visione, diventa il messaggero del loro arrivo presso il padre (Abate) ed i fratelli. I monaci si slanciano subito loro incontro, salutano i fratelli e baciano i reliquiari che vengono esposti con gioia ed esultanza al canto dei salmi. Infine sono posti sotto l'altare, accordando a coloro che li pregano la loro inesauribile e potente protezione: le lodi ed i meriti (di questi santi) non possono essere contenuti nei limiti di un luogo qualunque.

 

157. Ut enim de sancto ac beatissimo viro Martino dicamus, cuius mihi quoque vultum atque abitum cum suprafatorum secretissime solebat exponere, parumper nobis referre non pigeat. Quadam namque vice, dum diros metuunt ac vicinos Alamannorum incursus, qui inopinatis viantibus non congressione in comminus, sed ritu superventuque solent inruere bestiali, ad mortem aut suspicionem  mortis penitus evitandam, quae crebro timoris iaculo totiens interimit, quotiens timetur, e limite Tyrreni maris  potius, quam de vicinis Aeriensium locis coctile decernunt petere sal. 158. Sed hoc totum ut fieret, et consilium et ordinatio beati viri persuaderant. Cumque emenso bimenstri tempore, nullum darent proprii adventus indicium, vertitur in sanctum inputatio fratrum, quod, aliis e vicino quod timuerant sospitibus iam reversis, non tam distinatis fratribus exilium, quam mortem peregrinam propria persuasione dedisset. Ille vero incertus licet de reatu, quia ipsos ancipiti abstraxisset eventu, metuens tamen saltim indebite increpari, misericordiam Christi pro salute eorum diebus singulis exorat ac noctibus.

159. Cumque post lacrimas fessus fuisset soporatus in lectulo, ita claritate subita vallatur in grabatto, ut plus se luce cerneret circumfusum, quam si purissimi solis inlustraretur allapsu. Ilico iuxta lectulum beatissimus Martinus adsistens, cumsalutatum quoque, qualiter valeret, interrogat. At ille: ‘Bene’, inquit, ‘agerem, si de salute fratrum, quos, increpor, exules feci, non haberer incertus’. 160. Et ille: ‘Non meministi’, ait, ‘quia euntes mihi eos, id est Martino tuo, in orationem propriae commendasti?’ ‘Ecce’ inquit, ‘in Christi nomine reddo tibi cum effectu incolomes, quos mihi in oratione sospites commendasti. Hac namque nocte in Pontianensi parrochia manent; crastina vero unus ex ipsis istic veniet, suspicionem cunctis ablaturus, ad mansum’. Expergefactus igitur Christi homo, tamquam memoratus fratres cunctis visibiliter adsignaret, ita diem et oram praedixit adventus: ut ipse sanctus Dei nuntiaverat, vel ipsi continuo sunt regressi.

161. Nam et hoc, quod in consequens relaturus sum, licet iam nullus ambigat beatissimi Martini mirabilibus adplicari, tamen ignoro, quis tam ignarus ac brutus sit, ut non illic specialius noverit virtutum dona clarescere, ubi per unitatem fidei familiarius concordans, residere noscitur gratia meritorum. Permisit namque Dominus nocte quadam in secretano antedictum sanctumque Martinum  temptari quidem incendio, sed probari. Sic igitur et Condatescense monasterium exustum quondam est flammis, sed tamen Martini oleum nullo flammarum est voratus incendio. 162. Quodque etiam beatus Eugendus tanta patientia atque aequanimitate suscepit, ut mox illi divina providentia non solum ad victum sive vestimentum duplicia pro simpla reddiderit, verum etiam tabernacula ipsa multo utilius congruentiusque quam fuerant in usus pristinos restaurarit.

Vice igitur quadam, inminente vespera, omne illud, ut dixi, monasterium, quia erat ex lignis fabrefactum antiquitus, et non solum contignatis indiscretisque cellulis, verum etiam pulchre fuerat cenaculis geminatum, ita subito redactum est in favillis, ut mane non solum nihil resideret ex edificiis, verum etiam celeritate arentis pabuli ignis ipse pene totus redderetur extinctus.

157. Ma per parlare del santo e beato Martino, di cui Eugendo amava descrivermi con riservatezza il viso e l'aspetto, insieme a quelli dei santi di cui ho parlato, non tiriamoci indietro di fronte ad una relazione un po' lunga. Un giorno, mentre si temevano i terribili e vicini attacchi degli Alemanni, - che hanno l’abitudine di non attaccare di fronte i viaggiatori, ma di presentarsi all'improvviso e di gettarsi su loro come bestie - e che si cercava di evitare la morte o anche solo il timore della morte, poiché i colpi ripetuti dello spavento vi uccidono altrettante volte che avete paura -, si decide di andare a cercare il sale di cucina sulla riva del Mediterraneo piuttosto che nel vicino paese degli Hériens. 158. Ma tutta l'impresa era stata intrapresa col consiglio e l’incoraggiamento del beato. Siccome al termine di due mesi (i monaci inviati laggiù) non davano alcun segno del loro ritorno, i fratelli fanno ricadere la colpa sul santo, dicendo che altri viaggiatori sono già ritornati illesi dalla temuta regione vicina e che (l’Abate), imponendo le sue decisioni, ha inflitto ai fratelli che ha designato non un esilio, ma la morte in un paese straniero. Benché non avesse la certezza di essere colpevole, poiché li aveva sottratti ad un rischio, (Eugendo,) che teme tuttavia questi ingiustificati rimproveri, implora ogni giorno ed ogni notte la misericordia di Cristo per la loro protezione.

159. Un giorno, dopo avere pianto, si era addormentato sfinito sul suo giaciglio, quando un chiarore improvviso circonda il suo giaciglio al punto che egli si vide inondato da una luce più viva di quanto un sole splendente lo avesse inondato coi suoi raggi. Subito il beato Martino, essendogli accanto e vicino al suo letto, dopo averlo salutato gli chiese sue notizie. Ed egli rispose: «Starei bene se non fossi nell’incertezza riguardo alla vita di alcuni fratelli che mi si rimprovera di avere esiliato». 160. Il suo interlocutore riprese: «Non ti ricordi che alla loro partenza inviasti una preghiera a me, il tuo caro Martino, per raccomandarmeli in modo particolare? Ebbene! ecco che in nome di Cristo, proseguì, coloro che mi hai affidato sani e salvi nella tua preghiera, io te li rendo incolumi esaudendoti. Infatti questa notte la  passeranno nella parrocchia di Poncin; ma la prossima notte uno di loro arriverà qui fra noi per toglierci ogni apprensione».  L'uomo di Cristo si svegliò e, come se avesse visto (sulla loro strada) i fratelli assenti e li mostrasse a tutta la Comunità, predisse il giorno e l'ora del loro arrivo: esattamente come il santo di Dio gli aveva annunciato e come effettivamente subito ritornarono.

161. Quanto al fatto che riporterò nel seguito del mio resoconto, nessuno sarà incerto nel collegarlo ai miracoli del beato Martino; ma non so chi sarebbe così ignorante e stupido da non capire che i doni dei miracoli sono specialmente evidenti in quei luoghi dove i doni delle virtù si manifestano più facilmente perché gli uomini sono uniti nella loro fede. (Si sa infatti che) una notte il Signore permise che il santo di cui parliamo, Martino, fosse messo alla prova da un incendio in sagrestia, ma là fu valutato favorevolmente. La stessa cosa successe un tempo a Condat, dove tutto il monastero bruciò, senza che tuttavia l'olio di Martino fosse divorato dalle fiamme. 162. Eugendo sopportò (questa disgrazia) con tanta pazienza e serenità che la divina Provvidenza non tardò a rendergli non solo due volte più di quello che aveva perso in prodotti alimentari e abiti, ma anche dei locali tutti nuovi, costruiti in modo molto più pratico ed adatto di quanto non fossero quelli vecchi.

Come ho dunque detto, un certo giorno verso sera, bruciò tutto il monastero che era stato costruito in legno molto tempo prima. Esso era non solo costituito da un blocco di celle collegate tra di loro da una struttura, ma era stato raddoppiato di un piano ben strutturato. Fu in poco tempo così ridotto in cenere che, la mattina, non soltanto non restava più nulla della costruzione, ma persino il fuoco, alimentato da materiale secco, si era quasi interamente estinto.

 

 

163.  Cumque fratres illi, prout quisque sarculum securemve posuerat, ferrum re vera, quod solum exuri nequiverat, prunis eventilatis, inquirerent, ecce! Antidiolus sanctus presbiter prospicit ampullam cum oleo beati Martini, quae salutis gratia ad lectuli sui capitium dependebat, plenam clausamque, ut fuerat, post vasta incendia postque caenaculorum desuper ruentium ardentiumque ruinas ita integram ac stabilitam inter fumantes ignium residere favillas, ut tres condam pueros roscidis refrigeriis legimus in camino Persico claruisse. 164. Quae etiam ampullula cum oleo ipso ad virtutum testimonium odie usque in eodem monasterio servatur. Unde non amplius sub Eugendo sancto incendiali arbitror casui licuisse quam, ut diximus, beatissimo quondam cessisse Martino, vel postmodum Condatescenses monachos cum oleo virtuteque Martini reminiscimur evasisse.

165. Nam praeter ista, que ob meritorum virtutumque testimonium pauca perstrinximus, tam praecipua extant, que puritate spiritus, divina inluminatione praescivit, ut in corpore positus, iam quodammodo cum supernis virtutibus clarescere putaretur, adeo ut vice quadam venerabilem virum Valentinum eiusdem monasterii diaconum commoneret, secretius dicens: ‘Constat te, karissime frater, intra hos viginti circiter dies ex hoc saeculo ad praeparata premia migraturum. Et ideo quamlibet exutus peccatorum nexibus, paratus ad Dominum eas, moneo tamen, ut te ita circa clausulam vitae, dum tempus suppetit, profectuum conlatione ditifices, quo possis digna, ut vidi, acceptabiliorque hostia ex ara Christi adsumi. 166. Hac namque nocte vestitum te niveis linteis a sanctis patribus vidi cum psalmi sono in altare oratorii huius imponi. Igitur licet meritum qualitatemque tuae adsumptionis agnoscas, suadeo tamen, ut tibi interim addas, quod  possis illic felicitate perpetua possidere’. Cumque sermocinationem cum alacritatis lacrimis et oratione complessent, post decem circiter dies febricula levi correptus paulatimque inequalitate vexatus, cursum vite praesentis explicuit.

167. Ceterum ex cuiuslibet superventu persone ita per odoris flagrantiam fetorisque adflatum meritorum insignia dinoscebat, ut praesciret ilico, cui quis virtuti vel vitio subiaceret. Nam et adventus fratrum et secularium expetentium fidem prius saepe praedixit, quam ulla fratribus adventans praesentia nosceretur: ita tamen magnis eximiisque bonis exuberans, quod numquam se meliorem eminentioremque alteri vel leviter iudicavit; sed pietate refertus, non quid interim esset, sed quam longe a perfectione adhuc esset, quasi cunctis abiectior et infimus perpensabat.

163. Mentre i fratelli, disperdendo le braci, cercavano nel posto dove li avevano riposti, chi una zappa, chi un'ascia – ovviamente il ferro (di questi attrezzi), la sola parte non combustibile -, ecco che il santo sacerdote Antidiolo vede davanti a lui, sospesa come protezione sulla testata del suo letto, la piccola lampada contenente l'olio del beato Martino: era restata piena e chiusa come prima e, nonostante l’impeto di un vasto incendio e il crollo dei locali del piano superiore che precipitavano in mezzo alle fiamme, era rimasta intatta e immobile in mezzo alle ceneri fumanti. Così un tempo, stando a ciò che leggiamo, i tre giovani, protetti dal vento di rugiada, si coprirono di gloria nel forno persiano. (cfr, Dn 3,49-50) 164. Aggiungiamo che questa piccola lampada con il suo olio è conservata ancora oggi in questo stesso monastero, come prova di questi fatti miracolosi. Così, io credo che sotto sant’Eugendo la sventura di un incendio non ebbe più potere di quanto non ne avesse avuto in passato quando, come abbiamo detto, era arretrata davanti al beato Martino; e anche in seguito noi ci ricordiamo che i monaci di Condat vi sfuggirono grazie all'olio ed alla potenza di Martino.

165. Oltre ad alcuni fatti che abbiamo brevemente raccontato come prova dei suoi meriti e dei suoi poteri miracolosi, (sant’Eugendo) ci ha lasciato esempi così straordinari di profezia, dove la sua purezza d’animo gli valse l'illuminazione divina, che, fin dalla sua vita terrestre, sembrava già partecipare in qualche modo alla gloria fra le potenze celesti. A tal punto che un giorno andò ad avvertire il venerabile Valentino, diacono nello stesso monastero, dicendogli in grande segreto: «È certo, fratello mio carissimo, che tra circa venti giorni tu lascerai questo secolo per raggiungere i premi che ti sono stati preparato. Inoltre, per quanto tu sia libero dai vincoli del peccato, pronto per andare presso il Signore, ti esorto tuttavia così: dato che ormai sei vicino al termine, essendoti rimasto ancora del tempo, arricchisciti realizzando nuovi progressi per potere essere preso sull'altare di Cristo, come già ho visto, come un degno ed ancora più gradevole sacrificio. 166. Infatti io questa notte ti ho visto, durante il canto dei salmi, vestito di lino bianco come neve e collocato dai santi Padri sull'altare del nostro oratorio. Inoltre, sebbene tu conosca i tuoi meriti e tu sappia di quale qualità sarà il tuo passaggio, io ti invito tuttavia durante l’attesa ad aggiungere ancora (tesori) che tu possa lassù possedere nella felicità immortale». Terminata la conversazione con lacrime di gioia e nella preghiera, dopo circa dieci giorni il diacono è colpito da una leggera febbre, la malattia lo affligge lentamente ed il corso della sua vita terrestre si completa.

167. Inoltre, quando inoltre arrivava qualcuno (al monastero), (Eugendo), distingueva così bene i segni dei meriti della persona, dal soave profumo o dal ripugnante respiro che emanava, tanto da indovinare subito a quale virtù o a quale vizio fosse sottomessa. Spesso predisse tanto l'arrivo di fratelli che la fede di postulanti venuti dal secolo, ancora prima che la Comunità si accorgesse del loro avvicinamento. Per quanto sovrabbondasse di grandi e notevoli benefici, non si giudicò mai migliore degli altri o superiore a loro, neanche per poco ma, colmo di devozione, meditava non sul suo valore presente, ma su quanto fosse ancora lontano dalla perfezione, come (se fosse) il più spregevole e il più piccolo di tutti.

 

168.  Habebat autem, nimirum habitatore inlustrante, magnam et in vultu laetitiam; nam sicut illum tristem nemo unquam vidit, ita ridentem nullus aspexit. Non illi beatorum Antoni atque Martini gesta aut mores umquam labebantur ex animo. Numquam iste, ut de Antonio  refertur, aut ira subita patientiam rupit, aut humilitatem erexit in gloriam. Numquam laudatus ac beatificatus inflatus est; numquam vituperatus fractus est aut tristatus. 169. Tantum namque lectione reficiebatur, ut cum lectitaretur ad mensam, sepissime futurorum victus affectu, vel utin extasi positus, obliviscebatur adpositis; nam prae gaudio attonitus, peregrinationem praesentis vite dispiciens, municipatum  suspirabat in caelestibus praeparatum. Iste namque illic post priscis patribus legendi proprie invexit industriam.

170. Iste etiam, refutato archimandritarum orientalium instari, utilius omnes univit in medium. Distructis namque mansionum ediculis, uno cunctos  secum xenodochio quiescere fecit, ut quos causa unitae refectionis una claudebat aedicula, discretis quoque lectulis una ambiret et mansio, cui tamen lumen olei, sicut in oratorium, indeficiens noctibus prebebatur. Iste, inquam, abba sanctus nec mensulam suam, ut quosdam facere nuper audivi, nec victum umquam exceptavit a fratribus; omnium omnino omnia erant. 171. Non ille umquam imperio docuit, quod exemplo antea aut opere non complevit. Infirmis semper aut valde senibus clementissime obsequi fecit, adiciens quoque, ut ipsi illis e fratribus in necessitate servirent, quos egroti potissimum praelegissent; et non solum faciebat alimenta convenientia ministrari, verum etiam propter laborem infirmitatis, donec sanitas suppeteret, prestitit sequestratim reficere vel manere.

172. Nam et saeculi hominibus absque personali acceptione se praebuit; pauperibus vero adaeque ut divitibus osculum convictumque praestitit atque consessum, omni cautela iuxta patrum regulam servans, ne se conspectui adventantum laicorum vel propinquorum saltim iniussus monachus praesentaret. Si quid vero cuique fuit a proximis fortassis oblatum, confestim hoc abbati aut  economo deferens, nihil exinde absque paterno praesumpsit imperio.

 

168. Inoltre, portava sul suo viso una grande gioia, illuminato senza dubbio dall’Ospite che stava in lui; così nessuno lo vide mai triste, ma neppure qualcuno lo vide ridere. Le belle azioni e la condotta dei beati Antonio e Martino non uscivano mai dal suo spirito. Mai in lui, come si riferisce di Antonio,  in un accesso di ira si infranse la pazienza; mai si fece gloria dell’umiltà. Mai si gonfiò per gli elogi, o perché era considerato beato; mai si scoraggiò o diventò triste per un rimprovero. 169. La lettura gli procurava un tale conforto, che gli capitava molto spesso, durante la lettura nel refettorio, di essere soggiogato dall'amore dei beni futuri e di entrare in una specie di estasi, al punto di dimenticare gli alimenti posti davanti a lui; infatti veniva preso da una gioia profonda e, disprezzando la peregrinazione della vita presente, aspirava al diritto di cittadinanza preparato nella patria celeste. Del resto, è lui personalmente che prese l'iniziativa, sull’esempio dei vecchi Padri, di introdurre l'usanza della lettura (nel refettorio).

170. È sempre lui che, rifiutando l'esempio degli archimandriti orientali, trovò più utile che tutti (i monaci) vivessero in comunità. Dopo la distruzione delle piccole celle individuali, decise che tutti prendessero riposo con lui in un unico dormitorio: coloro che erano già riuniti in una sala comune per un pasto comune, volle riunirli anche in un dormitorio comune, essendo soli i letti separati; come nell'oratorio vi era una lampada ad olio che forniva la sua luce durante tutta la notte. Aggiungo che il santo Abate non ebbe mai un suo proprio tavolino, come ho recentemente appreso che fanno alcuni e non prese mai alimenti diversi da quelli dei fratelli; tutto, in tutto, apparteneva a tutti (at 4,32). 171. Non insegnò mai nulla d'autorità che non avesse compiuto prima con il suo esempio o con il suo lavoro. Nei confronti dei monaci malati o molto anziani, pretese sempre che ci si comportasse con estrema dolcezza, ordinando inoltre che i malati fossero serviti nelle loro necessità da quei fratelli che loro stessi avrebbero scelto di preferenza; e non solo faceva loro preparare delle vivande convenienti al loro stato ma, inoltre, per evitare loro le fatiche dovute alla debolezza,  permise loro di prendere i pasti separati e di restare in disparte fino al loro ristabilimento.

172. Inoltre, (nelle sue relazioni) con la gente del secolo, si rese sempre disponibile senza avere preferenze personali: abbracciava i poveri come i ricchi e tutti erano ammessi in sua presenza e potevano sedersi al suo fianco; conformemente alla Regola dei Padri, egli vigilava accuratamente affinché nessun monaco si presentasse senza il suo ordine alla presenza degli ospiti laici, fossero anche vicini parenti. Se un fratello riceveva un regalo dai suoi parenti, lo portava subito all'Abate o all’economo e si asteneva dal toccarlo senza l'ordine del Padre.

 

173. Cellam, armarium arcellamve nullus illic omnino habuit umquam; nulla cuique de necessitate exigua proprietate operandi dabatur occasio. Nam usque ad acum ipsam lanasque nitas etiam suendi consuendique cuncta prebebantur in medio, duminodo subtilissima fratribus deviandi eximeretur occasio. Inter haec autem omnia omnibus proprietatis causa solum legere licuit aut orare. Ceterum novit fraternitas cuncta, quod dico, numquam in coenobio declinandi delinquendique causas deesse maximas, ubi non propelluntur etiam minimae.

174. Et quia sermo attulit, ut de institutione patrum per imitationem beati Eugendi aliqua tangeremus iuxta promissum, quod memet praedixi tertio opusculo servaturum, prout memoriae, Christo inspirante, suggeritur, abrenuntiantum exordia primitus intimamus: sic namque, quod non illa omnino quae quondam sanctus ac praecipuus Basilius Capadociae urbis antistes, vel ea quae sancti Lirinensium patres, sanctus quoque Pachomius Syrorum  priscus abba, sive illa quae recensior venerabilis edidit Cassianus fastidiosa presumptione calcamus; sed ea cotidie lectitantes, ista pro qualitate loci et instantia laboris invicta potius quam Orientalium perficere affectamus, quia procul dubio efficacius haec faciliusque natura vel infirmitas exequitur Gallicana.

175. Igitur quia oratiuncula haec nostra instar gubernatoris trepiditante, institutionis pelagus contemplata, circumspiciens undique, portum silentii gaudet adtingere, paululum circa transitum gesta viri beatissimi referam.

Cum enim ultra sexaginaria aetate sex ferme mensibus praedictus pater inaequalitate corporea laboraret, sic tamen quod numquam canonico usque ad horam defuisset cursu, nec bis in die fesso corpusculo quoactus fuit aliquid inpertire, vocato ad se uno e fratribus, cui cum libertate peculiari olim etiam perunguendi infirmus opus iniunxerat, secretissime quoque sibi pectusculum petiit, ut moris est, perungueri. 176. Cumque, transacta nocte, de nocturna quoque quiete a nobis percontaretur, diluculo in lacrimis ac singultum aerumpens: ‘Parcat’, ait, ‘vobis omnipotens Deus, qui me tanta inequalitate constrictum non permittitis corporeis vinculis iam resolvi’.

At cum trepidi inter profluas lacrimas, convulsis quoque in corde singultibus, sileremus: ‘Domini’, inquit, ‘mei abbates Romanus ac Lupicinus propriis humeris feretrum ante hoc lectulum exhibentes, me quoque deosculatum atque conpositum elevantes, deferendum gestaturio inmiserunt. 177. Cumque elevatum in oratorium introferrent, concurrentibus vobis in hostio, violenter excussus, in hoc sum vobis lectulo reportatus. Et ideo rogo, si quid seni, si quid vero paternae pietati praestatis, ne me istic retinere diutius, sed tandem transire permittatis ad patres. Oro ergo omnes et obsecro, filioli, ut accepta ac tradita patrum in omnibus inviolabiliter instituta ad gaudium meum sanctorumque omnium ac vestrum ad palmam victoriae perducatis’.

178. Igitur cum verba inter lamenta nostra complesset, quinto admodum die huic ipsi lectulo idem in mausurio semet imponens, subito, tamquam dormiens visus, animam exalavit. Cuius sanctum ac beatum corpusculum inibi inter catervas filiorum ac fratrum, posteritatis quoque deserviente famulatu, venerabiliter est in Christi nomine consepultum.

179. His interim fidei fervorisque vostri sitim, o sanctissimi, exsatiatis tantisper desideriis, reficite, fratres. At si animas vestras, spreta dudum philosophia, rusticana quoque garrulitas exsatiare non quiverit, instituta, quae de informatione monasterii vestri, id est Acaunensis coenobii, sancto Marino presbitero insulae Lirinensis abbate conpellente, digessimus, desideria vestra tam pro institutionis insignia, quam pro iubentis auctoritate, Christo opitulante, luculenter explebunt.

 

173. Nessuno in monastero ebbe mai  per nessun motivo una cella, un armadio o una credenza (a sua personale disposizione). A nessuno era data l'occasione di lavorare per soddisfare la purché minima necessità personale. Infatti, fino ad un semplice ago ed ai fili di lana necessari alla cucitura ed al rammendo, tutto era messo a disposizione di tutti, in modo che fosse tolta ai fratelli la più tenue occasione di allontanarsi (dalla Regola). Fra tutte queste occupazioni soltanto due erano permesse a tutti per un profitto personale: la lettura e la preghiera. Tutti i fratelli sanno di cosa parlo: nella vita cenobitica non mancano mai le più forti cause d'errore o di colpa, quando non si eliminano anche le più piccole.

174. La nostra conversazione ci ha portati ad evocare alcune caratteristiche delle istituzioni dei Padri e l'imitazione che ne ha fatto il beato Eugendo. In accordo con la promessa che ho fatto prima, che io avrei riservato questi fatti a questo terzo piccolo lavoro, facciamo ora conoscere in primo luogo i primi passi di coloro che rinunciano al mondo, intanto che l'ispirazione di Cristo ce li richiama in memoria. Noi non abbassiamo per niente, con sdegnosa presunzione, le istituzioni un tempo promulgate dall’eminente san Basilio, vescovo della capitale della Cappadocia, o quelle dei santi Padri di Lérins, o quelle di san Pacomio, antico abate dei Siriani, o quelle che formulò più recentemente il venerabile Cassiano ma, pur leggendo ogni giorno quelle Regole, è questa (del monastero di Condat) che ci preoccupiamo di seguire, perché fu senza dubbio introdotta in funzione del clima del paese e delle esigenze del lavoro e perché la naturale debolezza dei Galli la segue più efficacemente e più facilmente, piuttosto che quelle  degli Orientali.

175. Ed ora che il nostro modesto discorso, dopo avere contemplato il vasto mare di una (così grande) istituzione, come un  tremante timoniere, voltando lo sguardo dovunque, gioisce per aver raggiunto il porto del silenzio, riporterò brevemente i fatti riguardanti il transito del beato uomo.

Il Padre (Eugendo) di cui abbiamo parlato prima, che aveva già superato la sessantina, da sei mesi circa soffriva di una malattia, senza tuttavia avere mai mancato neanche per un'ora agli uffici canonici e senza che si potesse indurlo a concedere al suo povero corpo esaurito qualche alimento oltre una volta al giorno; ed ecco che chiama a sé uno dei fratelli, al quale aveva già in passato affidato in tutta libertà l’incarico di amministrare l'unzione ai malati e nel più grande segreto lo prega di fargli anche un'unzione sul petto, secondo l'uso. 176. Passata la notte e sul far del giorno gli chiedevamo come avesse riposato durante la notte ed egli scoppiò in lacrime ed in singhiozzi: «Che Dio onnipotente, disse, vi perdoni perché cercate di impedire che io sia in fretta liberato dalle catene del mio corpo, malato come sono».

Noi, tutti tremanti e versando abbondanti lacrime, scossi anche dai singhiozzi dei nostri cuori, tacevamo. «I miei signori Abati Romano e Lupicino, continuò, hanno portato sulle loro spalle e davanti a questo letto una barella; dopo avermi abbracciato e dopo aver sistemato il mio corpo, mi hanno sollevato e messo sulla portantina per portarmi via. 177. Mentre costoro mi introducevano nell'oratorio tenendomi sulle loro spalle, voi siete accorsi sulla porta, mi avete strappato loro con violenza e mi avete riportato su questo letto. Dunque vi supplico, se avete qualche riguardo per un vecchio, o per un padre che vi ama, non trattenetemi qui più a lungo, ma lasciate infine che si compia il mio passaggio presso i Padri. Prego dunque e scongiuro tutti voi, miei piccoli figli, affinché osserviate la Regola dei Padri, inviolabile in qualsiasi punto, che avete ricevuto e che vi è stata trasmessa. In questo modo farete la mia gioia, farete quella di tutti i santi e la vostra, e vi condurrà fino alla palma della vittoria».

178. Aveva finito di parlare in mezzo ai nostri lamenti. Esattamente cinque giorni dopo si stendeva senza aiuto su quello stesso letto nel dormitorio quando, improvvisamente, sembrò addormentarsi e rese l'ultimo sospiro. La sua spoglia santa e beata fu seppellita con grande rispetto e in nome di Cristo nel monastero stesso, in mezzo alla moltitudine dei suoi figli e dei suoi fratelli di Condat, dove i loro devoti discendenti continuano a servirlo.

179. Saziate per il momento (a queste fonti), fratelli santissimi, la sete della vostra fede e del vostro entusiasmo, essendo per il momento soddisfatti i vostri desideri. Ma se le vostre anime, già piene di spregio per la filosofia, non possono soddisfarsi neppure di queste rozze chiacchiere, allora le Istituzioni che abbiamo redatto riguardo alla forma di vita del vostro monastero, cioè della Comunità di Agaune, su richiesta del santo sacerdote Marino, abate di Lérins, colmeranno magnificamente, con l'aiuto di Cristo, tutti i vostri desideri - sia a causa dell’insigne carattere di questa istituzione, che a causa dell'autorità di colui che mi ha chiesto (questo lavoro).


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7 aprile 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net