LIBER AD MILITES TEMPLI
	
	
	DE LAUDE NOVAE MILITIAE
	
	
	
	
	ELOGIO DELLA NUOVA CAVALLERIA
	
	
	AI CAVALIERI DEL TEMPIO
	
	
	Traduzione a cura di Carlo e Giulio Cico
	
	Estratto da “La via Francigena e 
	l'idea di crociata”. Edizioni Il Chiostro 2009
	
	Autori: Francesco Saverio Barbato Romano, Corrado Gnerre, Gianandrea De 
	Antonellis
	
	
	Prologo
	A Ugo, cavaliere di Cristo e Maestro della Milizia di 
	Cristo, Bernardo, abate di Chiaravalle solo di nome: combattere il giusto 
	combattimento [2 Tm. 4, 7].
	Per, una, due e tre volte, se non erro, o dilettissimo 
	Ugo, mi hai chiesto di scrivere un discorso di esortazione per te e per i 
	tuoi compagni d’arme e di brandire lo stilo, dal momento che non mi è 
	concesso brandire la lancia, contro un nemico tirannico. Affermi che sarà 
	per voi di non poco conforto se io vi incoraggerò per mezzo dei miei 
	scritti, dal momento che non posso farlo per mezzo delle armi. Ho tardato 
	alquanto, in verità, non perché la richiesta mi sembrasse da disprezzare, ma 
	perché il mio consenso non fosse tacciato di leggerezza e frettolosità: uno 
	migliore di me potrebbe adempiere più degnamente a questo compito. Se nella 
	mia inesperienza, peccassi di presunzione rischierei di rovinare per colpa 
	mia un’opera quanto mai necessaria. Mi rendo conto di aver atteso abbastanza 
	a lungo e inutilmente, e, per non sembrare riluttante più che incapace, ho 
	fatto infine quello che ho potuto: il lettore giudichi se sono stato 
	all’altezza del compito. E se pure qualcuno rimarrà poco o niente 
	soddisfatto, non importa poiché, nella misura delle mie capacità, io non ho 
	deluso la tua aspettativa.
	I. 
	Esortazione al Cavalieri del Tempio
	1. Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo 
	genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada che 
	un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella 
	carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano 
	[Is. 10,13] scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la 
	schiera dei suoi forti seguaci di quelli, i figli dell’incredulità, 
	riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella 
	casa di David, suo servo. [Ef. 2, 2; Lc. 1, 69]. Un nuovo genere di 
	Cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi 
	combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il 
	sangue, sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile. [Ef. 6, 12]. In 
	verità quando valorosamente si combatte con le sole forze psichiche contro 
	un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale. E quando 
	col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora 
	dirò che questo è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna 
	di lode, al momento che il mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente 
	ed il monaco con il coraggio si cingono ciascuno con forza la propria spada 
	e nobilmente si fregiano del proprio cingolo chi non potrebbe ritenere un 
	fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora 
	insolito? È davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che come 
	si riveste il corpo di ferro, così riveste la sua anima con l’armatura della 
	fede [1 Ts. 5, 8]. Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non 
	teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte egli che desidera 
	morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il 
	quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno? [Fil. I, 21]. Egli sta 
	saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor più 
	desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo [Fil. 1, 23]: 
	questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri, cavalieri e con 
	intrepido animo respingete i nemici della croce del Cristo! [Fil. 3, 18]. 
	Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio 
	che è in Cristo Gesù. [Rm. 8, 38]. E ripetete nel momento del pericolo, ben 
	a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al Signore. [Rm. 14, 
	8]. Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto beati 
	muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se vivi e 
	vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se 
	morirai e ti unirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la 
	vittoria gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte 
	sacra. Se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore [Ap. 14, 13], 
	quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore?
	2. È senza dubbio preziosa al cospetto di Dio la morte 
	dei suoi santi [Sal. 115, 15] ma la morte in combattimento ha molto più 
	valore in quanto è più gloriosa. Oh, vita sicura, quando vi sia coscienza 
	pura! Oh, dico io, vita sicura quanto la morte è attesa senza terrore, ma è 
	addirittura desiderata con gioia ed accettata con devozione! Oh, Cavalleria 
	veramente santa e sicura e del tutto immune dal duplice pericolo nel quale 
	gli uomini corrono spesso il rischio di cadere quando la causa del 
	combattimento non è solo in Cristo. Infatti, tu che sei cavaliere secondo le 
	norme della cavalleria secolare, ogni volta che entri in battaglia devi 
	soprattutto temere di uccidere te stesso nell’anima se uccidi Il nemico nel 
	corpo o di essere ucciso nell’anima e nel corpo se è il tuo nemico ad 
	ucciderti. Inoltre, per il cristiano, il pericolo o la vittoria vengono 
	giudicati non dal successo delle azioni, ma dalla disposizione del cuore Se 
	la causa per la quale si combatte è buona, l’esito della battaglia non potrà 
	essere cattivo, allo stesso modo non sarà stimata buona conclusione quella 
	che non sia stata preceduta da una buona causa e da una retta intenzione Se 
	nell’intenzione di uccidere l’avversario ti succederà invece di essere 
	ucciso, tu morirai da omicida. E se avrai il sopravvento nel desiderio di 
	sopraffare e di vendicarti, vivrai da omicida. L’omicidio non giova né a chi 
	vive, né al vinto né al vincitore. Infelice vittoria quella mediante la 
	quale, vincendo un uomo, soccombi al peccato! E dal momento che sei dominato 
	dall’ira o dalla superbia, invano ti glorierai di aver dominato il tuo 
	avversario. Vi è tuttavia chi uccide non per desiderio di vendetta né per 
	brama di vitto a, ma solo per salvare la propria vita. Ma neppure questa 
	affermerò essere una buona vittoria: dei due mali il minore è morire nel 
	corpo che nell’anima. Infatti l’anima non muore per l’uccisione del corpo: 
	ma l’anima che avrò peccato morrà. [Ez. 18, 4]
	II. Della Cavalleria secolare
	3. Qual è dunque il fine ed i vantaggi di quella 
	cavalleria secolare che io non chiamo “milizia” ma “malizia” dal momento che 
	l’uccisore pecca mortalmente e chi muore perisce per l’eternità? Infatti, 
	per usare le parole dell’Apostolo: chi ara deve arare nella speranza e chi 
	batte il grano nella speranza di coglierne i frutti [1 Cor. 9, 10]. 
	Pertanto, cos’è, cavalieri questo errore tanto sbalorditivo, questa follia 
	tanto insopportabile: compiere la vostra milizia con tante spese e fatiche 
	senza nessun altra ricompensa se non la morte ed il crimine? Bardate di seta 
	i cavalli, e sopra le vostre armature indossate non so quali bande di stoffa 
	ondeggianti; dipingete le lance e gli scudi e le selle; abbellite con oro, 
	argento e gemme i morsi e gli speroni E con tanto sfarzo, con un furore 
	vergognoso e una stupidità che vi impedisce la vergogna vi precipitate alla 
	morte. Ma sono questi ornamenti militari o piuttosto abbigliamenti da donne? 
	Credete forse che la spada del nemico rispetterà l’oro, risparmierà le gemme 
	e non sarà in grado di trapassare la seta? Ed infine tre sono le qualità 
	principalmente necessarie al combattente – cosa che voi stessi molto spesso 
	e concretamente avete sperimentato – cioè che il cavaliere sia risoluto, 
	abile e circospetto per la propria salvezza, libero da impedimenti per poter 
	correre e pronto a colpire. Voi, al contrario, lasciate crescere con uso 
	femmineo la chioma a molestia degli occhi, impacciate i passi con camicie 
	lunghe e fluenti, seppellite le mani tenere e delicate in maniche ampie e 
	svolazzanti. Ma, al di sopra di tutto ciò, vi è – cosa che maggiormente 
	atterrisce la coscienza d’un uomo d’armi – la causa leggera e frivola per la 
	quale intraprendete la vita di cavalleria tanto pericolosa. Tra voi 
	null’altro provoca le guerre se non un irragionevole atto di collera, 
	desiderio d’una gloria vana, bramosia di qualche bene terreno. E certamente 
	per tali motivi non è senza pericolo uccidere o morire.
	III. La nuova Cavalleria
	4. I Cavalieri di Cristo, al contrario, combattono 
	sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per 
	l’uccisione dei nemici né pericolo se cadono in combattimento. La morte per 
	Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di 
	peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si 
	guadagna per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta 
	certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più 
	volentieri offre se stesso al combattente come conforto. Affermo dunque che 
	il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora 
	maggiore cade. Morendo vince per se stesso, dando la morte vince per Cristo. 
	Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la 
	punizione dei malvagi e la lode dei giusti. [Rm. 13,4; 1 Pt. 2, 14]. Quando 
	uccide un malfattore giustamente non viene considerato un omicida, ma, 
	oserei dire, un «malicida» e vendicatore da parte di Cristo nei confronti di 
	coloro che operano il male, difensore del popolo cristiano E quando invece 
	viene ucciso si sa che non perisce ma raggiunge il suo scopo. La morte che 
	infligge è una vittoria di Cristo; quella che riceve è a proprio vantaggio. 
	Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene 
	glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo Re 
	che chiama a sé il suo cavaliere per donargli la ricompensa. Pertanto sul 
	nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta [Sal. 57, 11]. Ma 
	sul cavaliere ucciso si dirà: – Il giusto guadagna ad essere tale? Sì, 
	perché Dio gli rende giustizia sulla terra. [Sal. 57, 12]. Certo non si 
	dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse 
	impedire la loro eccessiva molestia e l’oppressione dei fedeli. Ma nella 
	situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi, piuttosto che lasciare 
	senza scampo la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e 
	affinché i giusti non spingano le loro azioni fino alla iniquità.
	5. E che, dunque, se ferire di spada fosse del tutto 
	illecito per il Cristiano, perché dunque l’araldo del Salvatore avrebbe 
	prescritto ai soldati di essere contenti dei loro stipendi [Lc. 3, 14] e non 
	avrebbe piuttosto interdetto loro l’uso di ogni arma? Se invece è permesso a 
	tutti – e ciò risponde a verità – o almeno a quelli ordinati espressamente 
	per volere divino all’esercizio delle armi, è che non hanno fatto voto di 
	maggior perfezione da chi, io chiedo, dovrebbe esser tenuta la nostra città 
	di Sion, città della nostra fortezza, se non dal braccio e dal valore dei 
	cristiani, per protezione nostra e di tutti? Così che, avendone scacciati i 
	trasgressori della legge divina, con sicurezza vi entrino i giusti, custodi 
	della verità. Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la 
	guerra [Sal. 67, 31]; siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano 
	scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar 
	via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi 
	riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in 
	figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle 
	teste dei nemici per distruggere qualunque superbia che osi ergersi contro 
	la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinché le nazioni non 
	dicano: Dov’ è il loro Dio? [Sal. 113, 2]
	6. Quando tutti gli infedeli saranno stati scacciati 
	riprenderà possesso della sua casa e della sua eredità quello stesso che a 
	proposito di essa gridò con collera nel Vangelo: Ecco, la nostra dimora sarà 
	lasciata deserta [Mt. 23, 38], e che per bocca del profeta si era lamentato: 
	Ho lasciato la mia casa, ho abbandonato la mia eredità [Ger. 12, 7]. Egli 
	adempierà in tal modo quella profezia: Il Signore ha riscattato il suo 
	popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sulla montagna di Sion e 
	godranno i benefici del Signore [Ger. 31, 11-12]. Rallegrati, Gerusalemme, e 
	riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi, 
	rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha 
	riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza a cospetto di 
	tutte le nazioni [Is. 52, 9-10]. Tu eri caduta, o Vergine d ‘Israele, e non 
	c ‘era chi ti risollevasse: sorgi, dunque, o vergine, scuoti la polvere, o 
	sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore 
	[Is. 52, 2], e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno 
	più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il 
	Signore si è compiaciuto di te [Is. 62, 64], ed il tuo territorio sarà 
	ripopolato. Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono riuniti e 
	sono venuti a te [Is. 49, 18]. Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto. 
	Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: 
	Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di 
	generazione in gene razione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai 
	alle mammelle riservate ai re [Is. 60, 15]. Ed ancora: Così come la madre 
	consola i suoi figli, così io vi consolerò, ed in Gerusalemme sarete 
	confortati [Is. 66, 13]. Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza 
	la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo 
	udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti [Sal. 49, 
	7]? Ma non bisogna che l’interpretazione della lettera nuoccia alla 
	comprensione dello spirito: le parole dei profeti, che noi speriamo di veder 
	realizzate per l’eternità, le adattiamo a questi nostri tempi in modo che 
	ciò in cui crediamo non svanisca a causa di ciò che vediamo, e affinché la 
	pochezza dei beni di questa terra non faccia scemare la ricchezza del la 
	speranza e la testimonianza delle cose presenti non tolga speranza per 
	l’avvenire. La gloria temporale della città terrena non distrugge i beni 
	celesti, al contrario li garantisce; a patto che noi sappiamo riconoscere in 
	questa [Gerusalemme terrena] l’immagine della città del cielo, nostra madre 
	[cfr. Ap. 21, 9-27].
	IV. Come devono comportarsi i Cavalieri del 
	Tempio
	7. Ma ora, per dare un esempio e per confondere i 
	nostri cavalieri secolari, che certamente non militano per Dio ma per i! 
	diavolo, trattiamo brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di 
	Cristo: come essi si comportano in guerra e in pace, affinché appaia 
	chiaramente quanto differiscano tra loro la cavalleria di Dio e la 
	cavalleria del secolo. Innanzitutto certamente non manca la disciplina, né 
	l’obbedienza viene mai disprezzata: poiché, secondo la testimonianza della 
	Scrittura, Il figlio disobbediente perirà [Eccl. 22, 3] e Opporsi alla 
	disciplina è peccato pari all’esercizio della magia, e non voler obbedire è 
	peccato quasi come l’idolatria [1 Re. 15, 23]. Ad un cenno del superiore si 
	viene e si va si veste di ciò che egli donò; né si attende da altre fonti il 
	nutrimento e il vestito. Nel vitto e nell’atteggiamento ci si astiene da 
	ogni cosa superflua, si provvede alla pura necessità. Si vive in comune, con 
	un genere di vita sobrio e lieto senza spose e figli. E affinché la 
	perfezione evangelica sia completamente realizzata, essi abitano in una 
	stessa casa, con una stessa regola di vita e senza possedere niente di 
	proprio solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace 
	[Ef.  4, 3]. Diresti che tutta questa 
	gente abbia un cuore solo ed un’anima sola: a tal punto ognuno si sforza di 
	seguire non la propria volontà ma quella di chi comanda. Non siedono mai 
	oziosi, né gironzolano curiosi; ma quando non sono occupati in guerra [cosa 
	che succede davvero di rado], per non mangiare il pane ad ufo riparano le 
	armi e le vesti danneggiate, o rinnovano quelle vecchie, o mettono in ordine 
	ciò che è in disordine, ed infine la volontà del maestro e la comune 
	necessità dispongono il da farsi Tra di essi nessuna preferenza: il rispetto 
	è dato al migliore, non al più nobile di natali. Fanno a gara nell’onorarsi 
	a vicenda [Rm. 12, 10]; e vicendevolmente portano il loro fardello, per 
	compiere così la legge di Cristo [Gal. 6, 2]. Mai una parola insolente, 
	un’azione inutile, una risata sguaiata, una mormorazione per quanto leggera 
	e fatta sottovoce, quando vengono colte in fallo restano impunite. Detestano 
	il gioco degli scacchi e dei dadi; la caccia è tenuta in spregio, né si 
	rallegrano della cattura di uccelli per diporto cosa molto in voga 
	[altrove]. Sdegnano ed aborriscono i mimi, i fattucchieri, i cantastorie, le 
	canzoni scurrili, gli spettacoli dei giocolieri, e così pure le vanità e le 
	follie contrarie alla verità. Tagliano corti i capelli sapendo che, come 
	dice l’apostolo, è vergognoso per un uomo curarsi la chioma [1 Cor. 11,4]. 
	Non si acconciano mai, si lavano dirado, ma sono piuttosto irsuti per la 
	capigliatura negletta, bruttati di polvere, abbronzati dal l’armatura e dal 
	forte calore.
	8. Quando giunge l’ora della battaglia, essi si armano 
	di dentro con la fede e di fuori col ferro e non con l’oro, affinché i 
	nemici abbia no terrore di loro e non invidia, essi sono armati, cioè, e non 
	ornati Vogliono cavalli forti e veloci e non ricoperti da sgargianti 
	gualdrappe e finimenti di lusso: essi si preoccupano infatti della battaglia 
	e non dello sfarzo, della vittoria, non della gloria, e badano d’esser 
	piuttosto causa di terrore che d’ammirazione. Pertanto non turbolenti ed 
	impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e 
	con ogni cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così come è 
	stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di 
	pace s’avanzano per la battaglia [cfr. 2 Mac. 15, 20]. Ma al momento dello 
	scontro, e allora soltanto, smessa la dolcezza di prima, come dicessero: Non 
	devo forse odiare chi Ti odia, o Signore, e detestare i Tuoi avversari? 
	[Sal. 138,21] fanno impeto contro i propri avversari, reputano i propri 
	nemici branchi di pecore e mai, pur essendo pochissimi, temono la crudele 
	barbarie e la schiacciante moltitudine. Essi hanno infatti appreso a non 
	confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del 
	Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei 
	Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che 
	per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la 
	vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien 
	dall’alto [I Mac. 3, 18-19]. E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, 
	così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi 
	in fuga diecimila [cfr. Sal. 90]. Così dunque per una singolare ed 
	ammirabile combinazione sono, a vedersi, più miti degli agnelli e più feroci 
	dei leoni, a tal punto che dubito se sia meglio chiamarli monaci o piuttosto 
	cavalieri. Ma, forse, potrei chiamarli più esattamente in entrambi i modi, 
	poiché ad essi non manca né la dolcezza del monaco né la fermezza del 
	cavaliere. E di questa qualità cosa si potrebbe dire se non che è opera di 
	Dio, ed è degna di ammirazione ai nostri occhi [Ct. 3,7-8]? Dio stesso ha 
	scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mon do 
	questi Suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi 
	d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone 
	– cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai 
	nell’arte della guerra [Sal. 117, 23].
	V. Il Tempio
	9. Il tempio di Gerusalemme, nel quale hanno comune 
	dimora, è una costruzione senza dubbio più modesta dell’antico e di gran 
	lunga più famoso tempio di Salomone, ma non gli è inferiore in gloria. 
	Mentre lo splendore di quello consisteva in cose corruttibili d’oro e 
	d’argento [1 Pt. 1, 18], nella squadratura delle pietre, nella varietà dei 
	legni, tutto il decoro di questo, al contrario, e l’ornamento che fa gradita 
	la sua bellezza è la devota religiosità dei suoi abitanti ed il loro 
	disciplinatissimo genere di vita. Il primo tempio s’imponeva all’ammirazione 
	per la varietà dei colori; il secondo è degno di venerazione per le svariate 
	virtù e le sante azioni. La santità conviene infatti alla casa di Dio, 
	poiché Egli si compiace non tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei 
	costumi morigerati ed ama le menti pure più che le pareti dorate [cfr. Sal. 
	92, 5]. Tuttavia l’aspetto di questo tempio è anch’esso ornato, ma di armi, 
	non di gemme. Ed invece delle antiche corone d’oro, le pareti sono ricoperte 
	di scudi appesi tutt’intorno; e invece dei candelieri, de gli incensieri, 
	dei vasi, la dimora è provvista d’ogni parte di freni, di selle, di lance. 
	Queste cose dimostrano apertamente che i cavalieri fervono per la casa di 
	Dio del medesimo zelo del quale una volta violentissimamente infiammato il 
	Condottiero stesso dei cavalieri, avendo armato la sua mano santissima non 
	di spada ma di un flagello fatto di funicelle, entrò nel tempio e ne scacciò 
	i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi dei 
	venditori di colombe, giudicando cosa oltremodo indegna che una casa di 
	orazione fosse macchiata da mercanti di tal fatta [cfr. Mt. 20, 12-13; Gv. 
	2, 14-16]. Pertanto, trascinata dall’esempio del suo Re, questa armata 
	consacrata, giudicando a ragione di gran lunga più indegno che i luoghi 
	santi siano infestati dagli infedeli invece d’essere contaminati dai 
	mercanti, vivono nella casa santa con armi e cavalli; e così, avendo 
	rigettato da essa e da tutti i luoghi santi ogni sozza e tirannica rabbia de 
	gli infedeli, ci si intrattengono notte e giorno in occupazioni tanto utili 
	quanto oneste. Essi onorano a gara il tempio di Dio con assiduo e sincero 
	ossequio, immolando in esso con devozione perenne, non carni ovine secondo 
	l’antico rito, ma vittime pacifiche: l’affetto fraterno e l’ubbidienza 
	fedele, la povertà volontaria.
	10. Questi fatti avvengono in Gerusalemme, ed il mondo 
	intero ne è scosso. Le isole stanno in ascolto; i popoli lontani osservano e 
	da Oriente ad Occidente ribollono come un torrente di gloria universale che 
	straripa, e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio [cfr. Is. 
	49, 1]. Ma ciò che appare più bello ed offre più vantaggi è che, in quella 
	folla tanto numerosa che confluisce a Gerusalemme, pochi sono Certamente 
	coloro che non siano stati scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi, 
	spergiuri, adulteri E, come dalla loro partenza scaturisce un doppio 
	beneficio, essa produce una duplice gioia: dal momento che essi danno tanta 
	gioia alloro prossimo quando se ne vanno, quanta ne danno a coloro in 
	soccorso dei quali si dirigono. Essi sono infatti ben accolti in entrambi i 
	casi, non solo difendendo questi [i cristiani pellegrini a Gerusalemme] ma 
	anche cessando di opprimere quelli [i loro conterranei]. Così si rallegra 
	l’Egitto per la loro partenza, come pure si allieta il monte Sion di averli 
	come protettori ed esultano le figlie di Giuda [Sal. 47, 12]. Il primo si 
	rallegra di esser stato liberato da loro, il secondo di esser liberato per 
	opera loro. Quello di buon grado perde i suoi crudelissimi devastatori; 
	questo con gioia ha accolto i suoi fedelissimi difensori, e mentre questa 
	nazione viene con gran gioia consolata, quello intanto viene abbandonato con 
	uguale grande vantaggio. Così Cristo sa vendicarsi dei suoi nemici, non solo 
	trionfando sudi essi, ma essendo anche solito spesso trionfare per mezzo di 
	essi con tanta più gloria quanto maggiore è la potenza. È cosa lieta, a 
	ragione, ed utile: che ora cominci a rendere suoi difensori quelli che 
	sopportò a lungo come suoi persecutori, e Colui che trasformò un tempo Saulo 
	persecutore in Paolo predicatore faccia del suo nemico un suo cavaliere 
	[cfr. At. 9]. Pertanto io non mi meraviglio affatto se quella corte celeste, 
	secondo la testimonianza del Salvatore, esulta più per un peccatore pentito 
	che per molti giusti che non hanno bisogno di penitenza [Lc. 15, 7]: poiché 
	la conversione di un malvagio e di un peccatore senza dubbio giova a tanti 
	quanti erano quelli cui egli aveva nuociuto.
	11. Salve, dunque, o Città Santa, che l’Altissimo in 
	persona ha consacrato per sé come suo tabernacolo, in modo che in te e per 
	te venissero salvate tante generazioni [cfr. Ap. 22, 19]. Salve, Città del 
	gran Re, dalla quale mai vennero meno fin dall’inizio ed in quasi tutti i 
	tempi miracoli sempre nuovi e lieti per il genere umano. Salve, signora 
	delle genti, guida delle nazioni, retaggio dei Patriarchi, madre dei Profeti 
	e degli Apostoli, Iniziatrice della Fede, gloria del popolo cristiano, tu 
	cui Dio sempre, fin dal principio, permise che fossi combattuta affinché 
	potessi essere occasione di valore e di salvezza per i forti. Salve o Terra 
	Promessa, che un tempo facevi scorrere latte e miele solo per i tuoi figli 
	ed ora fai scorrere i farmaci della salvezza per tutto il mondo, il 
	nutrimento di vita, O Terra, dico, buona ed eccellente, tu che hai ricevuto 
	nel tuo fecondissimo seno i! grano celeste dall’arca del cuore del Padre ed 
	hai prodotto, da questa celeste semenza, tanto grande messe di martiri, e 
	nondimeno tu, fertile gleba, hai prodotto frutto dal la stirpe dei fedeli 
	moltiplicandolo trenta, sessanta e cento volte sopra ogni contrada. 
	Lietissimamente saziati e abbondantemente nutriti dalla tua sconfinata 
	dolcezza, coloro che ti hanno conosciuto diffondono ovunque il ricordo della 
	tua soavità inesauribile e narrano a coloro che non ti hanno conosciuto la 
	magnificenza della tua gloria fino agli estremi limiti del mondo. Essi 
	raccontano le meraviglie che in te si compiono. Si dicono dite cose 
	stupende, o Città di Dio! [Sal. 86, 3]. Ebbene, anche noi diremo del tuo 
	nome brevi parole di lode e gloria a proposito delle delizie delle quali sei 
	colma fino a straripare.
	VI. Betlemme
	12. Ecco, prima di tutto, Betlemme, “casa del pane” 
	[Gv. 6, 51] per il ristoro delle anime sante: in essa per la prima volta si 
	mostrò come Pane vivo Colui che discese dal Cielo, quando la Vergine lo 
	partorì. E lì viene mostrata la mangiatoia ai pii animali e nella mangiatoia 
	il fieno del prato verginale, affinché in tal modo il bue riconosca il suo 
	padrone e l’asino il presepe del Signore suo. Poiché ogni essere mortale è 
	come erba, e tutta la sua gloria come fiore in un prato [Is. 40, 6]. Ma 
	l’uomo, non comprendendo l’onore di essere uomo, fu comparato ai bruti privi 
	d’intelligenza e divenne come loro [Sal. 48, 13]. Il Verbo, Pane degli 
	Angeli, divenne pasto per i giumenti affinché avessero da ruminare il fieno 
	della sua carne, dal momento che persero del tutto l’abitudine di nutrirsi 
	col Pane della Parola: fino a quando la creatura, restituita dall’Uomo-Dio 
	alla sua dignità originaria e da bestia trasformata di nuovo in uomo, potrà 
	dire con Paolo: Per quanto abbiamo conosciuto il Cristo solo secondo la 
	carne, ora però non lo conosciamo più così [2 Cor. 5, 16]. Ma credo che 
	nessuno possa parlare con verità se non colui che abbia, come Pietro, 
	ascoltata quella verità dalla bocca stessa della Verità: Le parole che vi ho 
	detto sono spirito e vita: la carne, infatti, non vivifica [Gv. 6, 64]. Del 
	resto chi ha trovato la vita nelle parole del Cristo non cerca più la carne: 
	egli rientra nel novero dei bea ti, che non hanno veduto ed hanno creduto 
	[Gv. 20, 29]. Infatti nessuno ha bisogno del latte se non il bambino, e solo 
	l’animale ha bisogno del fieno. Ma colui che non inciampa nella Parola è 
	uomo perfetto e può cibarsi di cibi solidi; egli mangia il pane del Verbo 
	senza offesa, anche se col sudore della Sua fronte. Anzi, sicuro e senza 
	scandalo egli annunzia la sapienza di Dio ai perfetti, procacciando cibo 
	spirituale a coloro che vivono nello spirito; quando però si rivolge ai 
	fanciulli e al gregge, è cauto nel proporre loro, d’accordo con le loro 
	capacità di comprensione, Gesù e Gesù Crocifisso [1 Cor. 2,2]. Lo stesso e 
	medesimo cibo proviene dai pascoli celesti e viene ruminato dal gregge e 
	consumato dall’uomo, nutre il piccolo e dà forza agl’uomini.
	VII. Nazareth
	13. Vediamo anche Nazareth, il nome della quale è 
	interpretato come “fiore”; in essa fu nutrito il Dio fanciullo che era nato 
	a Betlemme, così come il frutto si forma sul fiore: affinché il profumo del 
	fiore precedesse il sapore del frutto ed il succo santo, che i Profeti 
	odorano, si riversasse nella bocca degli Apostoli. Gli Ebrei si 
	accontentarono del sottile profumo, i cristiani si sono però saziati con 
	l’alimento solido Tuttavia Natanaele aveva percepito l’odore di questo fiore 
	che sorpassava per dolcezza ogni altro fiore, e per questo si chiese: Può da 
	Nazareth venire qualcosa di buono? [Gv. 1,45] e, non contentandosi della 
	sola fragranza, seguì Filippo che gli aveva risposto: vieni e vedi [Gv. 1, 
	46]. Anzi, dilettato quanto mai dallo spargersi della sua stupenda dolcezza, 
	avendo respirato la soave fragranza divenne ancor più desideroso di 
	assaporarlo e, guidato dal profumo, fu sollecito ad arrivare al frutto, 
	volendo godere più pienamente ciò che aveva appena presentito ed assaggiare 
	di persona ciò che da lontano aveva odorato. E consideriamo se anche Isacco 
	non abbia percepito qualcosa del profumo del quale stiamo trattando. Di lui 
	così dice la Scrittura: Appena ebbe sentito la fragranza delle vesti [di 
	Giacobbe]: «Ecco, gridò, l’odore di mio figlio, come il profumo di un campo 
	ubertoso che il Signore ha benedetto!» [Gen. 27,27]. Sentì il profumo delle 
	vesti ma non riconobbe la presenza di chi le portava e, dilettatosi solo 
	esteriormente della veste come del profumo di un fiore, non avendo gustato 
	l’interna dolcezza di frutto rimase così privo della conoscenza 
	dell’elezione di suo figlio e del sacro mistero. A cosa si riferisce ciò? La 
	veste dello spirito è la lettera, carne del Verbo. Ma gli Ebrei neppure ora 
	riconoscono né il Verbo nella carne né la divinità nell’Uomo né intravedono 
	il significato spirituale sotto il senso della lettera. Palpando 
	esternamente [come Isacco] la pelle del capro, che esprime la somiglianza 
	col progenitore, cioè col primo ed antico peccatore, non giunsero alla nuda 
	verità. Colui che era venuto non a peccare ma per assumere su di sé i 
	peccati degli uomini si manifestò non già nella carne del peccato ma in 
	somiglianza materiale della carne del peccato [Rm. 8, 3], per l’adempimento 
	di quella missione della quale Egli stesso non fece mistero: Affinché i 
	ciechi veda no, e quelli che vedono divengano ciechi [Gv. 9, 39]. Tratto in 
	inganno da questa somiglianza il popolo del quale i profeti avevano 
	vaticinato il Messia, ancor oggi, cieco, benedice colui che ignora e di 
	sconosce nei miracoli Colui di cui raccoglie continuamente testimonianza 
	nelle Scritture. Non comprende Colui verso cui pure stende la mano per 
	legarlo, flagellarlo, schiaffeggiarlo, e neppure Lo comprende nella sua 
	resurrezione. Se infatti Lo avessero riconosciuto, non avrebbero mai 
	crocefisso il Signore della gloria [1 Cor. 2, 8]. Ma percorriamo con una 
	breve descrizione anche gli altri luoghi santi e, se non proprio tutti, 
	almeno alcuni. Dal momento che non possiamo soffermarci su ciascuno in 
	particolare ricordiamo almeno i più illustri.
	VIII. Il Monte degli Ulivi e la Valle di 
	Gjosafat
	14. Si ascende al Monte degli Ulivi e si discende nella 
	Valle di Giosafat per poter meditare sui tesori della divina misericordia, 
	senza però trascurare la spaventosità del giudizio; poiché, sebbene Dio sia 
	largo nel perdonare nella sua grande misericordia, tuttavia il suo giudizio 
	è un abisso profondo attraverso il quale Egli si mostra terribile ai figli 
	degli uomini. David si riferisce al Monte degli Ulivi quando dice: Tu 
	salverai uomini ed animali, o Signore; a tal punto hai moltiplicato, Dio, la 
	tua misericordia! [Sal. 35, 7-8] ma nel medesimo salmo ricorda anche la 
	valle del giudizio dicendo: Non si alzi contro di me il piede del superbo, 
	né mi muova la mano del peccatore! [Sal. 35, 12] e confessa di essere 
	atterrito da quel giudizio quando in un altro salmo dice: Trafiggi le mie 
	carni col timore di te. Infatti ho tremato davanti ai tuoi giudizi [Sal. 
	118, 120]. Il superbo cade a precipizio in questa valle e viene abbattuto: 
	l’umile vi discende e non corre pericolo. Il superbo giustifica il suo 
	peccato, l’umile si accusa, sapendo che per questo Dio non giudica due volte 
	il medesimo errore e che se ci giudicheremo non saremo giudicati [1 Cor. 11, 
	31].
	15. Il superbo, non comprendendo quanto sia terribile 
	cadere tra le mani del Dio vivente [Eb. 10, 31], leggermente prorompe in 
	perfide parole per scusare i suoi peccati [Sal. 140, 4]. Ed è davvero una 
	grande malizia che tu non abbia pietà dite stesso, e che rifiuti l’unico 
	rimedio della confessione dopo il peccato, e che tu voglia piuttosto 
	racchiudere il fuoco nel tuo petto invece di allontanarlo, né hai dato 
	ascolto al giudizio del Sapiente che dice: Abbi pietà della tua anima e 
	piacerai a Dio [Eccl. 30, 24]. E chi è malvagio con se stesso con chi mai 
	potrà essere buono? Ora avviene il giudizio del mondo, ora il principe di 
	questo mondo ne verrà scacciato: fuori dal tuo cuore, se tu stesso ti 
	giudicherai con umiltà. Vi sarà il giudizio del cielo, quando Dio convocherà 
	a sé il cielo e la terra per riconoscere i suoi [Sai, 49, 4]. Allora temere 
	dovrai di non venire respinto con quello stesso [ diavolo] e coi suoi angeli 
	perché sei stato trovato non giudicato. D’altronde l’uomo spirituale, che 
	giudica ogni sua azione, da nessuno è giudicato [cfr. 1 Cor. 11, 15]. Per 
	questo il giudizio incomincia nella casa di Dio: perché il Giudice, che 
	conosce i suoi, li trovi giudicati: e non abbia più nulla di loro da 
	giudicare, dal momento che sono da giudicare coloro che non condividono le 
	fatiche degli uomini e con gli uomini non sono flagellati [Sal. 72, 5].
	IX. Il Giordano
	16. Quanto è lieto il Giordano di ricevere nel suo 
	grembo i cristiani, lui che si gloria di esser stato consacrato dal 
	battesimo del Cristo [cfr. 4 Re. 5, 12]. Senza dubbio mentì quel lebbroso 
	siriano che preferì non so quali acque di Damasco a queste d’Israele, dal 
	momento che il nostro Giordano ha provato tante volte il suo devoto servizio 
	a Dio sia quando si aprì ad Elia [cfr. 4 Re. 2,1-14], sia quando si offrì 
	asciutto ad Eliseo, sia [per ricordare un fatto più antico] quando frenando 
	mirabilmente l’impeto delle sue correnti, permise il passaggio di Giosuè e 
	del suo popolo [cfr. Gs. 3]. E, infine, quale tra i fiumi è più nobile di 
	questo che la Trinità stessa ha consacrato a sé con una presenza davvero 
	evidente? [cfr. Lc. 3, 2 1-22]. Il Padre fu udito. Lo Spirito Santo fu 
	visto. Il Figlio fu battezzato. A ragione, quindi, anche il popolo tutto dei 
	fedeli esperimenta nell’anima per volontà di Cristo la stessa virtù che 
	Naaman sentì nel suo corpo dopo aver seguito i consigli del profeta [cfr. 4 
	Re. 5, 14].
	X. Il Calvario
	17. Si esce fuori [da Gerusalemme] dirigendosi verso il 
	Calvario, là dove il vero Eliseo, deriso da stolti fanciulli, infuse nei 
	suoi il suo eterno sorriso, dei quali disse: «Ecco me ed i miei fanciulli 
	che il Signore mi ha dato» [Is. 8, 18]. Questi sono i fanciulli giusti che 
	il Salmista, in contrasto con la malignità degli altri sprona alla lode 
	cantando: Lodate il Signore; fanciulli, lodate il nome del Signore [Sal. 
	112, 1]. Poiché sulla bocca dei santi fanciulli e dei lattanti la lode sarà 
	portata a compimento, essa che svanì dalle labbra degli invidiosi dei quali 
	è detto: Ho nutrito e cresciuto dei figli, ma essi mi hanno disprezzato [Is. 
	1, 2]. Salì sulla croce quel nostro Eliseo [ lett. “il Calvo” poiché Eliseo, 
	che era calvo, è prefigurazione dei Cristo, cfr. 3 Re. 12,28] esposto al 
	mondo in favore dei mondo: a viso aperto e fronte scoperta, compiendo la 
	purificazione dell’umanità carica di peccati, non arrossì per la vergogna di 
	una morte crudele ed obbrobriosa né inorridì di fronte a quella pena. Non 
	v’è da meravigliarsi: perché avrebbe dovuto arrossire Egli che ci lavò dai 
	peccati [Ap. 1, 5], non come l’acqua che pulisce ma trattiene in sé le 
	impurità, ma come raggio di sole che arde le impurità e conserva la sua 
	purezza? La sapienza di Dio tutto raggiunge grazie alla sua purezza.
	XI. Il Sepolcro
	18. Tra tutti i luoghi santi e degni d’amore il 
	Sepolcro ha, in un certo senso, il primo posto. Si prova un non so che di 
	teneramente de voto più dove Egli riposò da morto che dove dimorò da vivo. 
	Il ricordo della sua morte muove a pietà più di quello della sua vita. Penso 
	che ciò avvenga perché la morte sembra più crudele e la vita più dolce e la 
	quiete del sonno lusinga l’umana debolezza più del la fatica del vivere, il 
	quieto stato della morte più che il diritto sentiero della vita. La vita di 
	Cristo mi offre un modello per la vita; ma la sua morte mi offre la 
	redenzione dalla morte. La sua vita mi insegnò a vivere, ma la sua morte 
	distrusse la morte. Laboriosa è stata la sua vita, preziosa la sua morte. 
	Entrambe furono necessarie. Ma a cosa potrebbe giovare la morte del Cristo 
	ad uno che viva empiamente e a che cosa la sua vita ad uno che muoia da 
	dannato? Forse che la morte del Cristo, ancor oggi, serve a liberare dalla 
	morte eterna coloro che fino alla morte hanno vissuto in colpa? E la santità 
	della sua vita ha liberato i Santi Padri vissuti prima della sua venuta? 
	Così sta scritto: Quale dei viventi non vedrà la morte e potrà strappare la 
	sua anima dalle grinfie dell’abisso? [Sal. 88, 49]. Erano dunque per noi 
	egualmente necessarie e l’una e l’altra, e la sua vita giusta e la sua morte 
	impavida. Vivendo insegnò a vivere e morendo rese sicuro il morire: è morto 
	per risorgere ed ha fondato la speranza della resurrezione per coloro che 
	muoiono. Ma a ciò Egli aggiunse un terzo beneficio, senza il quale ne anche 
	il resto sarebbe servito: la remissione dei peccati. Difatti, per quanto 
	concerne la vera e suprema beatitudine, cosa avrebbe potuto giovare a chi 
	era tenuto prigioniero anche dal solo peccato originale una vita per quanto 
	retta e di lunga durata? Il peccato ha infatti preceduto la morte e se 
	l’uomo l’avesse evitato non avrebbe assaporato la morte in eterno.
	19. Peccando l’uomo perse la vita e trovò la morte: Dio 
	stesso l’aveva infatti predetto – e rispondeva a giustizia – che se l’uomo 
	avesse peccato sarebbe morto. Cosa avrebbe potuto ricevere di più giusto se 
	non la pena del taglione? Dio infatti è la vita dell’anima, e questa è la 
	vita del corpo. Avendo l’uomo peccato col libero arbitrio, di sua propria 
	volontà ha rinunciato alla vita: che perda dunque, di conseguenza, la 
	possibilità di dare a sua volta la vita, contro la sua propria volontà. 
	Spontaneamente respinse la Vita, ha rifiutato di vivere: sia incapace di 
	darla a chi vuole e quando vuole. L’anima che non ha voluto essere governata 
	da Dio sia impotente a reggere il corpo. Dal momento che non ha ubbidito a 
	chi è sopra di lei, perché dovrebbe comandare a chi è al di sotto di lei? Il 
	Creatore ha trovato ribelle la sua creatura [l’anima], così pure l’anima 
	trovi ribelle la creatura [il corpo] a lei asservita. L’uomo ha trasgredito 
	la legge divina: scopra quindi nelle sue membra un’altra legge che si 
	rifiuta di ubbidire alla legge della sua volontà e lo imprigiona nella legge 
	della caduta [cfr. Rm. 7,25]. Inoltre il peccato, secondo le Scritture, ci 
	separa da Dio [Is. 59, 2] e quindi così pure la morte ci separi dal corpo. 
	L’anima non può separarsi da Dio se non per mezzo del peccato, il corpo non 
	può separarsi dall’anima se non per mezzo della morte. E forse troppo 
	spietata questa pena che si limita a prescrivere che il suddito subisca lo 
	stesso male che ha commesso contro il suo Creatore? Niente di più 
	consequenziale, indubbiamente, del fatto che, essendo la morte spirituale 
	colpevole e volontaria, abbia causato altresì la morte corporale, punitiva e 
	necessaria.
	20. Poiché l’uomo era stato condannato in conformità 
	alla sua duplice natura a questa doppia morte, l’una dello spirito dovuta 
	alla sua volontà e l’altra del corpo come conseguenza della prima, 
	l’Uomo-Dio, per la sua potenza e benevolenza, venne in aiuto all’una e al 
	l’altra con la sua morte, insieme corporale e volontaria, e con quella sua 
	unica morte sconfisse la nostra doppia morte. E a ragione, infatti di quelle 
	nostre due morti una ci fu imputata come risultato della nostra colpa, 
	l’altra come dovuto castigo. Il Cristo accettò il castigo e, pur essendo 
	indenne da colpa, morendo di sua spontanea volontà soltanto nel corpo 
	guadagnò per noi la vita e la remissione. Del resto, se non avesse sofferto 
	nel corpo, non avrebbe prosciolto il nostro debito: se non fosse morto 
	spontaneamente, la sua morte non avrebbe avuto me rito. Ma, se come si è 
	detto, la morte è il risultato meritato per la colpa e la morte è il debito 
	della colpa, dal momento che il Cristo ha rimesso i peccati ed è morto per i 
	peccatori, ormai quanto dovevamo è stato pagato e il debito è sciolto.
	21. E poi, come sappiamo che Cristo ha il potere di 
	rimettere i peccati? Senza dubbio perché Egli è Dio e può ciò che vuole. E 
	come sappiamo che Egli è Dio? I miracoli lo provano. Ha compiuto opere che 
	nessun altro potrebbe, per tacere poi l’oracolo dei Profeti e la 
	testimonianza della voce del Padre discesa dall’ alto sudi lui nella 
	magnificenza della gloria dei cieli. Ché se Dio è a nostro favore, chi è 
	contro di noi? E se Dio ci giustifica chi ci condannerà? [Rm. 8, 31 e 8, 
	33-34]. A Lui ed a Lui solo noi confermiamo ogni giorno: Contro te, 
	unicamente, ho peccato [Sal. 50, 6]. Chi meglio, anzi, chi altri ha la 
	facoltà di perdonare il peccato fatto contro di lui? O, come nonio potrebbe 
	Egli che può tutto? E, infine, io ho facoltà di perdonare, se voglio, le 
	colpe commesse contro di me: e Dio non potrebbe rimettere quelle fatte 
	contro di lui? Se chiunque ha la facoltà di rimettere i peccati, Egli 
	onnipotente – e solo lo può Egli contro il quale si pecca – beato colui al 
	quale Egli non addosserà colpa. Ecco, abbiamo conosciuto come Cristo, per la 
	potenza della sua divinità, ha la facoltà di condonare le colpe.
	22. Quanto alla sua volontà [di rimettere i peccati] 
	chi mai potrà dubitarne? Infatti chi ha rivestito la nostra carne e subito 
	la nostra stessa morte credi forse che ci negherà la sua giustizia? Egli che 
	volontariamente s’incarnò, che volontariamente patì, che volontariamente fu 
	crocefisso, ci negherà proprio il suo perdono? Se per la sua deità è chiaro 
	che Egli può rimettere i peccati, con la sua umanità dimostra chiaramente 
	che questo è il suo volere. Ma da quali fatti possiamo trarre ancor motivo 
	di credere che Egli scacciò da noi la morte? Dal fatto che Egli la sopportò 
	pur non avendola meritata. Per qual motivo dovrebbe dunque esigere di nuovo 
	da noi ciò che Egli ha già pagato per noi? Colui che concesse il perdono del 
	peccato donandoci la sua giustizia scioglie il debito della morte e riporta 
	alla vita. Uccisa dunque la morte, ritorna la vita. Cancellando il peccato 
	torna la giustizia. La morte è stata dispersa nella morte del Cristo e la 
	sua giustizia ci viene concessa. Ma come ha potuto morire Colui che era Dio? 
	Perché era anche vero uomo. E in che modo la sua morte ha potuto giovare 
	alla morte dell’uomo? Poiché Egli era anche giusto. Dunque, in quanto era 
	uomo poté morire, ma in quanto era giusto non poteva morire affatto. Un 
	peccatore non può certo estinguere con la sua morte il debito di un altro 
	peccatore, dal momento che la morte di ognuno vale come debito personale: ma 
	Colui che non deve morire per saldare il suo debito, morì forse invano per 
	gli altri? Quanto poi indegnamente muore chi non merita di morire, tanto più 
	giustamente vive colui a favore dei quale è morto.
	23. «Ma che giustizia è quella – dirai – ove un 
	innocente abbia a morire per un malvagio?». Non si tratta di giustizia, ma 
	di misericordia. Se giustizia fosse, il Cristo non sarebbe morto senza 
	motivo, ma per pagare il dovuto. Se fosse morto per debito [nei confronti 
	della Giustizia divina], Egli sarebbe morto sicuramente ma colui per il 
	quale muore non vivrebbe. Ma pure non trattandosi propriamente di giustizia, 
	tuttavia la sua morte non è contro giustizia. D’altronde non poteva essere 
	giusto nel rigore e misericordioso insieme. «Ma anche se di diritto un 
	giusto possa bastare a dare giustificazione per un peccatore, per quale 
	legge dovrebbe essere sufficiente un giusto per molti peccatori? Secondo 
	giustizia la morte di uno solo dovrebbe essere sufficiente a ridare la vita 
	a uno solo». A ciò risponda ora l’Apostolo: Come infatti per la colpa di uno 
	solo la condanna si è abbattuta su tutto il genere umano: così a causa della 
	giustizia di uno solo è stata resa giustizia per tutti gli uomini. Come 
	infatti per la disubbidienza di uno solo sono stati peccatori molti; così 
	pure per l’ubbidienza di uno solo molti sono resi giusti [Rm. 5, 18-19]. Ma 
	perché mai Colui che ha potuto restituire la giustizia a molti non avrebbe 
	potuto restituire loro anche la vita? Per mezzo di un uomo la morte, per 
	mezzo di un Uomo la vita. Come tutti periscono in Adamo, così pure tutti in 
	Cristo hanno la vita [I Cor. 15-2 1]. E che? Uno solo peccò e tutti ne 
	pagano il fo e l’innocenza di uno solo verrà ascritta a quel solo? Il 
	peccato di uno solo ha causato la morte di tutti, e la rettitudine di uno 
	solo restituirà la vita a uno solo? La giustizia di Dio vale più a 
	condannare il genere umano, dunque, che a ripristinano nella giustizia? O 
	poté più Adamo nel male che Cristo nel bene? Il peccato di Adamo è stato 
	addebitato anche a me e la giustizia di Cristo invece non mi appartiene? La 
	disubbidienza di quello mi ha perduto e l’obbedienza di Cristo non mi 
	gioverà?
	24. «Ma noi tutti abbiamo contratto le colpe del 
	delitto di Adamo – tu dici -poiché in Adamo noi tutti abbiamo peccato: 
	eravamo in lui quand’ egli peccò e dalla sua carne siamo stati generati 
	attraverso la concupiscenza della carne». Tuttavia, noi nasciamo molto più 
	direttamente da Dio secondo lo spirito che da Adamo secondo la carne: quanto 
	meno se crediamo di poter essere annoverati anche noi tra coloro dei quali 
	l’Apostolo dice: «Egli ci ha eletti in se stesso – cioè il Padre nel Figlio 
	– prima della costruzione del mondo» [Ef.  1, 
	4] Anche l’Evangelista Giovanni testimonia che siamo nati da Dio, quando 
	dice: «Quelli che non sono nati dal sangue né dalla volontà della carne, né 
	dalla volontà dell’uomo, ma da Dio» [Gv. 1, 13]. Ed ancora scrisse Giovanni 
	nell’Epistola: «Chiunque sia nato da Dio non commette peccato» [Gv. 3,9], 
	poiché la sua generazione celeste lo conserva. «Ma il desiderio corporeo – 
	si potrebbe obiettare – attesta il legame carnale, e il peccato che sentiamo 
	nella carne chiaramente rivela che discendiamo, secondo il corpo, dalla 
	carne del peccatore». Ma nondimeno viene sentita non dalla carne ma nello 
	spirito [in corde] quella generazione spirituale almeno da quelli che 
	possono affermare con Paolo: «Noi possediamo la facoltà di sentire il 
	Cristo» [1 Cor. 2, 16], nella quale facoltà sentono d’esser giunti tanto 
	addentro da poter dire con tanta sicurezza: Lo spirito stesso rende 
	testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio [Rm. 8, 16]. Ed 
	ancora: «Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo ma lo spirito 
	che è da Dio per conoscere ciò che da Dio ci viene elargito» [1 Cor. 2, 12]. 
	Per mezzo dello spirito che proviene da Dio la carità è stata infatti 
	diffusa nei nostri cuori, come attraverso la carne che da Adamo discende la 
	concupiscenza resta annidata nelle nostre membra. E come questa, che 
	discende dal progenitore del corpo, non si separa mai dalla carne in questa 
	vita mortale, così la carità, procedendo dal Padre degli spiriti, non viene 
	mai meno almeno dall’indole dei suoi figli migliori.
	25. Se pertanto siamo nati da Dio ed eletti in Cristo, 
	quale giustizia è dunque quella che la nascita umana e terrena abbia a 
	nuocere più di quanto giovi la provenienza divina e celeste; e che la 
	discendenza corporea abbia a sopraffare l’elezione da parte di Dio e che la 
	concupiscenza della carne, limitata nel tempo, abbia a dettar legge al Suo 
	eterno disegno? E perché mai, dunque, se abbiamo avuto la morte a causa d’un 
	solo uomo, non dovremmo avere la vita a maggior ragione per opera di un solo 
	uomo, e per di più, di quell’Uomo [Cristo] Se in Adamo tutti noi troviamo la 
	morte, perché non potremmo esser riportati alla vita dal Cristo con potenza 
	infinitamente superiore? Poiché, dunque: Il dono e il delitto non segnano le 
	medesime vie. Il giudizio provocato dal peccato di un solo uomo ha portato 
	alla condanna, mentre la grazia concessa dopo tanti peccati ci ha 
	giustificati [Rm. 5, 16]. Cristo ha potuto rimettere i peccati essendo Dio 
	ed essendo uomo ha potuto morire e morendo prosciogliere il debito della 
	nostra morte poiché Egli è giusto, ed Egli solo bastò per la giustizia e La 
	vita di tutti, come da uno solo era derivata all’umanità la morte e il 
	peccato.
	26. Ma la Provvidenza dispose anche che il Cristo si 
	degnasse di vivere alcun tempo uomo tra gli uomini avendo un poco differita 
	la sua morte, per rivolgere gli animi al desiderio dei beni invisibili, con 
	paro le di verità spesso ripetute, per sostenere la fede con opere degne 
	d’ammirazione, per istruire con una vita vissuta secondo giustizia. E così 
	l’Uomo-Dio, avendo vissuto al cospetto degli uomini nella sobrietà, nella 
	rettitudine, nel sentimento del dovere, avendo parlato secondo verità, 
	operato miracoli, patito essendo innocente, cosa avrebbe ormai potuto 
	mancare alla nostra salvezza? Si aggiunga la grazia della remissione dei 
	peccati, che Egli gratuitamente ci ha rimesso, e l’opera della nostra 
	salvezza è completa. Non è da temere che la potestà o la volontà di 
	condonare i peccati venga meno a Dio avendo Egli sofferto, e sofferto tanto 
	grandi dolori per i peccatori perché noi, com’è giusto, ci dimostriamo 
	solleciti ad imitarne gli esempi e a venerarne i miracoli. Viviamo dunque 
	confidenti nella sua dottrina e grati per le Sue sofferenze.
	27. Dunque, ogni aspetto di Cristo ci fu giovevole, 
	tutto fu salutare, tutto necessario. E la fragilità umana non giovò meno 
	della sua maestà: poiché se comandando con la potenza della sua divinità 
	tolse il giogo del peccato, morendo con la fragilità dell’umana natura ha 
	abbattuto i diritti della morte. Per cui l’Apostolo dice a ragione: Quello 
	che è debole in Dio è la cosa più forte per gli uomini [1 Cor. 1, 25]. Ma 
	pure quella sua follia per la quale gli piacque salvare il mondo, confutando 
	la sapienza del mondo, confondendo i sapienti poiché pur essendo Cristo 
	della stessa natura di Dio, Dio in Dio, s ‘abbassò fino a prendere la natura 
	del servitore [Fil. 2, 6-7]; poiché potente si fece bisognoso per amor 
	nostro, da grande piccolo, da sommo umile, da forte bisognoso; poiché ebbe 
	fame, sete, si stancò con le marce e sopportò tutte le altre sofferenze per 
	volontà sua, non per necessità, la sua follia, dunque, non fu per noi la via 
	della sapienza, il modello della giustizia, l’esempio della santità? Per 
	questo l’Apostolo dice: «Quel che in Dio è stoltezza, per gli uomini è 
	sapienza somma» [1 Cor. 1, 25]. La sua morte liberò quindi dalla morte; la 
	vita dall’errore; la grazia dal peccato. La sua morte ha vinto grazie alla 
	sua giustizia, poiché Egli, Giusto, pagando ciò che non aveva preso, 
	recuperò di diritto ciò che aveva perduto. La sua vita raggiunse lo scopo 
	grazie alla sua sapienza, e resta per noi modello di vita e specchio di 
	comportamento. Inoltre la sua grazia ci ha rimesso i peccati in virtù di 
	quel potere per cui Egli realizza ogni suo desiderio. La morte di Cristo è, 
	dunque, la morte della mia stessa morte: poiché Egli morì perché io vivessi. 
	E come potrebbe non vivere colui a favore del quale la vita stessa ha 
	accettato di morire? O chi temerà sotto la guida della Sapienza di errare 
	nell’adempimento delle leggi o nella conoscenza? O da chi sarà ritenuto 
	colpevole colui che la Giustizia ha assolto? Egli stesso si proclama vita 
	nel Vangelo dicendo: «Io sono la vita» [Gv. 4,6]. E le altre due cose sono 
	testimoniate dall’Apostolo che afferma: «Egli è stato fatto per noi 
	Giustizia e Sapienza di Dio Padre» [1 Cor. 1, 30].
	28. Ma se la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo 
	ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte [Rm. 8, 2], perché 
	dunque continuiamo a morire e non siamo stati immediatamente rivestiti 
	d’immortalità? Perché si compia la verità di Dio. Infatti, poiché Dio ama la 
	misericordia e la verità [Sai, 83, 12], è necessario – come Egli ha 
	stabilito – che l’uomo muoia; ma è altresì necessario che risorga da morte, 
	affinché Dio non dimentichi la misericordia. Dunque la morte, anche se non 
	dominerà in eterno, tuttavia rimane – sebbene temporaneamente – presso di 
	noi d’accordo con la verità di Dio, come il peccato, pur non dominando 
	completamente nel nostro corpo mortale, tuttavia non è del tutto venuto meno 
	in noi. Per questo Paolo, mentre gioisce da una parte per essere stato 
	liberato dalla legge del peccato e della morte, dall’altra si lamenta di 
	essere ancora oppresso in qualche modo da entrambe le leggi, sia quando 
	esclama miserevolmente contro il peccato: «Trovo una legge differente nelle 
	mie membra» [Rm. 7, 23], sia dunque schiacciato dalla legge della morte geme 
	aspettando la redenzione del suo corpo.
	29. Tali considerazioni, o altre di questo genere, 
	vengono suggerite al sentimento cristiano dalla meditazione sul Santo 
	Sepolcro, secondo la ricchezza interiore di ciascuno nel percepire tali 
	sentimenti; penso comunque che una grande dolcezza di devozione venga in- 
	stillata dal contatto diretto in chi è capace di penetrare nel senso del 
	luogo santo, e che non sia di poca utilità guardare, sia pure con gli occhi 
	del corpo, il luogo del riposo del Signore. Esso, per quanto ormai vuoto 
	delle Sacre Membra, tuttavia è pieno dei nostri più lieti misteri. Nostri, 
	certamente, nostri, se solo con ardore e fermezza crediamo in quello che 
	l’Apostolo dice: «Noi siamo stati sepolti con il battesimo, nella morte, 
	affinché come il Cristo è resuscitato da morte per la gloriosa potenza del 
	Padre così anche noi camminiamo in una nuova vita» [Rm. 6, 43]. Infatti se 
	fummo innestati a Lui in una morte simile alla sua, ugualmente saremo in una 
	resurrezione simile alla sua. Quant’è soave per i pellegrini, dopo la grande 
	fatica del lungo viaggio, dopo i numerosi pericoli in terra e nel mare, 
	riposare infine lì dove sanno che ha riposato il loro Signore! Credo che per 
	la grande gioia essi non avvertano più nemmeno la fatica del viaggio né si 
	curino delle spese affrontate; ma come se avessero conseguito il premio del 
	travaglio e la ricompensa del cammino, secondo la sentenza della Scrittura: 
	«Si riempirono di intenso giubilo avendo trovato il Sepolcro» [Gb. 3,22]. 
	Non è difatti per un caso imprevisto, né per un’effimera considerazione del 
	favore popolare che il Sepolcro raggiunse un nome tanto celebre, poi ché 
	Isaia aveva predetto di esso tanto palesemente e così tanto tempo addietro: 
	E vi sarà in quei tempi la radice di Jesse, eretta come insegna dei popoli, 
	ad essa le genti si volgeranno e il suo sepolcro sarà glorioso. [Is. 11, 
	10]. Ecco dunque perfettamente adempiuto ciò che abbiamo letto nei Profeti: 
	cosa nuova per chi osserva ma vecchia per chi legge. Così dalla novità 
	proviene gioia e dall’antichità [dalla tradizione profetica] discende 
	autorevolezza. E sul Sepolcro basti quanto si è detto.
	XII. Betfage
	30. Che dire di Betfage, piccolo villaggio di 
	sacerdoti, che quasi avevo dimenticato, dov’è racchiuso il mistero della 
	confessione e del ministero sacerdotale? Betfage significa infatti “casa 
	della bocca”. Sta scritto: «Presso di te è la parola, nella tua bocca e nel 
	tuo cuore» [Dt. 30, 14; Rm. 10, 8]. Ricordati pertanto di conservare la 
	parola non solo nel la bocca ma anche nel cuore. Certamente la parola opera 
	nel cuore del peccatore una contrizione salutare: la parola detta elimina il 
	pudore dannoso, affinché esso non sia d’ostacolo alla necessaria 
	confessione. Così dice la Scrittura: «Vi è un pudore che produce peccato e 
	un pudore che procura gloria» [Eccl. 4, 25]. Il giusto pudore è vergognarsi 
	di aver peccato o di star peccando e riverire – quand’anche sia assente 
	qualsiasi giudice umano – lo sguardo divino con tanta più vergogna di quello 
	umano quanto più, e a ragione, consideri Dio più vicino a te di qualunque 
	uomo e si sa che Egli viene offeso tanto più gravemente da chi pecca quanto 
	remotissimo è in Lui il peccato. Non v’è dubbio che un pudore di tal fatta 
	mette in fuga il peccato e procura la gloria: esso non permette che il 
	peccato s’insinui, oppure, essendo caduti in peccato, lo punisce con la 
	contrizione, e lo scaccia con la confessione. Purché si possegga quel merito 
	che è la testimonianza della nostra coscienza. Ma se qualcuno ha persino 
	vergogna di confessare la causa stessa della propria vergogna, tale pudore 
	produce peccato e il merito viene meno dalla coscienza, mentre la 
	contrizione si sforza di scaccia re il male dal profondo del cuore: questo 
	pudore inopportuno chiude l’uscio delle labbra e non ne permette l’uscita. 
	Piuttosto converrebbe dire, secondo l’esempio di David: «Non impedirò le mie 
	labbra, Signore, tu lo sai» [Sal. 39, 10]. Il Salmista rimproverando se 
	stesso per codesto pudore stolto e senza ragione, disse: Poiché ho taciuto 
	si consumarono le mie ossa [Sal. 31, 3]. Per questo egli desidera che un 
	uscio sia posto attorno alle sue labbra [cfr. Sal. 140, 3] affinché apprenda 
	ad aprire la bocca alla confessione e a tenerla chiusa per discolparsi. 
	Apertamente egli chiede ciò al Signore con la preghiera, sapendo che la 
	confessione e la magnificenza sono opera di Dio [Sal. 110,3]. E un gran bene 
	sarà questa duplice confessione, quando saremo capaci di proclamare 
	apertamente e la nostra malizia – logicamente – e parimenti la magnificenza 
	della bontà divina e della divina virtù. Ma tale confessione è un dono di 
	Dio. Infatti David dice: Non sviare il mio cuore in parole malvagie, a 
	cercare scuse per i miei peccati [Sal. 140,4]. Per questo è necessario che i 
	sacerdoti, ministri della Parola, siano vigili con sollecitudine ed 
	attenzione su entrambe le cose, cioè ad instillare parole di contrizione nel 
	cuore dei peccatori, ma stando attenti a non atterrirli affinché esprimano 
	la loro confessione. Aprano il cuore così da non ostruire la bocca, ma non 
	assolvano chi non giudicheranno completamente confessato dalla sua colpa, 
	anche se contrito: dal momento che con il cuore si crede per la giustizia, 
	ma con la bocca si professa la fede per avere salvezza [Rm. 10, 10]. Altri 
	menti la confessione viene meno, come quella d’un morto [cfr. Eccl. 17, 26]. 
	Pertanto chi ha la parola sulla bocca e non nel cuore, o è colpevole o è 
	vuoto; chi l’ha solo nel cuore o è superbo o vile.
	XIII. Betania
	31. Sebbene stia procedendo molto celermente, non debbo 
	tuttavia passare sotto silenzio Betania, “la casa dell’obbedienza”, 
	villaggio di Maria e di Marta, là dove Lazzaro resuscitò: qui viene 
	raccomandata la riflessione sui due tipi di vita [attiva e contemplativa] la 
	mirabile clemenza di Dio verso i peccatori, la virtù dell’obbedienza 
	congiunta con quella della penitenza. Basti qui chiarire ciò che né la 
	diligenza nelle buone azioni, né la quiete delle sante contemplazioni, né le 
	lacrime di pentimento potranno essere accette fuori di “Betania” [cioè se 
	non siano accompagnate dall’obbedienza] da Colui che stimò così grandemente 
	l’obbedienza che, obbediente al Padre fino alla morte volle perdere la vita 
	piuttosto che l’obbedienza. E sono sicuramente queste le ricchezze che la 
	profezia promette secondo la parola di Dio dicendo: «Il Signore consolerà 
	Sion, consolerà le sue rovine; renderà delizioso il suo deserto e farà della 
	sua solitudine un giardino del Signore, e in essa si troveranno letizia, 
	gratitudine e voci di lode» [Is. 51, 3]. Queste delizie del mondo, questo 
	tesoro celeste, questa eredità dei popoli fedeli, sono state dunque 
	consegnate alla vostra fedeltà, o miei diletti, alla vostra prudenza, al 
	vostro coraggio. Sarete dunque in grado di custodire questi beni celesti a 
	voi affidati con fedeltà e sicurezza se non confiderete mai nella vostra 
	prudenza e nella vostra forza ma solo nell’aiuto del Signore, sapendo che 
	l’uomo non sarà mai sostenuto dalla propria forza [1 Re. 2, 9], e ripetendo 
	quindi col Profeta: «Signore, mio sostegno, mio rifugio mio liberatore» 
	[Sal. 17, 3]. Ed ancora: «Custodirò per te la mia forza perché tu, o Dio, 
	sei il mio difensore. Mio Dio, la tua misericordia mi verrà incontro» [Sal. 
	58, 10-1 1]. E infine: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà 
	gloria» [Sal. 113, 1]; affinché in ogni opera sia benedetto Colui che 
	addestra le nostre mani alla battaglia, le nostre dita alla guerra [Sal. 
	143, 1].
	
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1 novembre 2021 
  a cura 
di
 Alberto "da Cormano"   
   alberto@ora-et-labora.net