SANTITÀ VALLOMBROSANA

DI FRA MATTEO PIETRO IGNEO SCARSELLA

 

PUBBLICATO NELL’ “ECO DEL SANTUARIO DI MONTENERO” N° 1/2024 – PP. 4-10


 

In quest’anno giubilare vogliamo ricordare i santi, figli e figlie del santo Padre Giovanni Gualberto, monaci e monache che hanno professato secondo le consuetudini dell’Ordine Vallombrosano, ora Congregazione Vallombrosana dell’Ordine di san Benedetto, ufficialmente iscritti nel calendario liturgico. In questo articolo cercheremo di accennare brevemente alla loro vita anche se siamo consapevoli che non bastano poche righe per descrivere la loro santità. Oltre a loro dobbiamo ricordare i tanti monaci e monache che hanno vissuto nei nostri monasteri, e che con la loro vita e testimonianza hanno irrorato le comunità con il profumo della santità e con il loro esempio, operando e attingendo sempre dal Vangelo e dalla Regola del santo Padre Benedetto.

 

BEATO BENEDETTO DA COLTIBUONO ( 11 GENNAIO)

 

BENEDETTO da COLTIBUONO nato verso il 1040 circa nel villaggio di Montegrossi in Valdarno, fece la professione nel monastero di San Lorenzo a Coltibuono in età matura, quando questo cenobio era stato da pochi anni affidato a san Giovanni Gualberto. Con il consenso dell’abate, Benedetto si ritirò a vita eremitica nei boschi del monastero, vivendo in penitenza e in unione con Dio. Morì pochi giorni dopo l’Epifania del 1107: al momento della sua morte le campane della chiesa di Coltibuono si misero a suonare a morto da sole. Il santo fu sepolto nel chiostro del monastero: in seguito, il 20 maggio 1430, le spoglie furono traslate sotto l’altare maggiore. Quando fu aperto il sepolcro per la traslatio, per miracolo, gli fu trovato in bocca un fresco giglio soavemente profumato.

 

SANTA VERDIANA (1 FEBBRAIO )

 

VERDIANA nacque a Castelfiorentino intorno al 1175; da giovane visse come governante presso un ricco parente. Dopo un pellegrinaggio a san Giacomo di Compostela e alla tomba degli apostoli a Roma, all’età di circa 30 anni decise di chiudersi in una cella nel suo paese. “Et in cotal modo di vivere perseverò 34 anni, conosciuta solamente da Dio, e non mai veduta da alcun huomo in viso si come ne anch’ella giammai, vide in detto tempo faccia d’huomo”. La tradizione vuole che un giorno la santa udisse il racconto della vita di sant’Antonio che faceva il sacerdote della vicina chiesa a lui intitolata: il religioso raccontava che il santo nel deserto era molestato dai demoni con l’aspetto “d’animali bruti”. Verdiana, ascoltando la predica, desiderava in “somigliante modo esser molestata”: la sua preghiera fu esaudita quando “essendo un giorno in orazione, ecco due horribili serpenti , di eguale statura, entrar nella finestretta della sua cella”. Verdiana si fece il segno della croce e pregò, affidandosi a Dio: i due serpenti si addomesticarono e presero dimora in quella celletta. Per questo la santa è raffigurata accompagnata da due serpenti. Santa Verdiana morì il 1 febbraio 1242 ed è tuttora venerata nella chiesa eretta in suo nome a Castelfiorentino. La sua vita è stata scritta, in latino, dal beato Attone, vescovo di Pistoia, ed è stata poi tradotta in lingua volgare dal padre Silvano Razzi e inserita nella “Vita de’ santi e beati toscani” edita a Firenze nel 1593.

Il culto della santa venne approvato da Clemente VII il 20 settembre 1533, e il 3 dicembre 1672 il suo nome venne inserito nel Martirologio Romano.

 

SAN PIETRO IGNEO (8 FEBBRAIO)

 

PIETRO IGNEO. Non conosciamo la sua data di nascita, avvenuta probabilmente intorno al 1020, e neanche la famiglia d’origine, forse gli Aldobrandini. Attone da Pistoia, nella “Vita Iohannis Gualberti”, dà alcune notizie su di lui, uno dei primi seguaci di Giovanni Gualberto nella foresta di Vallombrosa. Pietro Igneo era stato incaricato dal santo di prendersi cura del bestiame: probabilmente questo genere di incarichi rientrava negli insegnamenti di Giovanni Gualberto ai suoi monaci, anche se non è escluso che si tratti di un tributo all’umiltà di Pietro Igneo. Sempre da Attone da Pistoia si apprende che Pietro Igneo divenne dapprima priore del monastero di Badia a Passignano, poi abate di Fucecchio, vescovo di Albano Laziale e cardinale sotto il pontificato di Gregorio VII. Quando era già sacerdote e priore di Badia a Passignano sostenne la celebre prova  del  fuoco  il  13 febbraio 1068, al monastero di San Salvatore di Settimo e dalla quale ebbe il soprannome ‘Igneo’. La prova del fuoco fu necessaria perché Giovanni Gualberto e i suoi monaci volevano dimostrare al clero e al popolo fiorentino attraverso un’ordalia che il vescovo di Firenze, il pavese Pietro Mezzabarba, era simoniaco. La lettera inviata al termine dell’ordalia a papa Alessandro II dal clero fiorentino è prodiga di dettagli sul ruolo di Pietro Igneo, di cui tuttavia non fa mai il nome: narra come con volto ilare e incedere maestoso il sacerdote avesse attraversato le fiamme, uscendone illeso. Morì dopo il 1089.

 

SAN TORELLO (16 MARZO)

 

TORELLO nacque nel 1202 a Poppi, nel Casentino: nonostante fosse stato educato nella fede cristiana, ebbe nella prima gioventù un periodo di smarrimento dopo la morte del padre. In questo momento, Dio non aveva abbandonato il giovane, anzi l'aveva lasciato alquanto libero di seguire la sua strada, perché, ricevendo la vocazione, potesse essere uno specchio di penitenza. Nelle “Vita de’ santi e beati toscani”, si dice che “andando egli un giorno per la terra co suoi compagni vagheggiando, e dandosi piacere, e buon tempo, un Gallo, che era sopra una pertica fuori d'una finestra , si calò in un subito , e volò sopra una spalla di Torello, e cantò tre volte , quasi svegliandolo (si come già fece a Pietro Apostolo conoscere il suo peccato) dal profondo sonno de' vizij e peccati, nel quale si trovava. E ciò fatto tornò a possare in su la detta pertica. Laqual cosa havendo ripieno il giovane tutto d'ammirazione, e stupore; poi che fu cosi stato alquanto sopra di sè, pensando, ciò non dover potere essere per altro avvenuto che per divin misterio, e per fargli conoscere, che era nelle mani del Diavolo, se n'andò, lasciando i compagni, tutto contrito all 'Abate della Badia di Poppi dell'ordine di Vallombrosa; e piangendo, raccomandando, se gli gittò a piedi , chiedendo humilmente , che pregasse per lui, e lo vestisse da povero fraticello, perciò che in habito vilissimo era al tutto disposto volere servire a Dio”. Richiamato alla conversione da questo segno straordinario, con il permesso dell’abate di san Fedele a Poppi, si dedicò alla vita eremitica in località Avellaneto, presso il monastero. Condusse vita eremitica e di penitenza fino alla fine, sopraggiunta quando aveva ottanta anni. Il beato Torello ebbe grandi grazie dal Signore. Si racconta che ogni giorno gli facesse visita un angelo mandato da Dio, a cui il beato poteva chiedere qualsiasi grazia: devoti e pellegrini chiedevano grazie al beato Torello, che a sua volta le chiedeva al messaggero di Dio per gli altri e mai per se stesso. Un giorno una povera donna d Poppi che aveva solo un figlio di tre anni, andò a lavare i panni e portò con sé il bambino; mentre la madre lavava un lupo lo portò via. La madre cominciò a gridare chiedendo aiuto a Dio e le grida si sentirono fino a Poppi. Nel frattempo il lupo, con il bambino, arrivò alla cella del beato Torello, che comandò all’animale di posare in terra il fanciullo e di non creare danni in quella zona del Casentino. Il beato prese il fanciullo e lo portò nella sua cella: pregando il Signore lo guarì dai morsi del lupo. Lo riportò alla madre, che, vedendo il proprio figliolo si rallegrò che fosse sano e salvo. Dopo questo miracolo, la fama di santità di Torello si diffuse in tutta la zona. Per circa 60 anni condusse una vita di austera penitenza e contemplazione. Morì il 16 marzo 1282 e fu subito venerato dalla pietà dei fedeli. Il culto fu confermato da papa Benedetto XIV.

 

SANTA UMILTÀ (22 MAGGIO)

 

UMILTA’. Rosanese Negusanti nacque a Faenza nel 1226: era andata sposa a Ugolotto de’ Caccianemici nel 1242, ed ebbe due figli. In seguito alla morte dei bambini ed ad una grave malattia di Ugolotto, nel 1250 moglie e marito entrarono nella Congregazione di santa Perpetua dei canonici regolari e delle canonichesse, a Faenza. Rosanese assunse il nome di Umiltà e nel 1254 volle recludersi in una cella costruita presso il monastero vallombrosano di sant’Apollinare in Faenza: qui per dodici anni condusse vita eremitica,  divenendo per tanti suoi  concittadini  fidata  consigliera  spirituale.  Nel 1266, con  il beneplacito del vescovo, uscì dalla sua cella per fondare ad un monastero benedettino femminile, Santa Maria Novella, o monastero della Malta, secondo la riforma monastica di san Giovanni Gualberto. Ne 1281, per ispirazione divina, si recò a Firenze per fondare il monastero di san Giovanni Evangelista che resse fino alla morte, avvenuta il 22 maggio del 1310, e dove fu sepolta e subito venerata. L’anno seguente il vescovo di Firenze, mediante l’elevazione delle spoglie, ne riconobbe ufficialmente la santità.

La spiritualità di Umiltà si può ricavare dai pochi Sermoni da lei scritti, espressione di una profonda umiltà e di fervido amore per Dio e per il prossimo. Fu sepolta nella nuda terra, sotto il pavimento della chiesa,  e  quando il  6  giugno 1311  si  volle  dare migliore sepoltura alla salma, questa fu trovata incorrotta. Da allora, rivestita con l’abito monastico, riscosse ininterrottamente gli onori dei culto, Il suo corpo in seguito fu traslato nei monasteri di santa Caterina, di sant’ Antonio (1529), di san Salvi (1534) e dopo la soppressione napoleonica in quello dello Spirito Santo di Varlungo, presso Firenze, dove si conserva tuttora I testi liturgici con cui fu invocata santa Umiltà.  sono antichissimi.  Forse  alla elevazione solenne dei 1311 risale la Messa propria della santa, esistente in un codice del monastero di san Salvi. Nel 1721 la Congregazione dei Riti autorizzò ufficialmente il culto della santa e con Clemente XI fu concesso di celebrare la Messa e l’Ufficio in suo onore il 22 maggio di ogni anno, tanto nelle diocesi di Faenza e Firenze, quanto nelle chiese dei Vallombrosani. Ad Umiltà furono dedicati altari eretti nei due monasteri da lei fondati; fu dichiarata compatrona di Faenza nel 1942, ed in quell’occasione il suo corpo fu trasferito per breve tempo nella città natale.

 

SANT’ATTO (21 GIUGNO)

 

ATTO o ATTONE di PISTOIA. Si ha qualche dubbio sulle sue origini: la maggior parte dei biografi lo dice nato in Spagna, a Badajoz, da dove sarebbe giunto pellegrino in Italia nei primi anni del secolo XII. Arrivato a Vallombrosa durante il governo abbaziale di san Bernardo degli Uberti sarebbe stato accolto nella Congregazione: si segnalò ben presto per spirito di pietà e forza di carattere, tanto da essere in seguito chiamato alla direzione del monastero di Vallombrosa e al generalato dell’Ordine. Ad Atto, durante il suo generalato, viene attribuita la fondazione di nuovi monasteri, tra cui san Maria di Vigesimo e san Michele di Siena, entrambi sottoposti a Passignano. Alla morte del vescovo vallombrosano di Pistoia, Ildebrando, Atto fu eletto a succedergli nella diocesi: il 21 dicembre 1133 il papa confermava a lui i confini e i possessi dell'episcopato pistoiese e ingiungeva anche al clero di Prato di prestargli obbedienza. L'attività pastorale di Atto fu delle più intense ed energiche: combatté strenuamente la simonia e si schierò con decisione contro l'antipapa Anacleto II. Nel 1144 Atto ottenne dall'arcivescovo Didaco di Compostela, grazie al canonico Ranieri, già chierico di Pistoia e maestro nella scuola capitolare di Santiago de Compostela, la preziosa reliquia della testa di san Giacomo Maggiore. La reliquia, accolta solennemente, fu riposta nella cattedrale di Pistoia, dedicata a san Zenone, in una sontuosa cappella eretta appositamente e consacrata l'8 luglio 1145. In una lettera di papa Eugenio III del 22 novembre 1145 si legge che dopo pochi mesi la cappella era già meta di numerosi pellegrinaggi; nella stessa data il pontefice concedeva ai visitatori sette giorni di indulgenza. Un documento pontificio di Anastasio IV in data 14 febbraio 1154, indirizzato già al successore di Atto, il vescovo Traccia o Treccia, conferma la tradizione che ne fissa la morte al 22 maggio 1153. Fu sepolto nella chiesa, oggi scomparsa, di santa Maria in Corte, senza che le sue spoglie fossero oggetto di venerazione particolare: ma il 25 gennaio 1337, mentre si scavava per costruire il battistero, venne ritrovato il suo corpo intatto e fu solennemente traslato in cattedrale. Il 24 gennaio 1605 Clemente VIII concedeva che se ne celebrasse il culto nella diocesi di Pistoia e presso la Congregazione Vallombrosana, fissandone la festa nel dies natalis, 22 maggio.

Atto fu anche agiografo: scrisse infatti la vita del fondatore della Congregazione Vallombrosana e quella di San Bernardo degli Uberti. Il cardinale Matteo, suo contemporaneo, legato pontificio in Inghilterra, di lui potè dire: “Felice la Chiesa di Roma se Atto potesse dirigerla dal trono di Pietro”.

 

SAN GIOVANNI GUALBERTO (12 LUGLIO)

 

GIOVANNI GUALBERTO. Fattosi monaco a San Miniato al monte di Firenze, superando la vivace opposizione del padre, il giovane Giovanni Gualberto non trovò nell’osservanza del grande monastero vescovile fiorentino pieno appagamento alle proprie aspirazioni. Scoprì che proprio l’ abate di San Miniato, Oberto, era simoniaco, avendo pagato per ottenere quell’incarico dal vescovo di Firenze, e ne rimase sconvolto. Dietro suggerimento dell’eremita Teuzone, un grande riformatore della Firenze di allora, egli denunciò pubblicamente il vescovo e l’abate. Fallito il tentativo di destituire i due religiosi simoniaci, abbandonò la città alla ricerca di un monastero, «ut secundum regulam sancti Benedicti Christo serviret». Ebbe  così inizio il  suo pellegrinaggio  tra molti monasteri della  Romagna:  arrivò  poi nel casentinese, a Camaldoli, e in seguito nel 1036 a Vallombrosa, una solitaria località dell’Appennino dove fondò la sua comunità. Giovanni riunì intorno a sé altri monaci fuggiti da San Miniato a Firenze, e anche chierici e laici della città. II 27 gennaio 1037 il chierico fiorentino Alberto, già notaio, unitosi ai «fratres in Christo simul congregati in loco Valle umbrosa, ubi et Aquabelli vocatur», fece una donazione per l’edificazione della loro chiesa e monastero. Era giunta una voce all’imperatore Enrico III della fama di santità di Giovanni Gualberto: di passaggio per Firenze, l’imperatore inviò Vallombrosa un vescovo per consacrare l’altare dell’oratorio. Il primo documento in cui compare Giovanni Gualberto, ormai espressamente ricordato come praepositus, è del 27 agosto 1043. Su insistenza dell’eremita Teuzzone, in una data non documentata, Giovanni Gualberto accettò la carica di abate e come tale è citato per la prima volta nel maggio 1068. L’impegno di riforma, sostenuto da una vivace attività di predicazione extra claustrale, aveva raggiunto il culmine nella prova del fuoco avvenuta a Badia Settimo il 13 febbraio 1068. L’anziano padre, attorno al quale si era ormai raccolta una vasta famiglia religiosa, morì a Passignano il 12 luglio 1073. Nel 1193 Celestino III lo iscrisse nell’albo dei santi, fissando la data della celebrazione liturgica al 12 Luglio.

Parlare del nostro fondatore dal punto di vista spirituale, vuol dire anche parlare un po’ della nostra vocazione e vuol dire attingere sempre forza da ciò che in questi secoli ci ha insegnato e continuerà ad insegnarci. Purtroppo le testimonianza sono limitate. Nella vita che ci tramanda Andrea di Strumi Giovanni Gualberto appare con un carattere rude, duro, ricco di forza e di passione, rigido con se stesso nella penitenza fino a compromettere la propria salute, esigente con i discepoli, che forgia sulla via dell’ascesi attraverso prove severe. Mentre nella vita di Giovanni Gualberto scritta da un autore anonimo del secolo XII viene delineato un carattere più affettuoso, “simpatico”, dolce ma nello stesso tempo con le caratteristiche forti della sua personalità: si accentua anche la sua umanità, l’attenzione per gli ammalati per i poveri, per gli ignoranti, insomma un’attenzione alla carità cristiana che bussa ogni giorno alla porta del monastero.

Come “figli” del santo, notiamo in lui un continuo riferimento alla Sacra Scrittura. Negli unici suoi testi a noi giunti fino ad ora, la lettera testamento alla Congregazione e la lettera ad Ermanno vescovo di Volterra, ci appare chiarissimo il livello morale del fondatore che si riconduce sempre alle fonti bibliche.

In questi due scritti possiamo intravedere la sua intransigenza e la sua attenzione per un ritorno al Vangelo, e anche la lotta alla simonia che fin dall’inizio caratterizzò il suo percorso di riforma. Ma non solo lo seguirono anche chierici e laici: il nostro fondatore ebbe il benevolo appoggio di papa Gregorio VII, che incoraggiò i monaci a seguire i suoi insegnamenti. Costui non fu l’unico papa ad appoggiare i monaci di Giovanni Gualberto nel percorso di riforma: anche Urbano II rafforzò l’organizzazione interna dell’Ordine e consolidò l’azione riformista dei vallombrosani allargandola alla Chiesa.

 

BEATA BERTA DA CAVRIGLIA (1° LUNEDÌ DI AGOSTO)

 

BERTA da Cavriglia, badessa vallombrosana del monastero di Santa Maria a Cavriglia, nacque con ogni probabilità all'inizio del secolo XII e apparteneva forse alla famiglia dei Cadolingi. Ci sono opinioni divergenti sul luogo di nascita di Berta: coloro che sostengono che appartenesse alla famiglia dei conti di Borgonovo e di Settimo la dicono nata a Vernio, e assai presto trasferita a Firenze, chi la considera della famiglia dei Bardi la dice invece nata a Firenze, da questa famiglia fiorentina.

Berta entrò nel monastero di santa Felicita a Firenze: lo lasciò quando Gualdo, abate generale di Vallombrosa, decise di ripristinare la vita monastica secondo la regola vallombrosana nel monastero benedettino di santa Maria a Cavriglia. Il primo documento in cui Berta è nominata come badessa di Cavriglia è del 17 dicembre 1145. La tradizione, fino a tempi recenti, non ricorda altri avvenimenti, ma solo la sua pietà e il suo zelo di badessa, in particolare nell'ultimo periodo della sua vita. Alla vigilia della sua morte, un sabato santo, avrebbe pronunciato un discorso sulla carità come fondamento della vita monastica, sull'esempio del fondatore dell'ordine, Giovanni Gualberto.

Incerta è la data della sua morte: tra le varie proposte, quella più generalmente accettata è il 24 marzo 1163. Pare che il corpo di Berta fosse stato sepolto sotto l'altare maggiore della chiesa di Cavriglia: nei secoli successivi se ne persero le tracce, dopo che le monache avevano abbandonato il monastero per rifugiarsi nel 1337 in quello dei santi Vittore e Niccolò, poi nel 1477 in quello di san Girolamo a San Gimignano. Le monache sostenevano che il corpo di Berta le avesse seguite nei loro spostamenti. Nel 1671 nella chiesa di Cavriglia vennero trovati dei resti, identificati con quelli della beata; ricomposti successivamente più volte, furono da allora sempre oggetto di venerazione da parte dei fedeli.

 

SANTO PADRE BERNARDO DEGLI UBERTI (4 DICEMBRE)

 

BERNARDO nacque a Firenze attorno al 1060 dalla ricca e nobile famiglia degli Uberti; alla morte del padre Bruno diventò proprietario di vasti possedimenti. Entrò giovanissimo nell’ Ordine vallombrosano, facendo la professione nel monastero fiorentino di San Salvi. In breve tempo divenne abate di questo monastero e poco dopo abate maggiore della congregazione, forse il primo che con la suprema carica dell’Ordine congiunse il governo abbaziale del monastero di Vallombrosa. Sotto la sua direzione l’ Ordine, fino ad allora limitato alla Toscana, si diffuse specialmente in Emilia e Lombardia, sempre però sottoposto ad una forma di controllo fortemente centralizzato. L’ elevazione di Bernardo a cardinale, per opera di Urbano II, sembrò confermare il nuovo orientamento giuridico della Congregazione voluto dall’abate maggiore. Un documento del 30 agosto 1099 lo cita come cardinale e come abate maggiore: probabilmente ricevette ambedue le cariche nello stesso anno.

Come cardinale, Bernardo mantenne la direzione dell’Ordine e partecipò più direttamente al grande movimento di riforma della Chiesa. Con papa Pasquale II ebbe funzioni di primissimo piano come vicario papale in Alta Italia e la sua intensa attività pacificatrice e riformatrice investì direttamente l’Emilia e la Lombardia, regioni al centro della lotta fra papato e impero. Solo a Parma l’ opera del legato incontrò seria resistenza: il 15 agosto 1104, mentre Bernardo parlava al popolo nella cattedrale, scoppiò un violento tumulto: egli fu aggredito e imprigionato, e per liberarlo occorse l’intervento delle truppe della contessa Matilde. Due anni dopo, però, nell’ottobre 1106, la situazione era talmente mutata che Pasquale II poté indire un concilio nella vicina Guastalla: la città di Parma chiese di avere proprio lui come vescovo. Il papa stesso, ai primi di novembre, celebrò a Parma la dedicazione della nuova cattedrale e consacrò Bernardo vescovo. Nel 1122 «ex venerabili fratris nostri Bemardi, Parmensis episcopi, relatione», il papa accolse sotto la protezione apostolica l’abbazia di Praglia e due anni dopo la unì a Polirone, il grande centro cluniacense, che, grazie al consiglio di Bernardo, era oggetto della munificenza della contessa Matilde. Come vescovo di Parma, il santo continuò sempre a promuovere la riforma monastica. Bernardo continuò a vivere e vestire da monaco, conducendo vita comune con i religiosi che fin dall’inizio volle con sé a Parma. Nonostante avesse rinunciato nel 1106 alla dignità abbaziale, egli rimase affettuosamente legato ai suoi Vallombrosani e mantenne l’alta direzione della Congregazione, per la quale nel 1124 ottenne da Enrico V il privilegio della protezione imperiale. Al tempo dello scisma del 1130, quando il collegio cardinalizio era diviso in due obbedienze, Bernardo sostenne Innocenzo II a cui procurò l’appoggio dei suoi Vallombrosani, seguiti dai Camaldolesi: san Bernardo di Chiaravalle lo citò, nell’epistola Ad Aquitanos, tra i grandi santi vescovi che avevano facilitato il riconoscimento del vero papa Ma ormai il venerando vescovo si avvicinava al termine della sua vita terrena. Già malato, «velut specialis Apostolicae sedis filius» accolse a Verona nel 1133 l’imperatore Lotario e lo accompagnò nel suo viaggio verso Roma per l’incoronazione. Tornato a Parma, morì il 4 dicembre 1133. La devozione dei parmigiani intorno alla tomba si manifestò subito; cominciarono i pellegrinaggi, si moltiplicarono i miracoli, tanto che alla vigilia del sesto anniversario della morte, il 3 dicembre 1139, il suo successore, Lanfranco procedette alla canonizzazione, effettuando, secondo la prassi di allora, la solenne elevatio delle reliquie. I più antico calendario della Chiesa di Parma, della prima metà del secolo XIII, segnala già la sua festa tra le più solenni: viene celebrata anche dai Vallombrosani il 4 dicembre.

Il culto di Bernardo, già vivo almeno a san Salvi e Vallombrosa nel secolo XII, raggiunse piena formulazione liturgica in tutta la Congregazione nel secolo seguente; le Costituzioni degli anni 1323, 1337, 1341, 1357 pongono la solennità di san Bernardo sullo stesso piano di quelle massime di san Benedetto e di san Giovanni Gualberto. Accanto a loro il nome dei terzo « Padre», san Bernardo, viene regolarmente invocato delle litanie, nelle orazioni di suffragio, nei riti della professione monastica e nel Confiteor. Anche a Firenze, la sua città natale, che forse gli dedicò la prima cappella del palazzo della Signoria, si celebra la sua festa almeno dal secolo XIV.

Reliquie di Bernardo sono venerate a Vallombrosa, a Firenze e a Parma. Il capo è stato incluso in un busto d’argento del secolo XVI, opera di Gian Alberto Pini, mentre il corpo riposa nella cripta della cattedrale di Parma. Una prima solenne traslazione fu compiuta nel 1548, quando i parmigiani vollero rinnovare formalmente l’elezione di Bernardo a loro patrono.

Questi sono i santi ufficialmente iscritti nel libro della santità e sono di esempio per noi: dobbiamo cercare di seguirli nell’imitazione di Cristo in tutto, dalla preghiera fino alla carità. Non sono gli unici, anche altri confratelli e consorelle monaci e monache ci aiutano e ci accompagnano nel contemplare le vette più alte della nostra fede fino a toccare il paradiso. Essere santi oggi significa essere persone che testimoniano con coraggio il Vangelo; essere santi oggi significa anche saper ascoltare l’Altro presente ne poveri e nei più bisognosi, e poter essere disponibili nel spendersi totalmente nel servizio a Dio e ai fratelli e a tutte le persone che incontriamo nella nostra vita. Questa è la santità nel tempo in cui viviamo.

 


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12 settembre 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net