PER L'ANNO DI SAN BENEDETTO
I Padri del Deserto e San Benedetto
UNA APOFTEGMA DI ANTONIO
(Libera traduzione dal testo francese "Les 
Pères du désert et saint Benoît. Un apophtegme d'Antoine
Il primissimo apoftegma, nelle molte raccolte di parole dei 
Padri del Deserto 
(armena, sistematica greca, Pelagio e Giovanni), ci mette di primo acchito in un 
ambiente familiare ai lettori assidui della Regola benedettina. L’apoftegma, 
caratteristico e polivalente, è di Antonio, il padre dei monaci d'Oriente, come 
San Benedetto lo è di quelli d'Occidente, ed è così concepito: «Qualcuno chiese 
all’abate Antonio: “Che cosa devo fare per piacere a Dio?”; il vecchio rispose: 
“Dovunque tu vada, devi sempre avere Dio davanti agli occhi; qualunque cosa tu 
faccia o dica, che sia sempre secondo le testimonianze della Sacra Scrittura; in 
qualunque luogo tu abiti, non te ne andare con troppa facilità. Osserva questi 
tre precetti e sarai salvo”». [1]
Noi siamo messi qui, in modo molto suggestivo, davanti a tre basi del pensiero, 
non soltanto di sant’Antonio, ma anche di San Benedetto, così come appare 
attraverso tutta la sua Regola, e vale di conseguenza la pena che ci si 
soffermi, allo scopo di approfondire il pensiero dei due maestri sant’Antonio e 
san Benedetto. Noi osserveremo, nonostante le varie differenze, le loro coerenze 
e le loro armonie. 
I. - “Dovunque tu vada, devi sempre 
avere Dio davanti agli occhi„
a. Essere sotto lo sguardo di Dio
Si avvicineranno spontaneamente a questa raccomandazione di Antonio gli sviluppi 
di San Benedetto su ciò che ha chiamato, a seguito del Maestro, il primo grado 
d'umiltà: “ la lunga prova che stabilisce che Dio è presente in tutti i 
movimenti dell'uomo, interni ed esterni „ è infatti al centro della 
presentazione del primo grado d'umiltà, ed il Maestro stesso, da cui dipende San 
Benedetto, subirebbe qui l'influenza di Basilio (Cf. Commento del De Vogué alla 
Regula Magistri in Sources Chretiènnes). Ma, l'elemento essenziale 
dell’esposizione di Benedetto è questa breve frase: “L'uomo deve prendere 
coscienza che Dio lo osserva ad ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si 
trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino „ (RB 7,13).
Lo aveva già detto, ed ancora a seguito del Maestro, in uno dei suoi strumenti 
delle buone opere: “essere convinti che Dio ci guarda dovunque„ (4,49). Il 
monaco è qualcuno che cerca di vivere incessantemente sotto lo sguardo di Dio, 
nella coscienza filiale e, dunque, confidente, riconoscente e fedele dell'amore 
vigilante e della provvidenza misericordiosa del Padre dei cieli.
Con un entusiasmo ed una fermezza che sono il preludio a quelli del Maestro e di 
San Benedetto, Daniele de Scete diceva un giorno a Ammonas: “Chi ci toglierà ora 
il Signore? … gli occhi del Signore vedono tutti noi, in ogni circostanza, 
ovunque„ [2]. 
Ci saranno momenti particolarmente forti in quest'atteggiamento di attenta fede, 
e saranno i momenti della preghiera: “Noi crediamo che la presenza divina sia 
ovunque… Tuttavia, è soprattutto quando andiamo all’ufficio divino che dobbiamo 
crederlo senza il minimo dubbio„ (19, 1-2).
Questo passaggio è tanto più interessante in quanto è proprio di San Benedetto e 
non si trova nel punto parallelo della Regula Magistri. San Benedetto, in tutto 
questo capitolo, appare del resto molto meno preoccupato del Maestro 
dell'atteggiamento esterno, e dà più peso alle disposizioni interne di fede e di 
attenzione; vuole chiaramente allontanare ogni formalismo e creare soprattutto 
lo sguardo interno, puro e fervente, verso Dio. Occorre osservare la formula di 
San Benedetto “maxime 
tamen 
„, “ma soprattutto„: la preghiera è il tempo forte dell'attenzione a Dio, come 
la notte “è il tempo forte del silenzio„. La preoccupazione di restare in 
presenza di Dio nel corso del giorno e l'applicazione costante nel fare la sua 
volontà preparano un maggiore raccoglimento durante la preghiera. E, d'altra 
parte, i momenti intensi di preghiera, di cui Ufficio divino, la preghiera e la
lectio divina ci 
forniscono l'occasione, reagiscono sul nostro comportamento abituale e, almeno 
normalmente, rendono la presenza di Dio sempre più invadente ed imperiosa. Per 
pregare ovunque e sempre, e farlo semplicemente e liberamente, “velut 
naturaliter ex consuetudine„, “come, naturalmente per abitudine„ (7,68), occorre 
cominciare col piegarsi a pregare ad ore determinate, in modo esplicito e 
formale, nell'unica attenzione a Dio; l'assiduità nel tenerci davanti a Dio solo 
nella lode o nel silenzio irradierà su tutto il nostro giorno e lo impregnerà 
della presenza di Dio.
Questa coscienza, sempre più viva, della presenza di Dio deve portare il monaco 
a giudicare ed a decidere tutto dal punto di vista di Dio. Nelle note alla sua 
traduzione della Regola, Dom Savaton parla, in modo molto felice, “della 
vigilanza… sulla nostra vita più segreta. Atteggiamento affatto impaurito, ma 
semplicemente lucido, onesto e fermo; costante rispetto alle realtà che confessa 
la nostra fede„. San Benedetto ha reso ciò in una formula concisa: “oblivionem 
omnino fugiat„, che “si fugga decisamente la leggerezza e la dissipazione, si 
tengano costantemente presenti i divini comandamenti„ (7, 10-11). Interessato ad 
affrettare il giorno in cui Dio sarà “tutto in tutti„ (1 
Cor 15, 28), il monaco 
vuole cominciare col sottomettere il suo pensiero e la sua vita, per portarli 
“ad obbedire a Cristo„ (2Cor
10, 5). Ma ciò chiede 
un'attenzione ed uno sforzo in tutti i momenti.
I Padri del Deserto vedevano nella distrazione la prima tappa verso il peccato: 
“Tre affermazioni di Satana precedono tutti i peccati: la prima è la 
distrazione, la secondo la negligenza, la terza la cupidigia… Se l’anima è 
vigilante evita la distrazione; se la sua vigilanza lo salva dalla distrazione, 
non cade nella negligenza; se non si lascia andare alla cupidigia, la grazia di 
Cristo gli impedisce di cadere„ [3]. Si trova la stessa dottrina nell'apocalisse 
di Paolo, nata probabilmente in ambienti monastici, dove si è propagata [4]. 
“La prima regola dei Padri„, dice ancora un apoftegma, “era quella di prepararsi 
tutto il giorno a stare davanti a Dio„, per non essere presi allo sprovvista 
dalla sorpresa delle sue visite [5]. “Timeo Dominum transeuntem, et non 
revertentem„, dirà sant’Agostino; “temo che il Signore nel passare„ mi offra la 
sua grazia senza che io vi risponda, “e che non ritorni più„ a offrirmela di 
nuovo. Ma se la lotta contro la distrazione facilita l'attenzione a Dio e la 
fedeltà alla grazia, essa purifica anche lo sguardo del monaco e lo stabilisce 
nella pace. In una conferenza che dava alcuni mesi fa a Parigi, il Padre Paul 
Gordan, benedettino dell'abbazia di Beuron, citava la definizione che un grande 
dizionario tedesco dava dei Benedettini, in una delle sue prime edizioni: 
“Membri di un Ordine religioso della Chiesa cattolica che non si occupa di 
politica„ … Ciò non sempre è vero…, e non può essere sempre vero, poiché vi sono 
ingiustizie che esigono la protesta unanime di tutta le persone oneste. 
Tuttavia, si consultano volentieri gli uomini di preghiera perché si spera da 
loro un giudizio sereno ed elevato, quello di qualcuno che, per vocazione, deve 
vedere da molto in alto i problemi di quaggiù. Lo stesso li conosce e ne è 
informato ma, se il contatto con Dio l’ha realmente penetrato, li vede alla sua 
luce; a partire da questa, potrà formulare delle regole di vita, precise ma 
flessibili, perché espresse a partire da Colui che sa tutto ed è serenità 
perfetta e misericordia totale. 
b. Vivere secondo Dio
La convinzione costante della presenza di Dio: “Quando poi… „, dovrà sfociare in 
una condotta conforme: “…il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste 
dicendo… „ (RB, Prol., 14), un operaio sicuro, fedele, sul quale possa 
incessantemente contare, al quale può tutto chiedere e tutto imporre… “Però, se 
vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci 
che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene „ 
(Prol., 22).  
Ma, ancora qui, raggiungiamo proprio la dottrina dei Padri del Deserto, di cui 
San Benedetto era certamente penetrato. Zosimo dice che, se le parole dei Padri 
hanno tale peso e tale potenza, è perché “il loro insegnamento, lo avevano 
inizialmente provato con le loro opere e soltanto in seguito l’avevano espresso; 
inizialmente hanno agito, in seguito hanno parlato„ [6]. 
Con più dettagli, una delle esortazioni raccolte nel Paterica 
ci permetterà di percepire meglio le affinità tra San Benedetto ed i 
Padri del Deserto, visto che troveremo nella RB, al cap. 2, 14, l'utilizzo di 
uno stesso testo scritturale, a sostegno della stessa dottrina: 
“Se qualcuno vuole insegnare agli altri, che sia inizialmente preoccupato della 
sua vita, per essere il primo a raccogliere il frutto della sua dottrina… Se 
colui che è il maestro ha abbandonato e rinviato lontano (da sé) l'opera celeste 
per occuparsi delle cose del mondo e transitorie„ (Cf RB 2,33: “prendendo più 
cura delle cose passeggere, terrestri e temporanee„), “i suoi discepoli e 
simpatizzanti non seguiranno le sue parole e le sue dottrine, ma le sue opere: 
essi avranno appreso da lui a dimenticare e trascurare ciò che è eterno per dare 
tutta la loro sollecitudine agli ostacoli terrestri. A tali maestri pertanto Dio 
dice: “Perché vai ripetendo i miei 
decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza, tu che hai in odio la disciplina 
e le mie parole ti getti alle spalle? “ (Sal 50, 16-17;
Cf. RB 2, 14). Ed ancora: 
“Disgrazia a coloro a causa dei quali il mio nome sarà bestemmiato! “(Cf.
Is
52,5; Rm 2, 24). È bene, e 
persino molto bene, insegnare, ma soltanto se innanzitutto si compie ciò che si 
insegna agli altri; le opere sono allora la base della parola, con la virtù 
realizzata nel silenzio. Felice non è colui che insegna, ma colui che fa ed 
insegna (cf. 1 Esd 7,10) [7]„. 
Il padre Sérinos, di Diolcos, era andato a trovare un giorno, accompagnato dal 
suo discepolo Isacco, il padre Poemen. Ed egli dice a quest'ultimo: “Padre, cosa 
dovrò fare per ottenere che Isacco ascolti le mie parole con desiderio (di 
metterle in pratica)? „ Poemen disse: “Se vuoi guadagnarlo (alla legge di Dio), 
insegnagli soprattutto con le tue opere, e non con le tue sole parole; che egli 
ti veda fare ciò che dici. Altrimenti, ascoltando soltanto delle parole, sarà 
pigro. Se tu lo istruisci con le tue opere, la tua parola rimarrà in lui „ [8] 
Certamente è perché osservava quest'esigenza che il santo curato d’Ars diceva: 
“La mia tentazione, è la disperazione. Ho paura di essere trovato ipocrita 
dinanzi a Dio “ [9], richiedendo agli altri delle cose che io stesso non 
comincio neanche a praticare. 
San Benedetto attenua un po' la responsabilità dell’abate, quando distingue 
discepoli “capaces„, “ricettivi„, adulti, ai quali un insegnamento orale basta, 
ed altri “duri e più semplici„, più rozzi (“duris corde vero et 
simplicioribus„), ai quali l'esempio è, inoltre, necessario. Io non penso che i 
Padri del Deserto abbiano taciuto questa distinzione: per loro, il cattivo 
esempio è universalmente nocivo, il buon esempio indispensabile per tutti. La 
stessa reazione di monaci che chiudono gli occhi sui cattivi esempi, in vista di 
prendere in considerazione soltanto la buona dottrina, crea un ostacolo ed una 
tensione in una comunità, poiché la fiducia nel superiore viene meno presso 
coloro che non possono più prenderlo per modello, e questo può essere il punto 
di partenza delle peggiori scissioni e di reciproche incomprensioni nelle 
comunità.
Dunque c'è qui una differenza d'accento tra i Padri del Deserto e San Benedetto. 
Dai due lati, il valore dell'esempio è messo in rilievo, ma, nei Padri del 
Deserto, l'esempio sostituisce, di solito, la legge: “Sii per loro un esempio, e 
non un legislatore„, diceva l’eccellente Poemen; se tu desideri suggerire 
qualcosa ai fratelli, “esegui inizialmente l'opera„ che tu volevi consigliare 
loro; “se vogliono vivere„, vedranno essi stessi quale è il loro dovere [10]. 
Rimani dunque di fronte a loro in un'umiltà totale; sii semplicemente uno di 
loro, loro fratello. Un altro apoftegma dice ancora: “Se abiti con dei fratelli, 
non comandare loro alcuna cosa, affinché tu non perda il tuo frutto„ [11]. 
Basta rileggere il cap. 58 della Regola benedettina sul modo di procedere 
nell’accoglimento dei postulanti, per rendersi conto che l'ambiente è parecchio 
diverso. Dopo un primo tempo di prova, l’anziano incaricato del postulante 
passerà due mesi a leggergli la Regola, e questa “Regola„ non è più, come da 
Pacomio, la Scrittura; al termine di questa lettura, gli dirà: “Ecco la 
legge sotto la quale tu vuoi servire. Se puoi osservarla, entra; se non puoi, 
sei libero di andartene„ (58, 10). Quindi, per altre due volte nel corso 
dell'anno di noviziato e nello stesso spirito, “affinché sappia ciò per cui 
entra„ (58, 12), la Regola sarà riletta al candidato. Non si può negare che 
quest'insistenza sul peso d'autorità di una Regola umana e di un superiore 
espone ai pericoli d'autoritarismo e di formalismo o, a volte, d'infantilismo; 
si tratta di intralci che non sono affatto chimerici poiché, in qualsiasi tempo, 
queste mancanze hanno fatto le loro devastazioni nei monasteri di uomini e di 
donne. Tuttavia San Benedetto insiste sull'autorità di una Regola per il fatto 
che desidera che nei suoi monasteri ci sia ordine. Egli non esclude certamente 
regimi diversi. Sa, al contrario, che “ciascuno ha da Dio un proprio dono: 
alius sic, alius vero sic, chi in un modo, chi in un altro„ (cap. 40,1). 
Probabilmente egli accetta anche un po'di fantasia: ci sono sempre stati degli 
originali nei monasteri e, purché le loro particolarità rimangano discrete, 
possono contribuire al buon umore ed al consenso. Ma San Benedetto desidera 
evitare la marginalità, le eccentricità che disorganizzano e, a volte, 
paralizzano la vita di una comunità, senza procurare del resto la felicità e 
l'illuminarsi di gioia dei loro fautori. Egli considera, ed a giusto titolo, che 
la vita del cenobita imponga più preoccupazione nell’evitare la singolarità 
rispetto a quella dell'eremita, e sa che la legge è una luce ed una protezione. 
È anche una garanzia di continuità dopo la scomparsa del fondatore carismatico.
Tuttavia, in seguito all'importanza che esprime nei confronti di Dio, San 
Benedetto evita gli abusi d’interpretazione del suo pensiero. Ed è vero, d'altra 
parte, che il ritmo stesso di una vita monastica sana induce il monaco non ad 
allontanarsi dalle esigenze della sua regola, ma a superarle frequentemente. 
Infatti, nelle circostanze concrete e sempre nuove della vita, tramite la voce 
degli eventi o le sollecitazioni delicate dello Spirito all'interno della sua 
anima, il monaco è spesso teso ad obbedire direttamente a Dio, senza dovere 
passare per un intermediario umano; lo è meno spesso a piegarsi agli ordini dei 
suoi superiori. La vita monastica, come ogni vita religiosa, richiede certamente 
il rispetto delle opzioni conventuali, un'obbedienza esatta alle decisioni dei 
superiori e l'umiltà dinanzi alle loro osservazioni. E, quando San Benedetto 
vuole che tutti i monaci si affezionino al loro abate “di una carità sincera e 
umile„ (RB 72,10), esorta i suoi figli a questa fiducia che porta a richiedere 
consiglio ed appoggio all’Abate dinanzi alle decisioni importanti e nelle 
situazioni difficili. Tuttavia, l'elasticità ad adottare le osservanze del 
monastero, ad accettare il quadro e gli orientamenti dell’ambiente in cui si 
trova, semplifica la vita del monaco e riduce gradualmente gli interventi 
dell'autorità umana. Ma, parallelamente, gli interventi di Dio si moltiplicano, 
e diventa sempre più esigente, sempre più nitido a farsi sentire all’anima che 
lo cerca, in numerosi ambiti e circostanze per le quali nessun regolamento 
preciso è previsto.
Dietrich Bonhoeffer ha probabilmente troppo ceduto al gusto del paradosso 
rifiutando di vedere nel precetto della carità fraterna l'ordine caratteristico 
di Gesù, e negando che Gesù ci abbia lasciato un'etica. E’ vero tuttavia che, se 
egli ha detto: “Il mio comandamento è che vi amiate l'un l'altro come io vi ho 
amati„ (Gv 15,12), questo precetto era già formulato nel Vecchio 
Testamento (Lv 19,18), 
ed alcune rabbini ebrei, come Hillel, così come il filosofo pagano Seneca, erano 
forse stati decisi tanto quanto Gesù a questo proposito [12]. Ed è altrettanto 
esatto che egli ha interiorizzato ed ha reso più morbida la Legge. Cristo dice 
all'uomo: Dio ti vede, e ti chiede di osservarlo, così come Lui. Egli ha gli 
occhi su di te, sia nell'attesa che tu faccia la sua volontà, sia nella 
prontezza ad aiutarti con la sua grazia, se tu ti sei deciso a compierla. Ma la 
sua volontà può proibirti un giorno ciò che ti chiedeva ieri, può esigere da te 
oggi ciò che non voleva alla veglia; e può anche invitarti a superare la legge. 
Ci sono certamente i principi, la morale tradizionale, il Decalogo, ma c'è 
soprattutto Dio che, attraverso la parola biblica e attraverso l'evento, può 
suggerirti di creare un nuovo Decalogo per circostanze impreviste ed 
imprevedibili. Non ci sono leggi etiche universalmente valide, principi e regole 
inviolabili. C'è piuttosto, a partire da Gesù Cristo, una chiamata alla 
coscienza dell'uomo ed una liberazione creatrice; Gesù Cristo impegna l'uomo a 
prendersi la sua responsabilità, ma alla luce di Dio, della sua saggezza, della 
sua misericordia, della sua giustizia, della sua santità. Cristo è venuto ad 
insegnarci il valore relativo e contingente delle leggi, delle usanze e delle 
tradizioni ed il valore assoluto della volontà di suo Padre, volontà le cui 
espressioni sono estremamente mobili e multiformi. Non le si scopre che 
tenendosi costantemente sotto lo sguardo di Dio, accettando e sollecitando la 
sua interpellanza. La lettera immobilizza ed è per questo che uccide. Lo Spirito 
Santo gira senza sosta e ci scuote senza interruzione; ed è così che ci vivifica 
(Cf. 2 Cor 3,6) [13]. 
Io ho dato altrove 
(Désert 
et Communion,. 
Testimonianze dei Padri del Deserto, raccolte partendo dai Paterica 
armeni (Spiritualité Orientale, 26), Abbaye de Bellefontaine, 1978)
degli esempi di questa libertà dei Padri riguardo alle leggi umane, a vantaggio 
delle proposte di Dio. San Benedetto manifesta la stessa elasticità quando 
invita l’abate ad essere prudente e moderato nei suoi rimproveri, “per paura che 
volendo troppo raschiare la ruggine, egli rompa il vaso„ (RB 64,12). Deve sapere 
chiudere gli occhi su alcuni strappi alla Regola, se il momento opportuno di 
intervenire non è ancora arrivato. L'esortazione, fin dagli inizi della sua 
Prologo, ad obbedire a Dio “tramite i beni che mette in noi„, raccomandazione 
che formula anche l’Invitatorio della Regola del Maestro, è ugualmente un invito 
alla libertà creatrice.
San Benedetto si troverebbe certamente bene tanto quanto i Padri del Deserto 
nelle parole incoraggianti che indirizzava Giovanni Paolo II ai fedeli il 21 
novembre 1978: “Il primo servizio che la Chiesa deve rendere alla causa della 
giustizia e della pace, è di invitare gli uomini ad aprirsi a Gesù Cristo. In 
Lui apprenderanno di nuovo la loro dignità essenziale di figli di Dio, fatti ad 
immagine di Dio, dotati di possibilità insospettate che li rendono capaci di 
affrontare i compiti dell'ora, legati gli uni agli altri con una fraternità che 
si radica nella paternità di Dio. In Cristo, essi diventeranno liberi per un 
servizio responsabile; che non abbiano paura! Gesù… non fa ombra a nulla di ciò 
che è autenticamente umano, né nelle persone, né nelle loro diverse 
realizzazioni scientifiche e sociali… Aprendo l'uomo su Dio, la Chiesa… lo rende 
disponibile a creare del nuovo in base alle esigenze presenti. 
„ 
Ma, nonostante questa coincidenza globale tra i Padri del Deserto e San 
Benedetto, non c'è identità totale d'orientamento. È sorprendente che, 
nell'ultimo capitolo della sua Regola, San Benedetto usa la parola di Regola 
soltanto per sé stesso e san Basilio. I Padri del Deserto hanno lasciato “degli 
insegnamenti„: “doctrinae sanctorum Patrum„ (cap. 73, 2); essi ci indicano “dei 
vertici di dottrina e di virtù„: “maiora… . doctrinae virtutumque culmina„ (Ibid. 
9) ; non ci hanno lasciato alcuna Regola. 
Il Padre Dionisio, del monastero di Simonos Petra, al Monte Athos, riproduce 
molto bene il pensiero degli anziani, quando dice: “La regola del monaco è il 
Sermone della Montagna. Lo Spirito Santo ci offre di vivere le beatitudini. 
Cercare di vivere queste beatitudini ci armonizza allo Spirito… Dopo la 
Pentecoste, la legge di Cristo non consiste più in un codice esteriore di 
precetti. La legge nuova è la presenza interiore dello Spirito Santo che 
trasforma i nostri cuori dando loro il gusto e la volontà di compiere ciò che 
piace a Dio. Tu devi dunque essere molto attento alle ispirazioni a volte molto 
sottili dello Spirito Santo„ [14]. 
c. Vivere secondo la carità richiesta da Dio
La divisione di una comunità è, per San Benedetto, il male endemico dei 
monasteri. Egli lo indica bene, quando parla delle “offese alla carità fraterna 
(letteralmente “spine degli scandali” Ndt)„ (“scandalorum spinas„) che sogliono 
spuntare (“quae oriri solent„) (13,12) nei monasteri.
I Padri del Deserto non pensavano differentemente. Ed essi raccontano come un 
filosofo pagano di Atene si fosse convertito al cristianesimo, quindi aveva 
fatto costruire un monastero e vi aveva vissuto la vita monastica. Al termine di 
quindici anni, era ritornato ad Atene, in visita, ed i grandi della città ed i 
suoi vecchi amici gli avevano chiesto le sue impressioni sulla sua prima 
esperienza della vita monastica. Ed egli aveva risposto: “Non vi è popolo sotto 
il cielo che si possa paragonare al popolo cristiano, né di ordine comparabile 
all'ordine monastico. Una cosa soltanto causa loro pregiudizio: è che, (a 
volte), il diavolo li porta ad odiarsi reciprocamente (A), a dire male gli uni 
degli altri e ad agire con astuzia (B), senza che si rendano conto della loro 
turpitudine, tuttavia ben evidente„ [15]. Colui che vive perfettamente, ed in 
presenza continua di Dio, la vita monastica, vi coglie delle meravigliose 
ricchezze; ma colui che si lascia andare ai pettegolezzi ed agli intrighi, 
rischia di sprecare tutto il frutto.
Noi ci rendiamo conto, con questa riflessione, che se il cattivo esempio di un 
superiore può essere molto nocivo, quello di una comunità lo è ben di più. Un 
maestro benedettino di novizi, evocando il periodo difficile in cui aveva 
esercitato il suo incarico, mi diceva: “Se una comunità è sana, molti problemi 
di formazione di giovani saranno risolti, e sarà loro più facili perseverare. Se 
non è sana, ed è divisa, il noviziato ne risentirà inevitabilmente, e ciò potrà 
portare fino al rischio di sbandamento„. Quando dei giovani se ne vanno, che 
sembravano ben adatti alla vita monastica, o quando si allontanano dei candidati 
apparentemente auspicabili per l’abbazia, ciascuno deve chiedersi quale è la 
parte di responsabilità, non del suo vicino né soprattutto del suo superiore, ma 
di sé stesso, in questo fallimento e, cosa ne è, in particolare, nella sua 
testimonianza di fiducia e di amore reciproci, di vera carità, accogliente, 
indulgente, aperta all'altro, di qualunque età o di qualunque tendenza egli sia.
Dunque la vita in presenza di Dio, che auspicano allo stesso tempo i Padri del 
Deserto e San Benedetto, conoscerà un doppio movimento. Il primo sarà quello del 
“Vultum tuum, Domine, requiram„; “è il tuo volto, Signore, che io cerco„ (Sal
27,8). Un apoftegma ammirevole dell’abba Besarione esprime molto bene 
questo primo movimento: “Il monaco, diceva, deve essere tutto occhio, come i 
Cherubini ed i Serafini„ [16]. O anche questo: “Cosa è il monaco, se non 
qualcuno che cerca di vivere solo con Dio, e di parlargli notte e giorno?„ [17]. 
Cassiano non farà che riprendere la dottrina dei Padri dell'Egitto, quando dirà 
che “tutto il fine del monaco e la perfezione del cuore consistono in una 
perseveranza ininterrotta di preghiera„ [18]. 
Ma - ed è il secondo aspetto - questo contatto di dialogo e d'intimità con Dio 
può essere considerato autentico soltanto se scombussola e mette a soqquadro la 
vita del monaco, gli suscita l’avversione della volontà propria, e dà origine a 
questa obbedienza ed a questa carità caratteristiche “di coloro che non hanno 
nulla di più caro di Cristo„, come dirà San Benedetto (RB 5,2).
Il monaco è così l'uomo del verticale che, di fronte ad un mondo troppo 
preoccupato di rendimento ed in incessante competizione in vista delle posizioni 
più lucrative o più applaudite, cerca di dare, umilmente e senza scalpore, la 
prova della gratuità e del disinteressamento, con una ricerca ostinata solamente 
di Dio. Non si tratta certamente, per il monaco, di volere dare lezioni al 
mondo; l'atteggiamento monastico, centrato su Dio, è tuttavia una contestazione 
del mondo e della sua corsa agli idoli del denaro, degli onori, della comodità e 
del piacere. Ma è una contestazione, non in attesa di censurare ed ancora meno 
condannare, ma piuttosto in attesa di aiutare il mondo a liberarsi. Il monaco 
vede il mondo prigioniero di una moltitudine di cose; con la sua testimonianza 
discreta, ma ostinata, d'amore e di lode, invita il mondo a rompere i suoi 
impedimenti ed a fiutare un'aria più sana e più elevata, ad unificarsi 
maggiormente, a mettersi in moto in vista di Colui che è allo stesso tempo il 
principio e la fine della sua esistenza. 
Certamente si obietterà qui che ogni cristiano, anche laico, ha, se vive il suo 
battesimo, questa preoccupazione di Dio e che questa porta una colorazione ed 
una qualità speciale alla sua vita familiare, come pure ai suoi impegni 
professionali o altri ed al suo lavoro. È molto esatto, ma la realizzazione 
laica non ha qui il tono di essenzialità dell'impegno monastico. Le occupazioni 
del laico potrebbero essere assunte senza questa preoccupazione spirituale e, di 
fatto, sono assunte anteriormente all'intenzione spirituale che vi inserisce, 
scelte che sono soprattutto in vista di garantire la sua vita e quella del suo 
focolare domestico. Il monaco, senza ignorare questa ragione - il monastero deve 
provvedere alla sua sussistenza -, organizza soprattutto le sue occupazioni o, 
piuttosto, accetta quelle che gli chiedono, in funzione del servizio di Dio; se 
questo servizio di Dio non fosse la sua preoccupazione iniziale, egli farebbe 
altra cosa. È così vero che nel caso in cui i nostri monasteri diventassero 
semplicemente aziende agricole o fabbriche di birra o di formaggio, o anche di 
oggetti d'arte, occorrerebbe chiuderli; non sarebbero più le scuole di preghiera 
che devono fondamentalmente essere. Una volta ammessa questa risposta, si dirà 
che il monaco si trova almeno nella stessa situazione degli altri religiosi; 
tutti lavorano per Dio, si sono impegnati nella vita religiosa per il suo 
servizio, fanno molte cose che non farebbero, se il servizio di Dio e 
l'obbedienza religiosa non lo richiedessero loro. È di nuovo esatto. Ma il 
progetto del nuovo Diritto dei Religiosi dice: “Gli istituti di vita apostolica 
sono inizialmente costituiti per i 
ministeri apostolici. „, Al contrario, come candidati a titolo di monaco, noi 
siamo costituiti inizialmente per l'adorazione e la lode, cosa che non 
implica del resto soltanto la lode dell'ufficio divino, ma anche i suoi 
complementi necessari che condizionano, alimentano ed aumentano la qualità 
d’attenzione e d’entusiasmo della sua esecuzione: la preghiera personale, la 
lectio divina, la lettura 
spirituale o lo studio, il raccoglimento, la solitudine ed il silenzio. Ed è 
qui, ovviamente, che si può parlare dell'orientamento escatologico della vita 
monastica. Essa non lo esprime soltanto con il celibato, ma ancora con tutto il 
clima di desiderio e d'azione di grazia amorosa nel quale essa è immersa. 
Uno dei fenomeni sorprendenti e paradossali della storia della salvezza è la 
fecondità straordinaria che Dio vi accorda: a volte alla sterilità, o alla 
morte, o alla notte, e dunque a tutto ciò che sembra la negazione più formale 
della vita. È da Sara, fino a quel momento sterile (Gen 76,1), e normalmente, 
vista la sua età, incapace di partorire e dare vita (Gen 77,17; i 75,11-12), che 
nasce Isacco, il figlio della promessa, il primo discendente di Abramo; ed è 
ancora da Rebecca sterile (Gen 25,21) che nascono Giacobbe ed Esaù, da Rachele 
sterile (Gen 30.22) che nasce Giuseppe, da Anne sterile (1 Sam 1,5) che 
nasce il profeta Samuele, da Elisabetta sterile (Lc 1,7) che nasce Giovanni 
Battista, il precursore, da Maria vergine (Mt 1,18-25; Lc 1, 26-38) 
che nasce Gesù, e Lui che sarà “la luce del mondo„ (Gv 9,5), nasce da Maria di 
notte ( Lc 2,8). È 
ancora dalla morte e dalla tomba che rinascerà, nel trionfo della Resurrezione. 
Ma è in ciò tutto il mistero di fede e di speranza della vita monastica 
contemplativa, se per lo meno è condotta con sincerità ed entusiasmo; colui che 
opta per essa crede all'utilità dell'apparente inutilità, alla fecondità della 
sterilità, alle possibilità d'efficacia di una sedicente inefficienza, alla 
carità di una vita nella quale si prende distanza dal mondo, ai germi di luce e 
di vita che possono vincere e fare lievitare le tenebre, la morte ed una tomba.
L'orientamento primordiale verso Dio di cui testimoniano le fisionomie di 
sant’Antonio e di San Benedetto ha probabilmente un'attualità molto particolare. 
Una giovane monaca che, studentessa a Parigi alcuni anni fa, esercitava 
un'influenza considerevole nel suo ambiente di giovani, mi scriveva 
recentemente: “Noi attraversiamo un periodo in cui il silenzio dei mistici sarà 
più potente della voce degli apostoli, il silenzio di Maria ai piedi della Croce 
più efficace di molte parole„. L'atteggiamento di sant’Antonio e di San 
Benedetto è, tutto sommato, quello che richiedono, con un'urgenza speciale, le 
necessità e le richieste del nostro tempo. 
II. 
- “IN TUTTO CIO’ CHE FARAI, 
GARANTISCITI L'APPOGGIO DELLA 
TESTIMONIANZA DELLE DIVINE SCRITTURE „ 
a. La Scrittura, norma di vita
“In tutto ciò che farai„: la Scrittura è dunque una norma di vita, la regola 
della nostra condotta. 
Per ben comprendere, e come lo ha voluto Antonio, questa raccomandazione 
fondamentale, è necessario rapportarci alla sua vita. La conosciamo soltanto 
attraverso la biografia che gli ha dedicato uno dei suoi seguaci, che l’ha 
conosciuto ed era soltanto poco più giovane di lui: sant’Atanasio, arcivescovo 
di Alessandria, nato nel 295 e morto nel 373, mentre Antonio è nato verso il 
251, ed è morto nel 356 [19]. È 
vero che questa Vita è stata stilizzata, adattata all'ideale che 
sant’Atanasio e gli uomini della sua epoca si facevano del monaco. Tuttavia non 
abbiamo il diritto di considerarla come falsificata; anche se cede un po' alla 
tentazione di fare di Antonio una icona, lo rappresenta così come lo vedeva la 
tradizione contemporanea o di poco posteriore alla sua morte [20]. 
Ora, a partire dall'inaugurazione della sua vita solitaria, tutte le tappe di 
Antonio appaiono ordinate dalla Scrittura, ed egli mette dunque bene in pratica 
ciò che richiede agli altri. 
Fin da prima della morte dei suoi genitori, dice sant’Atanasio, egli era attento 
alle letture, e conservava in sé l'utilità (ôpheleia) che poteva trarne 
(cap. 1). Morti i suoi genitori, rimase solo, a diciotto o vent’anni, con la sua 
più giovane sorella. Ma, sei mesi dopo il decesso dei suoi genitori, mentre si 
recava alla chiesa “secondo la sua abitudine„, rifletteva in cammino 
sull'esempio degli Apostoli, che avevano tutto abbandonato per seguire il 
Salvatore (Cf. Mt 4,20) e su quello dei primi cristiani della chiesa di 
Gerusalemme, che avevano venduto i loro beni, avevano portato agli apostoli il 
prezzo della vendita e l’avevano deposto ai loro piedi (Cf.
At
4, 34-35). Sapendo della 
speranza riservata nei cieli (Cf. Col 
1,5), agli uni ed 
agli altri, come ricompensa di un tale distacco, Antonio si chiedeva ciò che 
suggerivano, a lui personalmente, tali esempi. Entrando allora nella chiesa, 
egli riceve la risposta di Dio nel corso della proclamazione liturgica della 
Parola. Egli ascolta, infatti, nel Vangelo, la parola detta da Gesù al giovane 
uomo ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che possiedi, dallo ai 
poveri, e vieni e seguimi; il tuo tesoro, lo troverai nei cieli„( Mt
19,21). Antonio si considera come 
direttamente coinvolto ed interpellato da questa parola; egli la pensa letta 
nella chiesa proprio per lui, secondo la concezione, ben chiara ai nostri 
anziani, del valore sempre attuale della Parola di Dio. Egli prende allora la 
risoluzione, che metterà in esecuzione immediatamente, di dare agli abitanti del 
borgo i terreni fertili che aveva ereditato dai suoi genitori, alla sola 
condizione che non creino preoccupazioni né a sua sorella, né a lui. Vende 
un'ampia parte dei suoi mobili, distribuisce ai poveri il prezzo della vendita. 
Conserva per sua sorella e per sé soltanto lo stretto necessario a garantire a 
tutti e due la loro sussistenza (cap. 2). Presto tuttavia, supererà una seconda 
e più decisiva tappa, e sarà ancora dietro un invito della Scrittura. Poiché, 
entrando in chiesa un’altra domenica, vi intende, nel Vangelo, questo versetto, 
che esige e che riassicura allo stesso tempo: “Non preoccupatevi del domani„ (Mt 
6,34). Nuovamente, egli si crede direttamente e personalmente coinvolto da 
questa parola della Bibbia. Si rende conto che Dio gli chiede di andare oltre al 
gesto che ha già fatto, e di avere maggiormente fiducia nella provvidenza per il 
futuro di sua sorella e per la sua sussistenza. Distribuisce dunque a persone 
disagiate ciò che gli restava dei beni, ed affida sua sorella a delle vergini 
che sapeva sicure e fedeli. Quanto a lui, egli è attento “a sé stesso„ (Cf. 
Dt 5,9) e vigila più accuratamente che mai per imporsi un regime di vita 
rigoroso. Lavora con le sue mani, a motivo del consiglio dell'Apostolo: “Chi non 
vuol lavorare, neppure mangi„ (2 Ts 3,10). “Egli prega assiduamente, 
avendo appreso„, ancora attraverso la Scrittura, “che occorre pregare senza 
sosta in segreto„ (Mt 6,6; 1 Th 5,17) (cap.3). 
Si può, ovviamente, essere colpiti dal contenuto, molto significativo, dei testi 
evocati, poiché i due ultimi, immediatamente ravvicinati, indicano già il ritmo 
di preghiera e di lavoro (“Ora et labora„), che andrà, a partire da Antonio, ad 
ordinare definitivamente i giorni monastici. Ed i primi due esprimono ciò che 
sarà sempre al principio, non soltanto di ogni vocazione monastica, ma di 
qualsiasi consacrazione a Dio. Da un lato, una rinuncia assoluta, una povertà 
materiale e spirituale totale, in una incondizionata sequela del Signore - è una 
carta in bianco che il monaco sottoscrive; il Signore la riempirà come vorrà. 
D'altra parte, la gioiosa fiducia con la quale l’aspirante alla vita monastica 
fa questo passo decisivo: “Non 
preoccupatevi del domani„ (Mt 6,34). 
E’ il 
« Scio cui credidi » di san Paolo. “So infatti in chi ho posto la mia fede e 
sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è 
stato affidato “ 
(2
Tm 1,12), ovvero i 
combattimenti intrapresi e le prove sopportate per la sua gloria. 
Tra questi due testi iniziali ed i due testi finali, se ne inserisce un altro, 
anch’esso carico di significato: “prosechôn heautô„ (cap. 3), “attento a 
sé stesso„, che ci rinvia a Dt 4,9: 
“Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno 
visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita„. È la 
vigilanza e la lotta contro l’oblio, di cui si è già parlato e che hanno, 
secondo i Padri del Deserto, il Maestro e San Benedetto, un posto essenziale 
nella vita del monaco. Così, ciascuno di questi cinque testi biblici ricordati 
all'inizio della Vita di Antonio 
ha valore profetico. Ciò è altrettanto vero per il costante riferimento 
alle parole della Scrittura nelle decisioni di Antonio. Sant’Atanasio lo 
sottolinea, poiché fa seguire gli ultimi testi citati dell'osservazione: “Egli 
era così attento alla lettura che nulla gli sfuggiva dalle Scritture; prendeva 
in considerazione tutto, e la memoria gli teneva il posto dei libri„ (cap. 3). 
San Benedetto, nel Prologo alla sua Regola, non citerà alcuno dei testi evocati 
nell'inizio della Vita 
di Antonio, ma l'ambiente non è meno scritturale. Poiché le citazioni 
o le allusioni bibliche abbondano, e sono sempre orientate, come in Antonio, 
verso una decisione ed un atteggiamento pratici: l'immagine “delle armi… 
dell'obbedienza„ (Prol, 3) sembra presa in prestito all'epistola agli
Efesini 
6,13 (“… prendete dunque l’armatura di Dio„), l'invito a scuotersi 
dal sonno (Prol, 8) è ripreso da Rm 13,11, quello ad ascoltare la voce 
del Signore, senza indurire i nostri cuori (Prol, 9-10) dal Salmo 95,7-8; ecc… 
Si tratta “di cingere i nostri reni„ (Prol. 21; Cf. Ef 6, 
14-15) “della fede e del compimento delle buone azioni„ e di avanzare “sotto 
la condotta del Vangelo„ (“per ducatum Evangelii„). Fin dalla Prologo della 
Regola benedettina, così come nell’apoftegma di Antonio, il primo in molte 
raccolte delle sentenze dei Padri, l'attenzione è attirata sul dinamismo pratico 
ed efficace del nostro contatto con la Scrittura; essa regolerà, ma anche 
rovescerà la nostra vita. 
Del resto troviamo, nel Prologo della Regola benedettina, lo stesso clima di 
speranza, poiché San Benedetto lo conclude parlando “della dolcezza d'amore 
inesprimibile„ con la quale “si corre sulla via dei comandamenti di Dio„ (Prol., 
49; Cf. Sal 119,32); questa 
raccomandazione è propria a San Benedetto, e non la si trova nel passaggio 
parallelo del Maestro. Il Padre A. 
de Vogüé, 
nella sua analisi molto accurata della conclusione del Prologo, ha bene mostrato 
come i cambiamenti introdotti qui da San Benedetto indicavano da parte sua una 
volontà d'incoraggiamento e di ottimismo. La scrittura non è utilizzata da San 
Benedetto in vista di terrorizzare, ma di stimolare, “… per insegnare, 
confutare, correggere, formare alla giustizia; così l'uomo di Dio si trova 
compiuto, munito per ogni opera buona„ (2 Tm 3,16-17). 
Quest'innato ottimismo non farà che crescere dopo san Benedetto; mentre la 
compunzione è, soprattutto nei Padri del Deserto, una compunzione di timore: 
diventerà, nel corso del medioevo monastico, una compunzione di desiderio, 
desiderio di Dio, desiderio del cielo. 
Uno dei primi capitoli della Regola benedettina, quello degli strumenti delle 
buone opere, nella sua più ampia parte riprende sentenze tratte della Sacra 
Scrittura od ispirate dalla sua dottrina. Ma tutte queste raccomandazioni sono 
fatte in previsione della pratica, dell'attuazione. 
Macario raccomandava ad un monaco negligente, ma desideroso di ravvedersi, “di 
leggere il Vangelo e le altre Scritture ispirate da Dio„ [21]. San Benedetto 
riprende allo stesso modo, ed esplicitamente, questo valore curativo della Sacra 
Scrittura, quando, al capitolo 28,3, della sua Regola, parla “dei medicamenti 
delle Scritture divine„, rimedio all’irragionevolezza ed alla testardaggine. 
Nell'ultimo capitolo della sua Regola (73,3), riprenderà, in modo d'inclusione, 
l’idea della Prologo: “C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'Antico o 
del Nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita 
umana?„. Ben chiaramente, San Benedetto invita i suoi figli a cercare nella 
Bibbia una norma di vita. San Giovanni Crisostomo diceva: “Quando leggi le 
parole delle divine Scritture, prega inizialmente Dio di aprire gli occhi del 
tuo cuore, affinché tu non ti accontenti di ripetere ciò che è scritto, ma 
affinché tu le metta anche in pratica, per paura che tu non legga per la 
condanna della tua anima le parole vivificanti delle Scritture„ [22]. 
Ci si stupirà forse di una tale severità per il semplice esercizio della 
ripetizione in gente che, fin dal loro arrivo al deserto, imparava a memoria 
numerosi passaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ma essi sapevano bene che 
lo sforzo di messa in pratica è molto più laborioso e, soprattutto, molto più 
necessario, della semplice memorizzazione. 
Una vergine aveva detto ad un anziano: “Sono duecento settimane che digiuno sei 
giorni (su sette), ed ho imparato a memoria il Vecchio ed il Nuovo Testamento. 
Che mi rimane da fare? „ Il vegliardo le risponde: “Hai mai accolto il disprezzo 
come un onore, e sei capace di optare per la privazione piuttosto che per il 
guadagno? „ La vergine riconosce francamente: “No, padre. „ L’anziano continua: 
“Puoi tu preferire degli estrani ai tuoi genitori, e la povertà al potere? „ - 
“Non ne sono capace„, confessò nuovamente la vergine. Ebbene, conclude il 
vegliardo, “tu non hai né digiunato sei giorni (alla settimana), né hai appreso 
il Vecchio ed il Nuovo Testamento, hai soltanto ingannato la tua anima„ [23]. 
Quest'ultimo 
testo ci rivela molto bene quale risultato debba avere, per qualsiasi cristiano 
e soprattutto per il monaco, la lettura della Sacra Scrittura: deve portare ad 
una libertà interiore totale e ad una connaturalità spirituale al messaggio 
delle Beatitudini; la parola divina, bruciante “come un fuoco,… come un martello 
che spacca la roccia„ (Ger 23,29), deve martellare e squarciare i macigni delle 
nostre resistenze alla grazia, e trasformare le nostre vite “in una 
dimostrazione di Spirito e di potenza„ (1 Cor
2,4). 
b. La lettura sapienziale
Al punto di partenza di questo effetto deciso e sconvolgente della Parola di Dio 
c’è stata, per Antonio, non sola questa Parola, ma la sua ruminazione: “egli era 
attento alle letture, e conservava dentro di sé l'utilità che poteva trarne„ 
(cap. 1). Si pensa spontaneamente qui alla parola di Luca: “Quanto a Maria, 
conservava con cura tutte questi ricordi e li meditava nel suo cuore„ (2,19; Cf. 
anche 2,51). Il principio delle energiche decisioni di Antonio, è lo sforzo 
d'assimilazione delle parole scritturali che l’hanno sconcertato. 
San Benedetto esorta l’abate alla sorveglianza soltanto per due cose: le 
infrazioni alla povertà, la negligenza nella lectio. Per il primo punto, 
dice che l’abate dovrà spesso ispezionare i letti “a causa degli oggetti 
personali che vi si potrebbero trovare„ (RB 55,16), e che il fratello vi avrebbe 
nascosto. San Benedetto desidera, infatti, che la povertà dei suoi monaci sia 
reale e totale; nessuno può “avere nulla di proprio, assolutamente nessun 
oggetto,… assolutamente nulla, poiché non si ha neppure il diritto di avere a 
propria disposizione il proprio corpo e la propria volontà „ (RB 33,3-4). 
Tuttavia, al cap. 48,17-20, della sua Regola, San Benedetto chiede la stessa 
vigilanza per la lectio in 
Quaresima: “E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di 
fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello 
studio, per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente che, invece di 
dedicarsi allo studio, perda tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre ad 
essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri. Se si trovasse - non sia 
mai! - un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e 
una seconda volta, ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista 
dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore... „ 
Il Padre Guy-Marie Oury ha bene osservato, a proposito di questo testo, che San 
Benedetto lasciava ai suoi monaci una grande libertà per il luogo della loro 
lettura: “possono andare a farla all'oratorio, sotto il chiostro, nel 
dormitorio, nel giardino„. San Benedetto stesso “amava farla alla porta del 
monastero, di fronte al paesaggio immenso che si spiega ai piedi di Monte 
Cassino„ [24]. Poco importa il posto, purché si presti ad una lettura raccolta. 
Ma che questa lettura richiesta sia fatta, ed in condizioni di raccoglimento. La 
raccomandazione di sorveglianza di San Benedetto, identica per due cose molto 
diverse, corrisponde probabilmente a due preoccupazioni principali. Da un lato, 
avere monaci realmente poveri, cioè col cuore interamente libero, che praticano 
pienamente la parola di Davide “Spontaneamente, nella gioia del mio cuore, io ti 
ho offerto tutto „ (1 Cr 29,17), monaci che non conoscono questa “rapina 
nel sacrificio„ (Is 61,8), che Dio ha in odio (Cf. Ibid.), e monaci cui 
possono applicarsi le parole di san Paolo: “ … ho imparato a bastare a me stesso 
in ogni occasione. So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono 
allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e 
all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza„ (Fil 4,11-13). 
Quest'ultima parola di san Paolo, molto positiva, li orienta verso altra cosa. 
Non si tratta soltanto di spogliarsi del vecchio uomo; occorre soprattutto 
rivestire l'uomo nuovo. Ed il grande mezzo per fare ciò è, secondo san 
Benedetto, la preghiera nutrita dalla lectio, 
o la lectio orchestrata 
dalla preghiera. Di qui una seconda preoccupazione: formare degli uomini di 
preghiera e di lectio. 
Quando leggiamo, nella Vita di Antonio greca, al cap. 1, che Antonio 
“rifiutò di apprendere le lettere (grammata)„ [25], la parola grammata 
potrebbe soltanto significare, sia le lettere pagane, sia la lingua greca.
In ogni modo, la ragione per la 
quale sant’Atanasio giustifica quest'atteggiamento di Antonio deve essere 
sottolineata: boulomenos ektos 
einai kai tès pros tous paidas sunètheias. La traduzione latina della 
Patrologie è molto libera: “ut puerorum consortium atque consuetudinem 
devitaret„ [26]. Forse dovremmo tradurre, in italiano: “volendo, del resto, 
evitare la compagnia dei fanciulli„, per rispettare la sfumatura eventuale del
kai. In ogni modo, questo inciso modera o anche elimina ogni impressione 
d'ostilità verso la cultura. Antonio cede piuttosto ad una diffidenza riguardo a 
ciò che potrebbe allontanarlo da Dio; egli rifiuta meno lo studio che le 
condizioni alle quali dovrebbe sacrificarsi; teme che la sua vita cristiana e la 
sua hèsychia (= la sua pace contemplativa) non soffrano per contatti 
quotidiani con dei fanciulli, a volte viziosi, facilmente dissoluti, di solito 
chiassosi; preferisce dunque “rimanere aplastos (letteralmente: “non 
formato„) nella sua casa “ [27]. Non formato dagli uomini, sarà formato da Dio. 
San Benedetto allo stesso modo, inviato a Roma per gli studi superiori, constata 
la corruzione del suo ambiente, teme di cedere, decide di abbandonare i suoi 
studi e di guadagnare la solitudine: “recessit igitur scienter nescius et 
sapienter indoctus„, “aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva 
imparato sapientemente (la scienza di Dio)„ [28]. 
Dalle due parti, c'è una scelta preferenziale; ad una cultura umanamente 
valorizzante, ma che rischierebbe di nuocere alla purezza del cuore e della 
preghiera, sant’Antonio e san Benedetto preferiscono una vita nascosta che non 
darà le stesse facilità d'espansione intellettuale, ma sarà un cammino più 
sicuro verso la contemplazione. Monasteri cistercensi e benedettini sono rimasti 
fondamentalmente fedeli a quest'opzione; è eccezionale che siano delle 
Accademie; sono piuttosto, di solito, “scuole per il servizio del Signore„ (RB, 
Prol., 45). Un benedettino che, durante il primo quarto di questo secolo, aveva 
fatto una prova di un anno in Certosa, quindi era ritornato nel suo monastero di 
professione, aveva riassunto le sue impressioni in questa battuta pittoresca: 
“Ne è dell'austerità dei Certosini come della scienza dei benedettini; sono 
state tutte e due molto sopravvalutate„. Anche se la prima parte di questa 
riflessione è un po' forzata, la seconda corrisponde certamente alla realtà: 
quei monaci ai quali gli abati propongono o permettono di dedicarsi ai lavori 
scientifici sono di solito soltanto una piccola minoranza, o un'eccezione. 
Talvolta ciò è deplorevole. 
Tuttavia, nonostante questa coincidenza nella gerarchia stabilita tra i valori 
di preghiera e di cultura, la lectio 
ha, nella regola benedettina, 
un posto molto più importante che nei Padri del Deserto, poco colti, con pochi 
libri a loro disposizione, e fra di loro molti non sapevano neppure leggere. Una 
tradizione di cultura si è stabilita presso i monaci, conforme ad una 
preoccupazione d'armonia di ciò che il Padre Jean Leclercq ha chiamato “l'amore 
delle lettere„ e “il desiderio di Dio„ [29]. 
Quali erano l'oggetto ed il metodo di questa lettura? Quando san Benedetto 
invita “ad ascoltare volentieri le letture sacre„ (RB 4,56), si tratta 
soprattutto della Bibbia; è “sacra„ certamente per il suo oggetto, ma anche per 
il clima di preghiera e di silenzio nel quale deve essere immersa. 
La lectio divina non 
è, infatti, qualsiasi lettura spirituale ma, ed essenzialmente, è una lettura 
sulla quale ci si attarda e che si assapora. Pambo aveva impiegato quattordici 
anni per meditare e riprendere incessantemente il primo versetto del Salmo 38: 
“Ho detto: 'Veglierò sulle mie vie per non peccare con la mia lingua„, e questo 
solo versetto gli era bastato durante questi numerosi anni [30]. Filosseno di 
Mabboug, autore siriano del VI° secolo († 523), scriverà ad un superiore di 
monastero: “… nessuna preoccupazione per il fatto che qualcuno occupi il suo 
spirito su un solo versetto del salterio durante sette giorni e sette notti„. 
Senza escludere lo studio della Bibbia, fatto in altri momenti, la lettura 
sapienziale della Bibbia non è però uno studio, poiché non è fatta al fine di 
acquisire una cultura o una scienza. La si può chiamare una “meditazione„, con 
lo scopo di sottolineare l'angolazione spirituale dell'approfondimento che 
richiede; il termine di “meditazione„, benché sia tradizionale, ha 
l'inconveniente di suggerire la riflessione più della preghiera, e di inserire 
la lettura della Bibbia nelle categorie sistematizzate alle quali la meditazione 
è stata spesso collegata, e che hanno ignorato gli anziani. La formula lectio 
divina è più felice; indica una lettura gradevole ed orante, all'ascolto 
dello Spirito di Dio nella convinzione che è lui che ci darà la luce sul testo; 
essa non è una tecnica, ma è piuttosto una mistica, non è tanto la lettura di un 
testo quanto invece la ricerca della verità e del contatto con una persona, 
quella stessa di Dio. 
Lectio divina 
e lettura spirituale si ravvicinano molto una all'altra; tuttavia non possono 
essere confuse, almeno oggi. Per rimanere aperti ed adattati ai problemi del 
nostro tempo, noi siamo obbligati attualmente a leggere molti articoli e libri 
che non si prestano affatto, o per niente, ad una lettura orante. Ci occorre 
spesso, del resto, leggerli rapidamente, altrimenti, non finiremmo mai…. 
Nonostante questa rapidità, tale lettura spirituale può essere molto buona, 
istruttiva ed edificante; non è tuttavia una lectio divina, almeno 
secondo il significato vecchio ed autentico di quest'espressione. Il dominio 
della lettura spirituale è del resto molto vasto, e la lettura spirituale potrà 
spesso coincidere con uno studio propriamente detto della teologia, 
dell'esegesi, o dei problemi di spiritualità. Il dominio della lectio divina 
è più ristretto: la Bibbia soprattutto. Secondariamente altri libri, che si 
prestano ad una lettura non utilitaristica, lenta, approfondita e di preghiera. 
La lettura spirituale può non essere disinteressata, ma perseguire un obiettivo 
di conferenza, di predicazione, di corso o articolo da preparare; la lectio 
divina deve essere, al contrario, assolutamente disinteressata e lontana da 
tutte le finalità che sono state appena citate; essa è così molto vicina alla 
preghiera e potrà, a volte o spesso, confondersi con essa, diventando una 
preparazione eccellente alla preghiera liturgica perché mantenuta nella sua 
atmosfera d'adorazione, di lode, d'azione di grazie, ma secondo condizioni di 
silenzio molto più frequenti e di prolungate pause. Così, con il gioco delle 
circostanze ed a causa dell'evoluzione dei tempi, lectio divina e lettura 
spirituale si sono sempre più differenziate: la lettura spirituale ha perso 
molte proprietà della lectio divina primitiva e questa, anziché essere, 
come una volta, la forma comune di lettura, non ne è che una forma privilegiata.
Tale specificità della lectio divina ha, ovviamente, i suoi corollari. 
Sisoès, sollecitato ad indirizzare una parola ad un fratello, gli diceva: “Io 
leggo il Nuovo Testamento, e mi immergo incessantemente nell’Antico„ [31]. Il 
monaco è tanto meno tentato di trascurare il Vecchio Testamento dato che vive 
dei Salmi e deve riferirsi, per capirli, al contesto storico al quale si 
riferiscono, come pure ai libri sapienziali e profetici che ne illuminano 
l'insegnamento. Tuttavia, i Padri del Deserto consideravano la lettura del Nuovo 
Testamento come più temuta dai demoni che quella dell’Antico [32], ed i Vangeli 
apparivano loro come il vertice del Nuovo Testamento [33]. Si trova lo stesso 
fenomeno nella Regola benedettina, ed è giusto che il Padre Augustin Savaton 
rimarca a tale proposito il “primato del Vangelo„ [34].
Tutto, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, è ispirato e, di conseguenza, vi è 
tutto di ragguardevole. Qualsiasi pagina della Bibbia, letta con fede ed amore, 
può dunque metterci in comunicazione con Dio, anche se il contenuto ci appare 
che dica poco, o se non comprendiamo affatto ciò che leggiamo. Tuttavia nella 
Bibbia non tutto ci sostiene e ci eleva allo stesso grado; è normale, di 
conseguenza, che noi ritorniamo più spesso e ci soffermiamo più lungamente su 
ciò che è più ricco di dottrina e meglio ci ispira la vita in Dio. Il Sermone 
della Montagna, il discorso dopo la Cena, le epistole degli Apostoli dalla 
prigionia, ci attireranno più spesso e ci tratterranno più lungamente del 
messaggio di Paolo a Filemone … 
Possiamo andare ancora più lontano. Lutero e Calvino non accettavano che si 
facesse il purché minimo taglio nella lettura della Bibbia e che si eliminasse 
il più piccolo testo; nei nostri monasteri, abbiamo spesso letto la Bibbia 
secondo questo metodo. L'esegesi moderna incoraggia un'altra prospettiva, più 
ampia e più intelligente, poiché Mons. J. Coppens ha molto bene sottolineato che 
“tutto nel Vecchio Testamento non ha valore permanente,… molte sezioni dei 
Vecchi Libri hanno già raggiunto in passato il fine principale per il quale sono 
stati composti „. Questo giudizio vale in particolare per le genealogie e le 
liste di nomi, la maggior parte delle prescrizioni relative alla costruzione del 
santuario nell'Esodo (25, 
1 - 31,11; 35,4 - 39,43), una molto ampia parte del Levitico e la 
“Tora„ di Ezechiele (40, 
1 - 45,35), anche se Origene ha scritto a loro proposito cose ammirevoli. 
c. La cultura monastica
Benché non si possa attribuire ai Padri del Deserto una cultura propriamente 
detta, essi hanno preparato questa con il loro amore della Bibbia e la ricerca 
del suo vero significato. E, con il loro zelo per la preghiera e le lunghe ore 
che le dedicarono, hanno posto i germi dall'aspetto molto particolare di questa 
cultura che si sarebbe sviluppata presso i loro monaci. Lavoratori soltanto 
manuali a causa della loro assenza di formazione alle lettere, con la loro 
abituale fedeltà alla loro solitudine, essi hanno stabilito le speciali 
condizioni del lavoro monastico, l'ambiente e gli orientamenti che avrebbero 
adottato non appena si fossero aperti allo studio ed alle arti: tale lavoro 
effettuato normalmente all'interno del chiostro, si sarebbe armonizzato alla 
vita di preghiera e di silenzio che deve regnarvi, ed avrebbe condotto il monaco 
a vedere e studiare tutto sotto un angolo di fede, di speranza e d'amore. San 
Benedetto mette in primo piano la ricerca di Dio, senza tuttavia deprezzare la 
cultura: “Nella Regola di 
San Benedetto„, ha scritto Dom Jean Leclercq, “non si trova alcun giudizio di 
valore, né favorevole, né sfavorevole, sulle lettere e sullo studio delle 
lettere „. Tuttavia San 
Benedetto apre una porta con i suoi inviti alla lettura ed in particolare 
quando, all'ultimo capitolo della sua Regola, ne propone un programma: il 
monaco, oltre alla Bibbia, dovrà leggere gli scritti di Cassiano, Basilio, e 
quelli “dei santi Padri cattolici „ (RB 73,2-6). Ovviamente, per San Benedetto, 
il monaco deve cercare di essere un uomo di dottrina. E quando dice, a proposito 
del libro distribuito a ciascuno all'inizio della Quaresima, che deve essere 
letto “per ordinem ex integro„, “ordinatamente da cima a fondo „ (RB 48,15), 
esprime la sua opposizione a qualsiasi lettura superficiale. La vita monastica è 
disinteressata e, per garantire dei lunghi momenti di lettura ed il loro 
ambiente di gratuità, il monastero deve evitare la febbre di attività troppo 
numerose o troppo coinvolgenti. Il monaco non può tuttavia essere un pigro, ed 
il tempo che gli è assegnato per pregare, leggere e studiare deve essere 
continuamente occupato; il vero monaco non perde un minuto. 
Secondo uno studio recente sulla lectio divina, i primi cistercensi 
dedicavano ogni giorno tre ore e mezza alla lettura; spesso, arrivavano fino a 
cinque ore ed oltre. Ma, all'epoca di san Bernardo, una letteratura cristiana 
abbondante esisteva già; impiegando ogni giorno un tempo così ampio ad una 
lettura il cui campo era diventato molto vasto, i monaci finivano normalmente 
per acquisire una cultura autentica, anche se lo scopo fosse stato la preghiera 
e la contemplazione.
Dalla cultura alla pubblicazione c'era soltanto un passo da superare: avere è un 
invito a donare; coloro che avevano acquisito un'ampia cultura sono stati 
sollecitati, molto naturalmente, a comunicarne il frutto. Così è sorta una vasta 
letteratura, creata dai monaci, di solito a partire dalla Bibbia e da opere 
cristiane sulle quali avevano riflettuto, a volte a partire da autori pagani, ma 
letti in una prospettiva cristiana.
In occasione del Congresso “New Testament Studies”, nell'agosto 1979, a 
Durham, io ho letto, sopra la tomba vuota di san Beda, quest'iscrizione, 
estratta del commento di questo erudito monaco sull'Apocalisse: “Christus est 
stella matutina (Ap 2,28; 22,16), qui, nocte saeculi transacta, lucem 
vitae sanctis promittit et pandit aeternam„, “Cristo è la stella del mattino; 
egli promette e procura ai santi, una volta passata la notte di quaggiù, la luce 
eterna„. Questa è proprio, di fatto, la caratteristica principale della 
letteratura monastica del medioevo: essa è tutta penetrata d'amore e di 
desiderio del Cristo e del cielo, ed è così allo stesso tempo profetica ed 
escatologica. E la teologia che vi si riflette è l'espressione di un'esperienza 
di Dio piuttosto che una discussione sulle cose di Dio. Rivolgendosi al 
vicecancelliere dell'Università di Durham, il professor Heinrich Greeven, 
dell'Università di Bochum, in Germania, ricordava, il 22 agosto 1979, che 
“Wissenschaft„, questa “scienza” alla quale tengono così tanto i 
tedeschi, e che onorano così bene, spesso era inizialmente stata una 
“Kiosterschaft„, parola intraducibile, ma che esprime, con il gioco delle 
sillabe finali, il punto di partenza monastico della maggior parte dei saggi 
scientifici nel campo delle scienze ecclesiastiche. I monaci sarebbero infedeli 
alle loro origini se avessero cessato di essere uomini desiderosi di cultura, ma 
di una cultura nutrita dalla parola di Dio meditata e pregata, dqlla Liturgia 
che ne sottolinea il carattere soteriologico (legato all’idea di salvezza. Ndt), 
dei Padri ed autori cristiani che, in ogni secolo, l’hanno approfondita ed 
adattata alle richieste e necessità della loro epoca. E le loro pubblicazioni 
non avrebbero affatto carattere monastico, se non fossero un'espressione 
d'attesa e di speranza, seminatrici d'ottimismo cristiano [35].
III. - “NON ABBANDONARE ALLA LEGGERA,
O MEGLIO NON LASCIARE PER NIENTE,
IL LUOGO DOVE TI SARAI INSTALLATO “
Qualunque studio sulla stabilità, che si tratti del monachesimo antico o 
moderno, si trova di fronte ad un doppio problema, visto che la stabilità 
implica due forme di fedeltà. Una è quella del radicamento in un monastero, una 
Congregazione, un genere di vita determinato. Il monaco può abbandonare le sue 
prime radici, sradicarsi in un certo qual modo, per andare a piantarsi altrove? 
Se sì, in quali casi ed a quali condizioni? In questo caso si tratta, possiamo 
dire, della fedeltà essenziale. Un'altra fedeltà è semplicemente occasionale; 
concesso questo tipo di radicamento, che si accetta e che anche, possibilmente, 
si ama, è permesso di lasciare di tanto in tanto il luogo che è l’ambiente 
abituale della nostra ricerca di Dio? Se sì, in quale misura ed a quali 
condizioni? Qui, non è più questione di uscite, viaggi e relazioni con il mondo.
a. Rispettare le nostre radici 
Nel suo capitolo 61, sui monaci forestieri, San Benedetto prevede - tuttavia per 
altri che non i suoi figli - la possibilità di un cambiamento di monastero: “ E 
se in seguito (il monaco forestiero) vorrà fissare la sua stabilità nel 
monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che 
durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento ... 
Invece, se non merita di essere allontanato, non solo sia accolto ed incorporato 
nella comunità nel caso ne faccia domanda, ma sia addirittura invitato a 
rimanere, affinché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio e perché 
dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re (5. 
8-10) „. Questa esortazione a restare è tanto più notevole in San Benedetto 
perché gli è propria. La RM 79,23-28 si accontenta di dire che si esaminerà il 
desiderio di stabilizzarsi espresso da monaci forestieri; sarà loro accordato 
soltanto con prudenza. Il pensiero di San Benedetto risulta nettamente più 
flessibile di quello del Maestro, più flessibile anche di quanto non lo si 
presenti spesso. Se egli, sempre molto umile riguardo ad altre valutazioni, 
ammette che si possa preferire la sua, egli ammette
a fortiori (a maggior ragione) che se 
ne possano preferire altre alla sua.
Quando, al capitolo primo della sua Regola, San Benedetto parla delle “specie di 
monaci „, appare più severo, a prima vista almeno, ma la sua prospettiva è, in 
realtà, semplicemente complementare; egli mette in guardia contro 
l’irrequietezza e la tendenza egoista a ricercare meno un luogo di migliore 
santificazione piuttosto che un luogo di soddisfazione del desiderio di mangiare 
meglio e bere meglio e, soprattutto, di fare ciò che si vuole. Quindi dice a 
proposito dei sarabaiti: “… hanno per legge la volontà dei loro desideri. Tutto 
ciò che pensano e desiderano, lo dichiarano santo; ciò che non vogliono, pensano 
che sia vietato „ (8-9). Accetta, tuttavia, fin da questo capitolo, di 
prevedere, non certamente senza precauzione, la partenza eventuale di un monaco 
verso un più profondo deserto. Dom Augustin Savaton ha osservato a questo 
proposito, e molto giudiziosamente: “Se, nella pratica e per la maggioranza 
delle persone, dopo l'esperienza secolare di tanti gruppi monastici, Benedetto 
preferisce il cenobitismo, si vede quale stima l'anacoreta di Subiaco 
conservasse per questo eremitismo che, sotto molteplici forme, ha sempre avuto 
il suo posto nella Chiesa; ma lo riserva ad un'elite, tenuto conto che un simile 
stato esige una vocazione molto speciale e d'eccezione, una seria preparazione 
spirituale, delle grazie adeguate „.
Non sembra, infatti, e fin da prima di San Benedetto, che ci sia stata 
difficoltà ad accordare agli abitanti delle laure (La laura indicava 
originariamente un agglomerato di celle di monaci, con una chiesa e, alle volte, 
un refettorio nel mezzo. Si distingueva da un lato dagli eremi degli eremiti, 
dall'altro dai cenobi dei cenobiti. Ndt.) dei soggiorni intermittenti nel Grande 
Deserto.
Eutimio (377-473), uno dei principali maestri del monachesimo palestinese, prima 
che avesse fondato la laura che porterà il suo nome, “passava la maggior parte 
del suo tempo nel monastero dei Trentatre santi Martiri „, ma, dall'Epifania 
alla festa delle Palme, cercando di imitare “l’ascesi di Elia e di Giovanni „, 
raggiungeva un più profondo deserto, il panerèmon, il deserto totale 
[36]. Conservò questa pratica alla laura di Pharan, non lontano da Gerusalemme, 
dove rimase cinque anni; ogni anno, con un monaco vicino ed amico, Teotisto, 
partiva verso il grande deserto di Koutila, e tutti e due vi vivevano “separati 
da qualsiasi contatto con gli uomini, desiderosi di conversare con Dio nella 
solitudine con la preghiera „. Quando delle circostanze provvidenziali portarono 
Eutimio a fondare una laura, la fece “sul modello„ di quella di Pharan. Così, 
fondata la sua laura, continuava ad andare ogni anno “nel deserto di Koutila e 
di Rouban il 14° giorno del mese di gennaio„; egli vi portava alcuni discepoli, 
e rimanevano là “fino alla festa delle Palme„. Ciò consisteva, ogni anno, in due 
mesi e mezzo circa di vita eremitica.
  
Questi soggiorni alternati nel Grande Deserto non ponevano nessun problema ma, 
anzi, si ammetteva facilmente il passaggio, in previsione di una residenza 
permanente, da un cenobio ad una laura, o da una laura al deserto, o da un 
deserto abitabile ad un deserto più selvaggio [37].
Altre eccezioni alla stabilità erano esplicitamente previste. Così, uno 
apoftegma prevede che un monaco potrà abbandonare un luogo di residenza per un 
altro in tre casi: “se l'ambiente nel quale il monaco si trova è, a causa della 
colpa di uomo astuto, un ambiente di falsità e di divisione; se il monaco vi 
riceve degli elogi; se si è in pericolo di fornicare „. Nel primo caso, il 
monaco rischia, infatti, di essere inibito e paralizzato dal disordine e dalla 
preoccupazione che le manovre di uno o due monaci possono causare; nel secondo, 
il monaco rischia di perdere l'umiltà; il terzo va da sé. Sensibilizzati alle 
questioni psicologiche, aggiungeremmo volentieri, noi moderni, un quarto caso: 
quello di depressione o d'insoddisfazione radicale. Un medico che si occupava di 
religiose mi diceva un giorno: “Alcune religiose non sono a proprio agio nel 
loro convento, ma saranno a loro agio in quello di fronte „. 
Le ragioni di questa differenza 
possono essere varie: a volte, sarà la mancanza di affinità elettive con le 
superiori o consorelle (confratelli); può anche essere questa mania che abbiamo, 
nei nostri monasteri e conventi, di etichettare definitivamente la gente, e 
senza appello - “è una cattiva lingua, scansafatiche, un incapace … „ -; 
religiosi che fanno uno sforzo di conversione e di correzione possono provare la 
tentazione di uno scoraggiamento definitivo.
In ogni modo, la stabilità era flessibile presso gli anziani, essa ha un vero 
rigore soltanto a partire da Pacomio, e sarà, con San Benedetto, meno rigida di 
quanto non si dica spesso. A proposito dell'episodio dei monaci di Vicovaro, che 
San Benedetto abbandona dopo essere sfuggito per un pelo ad un tentativo 
d'avvelenamento, san Gregorio fa osservare: “…io ritengo che se in un gruppo di 
persone cattive ve ne sia qualcuna cui si possa portar dell'aiuto, allora è bene 
che si sopportino con serena pazienza. Ma quando non si vede neanche l'ombra di 
un buono da cui sperare un po' di frutto, allora è proprio tempo e lavoro 
sprecato tutto quello che si fa per i cattivi, specialmente poi se vi siano a 
vicina portata altre attività che giovino maggiormente alla gloria di Dio... Ti 
accorgerai presto ... che anche il venerabile Benedetto lasciò per conto loro 
quei pochi indocili vivi, ma risuscitò altrove moltissimi cuori dalla morte 
dell'anima .„ (II Dialoghi cap. 3). San Benedetto, che aveva emigrato da 
Vicovaro a Subiaco, dovette ancora emigrare da Subiaco a Monte Cassino, a causa 
dell’odio malvagio del sacerdote Fiorenzo “ (II Dial. cap. 8).
 
Dopo San Benedetto, nel corso della storia dei monasteri benedettini e 
cistercensi, la professione è stata a volte più dedicata ad una Congregazione 
che ad un monastero, ed i trasferimenti di monaci, in vista ad esempio di 
ripopolare un monastero poco provvisto di uomini, sono stati frequenti. Succede 
spesso oggi che i Cistercensi vadano da un'abbazia madre ad un'abbazia figlia, o 
l'inverso; e la nomina di alcuni di loro come cappellani di monache cistercensi 
è un fenomeno normale. Presso i Certosini, nonostante il principio mantenuto 
della professione per un monastero, molti Certosini hanno risieduto in molti 
monasteri del loro Ordine. Tuttavia l'autorizzazione a passare da un Ordine meno 
rigoroso ad un altro che lo è maggiormente è meno facilmente data che un tempo, 
almeno in Occidente, ed è probabilmente disdicevole che non si accordino più 
facilmente soggiorni provvisori in eremo. Infatti sarebbe auspicabile che 
assolutamente tutti i monasteri abbiano in prossimità uno o più eremi, dove i 
monaci possano ritirarsi sia, più comunemente, in modo provvisorio, sia anche, 
eccezionalmente, a titolo definitivo, ma conservando un legame stretto con il 
loro monastero di professione e continuando a rendergli alcuni servizi; molti 
monasteri oggi lo hanno molto bene capito.
Il principio di stabilità è stato tuttavia sempre mantenuto. Molte ragioni 
invitavano a ciò. Ad esempio questa, che invoca san Gregorio a proposito della 
partenza di San Benedetto per Monte Cassino: “Il santo uomo dunque aveva preso 
la decisione di cambiare dimora, ma non poté mutare un nemico (II Dial. 8) „; 
dovunque noi siamo, il demonio ci accompagnerà e ci assalirà; la tentazione sarà 
forse diversa, ma non sarà meno pericolosa né meno violenta. Abba Isaia diceva, 
con buon senso ed obiettività: “… coloro che conoscono la loro malizia rimangono 
senza inquietudine, rendendo grazie al Signore per la dimora che ha dato loro 
dove tenere duro. Infatti, la pazienza, la longanimità e la carità rendono 
grazie per i lavori e la stanchezza; ma l’accidia, lo scoraggiamento ed il fatto 
che noi amiamo il riposo richiedono un luogo dove siano apprezzati, ed allora, 
in seguito all'elogio della moltitudine, i sensi diventano infermi e 
necessariamente la malvagità delle passioni prevale su di essi, e queste 
dissolvono la temperanza interna, con il vagabondaggio e la sazietà „ . Una 
sentenza attribuita allo stesso o ad un altro abba Isaia rende la stessa idea in 
modo più breve e più sorprendente: “Non è il (cambiamento di) luogo che mette in 
fuga i peccati, ma l’umiltà „[38]. Giovanni Crisostomo ribadisce questo 
apoftegma, quando scrive: “Al dissoluto ed al pigro il deserto non serve a 
nulla; poiché non è il luogo che produce la virtù, ma le disposizioni dell’anima 
ed il comportamento „.  Ovviamente, i 
nostri anziani credevano poco all'efficacia della conversione di luogo, e le 
preferivano la conversione del cuore, normalmente indipendente da un luogo, a 
condizione che siamo in quello dove Dio ci ha voluti e ci ha posti. Importa 
poco, tutto sommato, vivere qui o là, ma è indispensabile, per portare frutto, 
morire a sé stessi in un posto. San Benedetto, quindi, ha voluto dare alla 
stabilità una motivazione cristologica: “perseverando nel monastero … fino alla 
morte, noi condivideremo con la pazienza le sofferenze di Cristo, per meritare 
di prendere posto nel suo Regno „ (RB, Prol. 50); vivere la stabilità impone una 
sofferenza con Cristo, in attesa di essere glorificato con lui (cf. Rm 8, 
17). Fissando gli occhi su Cristo, la sua sopportazione e la sua pazienza, il 
monaco otterrà la grazia di perseverare, contro venti e maree, nel posto in cui 
Dio lo ha messo. Colui che vuole evitare le tempeste in un posto rischia di 
trovarle in un altro e, infine, di non fare nulla di valido, assolutamente da 
nessuna parte; egli avrà dimenticato, infatti, che il chicco di grano porta 
frutto soltanto a condizione di cadere per terra e di morirvi (cf. Gv 12,24). 
Dom Jean Leclercq, proponendo come modello a questo proposito Pietro il 
Venerabile, ha definito l'atteggiamento del monaco fedele al pensiero di san 
Benedetto: “Cercare la perfezione in un genere di vita imperfetto, è questo il 
paradosso al quale ci invita. Ammettere con umiltà che l’osservanza nella quale 
Dio ci ha messi è, come tutto quaggiù, sotto il segno dell'incompiutezza; ma, se 
non si è ricevuta missione di modificarla, accettarla, apprezzarla; non 
criticarla affatto, non volere, salvo eccezioni, lasciarla per seguirne 
un'altra; esservi interamente fedele, assumerne tutte le esigenze; non rendersi 
responsabile di alcuna delle debolezze che possono spogliarla, ma acconsentire 
ai limiti inerenti ad ogni istituzione, tale è la lezione che Pietro il 
Venerabile ci dà. Quale monaco oserà 
dire che non si rivolge a lui? „ [39].
b. Uscite sporadiche 
Altrove [40], ho parlato già della rigidità dei consigli dati dai Padri del 
Deserto in materia di uscite e, tuttavia, dell'elasticità stupefacente delle 
loro decisioni pratiche. Non vi ritorno, e basterà, per situare il loro punto di 
vista, ricordare un aneddoto e citare un testo dottrinale:
“Un monaco, relativamente vicino ad un borgo, diceva a fratelli: 'Sono tanti 
anni che sono qui, e non sono mai andato al borgo. Voi, al contrario, andate 
tutti i giorni.' I fratelli riportarono l'opinione a Poemen, ed egli disse: 
'Sarebbe stato meglio che egli fosse andato al borgo, e non si glorificasse nei 
suoi pensieri, dicendosi: Io non sono uscito e, giudicando gli altri: Voi siete 
usciti ed andati al borgo…' „ [41]. I Padri del Deserto erano fanatici 
dell'umiltà e della carità. Giudicavano con molta più elasticità le condizioni 
esterne di vita. Tutti concordano nel riconoscere che il ritiro dal mondo è il 
passo iniziale e fondamentale, da cui dipenderà tutto l'orientamento ulteriore 
della vita monastica; occorre molta vigilanza per conservare la sua austerità, 
poiché le sollecitazioni ad uscire vengono un po' da tutte le parti. Ma, allo 
stesso tempo, i Padri vogliono evitare che una fedeltà inflessibile ed 
orgogliosa tolga ai monaci la mobilità davanti alle suggestioni dello Spirito; 
essi sanno, infatti, che le realizzazioni alle quali porta lo Spirito di Dio 
sono varie ed imprevedibili. Motivi di lavoro o di carità possono indurre il 
monaco a rinunciare alle risoluzioni di stabilità, ed egli deve sempre rimanere 
molto libero, interiormente ed esteriormente, davanti a queste chiamate.
Ammone, il successore di Antonio, scriveva questo: i nostri santi Padri “avevano 
prima praticato e ricevuto in sé stessi molta hèsychia 
(quiete), tanto che abitava in 
loro la potenza della divinità. Allora Dio li ha inviati in mezzo agli uomini, 
ed avevano tutte le virtù. Hanno vegliato sugli uomini, ed hanno guarito tutte 
le loro malattie. (Dio) li inviava quando ormai tutte le loro passioni erano 
state guarite. Dio non poteva inviare chiunque fra gli uomini, per vegliare su 
di loro; (non poteva inviare) coloro che avevano in sé malattie o sospetti di 
peccati. Ma coloro che se ne vanno nel mondo prima che Dio lo abbia loro 
comandato, se ne vanno con la loro volontà, e non (con quella) di Dio. Ma Dio 
dice di tali (persone): 'Io non li ho inviati ed essi corrono' (Ger 23,21); 
quindi sono incapaci di proteggere sé stessi, senza l'aiuto di altri. Quelli, al 
contrario, che sono inviati da Dio, non vogliono allontanarsi dalla loro 
hèsychia. tenuto conto che è grazie ad essa che hanno acquisito la potenza 
divina; essi (sanno anche) che non obbedirebbero il loro Creatore, se andassero 
a loro piacimento all’edificazione degli altri „ [42].
Il desiderio essenziale del monaco non è dunque diretto al contatto con il 
mondo, ma al contatto con Dio. Il monaco non desidera essere inviato al mondo 
ma, se Dio glielo chiede, in particolare con chiamate precise della Chiesa, egli 
lo accetta molto semplicemente, come un'espressione della volontà del Signore, 
che gli è cara al di sopra di tutto.
È in questa prospettiva che occorre comprendere l'atteggiamento di San 
Benedetto, in occasione del suo arrivo a Monte Cassino: si trova davanti ad una 
popolazione pagana e idolatra: “… con una predicazione continua, chiamava alla 
fede gli abitanti di tutto il circondario „ (II Dial 8). Ma il seguito dei 
Dialoghi non parla più di 
questa “predicazione continua „; è probabile che una volta ottenuto l'accesso 
alla fede cristiana delle popolazioni, San Benedetto si sarà accontentato di 
garantire il loro mantenimento ed il loro progresso nella fede con l'accoglienza 
al monastero ed un'azione discontinua; tutto, infatti, nel seguito dei 
Dialoghi, sembra centrato sul ritiro e la preghiera. Conformemente a 
quest'esempio, ci saranno, durante molti momenti della storia monastica, monaci 
missionari: così, nel VII° secolo, sant’Agostino di Canterbury, apostolo 
dell'Inghilterra; nell’VIII°, santo Willibrordo, apostolo dei Frisoni, e san 
Bonifacio, apostolo della Germania. Ma questo ruolo missionario sarà esercitato 
soltanto temporaneamente dai monaci e, una volta garantite le strutture 
apostoliche, essi si ritireranno.
La stabilità di luogo è innegabilmente un bene, non soltanto perché essa 
impedisce il vagabondaggio ed il disordine, ma ancora perché facilita 
l'inserimento autentico in una data comunità. Evita anche la dispersione; si 
garantisce meglio un lavoro, quando vi ci si dedica in modo continuo ed in uno 
stesso posto; le uscite, quasi inevitabilmente, comportano una dispersione. Ma 
soprattutto ci si garantisce, con la stabilità, un ambiente di silenzio e di 
raccoglimento, favorevole alla preghiera. Se tuttavia la stabilità rendesse 
estranei ai problemi ed alle angosce dell'umanità, oppure incapaci di percepire 
i cambiamenti necessari ad un'epoca, essa diventerebbe un male; le relazioni tra 
monasteri, l'esercizio dell'accoglienza, la preoccupazione dell’ambiente, 
permettono di vivere l'ideale di stabilità con umiltà, carità ed elasticità.
Nel 1961, mentre era abate di Ligugé, il Padre Gabriel Le Maître ha dedicato un 
breve e chiaro studio alla Teologia della vita monastica secondo Dom 
Guéranger (1805-1872); molte pagine (6-11) espongono le concezioni di Dom 
Guéranger sulla stabilità, a partire da annotazioni prese dai monaci di Solesmes 
alle conferenze spirituali del loro abate (= C), ed in particolare alle sue 
conferenze sulla Regola benedettina (= R). L'inserimento normale ed abituale del 
monaco è, dice Dom Guéranger,“nella preghiera, nel lavoro, nel ritiro, nello 
studio delle Sante lettere„ (R863). Inoltre, nell'Ordine monastico, l'azione 
esterna dovrà rimanere “un fatto eccezionale„ (C422). Tuttavia, “per essere 
nella verità, non si possono avere su queste questioni teorie assolute che 
degenerano facilmente in sofismi„ (C424), e la “vita contemplativa, per essere 
perfetta, deve disporre le anime ad agire per Dio, se l’occasione si presentasse 
e, quindi, ad uscire dal riposo per consegnarsi alle opere„ (C423). Fra le forme 
di lavoro alle quali può dedicarsi il monaco, nonostante che ciò possa 
comportare il rischio delle uscite dal monastero, Dom Guéranger mette al primo 
piano, accanto al “lavoro intellettuale„, la “cura delle anime„ (R642). Tutto 
sommato, Dom Guéranger vuole il monaco fermamente attaccato alla sua vocazione 
contemplativa ma, allo stesso tempo, molto disponibile alle chiamate dello 
Spirito ed al servizio della Chiesa. È, di fatto, ad una concezione cristologica 
ed ecclesiologica ben definita che il suo modo di giudicare la stabilità si 
ricollega: “Dio non ha fatto nulla di più grande del mistero dell'Incarnazione, 
di cui la Chiesa è soltanto il prolungamento ed il seguito. La Chiesa ha un 
cuore che è lo stato religioso. Lo stato religioso è la manifestazione più 
completa che ci possa essere quaggiù del Mistero dell'Incarnazione attraverso 
l’esatta riproduzione dei meriti e della vita intera dell'Uomo Dio„ (C241). I 
monasteri, per vivere del mistero dell'Incarnazione, devono armonizzare i loro 
orientamenti e le loro attività a quelle della Chiesa e dell’intera cattolicità.
Poiché tutto è giudicato da un punto di vista così elevato, le meschinità e le 
infedeltà sono meno da temere. La stabilità è un bene prezioso, ma al servizio 
della Chiesa, secondo modalità che differiranno a seconda delle epoche, dei 
luoghi e degli individui; la preoccupazione di preghiera e di raccoglimento 
garantirà la discrezione e, possibilmente, la scarsità delle inosservanze al suo 
principio. È difficile dire di più, visto che, in materia di uscite, ogni 
Congregazione e monastero ha le sue usanze e discipline proprie.
Isacco il Siriano diceva: “È meglio colui che costruisce la sua anima di colui 
che costruisce il mondo „. Tale è la visuale di fede che sostiene ogni vita 
monastica, di oggi come di un tempo. Tuttavia, “colui che costruisce la sua 
anima „ non può essere indifferente alla costruzione del mondo; se è invitato a 
cooperare a questa, non se ne sottrarrà. Ma, in nessuna circostanza, egli 
desidererà né si metterà davanti per tali servizi, e saprà farsi da parte e 
tirarsi indietro, non appena compiuto il suo dovere. Pur con un letteralità meno 
grande che alle origini del monachesimo, ma secondo un'evoluzione normale dei 
tempi, egli rimarrà così fedele al principio posto da Antonio: “non lasciare 
alla leggera, o anche non lasciare  per 
niente il posto dove ti sarai insediato „.
San Benedetto d'Aniane ha detto della Regola benedettina che era “un fascio „ 
[43] degli insegnamenti dei Padri che avevano preceduto san Benedetto da Norcia, 
e che era loro dunque fondamentalmente fedele. San Benedetto si dice tuttavia 
rosso “di confusione„ (RB 73,7) al pensiero delle prestazioni dei Padri del 
Deserto; egli ha, riguardo a loro, di cui idealizza l’osservanza, ciò che 
chiamiamo “un complesso d'inferiorità „; a costo di incoraggiare individualmente 
i monaci ad una generosità più grande, si rende conto che non può chiedere ad 
una comunità, ed in particolare alle comunità del suo tempo, “nulla di penoso, 
nulla di opprimente„ (Prol., 46). Egli ha nostalgia della vita dei primi monaci, 
e vorrebbe avvicinare i suoi monaci a tale vita; la sua nostalgia lascia dunque 
posto alla speranza, ed è per questo che il Padre M. van Parys ha parlato, molto 
felicemente, “di nostalgia dinamica„ [44]. La Regola benedettina ha dunque le 
sue caratteristiche proprie, ed essa riunisce “le due correnti cenobitiche: 
l’una, più individuale, che gli veniva dall’Egitto attraverso Cassiano ed il 
Maestro; l'altra, più comunitaria, che derivava d’Agostino „ [45]. Dopo di essa, 
le tradizioni cistercense e benedettine offriranno riletture variegate degli 
stessi documenti primitivi. Ma, anche in ciò, esse sono conformi alle loro 
origini, visto che non c'è stato un solo tipo di Padre del Deserto, ma diversi. 
Un confronto con le fonti del monachesimo rimane, del resto, sempre necessario 
per correggere eventuali deviazioni e per trovare il soffio d'assoluto, di 
servizio senza divisione, di docilità totale ed immediata alle suggestioni dello 
Spirito che ha animato San Benedetto come anche sant’Antonio.
Clervaux (Luxembourg) 
Louis LELOIR 
 Abbaye Saint-Maurice et Saint-Maur de 
l'abbaye de Clervaux 
NOTE 
 
[1]. Arm I, 1: I, 1; Sist. greca I, 1; PG I, 1: PL 
73,855 A.
- Arm = 
Armeno 
- 
Louis LELOIR, Paterica armeniaca a PP. Mechitaristis edita (1855). nunc 
latine reddita, nel CSCO (Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium) 353 
(I. Trattati 1-4), 361 (II. 
Trattati 5-9), 371 (III. Trattati 10-15), 377 (Trattati 16-19) /Subsidia 
42,43,47,51. Lovanio, 1974,1975,1976. I riferimenti indicano il numero del 
trattato, quello dell’apoftegma all'interno di ogni trattato e quindi il numero 
del volume e la sua pagina. 
- Sist. greca = Analisi della raccolta sistematica, in Jean-Claude GUY,
Recherches sur la Tradition greque des “Apophtegmata Patrum “(Subsidia 
Hagiographica, 36), Bruxelles, 1962. p. 126 - 181.
- PG = Pelagio e Giovanni = De Vitis Patrum liber quintus, sive Verba 
Seniorum, auctore graeco incerto, interprete PELAGIO diacono, in PL 73,855 A 
- 988 A, + De Vitis Patrum liber sextus, sive Verba Seniorum, auctore 
graeco incerto, interprete JOHANNE subdiacono, in PL 73,993 A - 1022 B.
[2]. Arm 11.4 R: III, 133.
[3]. Arm 11,30: III, 128.
[4]. Cf. la sua versione latina, Visio Pauli, 11 (“ed erat ibi obliuio 
que fallit et deducit ad se corda hominum„) e 16 (“error et obliuio et 
susurracio obuiauerunt eam„), in Texts and Studies. 
Contributions to Biblical and Patristic Literature. 
Edited by J. Armitage ROBINSON, vol. 
II, no. 3: Apocrypha anecdota, by Montaque Rhodes JAMES, Cambridge, 1893. 
n. 15. 4-5: D. 18. 24-25.
[5]. Arm 11,30:111,128.
[6]. Arm l, 113 Ra: I, 81.
[7]. Arm 1, 78 R: 1,54.
[8]. Arm 10,21: III, 12-13.
[9]. B. NODET, Jean-Marie Vianney, curé d’Ars. 
Sa pensée – son coeur, Puy, Mappus, 1958, p. 208.
[10]. Arm 10, 112 R: III, 116.
[11]. Cf. Bernard OUTTIER, O.S.B., Un Patericon arménien (Vitae Patrum, II, 
p. 505-635), in Le Muséon 84 (1971) II,101, p.315.
[12] [13]. Cf. Dietrich Bonhoeffer, Textes choisis, edizioni. 
R. GRUNON Parigi e Ginevra, 1970, p. 57 - 62.
[14]. Cf. J. Y. LELOUP, Paroles du Mont Athos.
In 
La Vie Spirituelle, 
n° 630 (janv. - févr. 1979) p. 106,121 s. - Dom Eugène Manning, O.C.R., aveva 
già detto, molto finemente: “La regula,
per Benedetto, è un 
motivo di fondo proprio del
cenobitismo. 
Contrariamente agli eremiti che 
sono sotto l'influenza dello Spirito e fanno ciò che Egli vuole, ed ai 
girovaghi-sarabaiti che sono sotto l'influenza della loro volontà propria e 
fanno ciò che vogliono, i cenobiti fanno ciò che l’abate vuole “; Collectanea 
Cisterciensia 37 (1975) p. 207 s.
[15]. Arm 16,2: IV, 2. Le lettere A e B tra parentesi indicano le due 
raccolte armene che ho tradotto.
[16]. Arm 10,144: III, 
70.
[17]. Arm 1,22 R I,2
[18]. Conferenza IX, 2. Dom Eug. 
PICHERY, Jean CASSIEN, Conférences VIII - XVII (SC 54). 
Parigi, 1958, p. 40.
[19]. PG 26,837-977.
[20]. La demonologia così sviluppata della
Vita 
di Antonio è probabilmente, per un'ampia parte, la creazione di 
sant’Atanasio. Cf. Guerric COUILLEAU, O.C.R., La liberté d'Antoine, 
in
Studia Anselmiana.
Roma 70 (1977) p. 
38-40. Se, del resto, ad “ogni rinascita monastica„, si è ricorso alla
Vita di Antonio 
ed ai suoi apoftegmi, lo si è 
fatto lasciando di parte “l’immaginario diabolico„ e sfruttando soltanto i temi 
spirituali. 
Cf. Jean LECLERCQ, O.S.B., 
L'amour des lettres et le désir de Dieu (L'amore 
delle
lettere ed il desiderio di Dio). 
Parigi, 1957, 
p.98.
[21]. Arm 18,60: IV, 85-86.
[22]. Arm 1,44 Ba: I, 23-24.
[23]. Arm 10. 91: III. 49.
[24]. 
Ce que
croyait Benoît (Ciò 
che credeva Benedetto), 
Mame, 1974, p. 44.
[25]. PG 26,841 e 842 A; vedere anche 944 B (cap. 72); 945 A (cap. 73); 
952 B (cap. 78).
[26]. PG 26,841 A.
[27]. Ibid.
[28]. II Dial., 2; 
[29]. 
Cf. Jean LECLERCQ, O.S.B., 
L'amour des lettres et le désir de Dieu (L'amore 
delle
lettere ed il desiderio di Dio). 
Parigi, 1957, 
p.98.
[30]. Arm 19,23 Aa: IV, 163. SOCRATIS Scholastici Historia 
Ecclesiastica, .M. VALESIO interprete, IV, 23, in PG 67. 
513 A.
[31]. Arm 15, 57 R: III, 296.
[32]. Arm 19, 20 R: IV, 180.
[33]. Arm 18, 18 R: IV. 124.
[34]. Aug. SAVATON, O.S.B-, La Règle de S. Benoît, traduite et annotée. 
Abbaye Saint-Paul de Wisques, 1950, 
p. 15, nota 2.
[35]. In 
La Part des Moines. Théologie vivante dans le Monachisme français, (La Parte dei 
Monaci. Teologia vivente nel Monachesimo francese) 
coll. 
Le Point Théologique.28, 
Parigi, 1978, p. 204, Père Gustave MARTELET, S.J., ha detto che “il problema 
essenziale„ oggi non è più “tanto di teologia quanto d'antropologia 
monastica„. Dom Jean LECLERCQ, in Collectanea Cisterciensia 37 (1975),
Autour de la règle de saint Benoît, 
p. 
167-204, aveva dedicato la prima parte del suo articolo all’esame di questo 
problema.
[36]. 
Les Moines d'Orient. 
III/I, Les Moines de Palestine, Cyrille de SCYTHOPOLIS, Vie de saint 
Euthyme, 
tradotta da A. - J. FESTUGIERE, Parigi, 1961, V, p. 64 e p. 55, nota 1.
[37]. Cf. ibid .p.55, nota l.
[38]. Oratio 26; PG 40,1143 B.
[39]. Collectanea Ord. 
Cist. Ref. 
1956, 2, p. 87.
[40]. Desert et Communion (vedere nota 25), p. 106-135.
[41]. Arm XV. 47 R  III 293 
[42]. Vies et Pratiques des saints Péres (Vite e prassi dei santi Padri), 
secondo la doppia traduzione degli anziani (in armeno), Venezia, 1855, volume 2, 
p. 602-603.
[43]. PL 103,715 A: “suam a caeteris assumpsisse Regulam, et veluti ex 
manipulis unum strenue contraxisse manipulum„.
[44]. Irénikon 47 (1974) p. 49, nota 1.
[45]. Ad. DE VOGÜÉ, La Règle de saint Benoît, 1 (SC 181), Paris, 1972, 
Introduzione, p. 39.
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11 luglio 2015   
            a cura di
Alberto "da Cormano"        
      
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