LA REGOLA DEL MAESTRO
LA SUDDIVISIONE DEL TEMPO
Estratto e tradotto da 
 
"La Règle du Maître. 
Introduction, texte, traduction et notes par Adalbert de Vogüé. 
Sources Chrétiennes 105–7. Paris: Cerf, 1964–65
Non ci sono molte variazioni dell’orario durante l'anno. Una divisione molto 
semplice presiede al regime delle veglie, dei digiuni e del lavoro. L'anno è 
diviso in due: l'inverno va dall'equinozio invernale (si intenda: d’autunno) 
fino a Pasqua: l'estate inizia a Pasqua e termina all'equinozio (24 settembre). 
Troviamo delle tracce di un sistema più antico, dove l'equinozio di primavera 
equivaleva a quello d'autunno, come data del cambio di stagione 
[1]. 
Questo sistema primitivo e più coerente è stato adattato, per ovvie ragioni, al 
ciclo pasquale che governa l'anno liturgico.
L'Ufficio divino risente di questa divisione solo durante le ore notturne e 
molto poco ai Vespri 
[2]. 
Il numero delle antifone dette ai Notturni va da 9 in estate a 13 in inverno. 
Inoltre, l’orario 
della 
fine della notte è diverso: in inverno, i Notturni vengono recitati interamente 
prima che il gallo canti all'inizio della quarta veglia (intorno alle 3 del 
mattino), ed i Mattutini, cantati all'alba, sono separati dai Notturni da un 
tempo libero. D'estate, invece, non si
dicono i Notturni se non dopo che il gallo ha cantato e subito dopo si 
congiungono i Mattutini. Un tempo di sonno separa poi i Mattutini da Prima.
Il regime dei digiuni è in linea di principio uniforme durante tutto l'anno, 
almeno per gli adulti in buona salute e che vivono in comunità 
[3]. 
Per questi casi normali, Natale e Pasqua sono le uniche date significative 
quando si tratta di orario dei pasti. Tuttavia, la divisione dell'anno in due 
stagioni, inverno ed estate, gioca in realtà un ruolo considerevole. In effetti, 
è secondo questa divisione che varia il regime di due categorie di religiosi: i 
fanciulli (RM 28,19-25) ed i viaggiatori (RM 28,27-36).
Come l'Ufficio divino ed il regime dei digiuni, l'orario della giornata 
lavorativa dipende dalla stagione. In inverno, il tempo della lectio è 
tra Prima e Terza; in estate è rinviato tra Nona e Vespri (RM 50,9-17 e 62-64). 
La lectio si svolge così, a seconda della stagione, sia all'inizio della 
giornata che alla fine. Il resto della giornata è occupato dal lavoro manuale. 
L'estate porta con sé un altro cambiamento di programma: si fa una siesta 
all’ora sesta, qualunque sia l’ora del pasto (RM 50,56-60. Cfr. RM 29,1).
Tale è, nella sua grande semplicità, il ciclo annuale organizzato dalla nostra 
regola. Per capirlo bisogna tener presente un fatto cruciale: l'ora, 
nell'antichità, non è un periodo di tempo uniforme, ma una quantità che varia 
continuamente. Il giorno e la notte sono divisi ciascuno in dodici ore. 
All'equinozio, essendo uguale la durata del giorno e della notte, anche l'ora 
del giorno e l'ora della notte sono uguali. Ma dopo quella data il divario tra 
il giorno e la notte, quindi tra l’ora diurna e l’ora notturna, continua a 
crescere. Al solstizio, dove questa differenza è maggiore, l'ora diurna (circa 
80 minuti) è doppia rispetto all'ora notturna (circa 40 minuti) o viceversa 
(alla latitudine di Roma all’incirca. Ndt.). Di conseguenza, la giornata 
lavorativa è più lunga e faticosa in estate, mentre la notte è più breve e meno 
riposante. Questo fatto spiega sia la mitigazione del digiuno che quella delle 
veglie durante questo periodo. Quanto alla lectio, il Maestro stesso 
giustifica le sue variazioni stagionali con considerazioni di calore e di 
frescura (RM 50,9 e 40).
Il ritmo semestrale dell'anno monastico si basa quindi su ragioni pratiche. 
Poiché l'orario non è artificioso, ma solare, si tratta di evitare lo squilibrio 
che la disuguale durata della giornata provocherebbe a seconda delle stagioni. 
Tuttavia, questa alternanza stagionale entra in combinazione con un altro ritmo, 
di origine e significato religioso: quello della preparazione alla Pasqua e 
della celebrazione di questa festa. Poiché la Pasqua non è lontana 
dall'equinozio di primavera, la grande festa cristiana è stata fatta coincidere 
con il passaggio dall'inverno all'estate. Il ciclo pasquale, con il suo 
satellite del Natale, esercita la sua influenza solo sull'orario dei pasti e sul 
canto dell'alleluia 
[4]. 
Non influisce sull'Ufficio notturno e sulla giornata lavorativa, tranne che in 
Quaresima per l’aggiunta di "preghiere pure" tra le ore dell’Ufficio.
La Pasqua è quindi la festa in cui i due sistemi si incontrano. Essa segna sia 
il cambio di stagione che il cambio del tempo liturgico. Per apprezzare appieno 
la coesione di tutto questo, occorre notare che il ciclo del Natale si collega a 
quello della Pasqua. Il giorno dell'Epifania è insieme la chiusura del periodo 
natalizio e l'apertura della preparazione alla Pasqua. Il giorno dopo la festa 
dell’Epifania inizia la centesima Paschae, con l’eliminazione 
dell'alleluia. Così tutto l'anno, nel suo doppio ritmo cultuale e stagionale, 
ruota intorno alla festa di Pasqua.
Quanto alla settimana, il suo polo è la domenica, con la grande veglia per tutta 
la notte, la celebrazione eucaristica, il pasto di sesta e la cena, il canto 
dell'alleluia come a Pasqua. Gli altri giorni hanno ciascuno la propria 
fisionomia. Il giovedì gode degli stessi privilegi della domenica in termini di 
digiuno, tranne durante la Quaresima. In effetti esso ricorda l'Ascensione di 
Signore, proprio come la domenica commemora la sua Risurrezione. A questo 
proposito si invoca l'autorità “romana” di papa Silvestro 
[5]. 
Al contrario, tre giorni feriali
hanno il privilegio di un digiuno più rigoroso, sia per l'intera comunità al 
tempo della sessagesima (sessanta giorni prima di Pasqua) (RM 28,9-12), sia per 
i fanciulli che per i viaggiatori in periodi diversi (RM 28,19-3 e 61,6-19). 
Questi tre giorni di penitenza sono il mercoledì, il venerdì ed il sabato. I 
primi due appartengono all'uso della Chiesa universale. In compenso, il digiuno 
del sabato è un'usanza particolare di certe Chiese. Nel VI secolo Roma si 
distingue per questa usanza 
[6]. 
È possibile che la RM manifesti su questo punto la sua origine romana, o almeno 
italiana 
[7].
Infine, il giorno (dies) può essere inteso sia come il periodo in cui il 
sole è sopra l'orizzonte (RM 34, 5-11), sia quando c'è appena appena la luce del 
giorno (RM 34, l-3) 
[8]. 
Inteso come durata legale di ventiquattro ore comprendente un giorno ed una 
notte, il giorno inizia con il "canto del gallo" (RM 53,47). Se il Maestro 
intende con questo un momento della quarta veglia 
[9], 
egli si allontana dall'uso profano che fa partire il dies ciuilis a 
mezzanotte 
[10].
Essendo tali le divisioni del tempo naturale, dobbiamo anche specificare i 
limiti dei diversi tempi liturgici. La Quaresima inizia sei settimane prima 
della Pasqua. Ogni settimana comporta sei giorni di digiuno. Si ottiene così un 
totale di 34 giorni, perché la Quaresima propriamente detta termina il Giovedì 
Santo (RM 53,26-33). Tuttavia, il Maestro vuole raggiungere il numero di 40 
giorni di digiuno. Per ottenere ciò, prescrive il digiuno tre volte alla 
settimana a partire dalla sessagesima 
[11]. 
Questa anticipazione del digiuno quadragesimale sembra localizzare il nostro 
testo vicino a Roma o in Provenza nella prima metà del VI secolo 
[12]. 
D'altra parte, l'astinenza si intensifica con la tricesima e la 
uicesima 
[13]. 
Per quanto riguarda il tempo pasquale, va dal sabato prima di Pasqua al sabato 
prima della Pentecoste. A questo proposito, il Maestro rileva un uso 
ecclesiastico che sarebbe anch’esso ben localizzato nella regione romana 
all'inizio del VI secolo (Cfr. Nota 2).
La preparazione al Natale, modellata su quella della Pasqua, prevede 8 giorni di 
penitenza 
[14]. 
Per quanto riguarda i giorni tra Natale e l'Epifania, si celebrano come nel 
periodo pasquale 
[15].
[1] 
In RM 33,28 si parla di equinozio invernale e di equinozio di primavera 
come date di cambio stagione. Questa reminiscenza è stata cancellata in 
RM 33,10 e 35 dove si parla di equinozio invernale e di Pasqua, anziché 
di equinozio di primavera.
[2] 
RM 34, 12-13; 36,10; 50,62 e 70: i Vespri sono recitati in ore 
particolarmente avanzate in estate. 
[3] 
RM 28, 1-8. Così non è per gli adulti malati che anticipano di tre ore 
il tempo del pasto (RM 28,13-18).
[4] 
Notiamo che, secondo il Maestro, l’usanza delle Chiese è quella di far 
smettere l’alleluia alla Pentecoste (RM 28,44-46). Questa limitazione 
dell’alleluia al tempo pasquale è attestata a Roma all’inizio del VI 
secolo da Giovanni Diacono (825-880), Epistola ad Senarium 13, PL 
59, 406, mentre altre Chiese, secondo lo stesso autore, la cantano tutto 
l’anno. Papa Gregorio I ha esteso il canto dell’alleluia ad altri 
periodi nella liturgia romana (Epistola 9, 12, PL 77, 956). Da 
questa indicazione del Maestro possiamo forse avere un indizio della 
localizzazione e della datazione della Regola. Cfr. J. Froger, 
“L’alleluia nell’uso romano e la riforma di san Gregorio”, in 
Ephemerides Liturgicae 62 (1948), pag. 6-48. Possiamo anche notare 
che l’Africa, secondo la testimonianza di Isidoro di Siviglia (560-636) 
(De ecclesiasticis officiis, I, 13,3, PL 83, 750-751), riservava 
anch’essa l’alleluia al tempo pasquale, a differenza della Spagna.
[5] 
RM 28,43 cita gli Actus S. Silvestri, racconto che appartiene al 
leggendario romano. La dispensa del digiuno è anche attestata in Gallia 
nei secoli V e VI. Si veda la Vita S. Genouefae (BHL 3335), AS 
Jan. I, pag. 139, c. 4, Venazio Fortunato, Vita S. Radegundis 
23, PL 88, 507 a.
[6] 
Giovanni Diacono (825-880), Epistola ad Senarium, 113, PL 59, 406 
b.
[7] 
Le monache di Arles digiunano il lunedì, non il sabato. Si veda Cesario 
d’Arles, Regula ad virgines 67.
[8] 
La durata di 24 ore, di cui noi parliamo in seguito, non è espressamente 
chiamata dies dal Maestro.
[9] 
Così lo intende Plinio il Vecchio (23-79), Hist. Nat. X, 21. Si 
veda (G. Humbert, art. Dies in Daremberg-Saglio, Dict. des 
Antiq., T. II, p. 170, n. 67. Si noterà tuttavia che i romani sono 
ben lungi dal dare sempre all’espressione questo preciso valore (G. 
Humbert, ibid., n. 57-65). Secondo RM 49, 2 (usque dum secundo 
fuerit gallus auditus), si sarebbe tentati di credere che il canto 
del gallo non sia per il Maestro una divisione matematica della notte, 
ma un segnale uditivo realmente dato da questo volatile. Si 
raggiungerebbe così il significato che sembra dare Arnobio il Giovane (V 
secolo), In ps. 129, PL 53, 531 c: tertia (custodia, uigilia) 
pullorum cantus transit, il canto del gallo avviene durante la terza 
vigilia, non all'inizio della quarta. (Si noti di sfuggita pullorum 
cantus in questo Africano residente in Italia: perché dunque vedere 
in questa espressione un'indicazione dell'origine gallica? Cfr. Corbett,
The latin, p. 240). In ogni caso, il ruolo del canto del gallo 
come punto di partenza della giornata è confermato dalle sezioni che 
fanno iniziare a benedictionibus dictis la dispensa dalla 
genuflessione ed il canto dell'alleluia nei giorni di festa, nonché 
dalla sezione usque ad futuros nocturnos per la fine di questi 
segni di gioia. Quest'ultima sezione può essere volutamente ambigua 
(compresi o non compresi i Notturni, a seconda che vengano detti prima o 
dopo il canto del gallo).
[10] 
Plinio, Hist. Nat., II, 78, citato da G. Humbert, l.c., p. 168, 
n. 3. Secondo RM 33, 4-6, sembrerebbe che il pullorum cantus sia 
equivalente agli occhi del Maestro a mezzanotte, ora simmetrica alla 
sexta hora del giorno. Ma anche qui pullus (33, 3) orienta 
piuttosto verso un segnale uditivo dato dal gallo. Inoltre, un servizio 
notturno prima della mezzanotte in inverno sarebbe poco verosimile. La 
soluzione della difficoltà risiede indubbiamente nel fatto che il canto 
del gallo, posto durante la terza veglia (vedi nota precedente), è 
praticamente considerato come il segnale della mezzanotte e dell'inizio 
della giornata legale. Questo modo di concepire il gallorum cantus 
come l'equivalente della mezzanotte sembra essere condiviso da Cassiano,
Conlationes 21, 25 (digiunare fino al canto del gallo significa 
digiunare mezza giornata) e Ordo Romanus XV, 9-10 (Andrieu, III, 
97, 2-7), dove i manoscritti esitano tra media nocte e 
adpropinquante gallorum cantu (Cfr. ibid., 69, Andrieu, III, 
110, 9: medium noctis tempore). Il testo di Arnobio citato nella 
nota precedente potrebbe inoltre essere inteso nel senso che il 
pullorum cantus è l'inizio della terza veglia, anche se il 
significato sopra proposto sembra più naturale (transit).
[11] 
RM 28, 9-12. Questa anticipazione fornisce sei giorni di digiuno 
supplementari.
[12] 
Si veda J. Froger, "Les anticipations du jeûne quadragésimal", in 
Mélanges de science catholique 3 (1946), p. 207-234. Cesario d’Arles 
parla di ante duas hebdomadas ante quadragesimam (Reg. ad Mon. 
22) e di anteriorem hebdomadam quadragesimae (Reg. ad Virg. 
67). Il IV Concilio di Orleans (541) condanna entrambi con i nomi di 
sexagesima e di quinquagesima (Can. 2, Bruns, p. 202), 
prendendo di mira la regione provenzale. Per l'Italia si veda 
l'Epistolario di Vittore di Capua (541-554), riprodotto da H. Leclercq, 
art. Lectionnaire, in DACL (Dictionnaire d'archéologie 
chrétienne et de liturgie), VIII-2, 2277. Nella stessa Roma, la 
sessagesima è attestata dai più antichi Evangeliari, intorno alla metà 
del VII secolo. Si veda Th. Klauser, Das römische Capitulare 
Evangeliorum, Münster 1935, p. 19 (n° 52). Già la stessa 
settuagesima, almeno come solennità liturgica, esisteva a Roma al tempo 
di Gregorio I.
[13] 
RM 53, 3-4. Si veda C. Callewaert, « Les origines de la micarême », in
Sacris Erudiri, Steenbrugge, 1940, pag. 591-599. La uicesima 
o mezza-quaresima è molto conosciuta fin dai più antichi documenti 
mozarabici. La si trova anche nel Lezionario di Aniane. A Roma è 
attestata dal Comes di Würzburg, così come la tricesima. 
Si veda anche l’Ordo Romanus XV, 81 (Andrieu, III, 115, 1).
[14] 
RM 45, 4-7. Questa pratica ricorda l'usanza priscillanista condannata 
dal concilio di Saragozza (380), Can. 4 (Bruns, pag. 13), benché il 
digiuno non sia espressamente segnalato da questo concilio e che il 
periodo di penitenza si estende fino all'Epifania. Da parte sua, il 
monaco spagnolo Bachiario, circa nel 400, raccomanda tre settimane di 
digiuno e di preghiera comprendendo le feste di Natale e dell'Epifania 
(PLS (Patrologia Latina Supplementarium) I, 1042-1043). Sembra dunque 
che questa "quaresima di Natale" prescritta dal Maestro sia 
un'osservanza di origine spagnola. Ogni traccia di significato eretico è 
d'altronde scomparsa nella nostra regola. Si rapportino questi otto 
giorni prima di Natale ai sette giorni prima dell'Epifania prescritti da 
Cesario (si veda la nota successiva).
[15] 
RM 45,2-3. Questa celebrazione è nettamente contraria all'osservanza 
penitenziale attestata in Spagna alla fine del IV secolo (si veda la 
nota precedente). Essa si oppone ugualmente alle prescrizioni di Cesario 
d'Arles: digiunare tre volte alla settimana partendo da Natale (Reg. 
ad Mon. 22); digiunare sette giorni prima dell'Epifania (Reg. ad 
Virg. 67). In compenso, la stessa dispensa dal digiuno è accordata 
dal II concilio di Tours (567), Can. 17 (Bruns, pag. 229).
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31 dicembre 2020                a cura 
di Alberto "da Cormano"    
   
      
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