M. M. Geltrude ARIOLI OSB ap

LA REGOLA PASTORALE DI S. GREGORIO MAGNO:

PROFEZIA DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA [1]

 

Scuola di cultura monastica – Monastero san Benedetto – Milano, 10 Gennaio 2005

Estratto dal sito della Conferenza Italiana Monastica Benedettine www.benedettineitaliane.org


Impostare questo tema su un’analisi puntuale dei singoli aspetti della dottrina sociale della Chiesa potrebbe evidentemente risultare una forzatura. Pur riconoscendo delle costanti nella prospettiva della filosofia cristiana circa le problematiche sociali, le epoche storiche sono profondamente segnate da differenti situazioni, livelli di sviluppo economico e di consapevolezza sociale non paragonabili.

Ciò che tuttavia colpisce leggendo la Regola pastorale con la memoria nutrita dalle espressioni delle encicliche sociali dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, è l’identica prospettiva di lettura teologica delle problematiche economico-sociali, come si esprime la Sollicitudo rei socialis ai nn. 35-40 e la delineazione di un’antropologia che fonda sulla vocazione trascendente dell’uomo il suo impegno a far fruttificare le risorse naturali per il bene comune.

Una linea costante che congiunge la Regola pastorale con i più recenti documenti del magistero è il puntuale riferimento alla Parola di Dio, su cui si fonda ogni affermazione e si giustifica qualunque giudizio. Citiamo come esempio tra i tanti possibili:

“«Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: siamo servi inutili, perché abbiamo fatto solo ciò che dovevamo fare». (Lc 17, 10)

Perché il rammarico non guasti la liberalità, è stato scritto: «Il Signore ama l’allegro donatore». (II Cor 9, 7)

Perché non cerchino lode passeggera, si sforzino di capire quanto è stato detto: «Non sappia la tua mano sinistra che cosa fa la tua destra». (Mt 6, 3) Cioè, non si cerchi mai nella beneficenza la gloria terrena, perché un’azione tanto retta non deve conoscere desiderio alcuno di lode.

Perché non cerchino doni in contraccambio, è detto: «Quando dai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici e fratelli, né i parenti, né i vicini ricchi, perché anch’essi non abbiano di nuovo a invitarti e così tu venga pagato. Ma, quando fai un convito, invita i poveri, i deboli, gli zoppi, i ciechi; e ne sarai felice perché non hanno di che contraccambiarti». (Lc 14, 12-15)

Perché non si rimandi al domani ciò che deve essere dato oggi, è stato scritto: «Non dire al tuo amico: vai e torna e domani ti darò, quando invece lo puoi dare subito». (Prov 3, 38)”[2]

“Chi desidera certi guadagni del mondo terreno e ignora le pene che soffrirà nel mondo futuro, ascolti ciò che è detto: «Il patrimonio al quale ci affretta fin dall’inizio, alla fine sarà privo di benedizione» (Sir 20, 21)

In effetto, noi incominciamo da questa vita il cammino che ci porta all’eredità di benedizione.

Pertanto, il voler entrare in possesso dell’eredità, sin da principio, significa rinunciare alla possibilità di avere, in ultimo, la parte di benedizione.

Volersi vedere moltiplicata, qui, la propria fortuna, a prezzo del peccato di avarizia, significa essere diseredati, lassù, del patrimonio eterno.”[3]

Risalta da questi passi una concezione dell’uomo e della sua vita caratterizzata da una prospettiva etica ed escatologica: è questo un filo conduttore che percorre tutte le opere di Gregorio oltre che la Regola pastorale ed è una visuale tipica dell’antropologia cristiana di ogni tempo.

Afferma Giovanni Paolo II nella Centesimus annus:

“È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona.

L’ateismo...è strettamente connesso con razionalismo illuministico. Si negano in tal modo l’intuizione ultima circa la vera grandezza dell’uomo, la sua trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione che egli avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il bisogno di salvezza che ne deriva.”[4]

Questa ottica caratterizza anche la Sollicitudo rei socialis:

“La condizione dell’uomo è tale da rendere difficile un’analisi più profonda delle azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o nell’altra, giudizi o riferimenti di ordine etico.

Questa valutazione è di per sé positiva, specie se diventa coerente fino in fondo e se si basa sulla fede in Dio e sulla sua legge, che ordina il bene e proibisce il male.

In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il riferimento formale al «peccato» e alle «strutture di peccato». Secondo quest’ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte santo, il suo progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio ricco di misericordia, redentore dell’uomo, Signore e datore di vita, esige dagli uomini atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni o missioni nei riguardi del prossimo. Si ha qui un riferimento alla «seconda tavola» dei dieci comandamenti (cf. Es 20,12-17; Dt 5,16-21): con l’inosservanza di questi si offende Dio e si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo. S’interferisce anche nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo e la cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce.”[5]

“A questa analisi generale di ordine religioso si possono aggiungere alcune considerazioni particolari, per notare che tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le «strutture» che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e, dall’altra, la sete di potere con proposito di imporre agli altri la propria volontà.” (n.37)[6]

Pur nella diversità di situazioni storiche e di orizzonti dei problemi sociali, si individua la radice di ogni ingiustizia ed emarginazione in quegli atteggiamenti di egoismo divenuti vere e proprie “strutture di peccato”.

“La brama esclusiva del profitto” e la “sete del potere” si trovano - afferma la Sollicitudo rei socialis - alla base di sistemi imperialistici che opprimono non solo gli individui, ma anche le nazioni e i blocchi:

“Se certe forme di «imperialismo» moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall’economia o dalla politica, si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia.

Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia la vera natura del male, a cui ci si trova di fronte nella questione dello «sviluppo dei popoli»: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a «strutture di peccato». Diagnosticare così il male significa identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo.”[7]

Già Gregorio afferma questa prospettiva etica e trascendente come criterio di giudizio sull’operato umano nella gestione dei beni. Coloro che non fanno “cose degne della ricompensa e della misericordia” nutrono - dice - “sentimenti che scaturiscono da un cuore chiuso alla Parola di Dio”. “Gli avari devono comprendere che faranno a Dio un torto grande a non offrire neppure un’oblazione di misericordia a lui che tutto ha donato.”[8]

Il termine “oblatio” è usato normalmente da Gregorio per indicare le offerte della Messa. Risulta evidente da questo contesto l’inscindibilità della prospettiva religiosa e di quella etica che illuminano e guidano le scelte nel campo dell’economia. Su questa linea la Centesimus annus afferma che la dignità e la libertà della persona, la correttezza delle relazioni sociali e il riconoscimento dei diritti e dei doveri delle varie aggregazioni sociali poggiano sulla fede in Dio, mentre dall’ateismo scaturiscono le errate concezioni della natura della persona e della società, come è affermato nel passo già citato (n° 13).

Per rimuovere le “strutture di peccato” che proiettano sulla società tutti gli egoismi, la sete di profitto e di potere degli individui, occorre una profonda conversione interiore, un cambiamento di mentalità e di criteri di scelta e di azione. Afferma sulla stessa linea Gregorio:

“Quanti, perché misericordiosi, distribuiscono i propri beni, vanno avvertiti affinché non credano di essere superiori a coloro ai quali largiscono i beni terreni. E neppure li autorizzi a ritenersi migliori il motivo che altri trovano aiuto in loro.”[9]

Siano quindi umili, guidati dal senso evangelico della gratuità.

Bisogna evitare che nella distribuzione dei beni

“...si annidi speranza di favori ricambiabili, desiderio di una lode passeggera che spegnerebbe il lume della carità; né il rammarico abbia a insidiare l’offerta del dono; oppure il cuore gioisca più di quanto è necessario per il bene fatto.

È bene non attribuirsi merito alcuno, anche nel caso che la rettitudine abbia animato il bene compiuto per non perdere al tempo stesso ciò che era costato non poca fatica.”[10]

Già abbiamo citato un passo in cui Gregorio sottolinea come doverosi, nell’atteggiamento del donatore, la gioia del donare, il nascondimento e la saggia sobrietà. Egli richiama anche fortemente la prospettiva dell’apertura alla compassione e della sensibilità verso l’indigenza estesa persino a chi opera il male, proprio in nome della carità evangelica e del rispetto della dignità umana: “…chi offre il pane al peccatore, non in quanto peccatore, ma perché uomo, nutre non certo il peccatore, ma un povero uomo, perché ne ama non la colpa, ma la natura.”[11]

Dall’avarizia e dalla cupidigia è necessario convertirsi al distacco affettivo ed effettivo dalla ricchezza e aprire il cuore al senso della solidarietà:

“Gli avidi che moltiplicano case e terreni, porgano l’orecchio al detto della Scrittura: «Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite terreno a terreno sino al confine del luogo. Forse che abiterete voi soli in mezzo alla terra?» (Is 5, 8)

Come se dicesse apertamente: «Fin dove intendete estendervi, voi che non potete sopportare vicini nel mondo, il quale appartiene a tutti?»

Voi sospingete via i vicini, ma troverete sempre vicini contro i quali vorrete estendervi ed espandervi.

A quanti nasce brama di aumentare il denaro, la Scrittura dice: «L’avaro non sarà riempito di denaro; e chi ama la ricchezza non ne caverà frutto alcuno.»[12] (Sir 5, 8)

Il punto nodale della conversione, che è poi il cardine della dottrina sociale della Chiesa, principio che già Gregorio formula e che ricorre con successivi approfondimenti in tutti i documenti del Magistero è la teoria della destinazione universale dei beni:

“È necessario far comprendere a quelli che non desiderano i beni altrui e che non sono generosi dei propri, essere comune a tutti gli uomini la terra dalla quale provengono e che il suo prodotto deve servire a tutti.

Invano si ritengono immuni da colpa quanti rivendicano, come privato, il dono che Dio ha destinato a tutti.

Il rifiutarsi alla distribuzione dei doni ricevuti equivale a ingannarsi sulla responsabilità delle morte del prossimo.

La quantità dell’aiuto che possiamo dare ai bisognosi e che, tuttavia, teniamo accantonato presso di noi, è anche quantità di prossimo che lasciamo quasi morire. Dare il necessario ai poveri è restituzione del dovuto e non elargizione del nostro.

Liberalità elargita ai poveri è, pertanto, giustizia, non misericordia.

Il motivo si è che il dono del Signore deve essere utile a tutta la comunità.

È così che si comprende il detto di Salomone: «Il giusto donerà senza stancarsi» (Prov 21, 16).

È bene avvertire costoro che il severo agricoltore si lamenta del fico non solo perché non porta frutto, ma anche perché sfrutta quel poco di terra che occupa.

In realtà, il fico sterile che occupa la terra è significazione del cuore degli avari, i quali inutilmente accumulano ciò che poteva giovare agli altri.

È anche significazione dello stolto che inerte occupa un posto che altri avrebbe potuto coltivare con il sole delle opere buone.”[13]

Un’esortazione a convertirsi ad una mentalità solidale, volta a rispettare e a incrementare il bene comune risuona nella Sollicitudo rei socialis:

“È da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in valori assoluti. Perciò, è sperabile che quanti, in una misura o l’altra, sono responsabili di una «vita più umana» verso i propri simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto dell’urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che definiscono i rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la natura; in virtù di valori superiori, come il bene comune, o, per riprendere la felice espressione dell’enciclica Populorum progressio, il pieno sviluppo «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.»

Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso significato teologico della parola «peccato», il cambiamento di condotta o di mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, «conversione» (cf. Mc 1,15; Lc 13,3.5; Is 30,15). Questa conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. È Dio, nelle «cui mani sono i cuori dei potenti», e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (cf. Ez 36,26).

Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani commesse in paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza, acquistando così connotazione morale.

Si tratta, innanzitutto, dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come «virtù», è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama di profitto e quella sete di potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e «strutture di peccato» si vincono solo - presupposto l’aiuto della grazia divina - con un atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a «perdersi» a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a «servirlo» invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cf. Mt 10, 40-42; 20, 25; Mc 10, 42-45; Lc 22, 25- 27).[14]

La dimensione sociale della persona riconosciuta sia sulla riflessione filosofica che sulla rivelazione è fondamento della dottrina sociale fondamentale della Chiesa: il diritto di proprietà è giustificato dalla natura della persona e reclamato dalla libertà, ma la prospettiva relazionale, essenziale alla persona umana, implica la destinazione universale dei beni. Il nucleo di questa teoria è esposto - come abbiamo visto - nella Regola pastorale ed è il criterio che guida l’operato stesso del Pontefice nella sua missione pastorale. Il livello elevato della sua esperienza mistica e contemplativa non toglie nulla alla concretezza con cui egli, uomo abituato a gestire beni - era di famiglia assai facoltosa - sa, con saggezza, prudenza, e libertà interiore, disporre dei beni di famiglia e del “patrimonio di San Pietro” per i bisogni dei poveri, di chi è oppresso e fatto schiavo dei Longobardi, delle monache in stato di indigenza, dei missionari e delle loro opere, di tutti coloro che si trovano in situazioni precarie.

Scorrendo l’epistolario di Gregorio vediamo con che semplice umiltà viva il suo principio “Dare il necessario ai poveri è restituzione del dovuto e non elargizione del nostro...Liberalità elargita ai poveri è giustizia, non misericordia”.[15]

La conciliazione del diritto di proprietà con la destinazione universale dei beni è principio che si esprime sia nella Regola pastorale, che in tutti documenti del Magistero. Nella Rerum novarum:

“L’aver poi Iddio dato la terra ad uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono Egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al giure speciale dei popoli. La terra per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essa. Chi non ha beni propri vi supplisce col lavoro; tanto che si può affermare con verità, che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra, e in essi viene commutata.

Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme a natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, me ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, ed in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità; sicché giustamente può tenerla per sua, ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.”[16]

Con interessanti articolazioni che rispecchiano le mutate condizioni della storia e della società il duplice principio è ricordato nella Mater et magistra:

“Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente, appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società. Del resto, vano sarebbe ribadire la libera iniziativa personale in campo economico, se a siffatta iniziativa non fosse acconsentito di disporre liberamente dei mezzi indispensabili alla sua affermazione. Inoltre storia ed esperienza attestano che nei regimi politici, che non riconoscono il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni della libertà; perciò è legittimo dedurre che esse trovino in quel diritto garanzia e incentivo.

Un altro punto di dottrina, costantemente proposto dai nostri predecessori, è che al diritto di proprietà privata sui beni è intrinsecamente inerente una funzione sociale.”[17]

L’impostazione personalistica della dottrina sociale della Chiesa, che concilia la valorizzazione del singolo con quella della società esprime una prospettiva originale che esclude sia l’assoluto individualismo del sistema capitalistico, con la conseguente privatizzazione indiscriminata dei beni, sia la negazione marxista del diritto di proprietà privata in cui il singolo è travolto da un’ideologia massificante.

Nella Centesimus annus si afferma:

“Alla luce delle «cose nuove» di oggi è stato riletto il rapporto tra la proprietà individuale, o privata, e la destinazione universale dei beni. L’uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro e al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta. Egli, inoltre, collabora al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve a un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve a impedire il lavoro degli altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e dalla ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini.

L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.”[18]

Il criterio della destinazione universale dei beni riguarda quindi non solo la terra e il capitale ma le stesse risorse umane e culturali. Gregorio nella Regola pastorale afferma questo stesso principio anche per le risorse dello spirito:

“Molti si distinguerebbero per spiccate virtù e si raccomanderebbero anche per la indiscussa capacità di comandare agli altri...

Sono nutriti di sana dottrina, comprensivi e pazienti.

Hanno innato il senso dell’autorità.

Benevoli e affabili, severi ed equilibrati, si direbbero nati apposta per amministrare la giustizia.

Tuttavia, proprio questi, una volta chiamati, rifiutano di accettare il potere del ministero pastorale.

I doni ricevuti vanno così a vuoto.

Sviliti dal desiderio di farne una proprietà personale, vien tolta a quei doni la capacità di slancio, insita nella destinazione al bene altrui.

Pensando solo al proprio tornaconto e non alle necessità altrui, sprecano quei doni che egoisticamente desiderano avere solo per se stessi.”[19]

“Questi, pieni di doti, hanno il solo desiderio della contemplazione.

Rifuggono dal rendersi utili agli altri con la predicazione. Cercano una quiete nascosta, bramano silenziose riflessioni.

Il giudizio severo su costoro li rende colpevoli di un male pari al bene che avrebbero potuto fare, se si fossero sobbarcati a pubblici incarichi.

Tale atteggiamento è incomprensibile e irragionevole.

Non è possibile preferire la propria tranquillità al bene spirituale degli altri.

Cristo, per giovare a tutti, è uscito dal seno eterno di Dio per venire ad abitare in mezzo a noi.”[20]

L’affermazione netta del primato della persona sui beni e il criterio etico della gestione ricorre nella Regola pastorale come in tutti i documenti della Chiesa:

“La mortificazione dei sobri diventa gradita a Dio, se il cibo delle loro privazioni verrà distribuito ai poveri...

Infatti, non si digiuna a Dio, ma per se stessi, se ciò che si toglie momentaneamente al ventre non viene dato ai bisognosi, ma lo si accantonasse per offrirselo successivamente.”[21]

Il divenire della storia e il crearsi di nuove situazioni sociali porta a formulazioni più complesse ma sostanzialmente convergenti con questo principio.

La Mater et magistra segnala, tra i pericoli che scaturiscono dalla subordinazione della persona all’economia, la riduzione dell’uomo ad automa (n.48), l’assoggettamento al meccanicismo economico (n.70), l’accentuazione degli squilibri (n.81).

Solo l’attenzione al primato della persona e alla sua destinazione trascendente (Mater et magistra, n. 226) può consentire il rispetto della giusta gerarchia dei valori e l’utilizzo secondo finalità positive del progresso tecnico-scientifico della società (Mater et magistra, n. 227).

Come afferma Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis, al n. 38, il retto orientamento delle coscienze e l’uso responsabile della libertà può assumere le situazioni storiche e sociali e operare su di esse in modo da indirizzarle al bene comune.

Ciò vale specialmente per l’interdipendenza nelle relazioni umane in tutti i settori. Assumerla come categoria morale significa vivere la solidarietà, valore essenziale secondo il magistero della Chiesa.

I severi moniti di Gregorio contro gli avari che privatizzano le ricchezze, accumulando su di sé pene eterne (Regola pastorale, parte III, cap. 20) risuonano anche nella voce di Leone XIII quando ammonisce i datori di lavoro che sfruttano le prestazioni dell’operaio, negando il giusto salario (Rerum novarum, n. 34). Lo stesso principio deve guidare i rapporti tra i lavoratori stessi (Mater et magistra, n. 132; Laborem exercens n. 8) e i rapporti tra i popoli, come si afferma nella Popolorum progressio:

“Il dovere di solidarietà che vige per le persone vale anche per i popoli: «le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo». Bisogna mettere in opera questo insegnamento conciliare. Se è normale che una popolazione sia la prima beneficiaria dei doni che le ha fatto la Provvidenza come dei frutti del suo lavoro, nessun popolo può, per questo, pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone. Ciascun popolo deve produrre più e meglio, onde dare da un lato a tutti i suoi componenti un livello di vita veramente umano, e contribuire nel contempo allo sviluppo solidale dell’umanità. Di fronte alla crescente indigenza dei paesi in via di sviluppo, si deve considerare come normale che un paese evoluto consacri una parte della sua produzione al soddisfacimento dei loro bisogni; normale altresì che si preoccupi di formare degli educatori, degli ingeneri, dei tecnici, degli scienziati, che poi metteranno scienza e competenza al loro servizio.” (n. 48)[22]

 

La Costituzione conciliare Gaudium et spes sottolinea l’aspetto costruttivo in cui sfocia l’esercizio della solidarietà: la partecipazione che promuove la responsabilità della persona nella gestione del bene comune e garantisce la democrazia. (GS n. 21)

Certo, per realizzare la corresponsabilità occorre il rispetto delle aggregazioni sociali e la garanzia della sussidiarietà, altro pilastro della dottrina sociale cattolica, evitando ogni ingerenza indebita dello stato nell’ambito della famiglia e dei corpi sociali intermedi.

Come afferma Paolo VI, “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (Populorum progressio, conclusione). Vivere la solidarietà tra nazioni è rimuovere le cause dei conflitti. La Sollecitudo rei socialis espone lo sviluppo di questo tema nel suo dinamismo storico nel periodo del secondo dopoguerra: dai blocchi contrapposti alla guerra fredda, dai neoimperialismi fino agli sviluppi della decolonizzazione e dal debito estero, del commercio delle armi e del terrorismo.[23] Questo quadro storico è evidentemente assente dalla prospettiva della Regola pastorale, non così la consapevolezza dell’imprescindibile responsabilità del pastore nel promuovere la pace come fondamento del vivere comunitario. Se la concordia non domina il cuore, nessuna offerta a Dio è gradita.[24] Gregorio, tante volte osteggiato e incompreso nella sua opera di pace come pastore della Chiesa universale sa affermare con saggezza il monito: “La pace dei vostri cuori non si spenga anche se venisse rifiutata”. È infatti “necessario mantenerla inviolata nel nostro cuore.” “Poiché se la pace è la risultante del concorso consensuale di due elementi, è bene che almeno venga conservata integra da quelli che correggono.”[25]

Dalla Regola pastorale di Gregorio fino al Vaticano II, pur nel variare delle circostanze storiche e delle problematiche del mondo economico e sociale, si definisce una coerente linea di pensiero il cui vertice, pur nell’affermata autonomia dell’agire del cristiano nel mondo, è l’edificazione del regno di Dio nelle attività temporali attraverso la fedeltà a Cristo e al Vangelo:

“I cristiani che hanno parte attiva nello sviluppo economico-sociale contemporaneo e propugnano la giustizia e la carità, siano convinti di poter contribuire molto alla prosperità del genere umano e alla pace del mondo. In tali attività, sia che agiscano come singoli, sia come associati, siano esemplari. A tal fine è di grande importanza che, acquisite la competenza e l’esperienza assolutamente indispensabili, mentre svolgono le attività terrestri conservino il retto ordine, rimanendo fedeli a Cristo e al suo Vangelo, cosicché tutta la loro vita, individuale e sociale, sia compenetrata dello spirito delle Beatitudini, specialmente dello spirito di povertà.

Chi segue fedelmente Cristo, cerca anzitutto il Regno di Dio, e assume così più valido e puro amore per aiutare i suoi fratelli e per realizzare, con l’ispirazione della carità, le opere della giustizia.”[26]

 


[1] Nota del redattore del sito ora-et-labora.net.

Ieri, 3 ottobre 2020, Papa Francesco ha emanato la Lettera Enciclica “Fratelli tutti” sulla fraternità e l'amicizia sociale. Riporto il capitolo dell'Enciclica intitolato: “Riproporre la funzione sociale della proprietà”, in cui il santo Padre cita san Gregorio Magno e le Encicliche dei suoi predecessori che sono citate in questa conferenza di Geltrude Arioli.

- 118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.

- 119. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. [Cfr S. Basilio, Homilia 21. Quod rebus mundanis adhaerendum non sit, 3.5: PG 31, 545-549; Regulae brevius tractatae, 92: PG 31, 1145-1148; S. Pietro Crisologo, Sermo 123: PL 52, 536-540; S. Ambrogio, De Nabuthe, 27.52: PL 14, 738s; S. Agostino, In Iohannis Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436s.] Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro». [De Lazaro, II, 6: PG 48, 992D.] Come pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene». [Regula pastoralis, III, 21: PL 77, 87.]

- 120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». [Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 31: AAS 83 (1991), 831.] In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».[Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884.] Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», [S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.] è un diritto naturale, originario e prioritario. [Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 172.] Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. [Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268.] Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.

[2] GREGORIO MAGNO, La Regola pastorale, a cura di A. CANDELARESI, ed. Paoline, 1965, p. 282.

[3] Ibid., parte III, cap. 20, p.286.

[4] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 13: AAS 83 (1991).

[5] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 36: AAS (1988).

[6] Ibid., 36.

[7] Ibid., 37.

[8] GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, ed. cit., p. 290.

[9]  Ibid., p.280.

[10] Ibid., p.281.

[11] Ibid, p.284.

[12] Ibid., pp. 285-286.

[13] Ibid., pp. 288-289.

[14] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis. (cit.), 38, 39.

[15] GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, ed. cit., p.289.

[16] LEONE XIII, Lett. enc. Rerum novarum, 7: Acta Leonis XIII, 11 (1892).

[17] GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Mater et magister, 96, 106: AAS 53 (1961).

[18] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 43: AAS 83 (1991).

[19] GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, ed.cit., pp. 105-106.

[20] Ibid., p. 107.

[21] Ibid., p. 277.

[22] PAOLO VI, Lett. enc. Popolorum progressio, 48: AAS 59 (1967).

[23]Ibid., 22, 23, 24.

[24] GREGORIO MAGNO, Regola pastorale, ed.cit., parte III, cap. 22, p.295.

[25] Ibid., parte III, cap. 22, p. 299

[26] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 72: AAS 58 (1966).


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4 ottobre 2020                a cura di Alberto "da Cormano"      Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net