SANTI DEL 15 GENNAIO

SAN MAUR0, ABATE

DELL'ORDINE DI S. BENEDETTO.

Morto nel 583. – Papa, Pelagio II.

Estratto da "VITE DEI SANTI, tratte dai Bollandisti" Vol. I - Errico Mazzarelli Editore 1874

Osserveremo in questa vita quanto vantaggioso è all'uomo il portar dall'età giovanile il giogo del Signore, ed abbandonare il mondo prima di averne avvertita la corruzione. San Mauro nacque da illustre famiglia. Ebbe per padre Equico, romano, dell'ordine dei senatori, e per madre Giulia, gentildonna romana di eguale condizione. Si dice pure che discendeva dall'illustre prosapia degli Aniciani. La sua condizione lo invitava a goder dei piaceri e degli onori, i quali sono accoppiati alle principali fortune, e poteva gustare il mondo in tutto ciò che ha di più dolce e soddisfacente. Ma Iddio, che voleva farne un santuario ove racchiuderebbe le sue più grandi grazie, non permise restasse lungo tempo in mezzo alle profanazioni del secolo. Ispirò suo padre, quando egli contava appena dodici anni, di affidarlo alle cure di san Benedetto, il quale era suo parente, e viveva allora nel deserto di Subiaco, affinché allevato da una mano così buona, si abituasse per tempo a tutte le virtù cristiane.

San Benedetto lo accolse con molta gioia ed affetto, tanto più avendo conosciuto con spirito profetico che sarebbe egli un giorno una delle più forti colonne del suo ordine. Appena lo ebbe ammesso nella congregazione dei frati, sembrò fra loro un sole in mezzo alle stelle. Nulla si notava in lui di puerile fuorché l'età. Tutto vi era maturo ed avanzato, e sovente il suo maestro, san Benedetto, mostrava il suo fervore agli altri religiosi per rinfacciarli della tiepidezza o per incoraggiarli nei loro affanni.

«Vediamo, ei diceva senza nominare alcuno, un fanciullo non ancora adolescente, nutrito nel mondo, con tutta la delicatezza ordinaria alle persone di alto grado attendere alla perfezione con tanto ardore e generosità, da eguagliare ormai i più vecchi ed i più esperti nella virtù. »

San Mauro riceve la Regola da san BenedettoUn fatto accrebbe anche di molto la stima che san Benedetto aveva per san Mauro, cioè il seguente grande e meraviglioso prodigio riportato da san Gregorio nel secondo libro dei suoi Dialoghi, e che fu un effetto della sua ubbidienza. Il piccolo Placido essendo caduto, mentre attingeva dell'acqua, in un lago profondissimo, e dalla rapidità delle onde trasportato di già lungi dalla terra alla distanza di un tiro di freccia, san Benedetto, il quale conobbe per rivelazione il pericolo estremo in cui era, comandò a san Mauro di andare prontamente a soccorrerlo. Il Santo senza badare alla difficoltà di quell'ordine, né al rischio della vita in cui egli stesso si sarebbe esposto, chiese la benedizione dal suo maestro, e vi corse ciecamente. Ma, per una sorprendente meraviglia, la quale non aveva più avuto esempio dopo san Pietro, camminò sulle acque come sulla terra ferma, fino al luogo ove era stato trasportato il fanciullo; lo prese pei capelli, e, camminando sulle stesse acque, lo ricondusse alla riva. Allora, riguardando in dietro, ed accorgendosi di ciò che aveva fatto, fu colto da spavento; ma, ben lungi dall'attribuirsene la gloria, protestò al santo abate, quando gliene rese conto, di non aver per nulla contribuito a quel miracolo, poiché aveva agito senza riflettere: che la causa, dopo Dio, era stata la sua benedizione ed il suo comando. San Benedetto, dal canto suo, attribuì quel prodigio al merito della sua cieca obbedienza. Così ebbe luogo tra il maestro e il discepolo una santa contestazione d'umiltà, che si terminò con lodi e ringraziamenti alla bontà di Nostro Signore, il quale, con un tratto così straordinario della sua potenza, aveva liberato il giovine Placido.

Divulgatasi tale meraviglia, tutti i religiosi di Subiaco concepirono un'estrema venerazione pel loro confratello san Mauro: non lo consideravano più se non come un uomo ripieno dello spirito del loro beato Padre; però le virtù che brillavano in lui lo rendevano ancora più degno di quel rispetto. La sua ubbidienza non trovava mai nulla impossibile, né la sua umiltà nulla troppo basso; eccessive erano le sue austerità e sembreranno incredibili, anche a quelli che le paragoneranno alla forza della nostra natura. Fausto, il quale scrisse la sua prima vita, assicura che portava sempre il cilizio, non aveva per letto se non un mucchio di calcina e di sabbia, sul quale prendeva un poco di riposo, e che in una quaresima, trovandolo troppo delicato, si contentò di dormire in piedi, finché l'estrema stanchezza lo forzò a sedersi. Il rigore dei suoi digiuni corrispondeva alla lunghezza delle sue veglie, e nei giorni dalla Chiesa destinati alla penitenza, mangiava solo due volte alla settimana, ed anche sì poco, da sembrar piuttosto di voler assaggiare il pane, formante tutto il suo pasto, che mangiare; imitava in ciò san Benedetto, il quale passò tutte le quaresime nello stesso modo.

Così grande era il suo fervore da esser capace di riscaldare ed accendere i più tiepidi; tanto raccoglimento ed applicazione in Dio si osservavano in lui, da ispirar la divozione in tutti quelli che lo consideravano. I suoi occhi erano due sorgenti inesauribili di lagrime, ed il cuore una fornace ardente che mandava incessantemente sospiri al cielo. Non parlava mai, a meno non ve l'obbligassero la necessità o la carità; e quel silenzio era una sorgente di santi pensieri, di casti desideri e d'una conversazione continua con Dio. La sua solitudine non era per nulla oziosa; si occupava sempre, o alla contemplazione delle cose divine, ovvero alla lettura della sacra Bibbia e dei Padri della Chiesa, nei quali trovava una manna nascosta. Virtù così eminenti dimostrano purtroppo che con molta prudenza san Benedetto si associò il suo caro discepolo nella direzione del monastero in cui risiedeva. Così Nostro Signore gli comunicò una gran parte dei lumi sovrannaturali del suo abate.

Avendo Iddio ispirato a san Benedetto di passare da Subiaco a Monte Cassino, egli condusse seco Mauro, e ne ricevette grandi aiuti, sia per fondare in quella montagna il monastero, che fu come la capitale di tutto l'Ordine, sia per sterminar l'idolatria conservatavisi fino a quel tempo. Tutti i frati lo riguardavano come il futuro successore del loro santo padre. E, in effetti, egli lo fece suo priore claustrale, e gli affidò, sotto di lui, l'amministrazione generale di quella casa. Volle Nostro Signore manifestar d'avvantaggio la sua eminente santità: un giorno, in cui san Benedetto era uscito per un affare importante, fu condotto al monastero un fanciullo muto e zoppo dai suoi genitori, i quali ne chiedevano la guarigione. Siccome non trovarono il beato abate, si rivolsero al santo priore, il quale ritornava dal lavoro della campagna. Il Santo, tutto confuso, li respinse quasi con collera, dicendo essere le opere miracolose riservate ai perfetti, ed egli non essere che un gran peccatore. Intanto i religiosi che l'accompagnavano, toccati da compassione per quegli afflitti, tante istanze gli fecero, che fu alla fine costretto ad arrendervisi. Si prostra dunque dinanzi a Dio, protesta in sua presenza di poter ei solo guarire quelli che ha colpiti, e lo prega, lagrimando, di esercitare la sua misericordia verso quegli sventurati. Quindi si alza, mette sulla testa del fanciullo l'estremità della sua stola di diacono, la quale era un dono di san Benedetto, e facendo il segno della croce sulle membra dell'infermo, con modestia e confidenza gli disse: In nome della santissima Trinità, e pei meriti del mio maestro san Benedetto, vi comando di alzarvi in perfetta salute.

Immediatamente l'ammalato obbedisce, con gioia ed ammirazione di tutti gli astanti; e, tanto più stimarono san Mauro, perché s'era studiato di riferire tutta la gloria di quel miracolo ai meriti del padre suo, san Benedetto. Non mancarono i religiosi di farne rapporto al santo abate, quando fu di ritorno, e da quel tempo, egli non considerò più san Mauro come discepolo, ma come suo collega e coadiutore nelle opere di Dio. Dimostrò, infine, quanto caso facesse di lui scegliendolo per impiantare il suo Ordine in Francia. Il che avvenne nel modo seguente:

Innocente, vescovo di Mans, prelato di santa vita, rapito dalle meraviglie manifestategli circa la fama di quel beato patriarca, gli delegò il suo arcidiacono, per nome Flodegardo, ed il suo intendente, Arderardo, per pregarlo di mandare alcuni dei suoi religiosi, al fine di stabilire un monastero di quell'0rdine nella sua diocesi. Arrivarono essi a Monte Cassino in sullo scorcio dell'anno 542; ed avendo Iddio già fatto conoscere a san Benedetto, in una rivelazione, che voleva estendesse il suo Ordine nei paesi stranieri, poca difficoltà incontrarono per ottener da lui quanto domanda- vano. Egli scelse san Mauro per capo di quell'intrapresa, e gli dette per assistenti alcuni dei suoi confratelli, Simpliciano, Antonio, Costantino e Fausto; quest'ultimo ne scrisse la storia dopo la sua morte. Non intraprendiamo a descrivere la costernazione di tutti i religiosi alla partenza di una persona la quale era loro così cara, cui risguardavano come loro sostegno, dopo il santo padre. Ci basta dire che san Benedetto li consolò con parole piene dell'unzione dello Spirito santo; poscia, rappresentando loro come la salvezza dei popoli era preferibile alla particolar soddisfazione, avvertì i suoi beati missionari di quanto dovevano fare nel viaggio, e li condusse, accompagnato da tutta la comunità, fino alle porte del monastero. Quivi li abbracciò per l'ultima volta, gli dette la benedizione col bacio di pace, li esortò di nuovo alla confidenza nelle traversie e persecuzioni che potrebbero soffrire; e, consegnato nelle mani di san Mauro il libro della sua regola, scritto di proprio pugno, per servirgli da guida nella sua assenza, con lettere dirette al vescovo di Mans, nonché col peso del pane e la misura del vino da darsi a ciascun religioso per pasto, sotto la protezione di Nostro Signore, li congedò.

Il 20 gennaio dell'anno 543 fu il giorno della loro partenza. Alloggiarono la prima notte in una casa dipendente da Monte Cassino, ove furono accolti da due religiosi, Probo ed Aquino, cui san Benedetto aveva espressamente inviati il giorno prima per riceverli, e riportargliene notizie. Quella stessa notte inviò loro anche due altri religiosi, Onorato e Felicissimo, cugino di san Mauro, per dargli l'ultimo addio; e, per mezzo loro, rimise al Santo una scatola di reliquie, fra le quali trovavasi un pezzo della vera croce, con una lettera dimostrante pur troppo la tenerezza del maestro verso il discepolo, o piuttosto quella del padre verso il figliuolo.

Accogliete, ei gli diceva, carissimo figliuolo mio, quest'ultima testimonianza dell'amore di vostro padre, e custodite il prezioso pegno che v'invio come un eterno ricordo, come un contrassegno della stretta unione dei nostri cuori, come vostro sostegno, infine come la salvaguardia dei vostri fratelli, nei travagli che durante un sì lungo viaggio dovrete sopportare. Bisogna, figliuolo mio, vi scorra un segreto cui piacque a Dio di rivelarmi dopo la vostra partenza, ed il quale ha per voi una grande importanza. Egli mi ha manifestato che voi andrete a goder della gloria, dopo avere portato per sessant'anni il nostro abito, a contar dal giorno in cui lo riceveste dalla mia mano. I quarant'anni che vi restano non saranno esenti da angustie: incontrerete incredibili difficoltà nella fondazione dell'Ordine, ed il demonio non risparmierà, senza dubbio, né la forza né l'astuzia per abbattere le vostre intraprese, per il fatto che egli prevede bene che non le saranno meno a sua confusione che a gloria di Dio. Ma egli sarà vinto alla fine, e la misericordia di Dio vi farà trionfare della sua malizia. Io prego Iddio, figliuolo mio, che vi riempia della sua grazia, benedica il vostro coraggio, e ne renda prospero il risultato.

Ricevette san Mauro quei presenti e quella lettera con grandissimo rispetto, e si affidò in Nostro Signore per l'adempimento di quanto conteneva. Ringraziò i suoi cari confratelli della pena presasi per visitarlo, dette loro una risposta pel santo Patriarca, e raccomandò soprattutto a Felicissimo, suo cugino, di esser molto esatto nell'osservanza della regola. Finalmente, congedatili, continuò il viaggio coi suoi quattro compagni, durante il quale usarono particolare attenzione di non affievolirsi nelle osservanze del monastero, di dire il mattutino ed il resto dell'ufficio nelle stesse ore che si dicevano nella comunità, e di praticare il silenzio e gli altri esercizi di religione con la stessa esattezza dello innanzi. Non tardò guari Nostro Signore a dimostrare, con miracoli, quanto si compiacesse di esser servito in quel modo. Quattordici giorni dopo la loro partenza, giunsero a Vercelli, ove, riconosciutasi la loro santità, i preti e gli abitanti del paese li supplicarono di soggiornarvi qualche giorno. Mentre san Mauro occupavasi a somministrar loro i soccorsi spirituali attesi dalla sua carità, Arderardo, intendente del vescovo di Mans, cadde da un andito dove passeggiava, e si ferì così pericolosamente, che i medici disperavano della sua vita. Passati due giorni senza che i rimedi gli recassero alcun sollievo, alla fine fu stabilito di tagliargli il braccio per salvar il resto del corpo. L'arcidiacono Flodegardo, tocco da compassione pel suo caro compagno di viaggio, si gettò ai piedi di san Mauro, supplicandolo d'ottenergli da Dio la guarigione. Il Santo, che sapeva quanto essa era necessaria all'esecuzione della loro intrapresa, si arrese facilmente a quelle istanze. Fece adunque la sua preghiera, prese il pezzetto della vera croce inviatagli da san Benedetto, l'applicò sulla spalla, sul braccio, sulla mano dell'ammalato, facendo da per tutto il segno della croce, e in tal guisa lo guarì così perfettamente da non aver più bisogno dell'opera dei chirurgi. Divulgatasi tale meraviglia, una infinità di persone accorsero per vederne l'autore e riceverne la benedizione. San Mauro fece tutto il possibile per persuaderle non avervi egli presa alcuna parte, e di doverla attribuire solo alla virtù della vera croce ed ai meriti di san Benedetto, da cui l'aveva ottenuta; ma vedendo non poter evitare le acclamazioni del popolo, partì in diligenza da quel luogo.

Quando furono sulle Alpi quei santi viaggiatori, uno dei loro servi, a nome Sergio, cadde da cavallo e si fracassò una gamba. Ma durò solo un istante il suo male: avvenne che, non volendo san Mauro quell'accidente impedisse il viaggio, lo ristabilì tosto in salute, facendo sulle fratture il segno della croce. Alla discesa dalle Alpi, ei visitò la chiesa di san Maurizio, nella città che ne porta il nome, e guarì quivi un cieco nato, cui obbligò di dedicarsi al servizio di quella chiesa, cd il quale, in seguito, fu consacrato prete. Al monte Joux, altrimenti detto monte San-Claudio, liberò da duplice morte, dalla temporale e dall'eterna, un giovane moribondo, il quale già si vedeva condannato all'inferno, e gli dette così salutari consigli che abbandonò il mondo e si fece religioso nel monastero di Lerini, sulle coste della Provenza, ove visse e morì santamente. Dal monte San-Claudio andò ad Auxerre con tutta la sua compagnia, verso la settimana santa, e ne passò gli ultimi giorni a Fonte-Rosso, insieme a san Romano, il quale aveva assistito san Benedetto sul principio della sua vita solitaria ed erasi quindi ritirato in Francia. La sera del venerdì santo, avvertì quel santo vecchio e tutti i suoi confratelli che all'indomani, vigilia di Pasqua, il beato patriarca san Benedetto abbandonerebbe la terra per andare a ricevere la ricompensa delle sue fatiche. Ne furono essi estremamente commossi, e non potettero trattener le lagrime. Le fatiche dei giorni precedenti non gl'impedirono di passar la notte in preghiere, per rendere, nella loro assenza, al santo Padre, gli stessi onori che gli avrebbero resi se fossero stati presenti alla sua morte. Verso le nove del mattino, san Mauro fu trasportato in ispirito a Monte Cassino, e vide come un gran viale coperto di tappeti preziosi ed ornato d'una infinità di fiaccole, che si estendeva dalla cella di san Benedetto al cielo, ed un uomo tutto risplendente, il quale gli disse: È questa la strada per la quale è asceso al cielo Benedetto, il prediletto di Dio. Due altri religiosi di Monte Cassino, di cui uno vi risiedeva e l'altro era in viaggio, ebbero anche la stessa visione. Il Santo la partecipò ancora a san Romano ed ai suoi confratelli, ed un così fausto annunzio calmò il loro dolore, e cambiò il pianto in cantici ed inni di allegrezza.

Dopo la festa di Pasqua, quella santa compagnia prese la strada di Orleans; giuntivi, seppero che il vescovo di Mans, il quale li aveva fatti venire, era morto. I compagni di san Mauro ne furono molto costernati; ma egli rilevò il loro coraggio, dimostrando come quella difficoltà, presentatasi in sulle prime, era una prova che Iddio voleva assisterli in un modo straordinario. Infatti, Arderardo, intendente del defunto vescovo, ed uno di quelli che li aveva condotti, vedendo che il nuovo vescovo non voleva proseguire nel disegno del suo predecessore, procurò loro uno stabilimento anche più vantaggioso di quello già disposto, per mezzo di uno dei suoi parenti chiamato Florus, il quale era un visconte molto avanzato nelle buone grazie del re Teodeberto. Cotesto signore aveva desiderato, nella sua giovinezza, di abbandonare il mondo e ritirarsi in un monastero; ma, per non usare scortesia al re, il quale lo amava e lo voleva presso di sé, era restato alla corte, dove, ammogliatosi, aveva avuto un unico figlio a nome Bertulfo. Quando Arderardo gli ebbe annunziato l'arrivo dei figliuoli di san Benedetto, egli partì in diligenza, col permesso del re, per aver la fortuna di vederli ed offrir loro di stabilirsi nelle sue terre. Il luogo a ciò designato fu Glanfeuil, bagnato dalla Loire, nella diocesi di Angers. Si preparò tutto per fondarvi un monastero; però la prima pietra viva dell'edificio fu il piccolo Bertulfo, cui Florus, suo padre, affidò volentieri a san Mauro; per essere da lui allevato e consacrato a Dio. Non aveva quel fanciullo che otto anni appena; ma la grazia non aspettò il corso degli anni per farsi osservare in lui; dopodiché, in poco tempo, fece un progresso considerevolissimo sotto un così buon maestro.

Mentre senza posa lavorava alla fondazione del convento, Florus ritornò alla corte per sistemare alcuni affari d'importanza. Avendoli terminati, ritornò a trovare san Mauro, conducendogli, per presiedere al resto della costruzione, un ecclesiastico versatissimo nell'architettura. Questi, in effetti, vi si applicò con molto zelo ed affetto; ma fu ben tosto il soggetto di un gran prodigio; successe che, cadendo da un ponte di fabbrica, dal quale invigilava il lavoro degli operai, sovra un mucchio di pietre, si fracassò tutto il capo e morì, o per lo meno non dava più alcun segno di vita. Già si parlava di seppellirlo; ma avendolo san Mauro fatto trasportare all'ingresso della chiesa di san Martino, la quale era di già edificata, dopo una ardente preghiera, lo risuscitò e lo guarì così perfettamente, da rimandarlo sull'istante alla fabbrica. Era presente a tal miracolo Florus, e ne fu talmente meravigliato, che, gettandosi ai piedi del Santo, gli disse: 0 padre mio, voi siete il vero discepolo di san Benedetto, di cui abbiamo sovente inteso riferire simili prodigi ! Da quel punto, gli portò tanto rispetto, che non osava più avvicinarglisi.

Eccessivamente indispettito il demonio, suscitò tre artigiani per infamare la riputazione del santo Abate, e la loro malizia giunse al punto di propagare non esser egli altro che un mago venuto dall'Italia per cercar gloria e stabilir la sua fortuna per mezzo di falsi miracoli. Iddio però non tardò per niente a punire con un terribile castigo quella maldicenza; dato che il demonio s'impossessò del corpo dei calunniatori ed esercitò su di loro crudeltà così spaventevoli, che uno dei tre morì miseramente. Quivi apparve in tutto il suo splendore l'ammirabile carità del nostro Santo. Avvenne che, ben lungi dal rallegrarsi della punizione dei suoi nemici, si fece loro potente mediatore presso Dio, e pregò per loro con tanta istanza, e se si deve dire, ostinazione ed importunità, che ottenne alla per fine la liberazione degli uni e la risurrezione dell'altro. Accoppiò inoltre a tal eroico atto di carità un tratto eccellente di umiltà, vietando a quegli cui aveva fatto rivivere di mai comparir nel paese, temendo la sua presenza non immortalasse la memoria di quel miracolo.

Nell'ottavo anno del suo soggiorno in Francia, terminata la costruzione della casa e delle quattro chiese da lui progettate, ne fu fatta la dedicazione da Eutropio, vescovo di Angers. Fu dato alla principale il nome dei beati apostoli san Pietro e san Paolo; ad un'altra quello di san Martino; alla terza, quello di san Severino, ed alla quarta quello dell'arcangelo san Michele. Tutto procedeva per lo meglio; non contentandosi Florus d'aver dato a Nostro Signore i suoi beni ed il suo figliuolo, volle compiere il sacrificio consacrandosi egli stesso al suo servizio. Il re Teodeberto stentò molto ad acconsentirvi, a causa del grande affetto che gli portava; ma, temendo di mancare alla volontà di Dio, si arrese finalmente alle sue preghiere. Desiderò anche di assistere alla sua vestitura, e per tal motivo si recò al monastero. Quando egli entrò, san Mauro, essendogli andato incontro con tutti i suoi religiosi, i quali erano già più di quaranta, il re si prostrò umilmente ai suoi piedi, raccomandandosi alle sue preghiere ed a quelle di tutta la comunità. Fece quindi particolari cerimonie agli altri quattro discepoli di san Benedetto venuti dall'Italia insieme a lui, ed al giovine Bertulfo, il di cui padre tanto gli era caro. Visitò tutti i religiosi della casa, ammirando l'ordine osservato da per tutto; volle che il suo nome e quello del principe Tibaldo, suo figlio, fossero scritti nel catalogo dei frati, al fine di partecipare ai loro meriti; confermò le donazioni fatte dal suo amico a quel nuovo stabilimento, e ne aggiunse ancora delle altre molto considerevoli; fra le altre quella di un feudo, chiamato Bois, con tutte le rendite e le dipendenze. Infine, offrì alla chiesa di san Pietro un ricchissimo tappeto, con una croce d'oro coperta di pietre preziose di gran valore.

Giunta l'ora della cerimonia, con tutto il suo seguito andò alla chiesa. Florus spogliatosi, ai piedi di san Mauro, degl'illustri distintivi della sua qualità, il re aiutò egli stesso a tagliargli i capelli ed ebbe la consolazione di vedergli prendere l'abito monastico con più gioia di quella dimostrata altra volta nel ricevere le più grandi testimonianze del suo affetto regale. Ricevette nel tempo stesso, per sua particolare cortesia, uno dei nipoti di quel servo di Dio e gli dette nella sua corte lo stesso grado per lo innanzi posseduto dallo zio; volendo con ciò attestare che il suo cambiamento di condizione non diminuiva per nulla la benevolenza e l'amicizia fino a quel punto nutrite per lui. Dopo la vestizione, san Mauro obbligò Teodoreto a mangiare nella stanza degli ospiti e di soffrire d'esser servito dai suoi religiosi. Il principe, prima di partire, fece di nuovo chiamare Florus, il quale erasi già ritirato nella solitudine, e, dopo aver versato lagrime abbondanti vedendolo in uno stato cotanto diverso dal primo, gli comandò di esser così fedele e generoso al servizio di Dio, al quale si era consacrato, come lo era stato al suo servizio, e di non mai dimenticarlo nelle sue preghiere. Così, avendo di bel nuovo assicurato il Santo e tutta la comunità della sua assistenza e protezione in tutti i loro bisogni, uscì dal monastero e ritornò lo stesso giorno ad Angers. La sua morte, avvenuta poco tempo dopo, impedì l'effetto delle sue promesse; ma suo figlio Tibaldo, e Clotario I, figlio del gran Clodoveo, suo zio, i quali ereditarono i suoi Stati, ereditarono altresì la sua magnificenza verso quei santi religiosi e gliene dettero prove in mille occasioni.

Florus visse dodici anni sotto la direzione del santo Abate, e vi fece tali progressi che divenne un uomo consumato in ogni sorta di virtù. A termine di quel tempo morì, e la sua morte fu così preziosa al cospetto di Dio, che molti Martirologi lo mettono nel numero dei santi. Il generoso disprezzo fatto delle grandezze della terra fu imitato da molti signori francesi, i quali abbandonarono il mondo ed andarono a cercare la loro salute in mezzo alle austerità del chiostro. Non potendo altri spezzar le catene che li tenevano avvinti al secolo, affidarono a Mauro i loro figliuoli, per avvezzarli per tempo al giogo piacevole di Gesù Cristo. Per tal guisa, il numero dei suoi religiosi giunse fino a 140, cui non volle accrescere ulteriormente, non potendo allora sostenere altro la rendita del monastero.

Ma siccome aveva Iddio destinato di estendere l'ordine di san Benedetto per tutta la Francia, ed una infinità di persone si presentavano per esservi ricevute, egli edificò in ogni parte dei bei monasteri sotto la regola di quel beato patriarca, ed ebbe la consolazione di vederne, prima della sua morte, 120 ripieni di fervidi religiosi. La sua vita fu un modello di ogni santità; e quantunque le parole di fuoco che uscivano dalla sua bocca servissero ad accendere i suoi figliuoli ed a portarli al più alto grado di perfezione, nulladimeno, l'incomparabile fervore ch'egli dimostrava in tutte le sue azioni e le eroiche virtù di cui ad ogni istante dava loro l'esempio, erano per essi lezioni molto più potenti ed efficaci di qualsiasi esortazione.

Iddio continuò sempre a rilevar la sua umiltà con grandi prodigi. Andando a prender possesso delle terre dategli dal re Teodeberto, restituì la salute ad un paralitico da sette anni, il quale era così deforme, che si vedeva appena il sembiante di uomo. Trovandosi in una delle sue case di campagna, moltiplicò così miracolosamente una piccola bottiglia di vino, da bastare per ricevere l'arcidiacono di Angers, che era andato a visitarlo, e più di sessanta persone del suo seguito, le quali ne bevvero a sazietà. Ritornando al convento, guarì un povero disgraziato il quale aveva il volto tutto roso da una cancrena. Dopo aver governato con somma perfezione per lo spazio di trentotto anni la sua abazia, sentendo approssimarsi la fine dei sessant'anni indicatigli da san Benedetto per termine della sua vita religiosa, non volle avere altro pensiero che di prepararsi alla morte. Rinunziò adunque, in presenza dei suoi figliuoli, alla carica di abate, e tutta la comunità, cui cagionò molto dolore tale decisione, avendolo supplicato di nominare al suo posto quegli cui giudicava più idoneo a governarli, egli scelse Bertulfo, figlio di Florus, cui le sue rare qualità, tanto naturali quanto soprannaturali, rendevano degnissimo di tal carica. In quanto ai quattro Padri venuti dall'Italia, i quali, atteso la loro avanzata età, vi erano meno adatti, comandò loro di assistere il nuovo abate, e di invigilare non alterasse minimamente la purità dell'osservanza; quindi si ritirò insieme a due religiosi, Primo ad Aniano, in una celletta vicina alla cappella di san Martino, ove cominciò una vita così austera e così spirituale, che sembrava entrare sol da quel giorno al servizio di Dio, e di non aver fatto nulla fino a quel punto.

La grazia sostenendo prodigiosamente il suo corpo, da gran tempo affievolito dalle straordinarie mortificazioni, egli passò due anni in quella solitudine, tanto soddisfatto, quasi avesse già gustate le delizie degli Angeli. Ma Iddio permise fosse momentaneamente turbata la sua gioia: eccone il motivo. Andando una notte, secondo il suo costume, a pregar nella chiesa di san Martino, trovò una legione di demoni i quali gliene disputavano l'ingresso: È gran tempo, gli disse il capo di quella turba infernale, che ti affatichi a scacciarci dalla nostra dimora ed a rovinare il nostro impero; vedremo, adesso, chi avrà il disopra, e se la temerità con la quale venisti dall'Italia, per assalirci nelle nostre fortezze, ti sarà molto proficua. Sappi dunque che noi trionferemo di tutti i tuoi sciagurati discepoli, che tu stesso ne vedrai la carneficina, ed un solo appena ve ne sarà il quale ci scapperà di mano. San Mauro, senza spaventarsi, gli rispose, che egli non era altro se non un impostore, e Dio, nel quale riponeva la sua confidenza, lo avrebbe coperto di confusione; e fu così potente la sua risposta, da far dileguare in un istante tutti quegli spiriti delle tenebre. Nondimeno, riflettendo maggiormente su ciò che aveva udito, e credendo non vi fosse qualche ombra di verità fra le minacce di quel crudele nemico, si dette insensibilmente in preda ad una profonda tristezza. Si umilia adunque, si getta con la faccia per terra, geme, sospira, grida misericordia; più è afflitto il suo cuore, più s'inabissa al cospetto di Dio e persevera lungamente nella preghiera. Nostro Signore, il quale aveva permesso quella tempesta per purificarlo, e non per punirlo, ed era con lui nel tormento, sebbene si tenesse nascosto, dissipò subito quella nube: improvvisamente gli mandò un Angelo di luce, il quale gli disse : Che il demonio, ben lungi dal riportare alcun vantaggio sui suoi discepoli, ne sarebbe, al contrario, gloriosamente vinto e conquiso; ma la divina Provvidenza aveva su di essi un disegno d'amore, di cui quell'impostore si era voluto maliziosamente prevalere; cioè di ritirar dal mondo la maggior parte di loro, per ricompensarne il merito e preparar loro un posto nel Cielo.

Il Santo benedisse Iddio di fausto annunzio; e, all'indomani, riuniti i suoi figliuoli, manifestò loro ciò che Iddio gli aveva fatto conoscere e li esortò a prepararsi alla morte, con parole così efficaci, che accese un fuoco celeste nei loro cuori di già benissimo preparati. Gareggiavano a chi fosse più assiduo all'orazione, più ardente alla penitenza e più fedele a tutte le pratiche di religione. Essi, infine, vivevano in modo da non promettersi di veder l'indomani. Infatti, nello spazio di cinque mesi, 116 religiosi passarono da questa vita in un'altra migliore, e ne restarono in Glanfeuil solamente ventiquattro, i quali soffrivano e si dispiacevano di non morire, e di vedersi riservati ad assistere alla morte del loro santo Padre. Poco tempo dopo, essendo giunta l'ora sua, si fece trasportare nell'oratorio di san Martino, ove, coricatosi sul cilizio, dopo aver con molto fervore ricevuti i sacramenti della Chiesa, rese l'anima a Dio, il giorno 15 di gennaio dell'anno 584, in età di settantadue anni e quattordici giorni. Conosciamo esservi difficoltà considerevoli per accordare il tempo del suo invio in Francia e la morte di san Benedetto con altre circostanze della sua vita, e principalmente col ciclo pasquale di quell'anno; ma, da qualunque parte derivino tali difficoltà, non debbono punto pregiudicare il fondo della storia, il quale è poggiato sulla testimonianza di tanti autori degni di fede, che non lascia alcun luogo a dubitare.

Il suo corpo fu seppellito nella chiesa stessa ove morì, a destra dell'altare maggiore, e vi riposò tranquillamente in mezzo alle rovine dell'abazia, per lo spazio di 262 anni. L'anno 845, l'abate Gozelino ne fece l'esumazione con gran pompa e magnificenza, e lo trasportò dalla detta chiesa di san Martino in un luogo più onorevole del nuovo tempio; e, quel giorno, furono guarite otto persone, cioè: tre ciechi, due zoppi, un paralitico e due donne mute. In seguito, la paura di un'irruzione per parte dei Normanni obbligò i religiosi del monastero di Glanfeuil, comunemente chiamato san Mauro sulla Loira, di portar quelle sante reliquie in una abazia fondata da san Baboleno, a due leghe da Parigi, chiamata l'abazia dei Fossi, perché restava nelle fosse dell'antico castello di Bagault, e la quale prese, nel tratto successivo, il nome di san Mauro a' Fossi.

La detta traslazione, fatta durante il IX secolo per le cure di Enea, fu accompagnata da innumerevoli prodigi. Eudes, abate di san Pietro dei Fossi, ne scrisse l'istoria, la quale si conserva anche ai nostri giorni. I canonici che avevano occupato il posto dei Benedettini, essendo stati trasferiti a san Luigi di Louvre, nel 1750, le reliquie di san Mauro furono trasportate all'abazia di san Germano dei Prati, ove erano custodite in una bellissima cassa. Ma nel mese di marzo 1793, introdottisi sediziosamente nella chiesa di san Germano alcuni rivoluzionari, si gettarono come tanti arrabbiati su tutti i corpi santi ivi conservati e ne fecero il trastullo della loro empietà. Gli avanzi che se ne potettero salvare furono in seguito bruciati da persone le quali temevano di compromettersi in quei tempi di terrore. Nell'XI secolo fu regalato un braccio del nostro Santo all'abazia di Monte Cassino. Al solo toccarlo fu liberato dal demonio un energumeno. Si sa questo fatto da Didier, allora abate di Monte Cassino, il quale poi divenne papa, sotto il nome di Vittore III.

La riforma della congregazione di San-Vanne e Sant'Idulfo, stabilita nella Lorena, dette luogo a quella che abbracciarono i Benedettini francesi nel 1621, sotto il titolo di Congregazione di san Mauro. Essa fu approvata dai pontefici Gregorio XV ed Urbano VIII. La detta congregazione era divisa in sei province, di cui il generale risiedeva a Parigi, nell'abazia di san Germano dei Prati. Loro principali case erano san Germano dei Prati, san Dionigi, Fleury ovvero san Benedetto sulla Loira, Marmontier, Vendomo, san Remigio di Rheims, san Pietro di Corbia, Fecamp, ecc. Tutti conoscono i grandi uomini prodotti dalla congregazione di san Mauro, ed i servigi che i suoi membri non cessarono di rendere alla religione ed alle lettere.

La rivoluzione fece scomparire questa società così utile e rispettabile. L'ultimo superiore generale di detta congregazione fu anche vittima dell'odio dei rivoluzionari per la religione e lo stato religioso. Ei si chiamava Antonio Chevreux, e godeva a Parigi una gran considerazione, meritata dalle sue virtù. Fu eletto, nel 1789, deputato agli Stati Generali e divenne membro della troppo famosa Assemblea nazionale; però non si fece trascinar dal torrente e non imitò la vergognosa diserzione di molti altri. In mezzo a quelle delicate prove restò salda la sua fede. Arrestato come prete fedele dopo il 10 agosto 1792 e rinchiuso nel convento dei Carmelitani, meritò di partecipare alla gloriosa sorte di tanti confessori di Gesù Cristo, i quali furono massacrati il 2 settembre seguente. Insieme a lui perì uno dei suoi nipoti anche benedettino, per nome Luigi Barreau. Il rifiuto di questo religioso di prestare il giuramento, al quale la legge non l'obbligava, essendo soltanto diacono, fu causa del suo imprigionamento e della sua morte.

Tutti i Martirologi fanno menzione di san Mauro al 15 gennaio, e tutti gli autori che scrissero la Vita dei Santi v'inserirono la sua”. Fausto, uno dei suoi compagni di viaggio in Francia, fu quegli che ne scrisse pel primo la storia, come abbiamo di già osservato. Abbiamo avuto sempre gli occhi su di essa per correggere questa, ma ci siamo avvalsi molto di quella che si trova nell'Anno Benedettino.

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Nota: Bollandisti: Studiosi gesuiti belgi incaricati dell'edizione critica e commentata dei ponderosi volumi degli Acta sanctorum, l'opera agiografica sui santi della Chiesa cattolica. I bollandisti prendono il nome dal gesuita fiammingo Jean Bolland (1596-1665), curatore, insieme a Godefroid Henschen (1601-1681), dei primi cinque tomi dell'opera, contenenti il materiale relativo ai santi venerati dal calendario cattolico nei mesi di gennaio e febbraio.


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5 marzo 2017        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net