Regola di S. Benedetto

 

Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno: 22. Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede, 23. purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo. 24. Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati, 25. dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana.

Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino: 1. Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi", 2. ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino. 3. Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: "Servite il Signore nel timore" 4. e ancora: "Lodatelo degnamente" 5. e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli". 6.Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli 7. e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce.

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: 13. Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.



Il paradosso dei salmi

Tratto dal libro "IL CHIOSTRO" di Kathleen Norris.

  Arnoldo Mondadori Editore, 1998

 

Il Dolore - si perde - nella Lode.

EMILY DICKINSON

Quand'ero bambina la chiesa significava due cose per me: vestirsi a festa e cantare. Ho cominciato a cantare nei cori all'età di quattro anni, per lungo tempo convinta che il canto fosse lo scopo della religione, un'illusione rozzamente dissipata dai rigori della catechesi. La chiesa era anche una questione formale, un'occasione in cui indossare «l'abito della domenica» e sedere in maniera composta. Come la ragazzina ritratta in «Protestant Easter, 8 years old» («Pasqua protestante, 8 anni») di Anne Sexton, sapevo che «da bambino / Gesù era sempre buono» e tentavo confusamente di allacciare la sua storia con ciò che vedevo attorno a me la domenica mattina: «Nelle sue mani conficcarono dei chiodi. / Dopodiché, beh, dopodiché / tutti misero il cappello ... / La cosa più importante per me / è che porto i guanti bianchi».

A provocare l'insuccesso della mia educazione cristiana, come compresi in seguito, fu la convinzione che, per incontrare Dio, una persona fosse costretta a mettersi l'abito migliore, sia fuori che dentro; l'insidioso concetto che si dovesse essere individui dalla fede inamovibile, persino raggiante, prima di osare mostrare il proprio volto nella «Sua» chiesa. Un Dio simile mi era di poca utilità nell'adolescenza, per cui, come accadde a molte donne della mia generazione, cessai semplicemente di recarmi in chiesa quando non potei più essere «buona», il che, per una ragazza soprattutto, significava attenersi alle regole, soffocare la rabbia o il risentimento e frenare le lamentele.

Per il tono disgregativo che li pervade e gli incessanti, audaci interrogativi levati a Dio («Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto ...?» [Sal 88, 47]) [1], non fa meraviglia che la gran parte dei salmi fossero esclusi dalla funzione domenicale negli anni della mia adolescenza, a eccezione di un manipolo di versi più gioiosi, giudicati adatti alla lettura responsoriale. A tutt'oggi in America l'appassionata, spesso contraddittoria poesia salmodica è ampiamente censurata dal culto cristiano, sebbene cattolici, episcopaliani, luterani e altri protestanti tradizionali assistano alla recita di qualche frammento ogni domenica. Nelle funzioni prive di un impianto liturgico, più della gravosa musica della poesia si ode la prosa fiacca e discorsiva, che dà l'illusione di poter dominare quanto accade in chiesa e nel cuore umano. E le sette pentecostali, che lasciano più spazio alla reazione emotiva nelle loro cerimonie, tentano di vigilare sulla stessa facendo del sentimentalismo sulle emozioni. I loro «salmi» assomigliano a dei pezzi pop sulla persona di Gesù.

Avendo disertato la chiesa per vent'anni circa dall'epoca del liceo, la mia riscoperta dei salmi fu un fatto aleatorio, dovuto all'inattesa attrazione verso la liturgia benedettina, che riposa su di essi. In una comunità benedettina i salmi vengono recitati o cantati durante la preghiera del mattino, del mezzogiorno e della sera, e l'intero salterio è rivisitato ogni tre o quattro settimane. Allorché cominciai a immergermi nella liturgia monastica, scoprii di calare, al contempo, anche nella poesia e notai con gratitudine che l'indole poetica dei cantici, il loro costante moto dal mondano all'eccelso, sta a significare, a detta del benedettino inglese Sebastian Moore, che «Dio adotta nei salmi condotte interdette dalla teologia sistematica» e, inoltre, che le immagini evocate, «sgrossate dall'esperienza terrena, [sono] assolutamente diverse dalla preghiera formale».

Nei due soggiorni di nove mesi ciascuno presso la comunità di san Giovanni, mi venne anche dato di comprendere che la preghiera benedettina, scorrendo quotidiana come il matrimonio e le faccende domestiche, tende a spazzar via le perplessità della teologia sistematica e della dottrina ecclesiastica. Se queste ultime rimangono presenti, a mo' di impalcatura, i salmi richiedono comunque un impegno, così come esigono che l'osservante li legga con tutto se stesso, pregando, per dirla con san Benedetto, sì che «il nostro spirito concordi con la nostra voce» (Regola di san Benedetto, cap. XIX). Questo tipo di esperienza mi consentì, a grado a grado, di affrancarmi da quel Dio della mia infanzia che aveva posto un modello impossibile sia per la preghiera formale che per la fede, convincendomi che non valeva la pena esplorare la religione, dal momento che non potevo «farlo nella maniera giusta».

Imparai che, quando ci si reca in chiesa più volte in una giornata, tutti i giorni, è impossibile attenersi alla «maniera giusta». Non ci si siede sempre compostamente, per non parlare, poi, del concepire soltanto santi pensieri; non si indossano i vestiti della festa, ma qualsiasi cosa non sia già finita nel cesto della biancheria sporca. Ci si accosta al grande «libro delle lodi» biblico in preda a tutti gli umori e a tutte le condizioni dell'esistenza e si canta, anche quando si soffrono le pene dell'inferno. Con sorpresa si scopre che, lungi dal contraddirne i veri sentimenti, i salmi consentono al fedele di riflettere sugli stessi, al cospetto di Dio e di tutti. Durante il mio primo soggiorno nell'abbazia compresi quanto sia difficile rispettare tale impegno quotidianamente. Prima di allora non mi ero trattenuta in un monastero per più di una settimana o anche meno, vivendo immancabilmente un'esperienza culmine. Quella volta, invece, che il mio bottino sarebbe ammontato a nove mesi, mi toccò lottare con me stessa per andare al coro anche quando non ne avevo voglia, soprattutto se ero depressa, ossia nei momenti in cui ne avevo maggior bisogno. Fu per me motivo di grande conforto sapere che tutti all'abbazia avevano dovuto superare questo conflitto e che qualcuno si stava ancora misurando con l'assurdità, la monotonia della ripetizione obbligata dei salmi, giorno dopo giorno.

Ebbi il sentore che la poesia salmodica avrebbe fatto breccia in me e mi avrebbe toccata, anche se questa vittoria avrebbe richiesto del tempo - durante alcuni uffici piombavo letteralmente nel sonno, mentre ad altri sembravo parteciparvi da spettatrice, dal lontano pianeta Marte. Presi coscienza dei tre paradossi racchiusi nei salmi: che in essi, in effetti, «il dolore - si perde - nella lode», ma non senza essere preso in piena considerazione; che, benché tra tutti i libri della Bibbia il salterio sia quello che in maniera più diretta si rivolge all'individuo, non è tuttavia possibile sottrarlo al contesto collettivo; e che i salmi sono olistici nel loro insistere sull'inestricabile vincolo di mondano e sacro. Il metodo benedettino di leggere i salmi, con lunghe pause di silenzio tra l'uno e l'altro, scevro del corredo di commentari o spiegazioni, consente di sfruttare appieno tali paradossi, offrendo uno spazio quasi allarmante all'interpretazione e alla risposta. Esso dà adito alla completa potenza poetica salmodica, all'uso delle immagini e dell'iperbole («Svegliati, mio cuore, / svegliatevi arpa e cetra, / voglio svegliare l'aurora» [Sal 56, 9]), della ripetizione e della contraddizione come strumenti sia del gioco di parole sia del gioco delle emozioni umane. Malgrado la loro ferrea disciplina, i benedettini mi autorizzarono a riposarmi e a cantare di nuovo in chiesa; mi permisero, come ebbe a descrivere una sorella più anziana, vedova e madre di dieci figli, di «lasciare che le parole dei salmi fluissero su di me e che io esperissi la gioia di trovarmi con esse soltanto». Essendo una poetessa, mi piace stare con le parole. Che ciò potesse essere una preghiera, che ciò fosse sufficiente, fu per me una rivelazione.

Ma al lettore moderno i salmi possono apparire impenetrabili: come diamine è possibile anche soltanto leggere, lasciando daccanto il salmodiare, queste poesie irose e spesso violente, figlie di un'antica cultura guerriera? Di primo acchito appaiono insostenibilmente patriarcali, stizzose, moralistiche, vendicative, e spesso sembrano riflettere precisamente ciò che vi è di sbagliato al mondo. E proprio questo è il punto, o in buona parte. Leggendo i salmi ogni giorno, diviene evidente che la realtà ritratta in essi non è molto diversa da quella attuale. Atanasio, un monaco vissuto nel IV secolo, ebbe a scrivere che i salmi «diventano per chi li canta come uno specchio» e questa affermazione è valida oggi quanto nell'epoca in cui fu scritta. I cantici ci ricordano che il nostro modo di giudicare il prossimo, con parole aspre e gesti vendicativi, rappresenta un'ingiustizia e che sarebbero gli impotenti della società a essere sopraffatti nel caso in cui l'ingiustizia fosse istituzionalizzata. Come molti altri, il salmo 34 lamenta l'assenza di Dio in un mondo ingiusto, fino al punto di invocare: «Fino a quando, Signore, starai a guardare?» (Sal 34, 17). Di ben misero conforto mi è il prendere atto che la fine del salmo 12 è altrettanto significativa ai giorni nostri di quando fu redatta, migliaia di anni fa: «Ci guarderai da questa gente per sempre. / [mentre ...] emergono i peggiori tra gli uomini» (Sal 11, 8-9).

Quella dei salmi, però, è una lettura scomoda, agli antipodi rispetto all'indole americana. Uno scrittore, di cui ho scordato il nome, disse un giorno che le vere religioni dell'America sono ottimismo e negazione. Ciò che i salmi ci chiedono è riconoscere che la lode scaturisce non già dall'illusione che le cose siano migliori di quanto in realtà appaiano, bensì dalla capacità umana di provare gioia. Soltanto accogliendo in sé quest'idea si potrà comprendere che tanto il lamento («Dal profondo a te grido, o Signore» [Sal 129, 1]) quanto il gaudio («Acclamate al Signore, voi tutti della terra» [Sal 99, 1]) possono essere forme di magnificazione. Nella nostra incredula era, che alla lode antepone l'apprezzamento, i salmi sono la dimostrazione che la prima non nasce necessariamente dall'ottimismo. Ma le comunità benedettine traggono i propri affiliati dal mondo circostante, di cui, com'è naturale, vengono a riflettere in una certa misura i valori. Nella società americana la donna è condizionata a trascurare il proprio dolore, a sminuire o ignorare gli effetti della violenza, persino quando questa è diretta contro di lei. Come mi disse una sorella: «Sembra che le donne facciano fatica a tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è accettazione passiva della sofferenza e ciò che può trasformarla». È questo il pericolo insito nell'idea di Emily Dickinson che «il Dolore - si perde - nella Lode», e cioè che possiamo tentare di balzare con troppa rapidità dall'uno all'altra, negligendo la malsicura traversata e rendendo in tal modo romantici e travaglio e lode.

Parlando delle donne da lei assistite (casalinghe sradicate dal luogo di origine, mogli maltrattate, donne che tornano agli studi universitari dopo un'interruzione di anni), la sorella sostiene: «I pessimi trascorsi della Chiesa certo non aiutano. Alla gente, soprattutto alle donne, abbiamo raccomandato tante sciocchezze del tipo: "Offri la tua sofferenza in sacrificio", o "Il dolore ti renderà più forte". Gesù non parla in questo modo. Egli dice: "Questo ti costerà".» La rabbia è una reazione onesta al costo del dolore e di rabbia i salmi straboccano. Il salmo 38 si apre con una confidente asserzione di autocontrollo: «Veglierò sulla mia condotta / per non peccare con la mia lingua» (Sal 38, 2). Il tono ben presto cambia secondo percorsi familiari a chi è incline a prendere decisioni simili soltanto per vederle frangersi sotto i suoi occhi: «La sua fortuna [dell'empio] ha esasperato il mio dolore. / Ardeva il cuore nel mio petto, / al ripensarci è divampato il fuoco; / allora ho parlato:...» (Sal 38,3- 4). Fatto alquanto caratteristico, nonostante l'appellativo «empio» assegnato a un'altra persona implichi una critica, lo sdegno del salmista è diretto soprattutto a Dio, con l'amaro interrogativo: «Ora, che attendo, Signore?» (Sal 38, 8).

Molte benedettine scoprono nei salmi uno sbocco a tale collera. Essi non sono finalizzati a liquidare la rabbia o a spiegarla con argomentazioni teologiche, in parte perché si tratta di produzioni poetiche e la funzione della poesia non consiste nel chiarire, bensì nell'offrire immagini e storie che riecheggino dell'esistenza del lettore. Walter Brueggemann, teologo luterano, scrisse nel suo libro Israel's Praise (La lode d'Israele) che il dolore contenuto nei salmi funge sia da «locus della possibilità» che da «matrice della lode». Si tratta di un'osservazione pericolosa, altrettanto rischiosa dell'idea della Dickinson. Esiste un'esile linea divisoria tra l'idealizzare o l'idoleggiare il patimento e il confrontarsi con esso con speranza. Ma credo che entrambi gli scrittori dicano la verità riguardo ai salmi. Il valore di questo eccelso libro di cantici della Bibbia non riposa sul fatto che la lode cantata sia un alleviamento del dolore, bensì che le sue dolorose immagini le siano essenziali, che senza di esse quest'ultima risulti insignificante. Diventa quel «tremendo plauso» lamentato dalla scrittrice del Minnesota Carol Bly con riferimento al mondo cristiano americano in generale, che acceca se stesso al dolore, rendendo la propria lode una falsità.

Gli individui che si ravvivano ai salmi giorno per giorno, capiscono che, laddove la magnificazione è una dote spontanea nel bambino, all'adulto può essere necessaria anche un'intera esistenza prima di potervi riapprodare. Mi raccontò una sorella che, entrata in convento, da giovane donna idealista qual era aveva avanzato la pretesa che «fosse sufficiente cantare gloria a Dio». Questa sua aspirazione ebbe breve vita. L'onestà terrena dei salmi l'aveva aiutata, continuò, a «farsi reale, a superare il parlare sacro e l'immagine romantica della suora». Esprimendo tutte le complessità e le contraddizioni dell'esperienza umana, i salmi fungono da buoni psicologi, frustrando la nostra propensione a voler essere santi senza prima essere umani. Il salmo 6 rispecchia l'indistinguibile impasto di dolore e rabbia; il gemito «Sono stremato dai lunghi lamenti, / ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio» (v. 7) si volge in breve in furore: «Invecchio fra tanti miei oppressori. / Via da me voi tutti che fate il male» (vv. 8-9). Il salmo 37 sosta sul precipizio della depressione, mentre di onda in onda l'amara autocondanna si scontra con la flebile voce della speranza. Il cantico dipinge l'estrema malinconia con precisione clinica: «Si spegne la luce dei miei occhi» (v. 11), «e ho sempre dinanzi la mia pena» (v. 18), mostrando la lode soltanto nella possibilità della speranza: «In te spero, Signore» (v. 16). Il salmo 87 è uno dei pochi che termina senza nemmeno un accenno alla magnificazione, guidando il lettore al cuore delle tribolazioni e lì depositandolo con queste parole: «Mi sono compagne solo le tenebre» (v. 19). A costui non rimane che augurarsi che tali tenebre siano amichevoli, un luogo adatto a risanare le ferite più profonde.

I salmi suscitano disagio nel lettore perché non gli consentono di ignorare gli abissi del proprio strazio, né la possibilità della sua trasformazione in lode. Come mi fece notare una sorella benedettina sui cinquant'anni, che da poco aveva perduto il lavoro e sofferto la rottura di una lunga amicizia: «Mi sento come se Dio mi stesse ricostruendo; Egli mi "fascia le ... ferite" (Sal 146, 3)». «E tuttavia» aggiunse «sono stanca e non sono in grado di confrontarmi che con piccoli brani del salterio. Quando si è distrutti, ci si ciba di quel che si può. I salmi mi danno una sensazione simile a una delicata pioggia primaverile, di cui a stento mi accorgo di essere impregnata, ma che mi è salutare.»

I salmi disvelano i nostri conflitti più complessi, nonché l'intimo nostro desiderio, volendo ricorrere a un'espressione junghiana, di sfuggire all'ombra. In essi l'ombra si rivolge a noi direttamente, con parole penose da ascoltare. In tempi recenti, in alcuni centri benedettini, in specie nelle comunità femminili, si è cominciato a escludere dalla funzione pubblica i carmi più crudi, spesso detti «salmi imprecatori». Ma, al suo ritorno da una visita a una di questa comunità, una sorella, liturgista, affermò: «Cominciai a sentirmi ansiosetta, a percepire che qualcosa non quadrava. L'esperienza umana è un'esperienza di violenza e i salmi riflettono le dinamiche attraverso cui gli individui esperiscono la realtà».

Il salterio abbonda di ombre, ossia di nemici, di desolate immagini di tradimenti: «Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno» (Sal 40, 10). Nel salmo 9 è contenuta l'immagine di un leone che «sta in agguato nell'ombra» (v. 9), la quale immagine richiama alla mia mente quei manipolatori che mostrano le proprie autentiche tinte soltanto oltre la soglia dei loro «covi». Il salmo 5 ritrae i lusingatori: «La loro gola è un sepolcro aperto, la loro lingua è tutta adulazione» (v. 10). Come ebbe a osservare C.S. Lewis nel suo libro Reflections on the Psalms (Riflessioni sui salmi), quando i salmi parlano di inganno e menzogna, «l'operazione di ricollocazione storica risulta superflua. Ci ritroviamo già nel mondo a noi tutti noto».

Ma l'ottimismo americano, un fenomeno quasi esclusivamente borghese e protestante, rifiuta di conoscere questo mondo. E preferibile conquistare il male con la cortesia e le persone gentili non desiderano imbrattare i loro candidi guanti dell'animosa rabbia soggiacente a un «salmo imprecatore» come il 108, dove l'autore è mosso a gridare al suo tormentatore: «Ha amato la maledizione: ricada su di lui! / Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani!» (v. 17). S'intorbidano le immagini, come in un gorgo, sollevandoci e facendoci ripiombare in basso: «Si è avvolto di maledizione come di un mantello: / è penetrata come acqua nel suo intimo; / e come olio nelle sue ossa» (v. 18).

Nella versione ebraica è evidente che questo elenco di maledizioni mozzafiato, com'è scritto in un commentario, «va inteso come un insieme di anatemi scagliati all'indirizzo del salmista dal suo nemico». L'intento è di dimostrare ai prepotenti cosa si prova quando «nessuno gli usi misericordia» (v. 12), cosa significhi essere odiati. Ma il poema mostra anche cosa significhi odiare: le esecrazioni contenute non sono mere sbottate di collera, bensì rappresentazione causticamente accurata della psicologia dell'odio. Malgrado il salmista esordisca parlando d'amore, di orazioni innalzate a Dio per il nemico, in seguito, com'è nostra tendenza fare quando il male ci assale, egli è incapace di mantenere l'amore in primo piano.

Alla fine l'autore del cantico si distoglie dal suo mulinello paranoico, dicendo: «Sia questa da parte del Signore / la ricompensa per chi mi accusa» (v. 20) e revocando la sua autentica condizione: «Io sono povero e infelice / e il mio cuore è ferito nell'intimo» (v. 22). Questo dolorosissimo carme si chiude con un sussurro di lode, la supplica di aiuto rivolta da un uomo esausto al Dio che «si è messo alla destra del povero / per salvare dai giudici la sua vita» (v. 31).

Fa bene tornare a immergersi nel silenzio dopo aver letto questo salmo ad alta voce, rammentarsi che si tratta di una vera e propria preghiera, in quanto affida a Dio il giudizio supremo. Al contempo, tuttavia, essa ci costringe a riconoscere che l'invocazione del giudizio divino diffonde nell'animo un pericoloso benessere. La liturgia benedettina mi diede modo di comprendere, come anche ebbe a spiegarmi una sorella, che sarebbe auspicabile riguardare i «nemici» diffamati nei salmi imprecatori come i «nostri stessi demoni, e non già come dei "nemici esterni"». Ma, aggiunse, facendomi notare che il salterio sfugge sempre ai tentativi di impiegarlo con faciloneria, «non è possibile scacciare semplicemente i nemici idealizzandoli».

Essendo gli adulti tendenzialmente ipersensibili quando si tratta di mostrare le proprie emozioni offensive, talvolta i bambini sono più bravi nel cogliere l'iperbole salmodica. Un giorno assegnai a una classe la lettura del Salmo 108 e una donna finì per leggerlo alla nipotina di nove anni, che aveva trovato in lacrime. Era un pomeriggio infocato; nella speranza di rinfrescarsi la bimba aveva pedalato per quasi due chilometri lungo una pista polverosa che portava alla piscina del quartiere. Ma aveva raggiunto la meta proprio quando gli inservienti stavano chiudendo e un giovane un po' rigido l'aveva trattata male. La nonna le spiegò che doveva studiare una poesia sulla rabbia e che le sarebbe stato utile leggerla ad alta voce. Ma aveva appena attaccato la lista delle imprecazioni («Vadano raminghi i suoi figli, mendicando, / siano espulsi dalle loro case in rovina. / L'usuraio divori tutti i suoi averi [...]» [vv. 10-11]), che la bimba implorò: «Basta! Basta! È soltanto uno studente!».

La recita quotidiana dei salmi aiuta i cenobiti a convivere con essi in maniera equilibrata e realistica, apprezzandone l'iperbole senza considerarla normativa. I benedettini conoscono così intimamente questi cantici da trasformarli, come più di una sorella mi confidò, «in una sorta di battito del cuore». In effetti essi divengono parte della loro vita fisica e spirituale, esercitando un'azione sul cuore per rallentarlo, un fenomeno in cui mi imbattei sovente, quando capitava che mi recassi alla sesta con la mente ancora in corsa con la realtà da cui mi distraevo. Iniziando a recitare un salmo come il 61, che così esordisce: «Solo in Dio riposa l'anima mia», mi sentivo scivolare nell'immobilità. Al pari di molti altri cantici, esso deplora l'umana falsità, coloro che «Con la bocca benedicono / nel loro cuore maledicono» (v. 5). Il rigo seguente: «Solo in Dio riposa l'anima mia, / da lui la mia speranza» non consegna soltanto una gradevole ripetizione poetica, ma altresì il trapasso dal dolore alla speranza, un ampliamento di orizzonti nel contempo valido e confortevole.

L'esposizione quotidiana ai salmi, tuttavia, può suscitare insensibilità nei confronti degli stessi, può fare in modo che la poesia più sbalorditiva («Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, / dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» [Sal 32, 6]) sia recitata, ma a malapena colta. Sovente è la sacralità a riaffermare se stessa, sì che persino i carmi più familiari d'improvviso infondono gli eventi di nuovi significati. Una sorella mi raccontò che, mentre pregava i salmi ad alta voce al capezzale della madre moribonda, immersa nel coma, scoprì «con quale perfezione essi riflettevano il mio disorientamento interiore: il timore di perderla, oppure di non perderla ma di vederla soffrire ancora, la paura di dire addio, di rimanere orfana». Aggiunse che, leggendo la chiusura del salmo 15 («Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena nella tua presenza»), aveva trovato consolazione «guardandola scivolare via. Ebbi la forza di consegnare la sua vita a Dio».

L'interiorizzazione dei salmi consente ai benedettini contemporanei di rintracciare in quell'antica poesia una pertinenza con se stessi che, paradossalmente, li assolve dalla tirannia dell'esperienza individuale. Recitare o cantare ad alta voce i salmi all'interno di una comunità significa riscoprire la religione come tradizione orale, restituire alle labbra parole sottratte alle nostre lingue e relegate alla pagina scritta, termini resi privati e messi efficacemente a tacere. È un atto che contrasta la nostra tendenza a considerare l'esperienza individuale sufficiente a formulare una visione del mondo.

La liturgia che i benedettini sperimentano da più di mille e cinquecento anni mi ha insegnato il valore della tradizione; sono giunta a comprendere che i salmi sono in parte sacri perché usati da tempo immemorabile. Se così tante generazioni vi hanno trovato conforto, non potrò sperarlo anch'io? La santità dei cantici mi è parsa via via somigliare a quella di una pietra tenuta sul palmo di innumerevoli antenati, che mostra la differenza tra ciò che il poeta Galway Kinnel ha definito «meramente personale», o l'individuale, e «l'autenticamente personale», ossia l'esperienza individuale riverberata alla comunità e alla tradizione. L'illustre studiosa di misticismo Evelyn Underhill fa la stessa distinzione quando parla della preghiera, ammettendo che «la devozione in sé ha ben poco valore ... e può persino rivelarsi una forma di autoappagamento» se non si accompagna a una trasformazione del personale. «La vita spirituale degli individui» scrive «deve estendersi sia in verticale, verso Dio, che in orizzontale, verso le altre anime; e più essa si accrescerà in entrambe le direzioni, meno potrà dirsi meramente individuale e, di conseguenza, più diventerà autenticamente personale».

La dottrina moderna considera i salmi come poesie utilizzate nella liturgia del tempio nell'antico Israele. Si ritiene che fossero inclusi in un contesto di venerazione pubblica persino i lamenti più strettamente individuali quale il salmo 50. E tuttavia la salmodia risulta spesso sconcertante per l'individuo contemporaneo che incappa nella vita benedettina: cresciuto in una cultura che idolatra l'esperienza individuale, costui farà fatica a recitare una lamentazione se è di buon umore o a cantare un inno di lode se addolorato.

La recita pubblica dei salmi lavora a danno di tale forma di narcisismo, della tendenza prevalente in America a insistere che tutto sia scoperta di sé. Un individuo in breve tempo si avvede che uno dei punti di forza del coro monastico è la costante presenza in esso di qualcuno pronto a lamentarsi di un succedersi di giorni di «fatica, dolore» (Sal 89,10) o a levare grida così gioiose che «I fiumi battano le mani» (Sal 97,8). Eppure, volendo ricordare le parole di una sorella, «siamo così diversi che talvolta penso si viva in due distinti universi. La liturgia ci riporta al contenuto del cuore. E i salmi non cessano di ammaestrare il cuore». Non si tratta di un'affermazione semplicistica. Votarsi alla «conversione della vita», promessa esclusiva dei benedettini, significa impegnarsi a essere cambiati dalle parole dei salmi, a consentire loro di agire sulla propria personalità, talvolta di rivoluzionarla.

Un salmo imprecatorio come il 51 («Tu preferisci il male al bene ... Ami ogni parola di rovina» [vv. 5-6]) potrebbe diventare occasione di autorecriminazione, qualora dovesse esserci chiesto di elevarlo a preghiera per qualcuno che è arrabbiato con noi, riflettendo soltanto sulle eventuali giustificazioni delle sue accuse. Il salmo 22, che dal dolore («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» [v. 1]) passa in maniera drammatica alla lode profetica («Ricorderanno e torneranno al Signore / tutti i confini della terra» [v. 28]), potrebbe lanciare una sfida alla mente razionale: e se nessuno ascoltasse questa orazione? E se qualcuno fosse semplicemente troppo stremato dalla disperazione per levarla a Dio? In ciò consta il vantaggio della preghiera comunitaria. «Nei periodi veramente critici» racconta una sorella «quando a malapena riesco a continuare a respirare, rimane per me importante recarmi al coro. Mi sembra che gli altri custodiscano la mia fede per me, che mi trascinino con sé».

E di aiuto anche la continuità dei salmi stessi. In un coro monastico ritraggono inevitabilmente il singolo dalla preghiera privata per darlo alla comunità e, quindi, al mondo, a ciò che si potrebbe definire «preghiera dell'informazione». Il lamento contenuto nel salmo 73 sulla violazione dei luoghi sacri («gli angoli della terra sono covi di violenza» [v. 20]) è diventato per me una preghiera per le vittime e gli artefici della violenza domestica. Il metraggio televisivo sulle sommosse di Los Angeles dei primi mesi del 1992 mi ha offerto un nuovo contesto in cui calare le parole del salmo 54, che ascoltai nel coro monastico il mattino seguente: «Ho visto nella città violenza e contese» (v. 10). Il salmo 78 («Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e nessuno seppelliva» [v. 3]), mentre leggo della guerra civile nei Balcani, mi induce a riflettere sul male che tribalizzazione e violenza, di sovente giustificate dalla religione, continuano a infliggere al nostro pianeta.

Ma l'inesorabile realismo salmodico non è deprimente al pari delle notizie del telegiornale, nonostante i molti eventi simili narrati: massacri, ingiustizie perpetrate su persone indifese, pubblici processi fomentati dalle malelingue. In quanto libro di lodi da cantare a Dio, il salterio racchiude in sé una speranza aliena alle rubriche di «interesse umano» aggiunte a coronamento dei notiziari. I salmi rispecchiano la realtà circostante, impedendoci però di ricoprire il ruolo di meri spettatori. In una nazione avversa a guardare in faccia la propria violenza, essi ci costringono a riconoscere il nostro contributo alla stessa. Ci spingono a riesaminare i nostri valori.

Quando desideriamo «sentirci bene con noi stessi» (una condizione che ho sentito seriamente proposta come obiettivo della pratica devozionale), quando ci preoccupiamo di «farci una vita», per dirla con un'espressione familiare che assimila 1'esistenza umana a un bene d'acquisto, come possiamo condividere le parole del salmista «Io sono povero e infelice» (Sal 39, 18) o «Solo un soffio è ogni uomo che vive» (38, 6)? Se pur vere, hanno un tono così maledettamente negativo. Come potremmo leggere il salmo 136, tra i più molesti, ma tra i più splendidi? Ultimo canto dell'esule, principia così: «Sui fiumi di Babilonia, / là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion».

In un passo che esprime l'amarezza dei popoli oppressi dalle invasioni straniere in tutto il mondo, l'autore racconta:

Là ci chiedevano parole di canto

coloro che ci avevano deportato

canzoni di gioia, i nostri oppressori:

«Cantateci i canti di Sion!»

Come cantare i canti del Signore

in terra straniera? (Sal 136, 3-4)

Questi versi possiedono un pathos particolare per le donne: troppo spesso, per motivi di sesso, di povertà e di razza, esse scoprono che il trapasso dall'adolescenza all'età adulta è un esilio «in terra straniera». Come leggono questo carme le femministe, sovente coscienti che alle donne è chiesto di cantare in mezzo a un opprimente sistema patriarcale, di farsi carine e di essere gentili? Come le femministe radicali, anche noi potremmo avere la sensazione che il linguaggio stesso appartenga all'oppressore. Ma se così fosse, come potremmo cantare?

Se non dà una risposta, il cantico consente però di soffermarsi a ponderare la domanda. Imbattendosi in esso più volte durante la liturgia benedettina, si è indotti a riconoscere che essere sradicati dal proprio luogo d'origine e costretti alla schiavitù non è affatto un'esperienza aliena alla nostra società «civile». Il lamento del salmo potrebbe venire dalle labbra di profughi ed esuli moderni, di uno straniero illegalmente impiegato in un'azienda americana che sfrutta la manodopera per un corrispettivo inferiore al salario minimo, di una persona costretta ai lavori forzati in Cina. Se si scorre il cantico tenendo ben presenti questi fatti, la chiusa, caratterizzata da un'immagine di indicibile violenza contro gli oppressori babilonesi di Israele, non dovrebbe sorprendere: «Figlia di Babilonia devastatrice, / beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. / Beato chi afferrerà i tuoi piccoli / e li sbatterà contro la pietra» (vv. 8-9).

Tali versi sono il frutto della crudeltà umana. Essi ci svelano la profondità del danno provocato quando riduciamo una nazione in schiavitù, quando consumiamo allegramente merce a basso costo prodotta da una manodopera a basso costo. Qual è il significato della presenza di un'immagine simile in un libro di preghiere, in un innario di «lodi»? Riguardo alla psiche umana i salmi sono di un realismo implacabile. Pretendono che il lettore consideri la sua autentica condizione e preghi per essa. Pretendono che, con onestà riguardo a se stesso, il lettore ammetta che anche nel suo animo può covare la vendetta. Questo carme funge da aneddoto ammonitore: se lasciato incontrollato, sepolto sotto «maniere cortesi» o attuato con brutalità, il desiderio di vendetta può portare a un'amarezza talmente corrosiva da non risparmiare nemmeno gli innocenti.

Ciò che i salmi ci offrono è la possibilità di trasformazione, di conversione di una forza potenzialmente mortifera qual è la vendetta in un sentimento migliore. Allorché ci si accinge ad affrontare il salterio in maniera profonda (e, a tale proposito, i benedettini insistono che la preghiera comune e quotidiana dei salmi rappresenti un buon inizio), si ha la chiara impressione che siano i salmi a leggere e scrivere noi. Quest'idea trova la sua origine in un'antica interpretazione, secondo cui l'ebraico tehilla, termine che indica la lode, come sostiene Damasus Winzen, «verrebbe dal vocabolo hallal, di cui "lodare" è significato secondario, laddove il senso principale è "irradiare" o "riflettere"». Afferma il benedettino che «il poeta ebraico medievale Jehuda Halevi seppe esprimere lo spirito del salterio in maniera sublime quando disse: "Osservate gli splendori di Dio, e destate lo splendore in voi"».

Se è vero che non mi sono mai sentita particolarmente splendida durante la preghiera di mattino, mezzogiorno o sera assieme ai benedettini, è certo che cominciai a percepire che, tra me e il mondo dei salmi, veniva a stabilirsi un certo ritmico rapporto di ascolto e risposta. Avevo l'impressione di diventare parte di una poesia viva, vissuta, di una relazione con Dio capace di rivelare il sacro non soltanto attraverso termini ordinari, ma altresì tramite gli eventi mondani dell'esistere, buoni o cattivi che fossero. Immersa in misteri inaccessibili alla mia comprensione - il Dio che il salmista esortava al dialogo («non restare muto e inerte, o Dio» [Sal 82, 2]) d'improvviso levò la voce del mysterium tremendum («dal seno dell'aurora, / come rugiada, io ti ho generato» [Sal 109, 3]) -, colsi la verità delle parole di una sorella, che aveva paragonato la liturgia benedettina a un «innamoramento, perché non ci si accosta a essa conoscendone le profondità. Si tratta di una relazione con cui si vive finché non si comincia a comprenderla».

Nella dinamica liturgica si cavalcano i salmi come fossero correnti fiumane, notando nella corsa quanto questi antichi, raffinati scritti siano estranei e, nel contempo, totalmente accessibili. Il salmo 60, in cui l'autore chiede a Dio: «Guidami su rupe inaccessibile» (v. 3), mi fa pensare alla ragazzina di dieci anni, morente, di La vita spirituale dei bambini di Robert Coles (Rizzoli, 1992), la quale, scivolando in un coma irreversibile, disse: «Vorrei andare su quell'alta rupe». Leggendo il salmo 130, con la sua immagine dell'anima «come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (v. 2), mi tornano alla mente le parole di una sorella benedettina, costretta a dimettersi dalla cattedra di docente universitario per via di una malattia debilitante: «In tutti questi anni mi è stato insegnato a "imparare a fondo" diverse materie. Ma chi può "imparare a fondo" la bellezza o la pace o la gioia? Questo salmo parla della grazia dell'infanzia, non della puerilità. Nel novero delle mie più grandi libertà riconosco la capacità di capire che, nei giorni che mi rimangono, ho la possibilità di abbattere tutte le dissimulazioni e le difese innalzate nella prima fase della mia vita. Grazie a questo cantico ho compreso di essere dipendente, e che questa mia dipendenza non è una condizione avvilente».

Vi è nei salmi sufficiente bellezza da suscitare nel lettore un fanciullesco stupore: il Dio che ha creato le balene con cui giocare, che chiama per nome le stelle, che ci chiede di bere dal torrente del piacere. Benché da adulti gli individui desiderino risposte, talvolta può capitare di contentarsi della poesia e di cominciare a comprendere come si possa esclamare: «Signore, mio Dio, ti loderò per sempre» (Sal 29, 13), anche se ciò dovesse significare, per dirla con le parole di una monaca benedettina: «Io prego meglio sulla poltrona del dentista».

L'altezza e la profondità della lode che incalza il lettore nei salmi («ogni vivente dia lode al Signore» [Sal 150, 5]) possono accrescere in lui il senso di meraviglia e risvegliarne la capacità di apprezzare le glorie terrene. Una benedettina mi raccontò come, nei giorni precedenti il Concilio Vaticano II, assieme a una consorella aveva ottenuto il permesso dalla badessa di vestire giacche a vento militari e pantaloni da sci da ricognizione in eccedenza, messi a disposizione dall'esercito, per andare a fare lo sci di fondo sul principiare della primavera. Raggiunta una collina boscosa, le due donne erano sprofondate nella neve fresca fino alla vita, scoprendo sotto i loro piedi una macchia di ipantodi in fiore. «Quell'autunno aveva nevicato molto presto» spiegò. «Le piante avevano conservato il colore verde smeraldo e le gemme dei fiori erano completamente incastonate nel ghiaccio. Quello fu per me "miele di roccia" (Sal 80,17). Fu scoprire la vita là dove meno la si aspetta.»

Talvolta a queste persone, che vivono, com'è costume nell'ordine, immerse nella poesia del salterio, è riservata un'esperienza di sapore poetico, durante la quale termini familiari, alla stregua oramai di vecchi amici, rivelano all'istante la propria potenzialità di colmare il divario tra il mondo umano e animale, di fondere assieme la materia animata e quella inanimata. Al pari di molti altri, il salmo 41 procede a sbalzi, come le emozioni umane: «Perché ti rattristi, anima mia, / perché su di me gemi? / Spera in Dio: ancora potrò lodarlo» (v. 6), benché il suo autentico argomento sia il desiderio del sacro che, a prescindere dalla forma assunta, sembra partecipare della condizione umana, un desiderio che si dimentica con facilità nel quotidiano vortice di strattoni e scossoni, in cui possono prevalere i gemiti della disperazione. Mi scrisse una sorella: «Qualche inverno fa, quando il ghiaccio ricopriva le terre circostanti, i cervi si avvicinavano alla prioria in cerca di cibo. Non fu facile impedire loro di mangiare i nostri alberi e persino gli arbusti del cimitero». Avendo vissuto nel chiostro per molti anni, la religiosa conosceva la gran parte delle donne sepolte lì. Un mattino al risveglio scoprì che «ciascun cervo aveva scelto una lapide dietro cui accovacciarsi, indisturbato dalla nostra presenza alle finestre del monastero. Da allora l'immagine del desiderio ardente di Dio espresso all'inizio del salmo 41 ("Come la cerva anela ai corsi d'acqua, / così l'anima mia anela a te, o Dio") non mi ha più abbandonata».



[1] Nota del redattore del sito. Le citazioni dei Salmi sono quelle originali del libro e sono tratte dalla Bibbia C.E.I. ed. 1974. La numerazione è quella della liturgia romana (Ovvero quella delle versioni dei LXX e della Volgata).


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4 agosto 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net