Regola di S. Benedetto

Capitolo II - L'abate: 23 Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell'apostolo: "Correggi, esorta, rimprovera 24 e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre.

Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante il giorno: 1 "Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta... 5 Dunque in questi tempi innalziamo lodi al nostro Creatore "per le opere della sua giustizia" e cioè alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: 20 E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola 21 per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni: 22 "In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti i suoi beni".

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: 1 L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. 2 Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente:..

 


 

UN TEMPO PER OGNI COSA
SOTTO IL CIELO

Joan Chittister O.S.B.

Capitolo XVIII Finale del libro “Un tempo per ogni cosa… o ogni cosa a suo tempo?”- Ed. Paoline 2015

 


 

 

Tutto ha il suo momento,

e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare

e un tempo per sradicare quel che si è piantato.

Un tempo per uccidere e un tempo per curare,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare

e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per conservare e un tempo per buttar via.

Un tempo per strappare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

 

Libro di Qoèlet 3,1-8

 

 

Il tempo, ha scritto il burlone sul muro, è il modo con cui la natura impedisce alle cose di accadere tutte insieme. Forse tutta la filosofia del mondo stava racchiusa in un graffito, un tempo. In ogni caso, anche non fosse così, questo pezzo di graffito si qualifica come alta filosofia. La sua verità placa l’animo per un momento, ci permette una sosta, ci fa aprire gli occhi sulla verità del temporale nello sviluppo spirituale di una persona. Il tempo ci conduce da una situazione all’altra nella vita, una dopo l’altra, finché alla fine le abbiamo vissute tutte. Il valore di una vita, tuttavia, si misura non dal fatto che abbiamo speso il numero particolare di giorni destinati a noi, ma che nello spenderli, abbiamo vissuto una vita davvero intensa. Ma cosa significa veramente?

Vivere bene una vita è come far avanzare una barca a remi in un oceano. Non abbiamo scelta. Possiamo entrare in acqua e batterci contro ogni ondata che passa, resistere a ogni risacca, affrontare ogni onda morta, lottare contro ogni corrente finché non andiamo a pezzi, oppure possiamo lasciarci andare nell’acqua, lasciandoci sballottare da essa, trascinare da essa, massaggiare e picchiettare da essa finché, esausti, finiamo arenati nel luogo dove avevamo sperato di arrivare.

La vita è una melodia selvaggia e affascinante. Per vivere bene un’esistenza, possiamo unirci alla danza della vita, muoverci verso la sua magica musica, lasciarci coinvolgere dal suo ritmo, cantare i suoi canti tristi, oppure possiamo sederci risentiti e osservare tutto questo movimento, sempre estranei alla cadenza richiesta e ai molteplici stili che essa ci sfida a raggiungere. In entrambi i casi possiamo lasciarci andare nella corrente, oppure resistere fino in fondo alla conclusione amara. Possiamo imparare da essa o rifiutarla completamente. C’è solo una cosa che non possiamo fare nella vita: ignorare le sue lezioni.

La vita è una maestra implacabile. E la vita insegna implacabilmente.

Tuttavia, la lezione con cui non vorremmo assolutamente aver a che fare, il messaggio che rifiutiamo con più determinazione, il concetto che non siamo disposti ad accettare si profila preoccupante in Qoèlet. Se questo libro avesse anche un solo significato, sicuramente sarebbe questo: la vita non è lineare, la vita non è piana. Tutte queste cose - vita e morte, amore e riso, guadagno e perdita - accadranno in ogni vita. Sono vita. Non saremo in grado di evitarle. Non saremo così intelligenti da evitarle. No! Lo scopo della vita non è una vita da nani, a dimensione del nostro io nano. Lo scopo della vita sta nell’imparare a godere di ogni parte vertiginosa, a sopportare ogni sforzo costoso, far fronte a ogni ostacolo estenuante, imparare da ogni segmento privo di colore, ad allungarci, gemere e crescere, sfruttandola fino a esaurimento.

Tutti i nostri sforzi per controllare la vita, per bloccarla secondo le nostre specifiche, per interrompere il suo procedere verso la morte e il morire gridano «Sciocchezze!» per chi è veramente saggio. Quando viviamo fuori del tempo - quando insistiamo a fare i quarantenni mentre ne abbiamo sessanta, a fare il teenager mentre siamo di mezza età, le giovani mogli e madri mentre siamo mezze morte, a fare l’adolescente mentre siamo di mezza età - noi vanifichiamo il presente. Perdiamo il momento.

Noi non possiamo ingabbiare la vita. Non possiamo congelare sotto vetro il giorno felice che viviamo oggi. Non possiamo inchiodarlo come una farfalla dentro una cornice. No! La vita è inesorabilmente in movimento, sia che andiamo con essa o meno. Essa oscilla, barcolla e zoppica. Oscilla dall’alto al basso a un passo spesso troppo agitato da seguire, talvolta troppo lento da sopportare. La vita non è un esercizio di ibernazione mentale. Non siamo nati per collezionare «esperienze di punta». Siamo nati per ricordare i pochi grandi momenti che avremo, in modo che quando arriveranno i giorni uggiosi, come devono arrivare, non deprimano i nostri spiriti fino al punto di vivere morti.

Il mito della vita vissuta in equilibrio persiste nelle menti di molti, ma seduce solo i deboli di cuore. La persona coraggiosa sa che la vita richiede una notevole capacità di resistenza. Le giovani vedove conoscono il morso della vita. I vecchi inventori ne conoscono l’aroma piccante. Le donne di mezza età ne conoscono l’andatura. Le giovani coppie ne conoscono l’eccitazione. Gli uomini di mezza età ne conoscono le false promesse. I bambini ne conoscono la parzialità: molti crescono vigorosamente per un po’, mentre altri combattono incessantemente.

Grazie a tutto questo, quali che siano le sue giravolte e i suoi cambiamenti di direzione strada facendo, la vita ci lascia un’immagine incisa a fuoco nei nostri cuori di anziano sereno, di quello saggio e di quello maturo, di quelli che hanno combattuto la battaglia e l’hanno trovata stimolante, di saggio la cui saggezza ha lasciato il segno in dolcezza, di quello forte che ha imparato come perdere. Chiaramente, alla fine della giornata, la vita si mostra estremamente gentile. Se non le opponiamo resistenza, se accettiamo di danzare senza sottrarci e fino in fondo, anche noi potremo arrivare alla sua conclusione maturi e forti, amabili e sorridenti, ballando e roteando in santa esaltazione per quello che abbiamo imparato, per quello che siamo diventati e non sarebbe stato possibile senza la nostra ricetta particolare, amalgamando sofferenza e gioia perfetta in proporzioni giuste.

Nella centrifuga della vita, ci sono forze attorno a noi e in noi sulle quali non abbiamo il controllo. Come nella ceramica, l’unica tra le arti in cui l’artista cede la fase finale del processo creativo alla forza incontrollabile del fuoco del forno di cottura, il calore della vita al quale ci opponiamo inciderà sulle nostre forme e la lucentezza finali. La nostra vita non solo la viviamo noi, la viviamo in noi, la viviamo su di noi, la viviamo nonostante noi, e la viviamo a causa di noi. Le dinamiche della vita dipendono da quello che portiamo loro e anche da quello che prendiamo da loro. Nulla assomiglia a un momento insignificante.

La vita è una cosa che cresce e va dal seme all’alberello, da Erode a Pilato, di qua e di là, avanti e indietro, ma sempre, sempre verso il suo obiettivo: dare forma all’io fino a che diventi una persona di qualità, compassionevole e gioiosa. Perché questo accada, ogni più piccolo segmento deve essere affrontato e non può essere trascurato. La vita non è controllabile, è solo fattibile.

Per questo, la danza della vita è davvero conservare la pulsazione della vita, raggiungere l’intimo di ognuna delle sue dimensioni, di tutti i suoi elementi. Chi ha vissuto bene? Chi ha succhiato il succo della vita in ogni periodo della sua crescita. Qual è la persona felice? Quella che è sopravvissuta a ognuno di questi elementi e si è ritrovata a essere più umana, più saggia, più gentile, più giusta, più flessibile, più integrata avendo vissuto in quel periodo di tempo, quel momento definito, quella fase di sopravvivenza, quel breve periodo di consapevolezza purificante.

Nessun dubbio in proposito: il ciclo del tempo modella e rimodella il nostro io deforme finché abbiamo l’opportunità di diventare quello che possiamo.

C’è un tempo per uccidere tutto ciò che dentro di noi vincola il nostro animo impedendogli di volare liberamente. Ci vogliono pazienza e dosi terribili di verità ma, per chi persevera, la prospettiva è una di quelle piacevoli e le cui promesse non conoscono fine.

C’è un tempo in cui astenersi dall’abbracciare i modelli di pensiero e le convenzioni della vita che soffocano l’animo. Vivere sotto l’occhio di Dio richiede una visione più chiara e una direzione più vera.

C’è un tempo per seminare i semi che daranno raccolto solo alla generazione futura, forse, ma sono necessari adesso. I seminatori incontrano un’accoglienza circospetta da parte delle persone soddisfatte del mondo, ma dobbiamo seminare se vogliamo che il mondo nuovo produca qualche frutto.

C’è un tempo per piangere lacrime di dolore e lacrime di lutto per onorare la dipartita di quelle cose e di quelle persone che nella vita ci hanno fatto arrivare dove siamo. Ci sono anche tempi per lamentarci del presente, certamente non per rotolarci in esso ma per chiamare a raccolta l’energia necessaria per cambiarlo

C’è un tempo per abbracciare i beni della nostra vita con grandi abbracci che spalancano i nostri corpi e riempiono i nostri cuori di luce. Questi sono i momenti che infondono energia per il viaggio e barlumi del suo valore.

C’è un tempo per raccogliere, per lavorare senza sosta e produrre senza compenso, se necessario, affinché quello che deve essere fatto possa essere fatto. Solo chi è impegnato nell’arduo lavoro di sviluppare le impegnative cose del presente ci dà qualche speranza di raccogliere il futuro. «Non sei obbligato a completare il tuo lavoro, ma non sei libero di lasciarlo», insegna il Talmud.

C’è un tempo per gloriarsi delle conquiste della vita, per attraversare la vita a testa alta, raccogliendo mentre procediamo, accumulando i suoi beni e ridendo per tutto il tempo. Allora, e solo allora, tutti gli altri momenti acquistano senso. Allora la vita mostra il suo volto dorato, e dopo di quello alcuno sforzo è possibile.

C’è un tempo per amare, un tempo per trovare se stessi in qualcun altro così da poter trovare noi stessi. L’amore ci mette in connessione con il resto del mondo. Quando si è amato qualcuno del tutto, è più difficile odiare. L’amore ci fa maturare e ci rende liberi da noi stessi.

C’è un tempo per perdere e un tempo per lasciar andare tutto ciò che ci ha resi prigionieri nella vita. La perdita aspira il centro dell’anima e ci dà la possibilità di ricominciare. È un tempo duro, un tempo di verità che ci insegna molte cose su noi stessi e ancor più sulle cose essenziali della vita.

C’è un tempo per stare al mondo con freschezza e in pienezza, senza le vecchie idee, le vecchie forme, le vecchie strutture. C’è un tempo per ricominciare, per guardare verso dove stiamo andando più che da dove veniamo.

C’è un tempo per ridere, per lasciarci andare in barba alle buone maniere e alle vecchie pomposità e unirci alla maldestra e sciocca razza umana. Quando ridiamo, rischiamo personalmente, ma ne usciamo più sani di quanto eravamo prima dell’esplosione di luminosità che lo humour porta.

C’è un tempo per morire, per porre un termine alle cose, per fermare la giostra, per arrenderci alle forze del tempo e fidarci. Solo quando siamo disponibili a lasciare che le cose muoiano nella vita, solo allora le cose possono cominciare per noi. Morire ogni giorno un po’ al vecchio, all’inutile, a quanto abbiamo lungamente amato ma ormai da tempo è andato, è una delle conquiste maggiori della vita. «Amico, sono morto così poco oggi. Dimenticami», ha scritto Thomas Lux (Ndr.: Poeta americano, (1946-2017)).

C’è un tempo di guerra, per combattere contro le forze destinate a produrre distruzione e a massacrare la gente come facente parte dei «danni collaterali» e che, nella loro ricerca della tecnologia della morte, dimenticano i comandamenti della vita. «Quello che il mondo si aspetta dai cristiani è che parlino, parlino forte e chiaro... Essi dovrebbero lasciar da parte l'astrazione e affrontare il volto insanguinato che la storia ha assunto oggi», mette in guardia Camus. Questa è la nostra guerra. Questo è il tempo della nostra guerra.

C’è un tempo per curare noi stessi le ferite che gravano su di noi e che ci impediscono di farci carico delle nostre vite. Lasciarci in mano alle reazioni altrui, lasciare che la nostra bella impressione dipenda dalle loro ci lascia in balìa dell’infelicità. La vita va vissuta, e finché non possiamo curare noi stessi, non potremo mai essere davvero sani.

C’è un tempo per edificare, per costruire il mondo nuovo e un globo solidissimo cosicché ciò che lasciamo dietro di noi sia migliore di ciò che abbiamo ricevuto. In un mondo di miseria e povertà, fame e oppressione, società patriarcale e militarismo, i costruttori scarseggiano, reperti rari e preziosi per lo scopo finale.

C’è un tempo per la pace, per fare i conti con i demoni che stanno dentro di noi, per spuntarla su di loro e appianare le difficoltà così da poter diffondere la pace come velluto, vivere la pace come piuma e diventare pace come una fragranza che non conosce limiti.

E a chi toccano tutte queste cose? Qoèlet è molto chiaro sulla questione: tu e io non abbiamo scelta. Il compito è nostro. Proprio per sua definizione la vita ci chiede questo. E sono quelli come noi così validi da portare essi stessi a compimento tutto il lavoro quando coloro che ci hanno preceduto non lo hanno fatto? I rabbini non lasciano dubbio in merito alla risposta.

«Come può qualcuno banale come me riuscire a vivere come Mosè?», chiese il discepolo Zyusha. E il rabbino rispose: «Quando morirai, non ti sarà chiesto: “Perché non sei stato Mosè?”. Ma ti sarà chiesto: “Perché non sei stato Zyusha?”».

La stagione è questa. Il tempo è il nostro.

 


Testo della Regola    Temi della Regola


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26 marzo 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net