SAN CRODEGANGO DI METZ

E IL CONCILIO DI AQUISGRANA:

VITA COMUNE DELL’ORDO CANONICUS

Estratto da “La vita comune del clero, storia e spiritualità”,

di Andrea Caelli, Città Nuova 2000

 

La riforma carolingia

Nell’ambito della riforma attuata sotto Carlo Magno abbiamo elementi di rilievo per la vita del clero secolare [1].

Carlo Magno istituisce presso le sedi episcopali e monasteriali delle scuole dove si preparano i futuri chierici nonché i laici colti. Sono rimaste famose nella storia la Scuola Palatina di Aquisgrana, quella di Fulda, di Corbie, di San Gallo e di Tours. Anche attorno alle parrocchie sorgono le scuole. Naturalmente in queste scuole si respira una spiritualità di tipo monastico benedettino, perché la cultura era stata salvata e conservata nei monasteri. D’altra parte i due più validi collaboratori di Carlo Magno nella riforma furono Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, formato alla scuola benedettina, e Alcuino, proveniente dai benedettini anglosassoni e perfezionatosi poi in Italia.

Non solo fioriscono nuovi centri di formazione ma anche, dalla prima metà del IX secolo, in certi Paesi, i preti incominciano a raccogliersi più frequentemente sia per formarsi che per pregare. Soprattutto nei grossi centri nascono associazioni di chierici che, pur senza avere vita in comune, costituiscono delle vere e proprie fraternità unite da obblighi di assistenza sia spirituale che materiale. In queste associazioni, in seguito, vengono accolti anche i laici [2]. Ma soprattutto è proprio di questo periodo, nel contesto della riforma carolingia, che si verifica uno sforzo di unificazione e di ordinamento dei chierici.

 

San Crodegango e la Regola per l’ordo canonicus

Il contributo maggiore in questo rinnovamento viene offerto dalla vita e dall’opera di Crodegango, vescovo di Metz (715-766). Nipote di Pipino, re dei Franchi, eletto vescovo dal clero e dal popolo, amplia i locali dell’episcopio e, ispirandosi alla Regola di san Benedetto, riunisce a vita comune il suo clero in obbedienza a una Regola che esige, oltre la vita e la mensa in comune, il canto dell’ufficio divino nelle diverse ore del giorno, il gran silenzio serale, la correzione fraterna e la pratica dell’umiltà, dell’obbedienza e della carità [3]. «Si auspica per la povertà personale l’imitazione della comunità di Gerusalemme (At 4, 32-35). Ma questo ideale rimane ancora inattuato presso i canonici: nostris temporibus persuaderi non potest, lamenta il vescovo di Metz» [4]. I chierici di Crodegango conservano il diritto di proprietà sui loro beni personali, ma alla loro morte tutto viene trasferito alla Chiesa. Lui stesso chiama il proprio clero che vive questa Regola, ordo canonicus [5]. Con tale termine si designa «il chierico che adempie i doveri del suo incarico, tra gli altri la recita delle ore canoniche, che rimane legato alla sua chiesa, obbedisce al suo vescovo e merita conseguentemente di ricevere gli stipendi ecclesiastici; in una parola, è colui che osserva i canoni, vale a dire il complesso di testi scritturistici, patristici e conciliari che fissano le linee essenziali della vita clericale» [6]. Così inteso l’ordo canonicus si viene a distinguere dall’ordine monastico che progressivamente si va unificando sotto la Regola di san Benedetto. Già il Concilio di Autun (670) aveva riconosciuto un ordo canonicus come genere di vita che non doveva essere un’istituzione giuridica a sé stante, bensì un genere di vita clericale destinato possibilmente a diventare quello comune a tutti gli ecclesiastici. Infatti «i concili e i pontefici cercheranno di mettere a fianco di ogni vescovo un gruppo di canonici estratti dal nuovo ordo, e tra questi, sceglieranno i pastori delle diocesi» [7]. Crodegango certamente fu uno dei primi a chiarire la nuova posizione dei canonici rispetto ai monaci, in particolare, «la distinzione tra monaci e canonici sembra delinearsi sul fatto della povertà (o della disappropriazione personale)» [8]. A differenza dei monaci, quindi, il clero di Crodegango di Metz conduce una vita comune senza per altro escludere la proprietà privata personale. E bene cercare di delineare, sebbene solo per accenni, alla vita dell’ordo, così come la propone Crodegango citando direttamente il testo latino [9].

I canonici vivendo insieme devono avere un dormitorio comune giovani e anziani, nel claustro non sono mai ammesse le donne, raramente i laici e solamente in caso di necessità: «Et in ipsa claustra nulla femina introeat, nec laicus homo, praeter tantum si episcopus, aut archidiaconus, vel primicerius jusserint» (cap. 3). Durante la permanenza nel refettorio bisogna mantenersi in silenzio perché anche il tempo della mensa è tempo di ascolto e di meditazione (cap. 21). Le ore, preghiera liturgica composta da letture e salmi ereditata dalla liturgia romana, sono da cantare insieme. Dopo l’ufficio notturno non è permesso il riposo ma è tempo per la meditazione: «Et qui psalterium, vel lectionem aliquid indigent meditationem inserviant, et meditent in ipso intervallo qui possunt capere, et qui non possunt, in ecclesia omnes aut cantent, aut legant, et non praesumat aliquis in ipso intervallo dormire, nisi infirmiate cogente, et hoc per commeatum faciant; et qui aliter fecerit excommunicetur; reliqui omnes ordinem vigiliarum teneant usque ad matutinas dictas» (cap. 5). I chierici si riuniscono tutti i giorni per il capitolo: istruzione, lettura della Regola o dei Padri, correzione dei peccati: «Necesse est, ut quotidie omnis clerus canonicus ad capitulum veniant, et ibidem Dei verba audiant, et istam institutiunculam nostram, quam propter illorum utilitatem ad eorum animas salvandas, Deo auxiliante, fecimus, unoquoque die aliquod capitulum exinde relegant; preaeter tantum die Dominico, et feria quarta, et sexta, tractatus et alias homilias, vel quod aedificet audientes, ad capitulum legant» (cap. 8). Tutti devono confessarsi dal vescovo alcune volte all’anno: all’inizio della quaresima, entro il 15 di agosto, e il primo di novembre; si confesseranno quando vorranno o quando ne avranno bisogno sia dal vescovo che da un prete designato dallo stesso vescovo (cap. 14). La povertà resta libera. Ma tutti sono obbligati a rinunciare ai loro beni sul modello della Chiesa primitiva (cap. 31). Se i chierici poi hanno uno stipendio questo serve per meglio metterlo a profitto per la Chiesa intera: «Et si omnia relinquere non possumus, sic ad usum tantum nostra teneamus, ut dimissa volumus nolumus fuerint, non ad haeredum nostrorum carnalium atque parentum, sed ad Ecclesiam, cui Deo auctore in commune deservimus, de cuius rebus stipendia habemus, loco haereditario relinquamus: ut, si cum illis perfectis pro perfecta abrenuntiatione, saeculique huius contemptu, corona non tribuitur, vel peccatorum venia, sicut minimis, misericordia divina concedatur» (cap. 31). Quanto alle elemosine che ricevono a titolo personale per il ministero, i chierici possono disporne come vogliono: «De elemosinis accipiendis ita constituimus, ut si aliquis uni sacerdoti pro missa sua, vel pro confessione, aut infirmitate, seu pro quolibet charo suo, aut vivente, aut mortuo, aliquid in elemosina dare voluerit, hoc sacerdos a tribuente accipiat, et exinde quod voluerit faciat» (cap. 32). La Regola poi prevede delle eccezioni circa l’obbligo della vita comune. Il vescovo infatti si riserva il permesso di concedere di alloggiare fuori dal monastero (cap. 3). Un chierico, invece, che passasse la notte fuori dalla clausura si espone, qualora fosse recidivo, alla scomunica. Interessanti le indicazioni della Regola: «Et si (quod absit) evenerit ut ullus de ipso clero, qui ante completorium in civitate venerit, aut antea ibidem fuerit, quod si ausus vel praesumptuosus, aut negligens, suadente diabolo, fuerit, ut in civitate aliqua nocte alicubi maneat, nisi in sua claustra, si una vice hoc fecerit, si pro vitio factum non est, verbis corripiatur; et si iteraverit ipse clericus, tunc ipso die sit in pane et aqua; et si tertia vice hoc fecerit, tres dies in pane et aqua sit; et si amplius hoc facere praesumpserit, corporali disciplinae subjiciatur, sic ut caeteri timeant; et si aliquid, suadente diabolo, per hoc retardaverint, ut ante completorium in civitatem non veniat, ut licentiam haberet foras claustra esse, et hoc episcopus, aut archidiaconus, vel primicerius, investigare potuerint, ille clericus qui hoc vitium fecerit, aut excommunicetur, aut corporali disciplinae subjaceat» (cap. 4). Tutto il clero della città deve assistere ogni domenica mattina e durante le feste al capitolo: lo stesso clero poi deve fermarsi a mangiare presso il monastero dove risiede l’ordo canonicus.

La Regola di Crodegango, scritta per il clero di Metz, trova grande accoglienza anche nelle altre diocesi. «La situazione privilegiata di cui lui stesso usufruiva gli permise d’avere nei concili riformatori dell’epoca una parte preponderante. Al Concilio di Ver, nel 755, la sua influenza si manifesta nel canone 11, che distingue i chierici in due categorie: coloro che vivono sotto la regola monastica e coloro che vivono sotto l’autorità del vescovo, osservando la regola canonica» [10]. Carlo Magno nell’813 e poi Luigi il Buono nell’816-817 diffondono l’osservanza di questa Regola in tutte le diocesi dell’impero carolingio. D’altra parte però, l’assunzione della Regola nelle singole chiese, impone ad essa delle naturali modifiche proprio nella sua attuazione pratica [11].

Il Concilio di Aquisgrana (817): vita comune secondo i canoni, dipendenza e distinzione dalla vita monastica

L’esigenza di codificare sempre più la vita del clero nella Regola propria dell’ordo, secondo la proposta del vescovo di Metz, assumerà una connotazione ufficiale per la Chiesa intera nel Concilio di Aquisgrana dell’817; in esso viene promulgata una Regola per tutti coloro che, dovendo vivere secondo i canoni, sono vincolati alla canonica professio [12]. Diverrà il testo base per la vita del clero regolare sino alla riforma gregoriana. Questa legislazione, riprendendo nel contenuto la Regola di Crodegango, prevede la vita comune del clero regolare, mensa comune e assiduo servizio corale; lascia però ai canonici la proprietà privata per i beni mobili e immobili. L’Institutio canonicorum di Aquisgrana conferirà alla Regola per i canonici una connotazione che la distinguerà sempre più dalla Regola dei monaci. La Regola è un vero sunto di testi e legislazioni precedenti quasi a testimoniare la validità della ormai strutturata vita dei canonici: «vi sono dapprima ricordati i canoni, cioè i testi conciliari e soprattutto patristici; a proposito della vita clericale: gli autori più citati sono san Gregorio, sant’Isidoro, che a sua volta dipende da san Gregorio, sant’Agostino, san Girolamo e Giuliano Pomerio, il cui De vita contemplativa è citato sotto il nome di san Prospero. L’ultimo capitolo di questa parte precisa la differenza che esiste tra canonici e monaci: i primi hanno una maggiore dignità perché la loro vita, clericale, è regolata direttamente dall'autorità ecclesiastica; mentre i secondi conducono una vita più austera. Gli uni e gli altri hanno lo stesso ideale di perfezione evangelica, ma diversi sono i mezzi adottati per realizzarlo: i monaci sono tenuti a una più rigorosa austerità, a una dipendenza più stretta dai superiori, ad un’assoluta povertà: non desiderando che le realtà celesti, essi hanno rinunciato a tutto sulla terra. I canonici invece conservano quella parte di libertà e proprietà che è compatibile con la vita in comune, destinata ad assicurare la loro sussistenza, a proteggere la castità, a permettere loro una degna esecuzione del canto dell’Ufficio: questi sono gli scopi delle prescrizioni che seguono. Il tutto è completato da un epilogo ove si ritrovano reminiscenze della Regola di san Benedetto. Così anche questo documento, che vuol segnare una chiara distinzione tra canonici e monaci, è tributario del codice monastico. Di fatto, la funzione principale dei due ordini è ormai la celebrazione della liturgia; sia per il tipo di vita che per le occupazioni, monaci e canonici regolari sono molto vicini, E tuttavia l’austerità dei monaci attirerà loro generalmente una maggiore stima da parte dei fedeli, una maggiore fiducia da parte dei papi e dei principi, assicurerà loro maggiore influenza in seno alla chiesa» [13].

La Regola di Aquisgrana influenzerà il programma di vita spirituale della vita del clero per tutto il IX e X secolo i concili e i sinodi [14]. L'importanza della vita comune verrà ribadita dai sinodi romani dell’826 e dell’853. Ma l’attuazione della Regola di Aquisgrana portava in seno quello che poi si sarebbe rivelato un punto di forte tentazione per il clero regolato non stabilendo, malgrado le lodevoli prescrizioni del legislatore, l’osservanza di una vita comune rigorosa soprattutto per quanto riguarda l’uso e la proprietà dei beni. Quello che doveva essere un aspetto di distinzione con i monaci diventa di fatto l'elemento di disgregazione del nascente Ordine dei canonici. Infatti «se dunque è già sull’orizzonte la stella del chiericato regolare propriamente detto - scrive F. Andreu -, vi sono anche, nelle istituzioni sulla vita comune, allora in uso, i germi della decadenza. E questa avviene, allorché lo spirito di queste comunità si affievolisce: i preti lasciano i chiostri delle cattedrali, per ritornare alle proprie dimore, portandosi ognuno la porzione - prebenda - dei beni ecclesiastici che gli spetta: onde la dispersione del patrimonio delle chiese con la simonia e il concubinato» [15].

Il clero regolare, nell’interpretazione e applicazione della Regola, ha la possibilità di minare alla base la propria vita comune e il legame con il vescovo nei collegi cattedrali. Lentamente sparisce l’uso del dormitorio comune e del refettorio così tanto conclamati un secolo prima dal vescovo di Metz. «S’era diffuso l’uso di distribuire ai canonici prebende individuali. Queste, come d’altra parte i beni posseduti dagli stessi capitoli, divenivano oggetto delle cupidigie di laici o ecclesiastici senza vera vocazione. Ne derivò necessariamente una certa secolarizzazione, soprattutto nelle piccole comunità: si arrivò a vivere senza regola, alla maniera dei secolari, saeculariter, e alla maniera di quei preti secolari che erano infedeli ai loro impegni e ai loro doveri di pastori. L'avidità di ricchezze e il vivere mondano determineranno in molti sacerdoti infrazioni al celibato; si univano a una donna e avevano figli, alla cui assistenza dovevano poi provvedere coi beni della chiesa. Alcuni arrivavano perfino a giustificare questo stato di cose, a prendere le difese dei preti sposati, e a considerare cosa legittima che i figli dei preti venissero allevati a spese dei fedeli» [16]. Lentamente si fa strada l’esigenza di una rinnovata vita canonicale che, superando le prescrizioni considerate minimali di Aquisgrana considerate troppo permissive circa la proprietà privata e l’abitazione individuale, diventi più povera e ritorni ad una vita comune più rigorosa. E per attuare questo rinnovamento vengono ammessi anche falsi storici. Siamo nella metà del IX secolo e sono diffuse, a tal proposito, le Decretali pontificie, documenti fatti risalire a pontefici precedenti che richiamavano la vita comune e la santità del clero. Una decretale apocrifa di Urbano I († 230) sottolinea l’esigenza della povertà: «Et quicumque vestrum communem vitam susceptam habet, et vovit se nihil proprium habere, videat ne pollicitationem suam irritam faciat» [17]. Ma, soprattutto, le false decretali clementine ribadiranno l’importanza della vita comune. Cosi la quinta: «Vita communis, fratres, omnibus necessaria est, et maxime iis qui... vitam Apostolorum eorumque discipulorum imitari volunt» [18].

In mezzo a tante deviazioni, in particolare l’ignoranza, l’avarizia, l’incontinenza ritorna, a suon di pseudo-documenti, la proposta di una vita comune.

Alcune comunità di regolari, pur non avendo simpatia per la vita comune radicale che comportava la povertà assoluta, ma, nello stesso tempo, visti i rischi che si infiltravano nella proposta di vita della Regola di Aquisgrana, riprendono in mano i progetti di vita monastica. È il caso, ad esempio, di Hildesheim, nella seconda metà del IX secolo [19]. Contro i rischi di un clero regolare sempre più sregolato vanno diffondendosi delle riforme interne. Viene preparata la strada alla grande riforma del secolo XI, la riforma gregoriana.

LA RIFORMA GREGORIANA E LA VITA COMUNE

DEL CLERO NEL MEDIOEVO

Precisazione terminologica: vita comune, collegialità, canoniche secolari, regolari e riformate

Capitolo omesso


[1] È interessante notare come i periodi di riforma presentano sempre una spinta di nuova organizzazione del clero e in particolare di richiamo alla vita comune: «Fin dall’epoca di santAgostino di Ippona. si erano avuti dei tentativi isolati di riunire i chierici dell'episcopio a vita comune, fondata sull’esempio dei primi cristiani, che implicasse il celibato, una riserva comune per il vitto e labbigliamento, e uno stile di vita quasi monastico. All'epoca della decadenza, questo tipo di organizzazione scomparve. Riapparve ad ogni seria riforma» (M. D. Knowles - D. Obolenscky, Nuova storia della Chiesa. Il Medioevo, vol. 2, Marietti, Torino 1971, p. 216).

[2] Cf. G. G. Meerseman, Die Klerikervereine von Karl dem Grossen bis Innocenz III, «Zeitschrift fur schweizerische Kirchengeschicte», 46 (1952), pp. 1-42.

[3] Cf. Una versione della Regola si trova in Patrologia Latina, PL, vol. LXXXIX, coll. 1097-1120.

[4] R. Grégoire, La vocazione sacerdotale..., p. 27.

[5] J. Leclercq così commenta la Regola di Crodegango: «Questo testo, ispirato in gran parte alla regola di san Benedetto, ottiene una certa diffusione; una delle trascrizioni pervenuteci ne elimina quanto riguarda in modo particolare la chiesa di Metz e gli dà così un carattere universale. La regola diventa a poco a poco il primo statuto di quello che sarà, in un nuovo senso della parola, ordo canonicus, l'ordine canonicale. Il suo intento è di favorire la vita liturgica, su cui fissa i dettagli secondo gli usi romani. Indica agli ecclesiastici che intendono adottarla una certa forma di vita comunitaria: ognuno potrà possedere la sua dimora e tenere l'usufrutto dei beni che ha ricevuto provvisoriamente dalla chiesa, ma tutti dovranno adottare il dormitorio e refettorio comune. S. Crodegango auspica anche che essi rinuncino a ogni proprietà privata per vivere come gli apostoli col Signore e come la prima comunità di Gerusalemme, per condurre cioè una vita apostolica. Non è però una regola obbligatoria per tutto il clero: propone un ideale, e indica insieme la via verso la quale andava allora dirigendosi l’evoluzione stessa del loro sistema di vita» (J. Leclercq, La spiritualità del Medioevo... , p. 131); I. Daniele riconosce in questa Regola uno dei documenti che influiranno sulla formazione del clero latino medioevale; «Preoccupandosi soprattutto del clero secolare, C. promulgò il parvum decretulum, un piccolo codice con cui. “per quanto gli fosse possibile se non proprio quanto avrebbe dovuto”, cercò di riportarlo nella via della rettitudine. La Regula canonicorum, che per due terzi si ispira e, anzi, riproduce quasi alla lettera la Regola di san Benedetto ch’egli, antico alunno di Saint-Trond, ben conosceva e per il resto si adatta alla situazione particolare del clero diocesano. Sono originali i capitoli riguardanti la Confessione, le feste, la proprietà privata e gli obblighi dei matricularii, addetti al servizio delle chiese. Questa Regola, in 34 capp. nella redazione originaria, in 86 nelle redazioni posteriori, adottata presto da molti capitoli in Francia e fuori ripresa, nella sostanza, se non nella forma, nell’Istituito canonicorum del concilio di Aquisgrana dell’816, influirà decisamente sulla spiritualità del clero diocesano della Chiesa latina lungo tutta l’età feudale» (I. Daniele, voce Crodegango, «Bibliotheca Sanctorum», voi, 4, Roma 1964, col. 371).

[6] C. Dereine, voce Chanoines, «Dictionnaire d’Histoire et Géographie ecclésiastique», vol. 12, 1956, pp. 353-405.

[7] F. Andreu, voce Chierici regolari, «Dizionario degli Istituti di Perfezione», vol. 2, Edizioni Paoline, Roma 1975, col. 902.

[8] R. Grégoire, La vocazione sacerdotale..., p. 27.

[9] Il testo di riferimento della Regola e la sua numerazione per capitolo segue l’edizione Labbei: PL LXXXIX, coll. 1097-1120.

[10] M. Viller, voce Chrodegang, «Dictionnaire de Spiritualité», vol. II, Paris 1953, col. 877.

[11] Cf. A. Smith, voce Chanoines réguliers, «Dictionnaire de Spiritualité», vol. II, Paris 1953, col. 466.

[12] Ed. Weminghoff, Monumenta Germaniae historica, Legum sectio III, Concilia II, Conc. aevi karolini, I, pp. 308-421.

[13] J. Leclercq. La spiritualità del Medioevo…, p. 132.

[14] Ct. Teodolfo d’Orléans, Amalario, Walafrido Strabone, Rabano Mauro.

[15] F. Andreu, voce Chierici regolari… , col. 902.

[16] J. Leclercq, La spiritualità del Medioevo..., p. 169.

[17] P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae et Capituta Angilramni, Leipzig 1863, pp. 145-146

[18] Patrologia Latina, PL vol. I, col. 290.

[19] Cf. R. Grégoire, La vocazione sacerdotale..., p. 28.


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16 luglio 2020                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net