SAN COLOMBANO

Regola dei monaci

 

REGOLA CENOBIALE

 

Testo estratto dal libro “San Colombano – LE OPERE” – Ed. Jaca Book


Regola dei monaci

 

(La divisione del testo in 10 capitoli proviene dai manoscitti di Bobbio, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Torino, mentre i manoscritti conservati a San Gallo hanno una suddivisione in 14 capitoli, indicati tra parantesi.

Per completezza sui manoscritti si consulti il sito https://www.earlymedievalmonasticism.org/texts/Columbanus-Regula-monachorum.html )

 

Incominciano i capitoli della regola.

I. L’obbedienza

II. Il silenzio

III. Il cibo e la bevanda

IV. La povertà e il dovere di vincere la cupidigia

V. Il dovere di vincere la vanità

VI. La castità

VII. L'ufficio divino

VIII. Il discernimento

IX. La mortificazione

X. La perfezione del monaco

 

Incomincia la regola dei monaci dell’abate san Colombano.

Innanzitutto ci viene insegnato ad amare Dio con tutta il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e il prossimo come noi stessi Seguono le opere.

 

I. L’OBBEDIENZA

 

Alla prima parola del superiore tutti coloro che ascoltano si alzino per obbedire: infatti l’obbedienza è offerta a Dio, dal momento che Gesù Cristo nostro Signore dice: Chi ascolta voi ascolta me. (II) Se dunque qualcuno udendo la parola non si alza all’istante, è da giudicare disobbediente. Chi poi contraddice incorre nella colpa dell’orgogliosa insubordinazione, e perciò non solo è reo di disobbedienza, ma aprendo ad altri la porta della contestazione, dev’essere ritenuto causa di rovina per molti. (III) È poi da considerare disobbediente anche chi mormora, poiché non osserva di buon animo l’obbedienza. Pertanto si rifiuti la sua prestazione, finché non si costati la sua buona volontà. Qual è il limite fino al quale deve spingersi l’obbedienza? Essa è comandata, non v’è dubbio, fino alla morte. Cristo, infatti, per noi obbedì al Padre fino alla morte, come egli stesso ci lascia intendere per bocca dell'Apostolo: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio,· ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Pertanto gli obbedienti, veri discepoli di Cristo, nulla devono ricusare, per quanto sia duro e arduo, ma devono accogliere ogni ordine con fervore e gioia. Se l’obbedienza non sarà tale, non sarà gradita a Dio, il quale dice: Chi non porta la propria croce, e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo, mentre del vero discepolo afferma: Dove sono io, la sarà anche il mio servo.

 

II. IL SILENZIO (IV)

 

Si stabilisce che la regola del silenzio debba essere osservata con grande diligenza, poiché è scritto: Frutto della giustizia sono il silenzio e la pace. Per non cadere quindi nella colpa della loquacità occorre tacere, a meno che si tratti di vere necessità; infatti, secondo la Scrittura, nel molto parlare non manca la colpa.

Perciò il Salvatore dice: In base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato. A ragione saranno condannati coloro che, potendolo, non vollero dire cose giuste, ma preferirono parlare, con garrula loquacità, di cose cattive, sconvenienti, empie, vane, ingiuriose, malsicure, false, polemiche, offensive, turpi, inventate, blasfeme, aspre e piene di raggiri, Di queste e simili cose si deve dunque tacere, e parlarne con cautela e con riflessione, onde evitare che le denigrazioni o le superbe contestazioni degenerino in una loquacità deplorevole.

 

III. IL CIBO E LA BEVANDA (V)

 

Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.

 

IV. LA POVERTÀ E IL DOVERE DI VINCERE LA CUPIDIGIA (VI)

 

I monaci, per i quali, a causa di Cristo, il mondo è crocifisso ed essi al mondo, devono guardarsi dalla cupidigia: è ovvio infatti che sia riprovevole per loro, non solo avere il superfluo, ma anche desiderarlo; a loro non si chiedono i beni, ma la volontà. Avendo lasciato tutto, per seguire Cristo Signore portando ogni giorno la croce del timore, essi hanno i loro tesori la cielo. Poiché dunque sono destinati ad avere molto in cielo, sulla terra devono accontentarsi del poco strettamente necessario, sapendo che la cupidigia è una lebbra per i monaci che imitano i figli dei profeti, per il discepolo di Cristo è tradimento e causa di perdizione, e, per i tentennanti seguaci degli apostoli, è persino morte, Perciò la spogliazione e il disprezzo delle ricchezze è la prima perfezione dei monaci; la seconda è la purificazione dai vizi; la terza - la perfezione delle perfezioni - è il continuo attaccamento a Dio e l’amore incessante per le realtà divine, che segue alla dimenticanza delle realtà terrene.

Stando così le cose, abbiamo bisogno di poco, secondo la parola del Signore, anzi di una cosa sola. Poche infatti sono le cose veramente necessarie, delle quali non si può fare a meno; si potrebbe perfino dire che sia una sola, cioè il cibo nel senso letterale della parola, Abbiamo invece bisogno della purezza del cuore, dono della grazia di Dio, al fine di poter spiritualmente capire in che cosa consistano quei pochi doveri di carità, che sono stati indicati a Marta dal Signore.

 

V. IL DOVERE DI VINCERE LA VANITÀ (VII)

 

Quanto sia pericolosa la vanità ci è dimostrato dalle brevi parole del Salvatore, il quale ai suoi discepoli esultanti per cose vane disse: Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore. E ai Giudei che cercavano di giustificarsi, una volta disse: Ciò che è esaltato tra gli uomini è detestabile davanti a Dio. Da tali esempi, e da quello del tristemente celebre fariseo che si dichiarava giusto, si può concludere che la vanità e l’orgogliosa esaltazione di sé distruggono ogni cosa buona.

Infatti i meriti del fariseo, superbamente vantati, andarono perduti, mentre i peccati del pubblicano, accusati, furono perdonati. Non escano dunque dalla bocca del monaco parole smisurate, perché non vada in fumo la sua smisurata fatica.

 

VI. LA CASTITÀ (VIII)

 

La castità del monaco si giudica dai suoi pensieri; a lui invero il Signore dice, come ai discepoli che lo accostavano per ascoltarlo: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel tuo cuore. Si deve temere che, Colui al quale il monaco è consacrato, mentre ne scruta il volto, trovi nel suo cuore qualcosa di abominevole, per paura che, secondo le parole di san Pietro, abbiano forse gli occhi pieni di disonesti desideri. A che giova la verginità del corpo, se manca quella del cuore? Dio infatti è spirito e dimora nello spirito e nel cuore che vede incontaminati, in cui non ci sono pensieri lussuriosi, non macchia alcuna di impurità, non sozzura di peccato.

 

VII. L'UFFICIO DIVINO

 

Quanto alla sinassi, cioè alla distribuzione dei salmi e delle preghiere secondo la misura canonica, vanno fatte alcune distinzioni, perché in proposito ci sono tradizioni diverse. Bisogna quindi che anch’io ne scriva facendo le debite differenze in base al tipo di vita e al succedersi delle stagioni. L’ufficio non deve infatti essere sempre di uguale lunghezza, dato l’alternarsi delle stagioni: è bene che sia più lungo nelle notti lunghe, più breve in quelle brevi. Pertanto, come facevano anche i nostri anziani, dal 24 giugno, quando la durata della notte incomincia ad allungarsi, anche l'ufficio inizia a diventare gradatamente più lungo; si parte da dodici ‘cori', il minimo fissato per la notte del sabato e per quella della domenica, e si va via via aumentandone il numero fino all'inizio dell’inverno, cioè il 1° novembre: allora si cantano venticinque salmi antifonali, ognuno dei quali è sempre collocato al terzo posto, e quindi preceduto da due salmi cantati, così che nelle due notti suddette si cantano tutti i salmi del salterio, mentre nelle altre notti, per l’intera durata dell’inverno, si conserva la misura di dodici ‘cori’.

Al termine dell’inverno, nel corso della primavera, gradualmente, settimana per settimana, si tolgono tre salmi, sicché solo dodici salmi antifonali rimangono per le notti ‘sante’, corrispondenti ai trentasei salmi dell’ufficio quotidiano invernale; ventiquattro invece per tutta la primavera e l’estate fino all'equinozio autunnale, cioè il 24 settembre, quando la sinassi viene celebrata come all’equinozio di primavera, cioè il 25 marzo, dato che l'ufficio a poco a poco cresce e decresce alternativamente.

La veglia deve quindi essere proporzionata alle nostre forze, soprattutto perche il nostro Salvatore ci comanda di vegliare e pregare in ogni tempo, e Paolo ci ammonisce di pregare incessantemente. Ma siccome si deve osservare la misura delle preghiere canoniche — per le quali ci si riunisce tutti insieme a pregare in ore determinate, dopo di che ognuno deve pregare nella propria cella — i nostri anziani hanno assegnato tre salmi a ciascuna delle ore diurne, alternate con il lavoro; ai salmi hanno aggiunto le invocazioni in cui si intercede innanzitutto per i nostri peccati, poi per tutto il popolo cristiano, successivamente per i sacerdoti e per gli altri membri del popolo santo consacrati a Dio, quindi per chi fa l’elemosina e per la pace tra i re, e da ultimo per i nemici, affinché Dio non imputi loro come peccato il fatto che ci perseguitano e ci calunniano, perché non sanno quello che fanno. All’inizio della notte si cantano dodici salmi e altrettanti a mezzanotte; per mattutino ne sono prescritti due volte dieci e due volte due per i periodi in cui, come si è detto, le notti sono brevi; un numero maggiore, come già detto, viene sempre assegnato alle veglie delle notti del sabato e della domenica, nelle quali in un solo ufficio si arrivano a cantare di seguito settantacinque salmi.

Tutto ciò vale per la sinassi comune. Ma la vera tradizione della preghiera, come ho precisato, varia in rapporto a quanto si può fare senza stancarsi dal voto pronunciato al riguardo: in rapporto all’eccellenza della capacità di ciascuno, oppure secondo le disposizioni spirituali, tenuto conto delle necessità, o di quanto il tipo di vita rende possibile. Si deve dare anche spazio al fervore di ciascuno, se è libero e solo; prendere in considerazione ciò che richiede il suo livello d’istruzione, e quanto a ciascuno permette il tempo libero concessogli dalla sua condizione, l’ardore del suo zelo, la natura del suo lavoro, e anche i vari gradi di età.

Pertanto diversa deve essere la valutazione della perfezione nel raggiungimento dell’unico ideale della preghiera, dal momento che essa deve alternarsi con il lavoro e non può prescindere dalle circostanze. In tal modo, sebbene sia varia la durata dello stare in piedi o del cantare, si cercherà di realizzare sempre con

uguale perfezione la preghiera del cuore e la costante attenzione dell'anima a Dio. Vi sono del resto alcuni cristiani che mantengono il numero canonico di dodici salmi, tanto nelle notti brevi quanto nelle notti lunghe; però osservano questa misura in quattro tempi nel corso della notte, cioè all’inizio e a metà della notte, al canto del gallo, e all’aurora. Questo ufficio, come sembra breve a certuni in inverno, così lo si trova alquanto pesante e faticoso d’estate, quando le frequenti levate nelle notti brevi causano, più che stanchezza, una schiacciante fatica. Ma nelle santissime notti della domenica e del sabato, a mattutino si ripete per tre volte lo stesso numero di salmi, cioè trentasei. La moltitudine di coloro che seguono questa norma e la santità della loro vita fecero preferire a molti tale numero canonico, nel quale trovano soave gaudio, così come anche il resto della loro osservanza: tra di loro non si trova invero alcuno estenuato dalla regola. E sebbene siano così numerosi che, si dice, mille padri vivono sotto un solo archimandrita, si tramanda che, dalla fondazione del cenobio, non si vide mai alcuno screzio tra due monaci. E ciò non potrebbe certamente avvenire se Dio non vi dimorasse, il quale dice: Abiterò in mezzo u loro e con loro camminerò, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Ben a ragione, dunque, crebbero e ogni giorno, grazie a Dio, crescono coloro in mezzo ai quali Dio abita; per i loro meriti sia concesso anche a noi di essere salvati dal Signore, nostro salvatore. Amen.

 

VIII. IL DISCERNIMENTO (IX)

 

Quanto sia necessario ai monaci il discernimento lo si comprende dall’errore di molti e lo dimostra la rovina di alcuni. Hanno incominciato senza discerni mento e, vivendo senza sani criteri di moderazione, non riuscirono a condurre a termine un’esistenza degna di lode. Infatti, come l'errore incombe su coloro che camminano senza seguire una strada, così coloro che vivono senza discernimento inevitabilmente cadono nell’eccesso, il quale è sempre il contrario delle virtù che stanno in mezzo tra due eccessi opposti. Il rischio di oltrepassare la misura è reale, dal momento che, lungo il sentiero diritto della moderazione, i nemici pongono intoppi che inducono al male e pietre d`inciampo che fanno cadere in errori d’ogni sorta. Si deve perciò pregare incessantemente Dio implorando che doni la luce del vero discernimento per illuminare questo cammino circondato da ogni parte dalle densissime tenebre del mondo, affinché i suoi veri adoratori possano, attraversando tali tenebre, arrivare a Lui senza cadere in errore. La discrezione trae il suo nome da discernere, per il fatto che essa discerne, in noi, tra il bene e il male, ed anche tra mezzi e fine. Entrambi, cioè il bene e il male, sono dall’inizio separati come la luce e le tenebre, dopo che, ad opera del diavolo, incominciò il male a esistere per il corrompersi del bene, ma con Dio che prima illumina e poi separa. Così il pio Abele scelse il bene e l’empio Caino cadde nel male. (XI) Tutto quello che Dio creò era buono; il male fu seminato in seguito dal diavolo con perfida astuzia e con la subdola persuasione della sua pericolosa ambizione.

Quali sono dunque questi beni? Evidentemente quelli rimasti integri e intatti cosi come sono stati creati, quelli che Dio solo creò e che, secondo l’Apostolo, predispose perché noi camminassimo in essi; sono le opere buone nelle quali siamo stati creati in Cristo Gesù; vale a dire la bontà, l'integrità, la pietà, la giustizia, la verità, la misericordia, la carità, la pace che dona salvezza, la gioia spirituale con il frutto dello Spirito, Tutte queste cose, con i loro frutti, sono buone. Quelle ad esse contrarie sono cattive: cioè la malizia, la corruzione, l’empietà, l’ingiustizia, la menzogna, l’avarizia, l’odio, la discordia, l’amarezza con i molteplici frutti che ne derivano. innumerevoli sono gli effetti prodotti dai due contrari, il bene e il male. Il primo male, quello che si allontana dalla bontà e integrità originarie, è l’orgoglio della prima caduta; ad esso si oppone l’umile stima di una pia bontà che riconosce e glorifica il suo Creatore: questo è il primo bene di una creatura fornita di ragione. Tutto il resto si è poi sviluppato gradatamente nelle due direzioni in una sterminata selva di nomi. Stando così le cose, con ferma determinazione si devono custodire i beni, con l'aiuto di Dio, che dev'essere implorato sempre, tanto nei momenti favorevoli quanto in quelli sfavorevoli, perché non ci si inebri di vanità nel primo caso e non si cada nella disperazione nel secondo.

Pertanto si deve sempre stare in guardia da entrambi i pericoli, cioè da ogni eccesso, mediante una magnifica temperanza e un autentico discernimento, che è molto affine all'umiltà cristiana e apre la via della perfezione ai veri soldati di Cristo. Evidentemente si deve sempre discernere rettamente nei casi dubbi e in ogni circostanza distinguere equamente il bene dal male, tanto tra l’uno e l`altro se sono esterni a noi, quanto se sono in noi, tra corpo e anima, atti e abitudini, operosità e quiete, vita pubblica e vita privata. I mali da evitare sono, similmente, superbia, invidia, menzogna, corruzione, empietà, malvagia trasgressione della moralità, golosità, fornicazione, cupidigia, ira, tristezza, instabilità, vanagloria, orgoglio, maldicenza. I beni delle virtù da ricercare sono, altresì, umiltà, benevolenza, purezza, obbedienza, astinenza, castità, magnanimità, pazienza, gioia, stabilità, fervore, solerzia, vigilanza, silenzio. Tutto ciò, tramite la fortezza che rende capaci di sopportare e la temperanza che rende capaci di moderazione, è, per così dire, da mettere sui piatti della bilancia del discernimento per pesarvi le nostre azioni abituali, secondo la misura del nostro sforzo, nella continua ricerca di ciò che basta. Infatti, colui al quale ciò che è sufficiente non basta, ha senza dubbio oltrepassato la misura della discrezione, e tutto ciò che oltrepassa tale misura è chiaramente un vizio.

(XIII) Tra il poco e il troppo la giusta misura sta nel mezzo; essa sempre ci trattiene da ciò che eccede in un senso o nell’altro, in tutto procura sempre quanto è davvero necessario e tiene lontano dall'irragionevolezza di una volontà avida del superfluo. Questa misura della vera discrezione, che pesa con una bilancia precisa ogni nostro atto, non ci permetterà mai di deviare da ciò che è giusto, e, se la seguiamo sempre rettamente come guida, non ci lascerà cadere in errore. Si deve sempre stare in guardia dagli eccessi opposti, secondo quel detto: Non discostatevi né a destra né a sinistra; e si deve sempre procedere diritto seguendo la discrezione, cioè la luce che viene da Dio, dicendo molto spesso e cantando il versetto del salmista vittorioso: Dio mio, illumina le mie tenebre, poiché per te sarò liberato dalla tentazione. La vita sulla terra, in effetti è una tentazione.

 

IX. LA MORTIFICAZIONE (XIV)

 

La parte più importante della regola dei monaci è la mortificazione, che è loro comandata dalla Scrittura: Non far nulla senza consiglio. Se, dunque, non si deve fare nulla senza consiglio, in tutto lo si deve chiedere.,Anche Mosé raccomanda ciò: Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno.

Sebbene a chi è duro di cuore sembri gravosa questa disciplina, che cioè un uomo debba sempre dipendere dalla bocca di un altro, tuttavia da tutti coloro che temono Dio sarà trovata soave e sicura, se la si osserva totalmente e non in parte: nulla infatti è più dolce della sicurezza della coscienza e nulla è più sicuro di un animo senza rimorsi; il che nessuno può darsi da sé, perché appartiene propriamente al giudizio di altri. È infatti libero dal timore del giudizio ciò che già è stato vagliato da colui cui tocca giudicare: su costui grava il peso del fardello dell’altro ed è lui a portare interamente la responsabilità che si è assunta. È maggiore - come sta scritto - la responsabilità di chi giudica che quella di chi è giudicato. Pertanto, chiunque chiederà sempre consiglio, se lo osserverà, non sbaglierà mai. Se sarà sbagliato il consiglio, la fede di chi crede e la fatica di chi obbedisce non sbaglieranno e non rimarranno privi della ricompensa che è dovuta a chi chiede consiglio. Se invece colui che avrebbe dovuto chiedere consiglio vaglierà qualcosa da se stesso, si renderà per ciò stesso colpevole di errore, proprio per aver presunto di giudicare, mentre avrebbe dovuto sottoporsi al giudizio. E anche se avrà operato rettamente, la sua azione sarà ritenuta cattiva, essendosi così allontanato dalla via giusta. Infatti, colui il cui dovere è solo di obbedire, non osa giudicare nulla da sé.

Stando così le cose, i monaci devono sempre guardarsi dalla orgogliosa libertà e imparare invece la vera umiltà obbedendo senza esitazione né mormorazione. E così, secondo la parola del Signore, sentiranno il giogo di Cristo soave e il suo carico leggero; diversamente, finché non avranno imparato l’umiltà di Cristo, non sentiranno la soavità del suo giogo né la leggerezza del suo carico. L’umiltà del cuore, infatti, è riposo per l’anima affaticata dai vizi e dalle prove ed è per essa l`unico conforto fra tanti mali; e quanto più il monaco si lascia avvincere da tale considerazione, al sicuro da tante esteriorità vane e caduche, tanto più nell'intimo gusta il sollievo e la pace, sicché anche quelle cose che sono amare gli diventano soavi, e quello che prima era ritenuto duro e arduo, lo sente agevole e facile. Anche la mortificazione, intollerabile per i superbi e i duri di cuore, è una consolazione per colui al quale piace solo ciò che è umile e dolce. Si deve però sapere che nessuno potrà conoscere questa gioia del martirio, né compiere perfettamente qualcos'altro di utile, presentandosene l'occasione, se non si sarà esercitato in ciò con somma diligenza, così da non essere trovato impreparato. Se infatti, accanto a questo impegno, vorrà seguire e coltivare qualche mira personale, ben presto ne sarà assorbito e, divenuto totalmente inquieto, non potrà sempre eseguire, con animo ben disposto, l’ordine ricevuto, Non può attendere a ciò, come conviene, chi è agitato e irriconoscente. La mortificazione comprende tre punti: non avere divisione nel proprio cuore; non lasciare che la lingua dica ciò che le piace; non andare in nessun luogo senza permesso.

È proprio della mortificazione dire sempre all'anziano, anche se comanda qualcosa di sgradito: Non come voglio io, ma come vuoi tu, secondo l’esempio del nostro Signore e Salvatore che afferma: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre, colui che mi ha mandato.

 

X. LA PERFEZIONE DEL MONACO

 

Il monaco, in monastero, viva sotto l'autorità di un solo padre e insieme con molti fratelli, affinché impari da uno l’umiltà, da un altro la pazienza; uno gli insegni il silenzio, l’altro la mitezza; non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli è prescritto, non possieda se non ciò che ha ricevuto, compia il lavoro che gli è assegnato, sia sottomesso a chi non vorrebbe; si corichi stanco, sonnecchi camminando e sia costretto ad alzarsi quando non ha ancora finito di dormire; se è stato offeso, taccia; tema chi è preposto al monastero come un signore, ma insieme lo ami come un padre, creda che, qualunque cosa gli comandi, è per lui salutare; non osi giudicare una decisione di un anziano, lui il cui dovere è di obbedire e di compiere ciò che è stato comandato, secondo le parole di Mosé: Ascolta, Israele, con quel che segue.

 

FINE DELLA REGOLA.

 


 

REGOLA CENOBIALE

 

[Indice dei Capitula]

 

Incomincia la Regola cenobiale dei Padri.

 

I. Della confessione prima del pasto o del riposo; della benedizione a mensa e dell’osservanza del silenzio.

II. Della benedizione della lampada, di chi dice essere sua proprietà qualcosa, dell’uso del coltello a tavola, di chi spreca qualcosa nel compiere il servizio, dell'inclino in segno di umiltà alla sinassi, e di chi lascia cadere delle briciole.

III. Di chi spreca qualcosa per negligenza, di chi versa qualcosa sulla tavola, di chi uscendo dal monastero non si inchina per la preghiera e di chi dimentica la preghiera prima del lavoro, di chi prende il pasto senza la benedizione, di chi tornando in monastero non si inchina, e di colui che non confessa tutte queste mancanze,

IV. Di chi all’intonazione del salmo non canta bene, di chi tocca il calice del Signore con i denti, di chi non osserva il suo posto secondo l'ordine di anzianità, di chi ride durante la sinassi, di chi riceve il pane benedetto e di chi dimentica di preparare l`offerta. Del parlare ozioso, dello scusarsi, dell'opporre consiglio a consiglio e dell'urtare l’altare.

V. Di chi parla ad alta voce, di chi si scusa, di chi contraddice il fratello con qualche sua affermazione, e perché coloro che si scusano non sono figli di Dio.

VI. Di chi dice una parola arrogante, di chi alza la voce nel parlare, di chi nasconde la colpa di qualcuno finché la renda nota a scopo perverso, di chi critica l’operato di un altro, e di chi oppone correzione a correzione.

VII. Di chi sparla di un altro e di chi è polemico, di chi denigra un suo superiore e di chi rimane nella tristezza, di chi spinge al male un suo parente e di chi critica un altro per la sua obbedienza.

VIII. Di chi istruisce un suo parente contro il suo proprio anziano, di chi si difende nei confronti del proprio priore, di chi non chiede perdono quando viene rimproverato; di chi vuol far visita ad altri e di chi si reca in cucina senza averne ricevuto l’ordine; di chi esce dalla clausura e di coloro che parlano tra di loro quando è proibito; di coloro che dicono che non è loro lecito fare ciò di cui vengono richiesti; e di coloro che dicono: «Facciamo quel che dici»; di coloro che consapevolmente commettono una trasgressione e di colui che lascia cadere il

suo crismale.

IX. Di chi dice parole inutili, dei fratelli che fanno penitenza e delle penitenze non gravi.

X. Del fratello che disobbedisce, di chi dice e non fa, di chi mormora e di chi non chiede perdono o si giustifica; di chi provoca all’ira due fratelli; della menzogna; di chi contraddice il fratello, di chi non porta a termine ciò che gli è stato ordinato e di chi compie con negligenza un lavoro che gli è stato assegnato; di chi denigra il proprio abate e di chi dimentica fuori qualcosa o lo perde.

XI. Di chi parla con un secolare; di chi termina il proprio lavoro e poi fa qualcosa senza permesso; di chi si mostra ipocrita e di chi prende il cibo in casa di estranei; di chi parla di una colpa passata e di chi, tornando dal mondo, racconta dei fatti del mondo; di chi si mostra consenziente con uno che fa qualcosa contro una prescrizione della Regola.

XII. Di chi provoca la collera di un suo fratello; di chi non è presente alla preghiera a mensa; di chi dorme durante la preghiera e di chi non risponde Amen; di chi tralascia di recitare un'ora; di chi non sente il segnale della preghiera e di chi si comunica con il cingolo della notte.

Xlll. Di chi mangia prima di nona il mercoledì e il venerdì; di chi dice una menzogna; di chi dorme nella stessa casa in cui dorme una donna; di chi non chiude la porta della chiesa dietro di sé; di chi sputa in chiesa e di chi dimentica di salmodiare.

XIV. Di chi giunge troppo tardi quando viene dato un segnale e di chi fa rumore dopo la pace; di chi entra col capo coperto; di chi non chiede una preghiera; di chi mangia senza aver pregato, di chi fa rumore mentre si prega e di chi conserva la collera o la tristezza. ·

XV. Della negligenza nel trattare le specie sacramentali.

 

Fine dell’indice dei capitoli.

 

Incomincia la Regola cenobiale dei fratelli

 

[Colpe diverse devono essere guarire con la medicina di una penitenza diversa. Pertanto, fratelli carissimi] I. È prescritto, fratelli carissimi, dai santi padri, che prima dei pasti o prima di andare a letto, o comunque quando ve ne sia l’opportunità, noi facciamo la confessione [non solo di tutte le colpe gravi, ma anche delle trasgressioni più lievi], poiché la confessione e la penitenza liberano dalla morte. Pertanto, neppure le colpe di poco conto sono da tralasciare nella confessione, perché, come sta scritto, chi trascura le piccole cose a poco a poco traligna [La confessione si faccia prima dei pasti, prima di coricarsi o quando la cosa riesca facile].

Perciò si dispone che il monaco che non è presente alla benedizione a mensa e non risponde Amen, venga corretto con sei colpi. Allo stesso modo, chi parla mentre si prende il pasto, se non lo richiede la necessità di un fratello, sia corretto con sei colpi. [A chi dice che qualcosa è suo, sei colpi]. E a chi non fa il segno di croce sul cucchiaio con cui mangia [sei colpi], e a chi parla rumorosamente, cioè in tono più alto del normale, sei colpi.

II. Se non si benedice la lucerna, cioè quando viene accesa da un fratello più giovane e questi non la porta ad uno più anziano perché la benedica, sei colpi. Se ci si arroga la proprietà di qualcosa, sei colpi. [Se si fa qualche lavoro inutile, sei colpi]. Chi rovina la tavola con il coltello, sia punito a scopo di correzione con dieci colpi.

Si dispone che, se uno dei fratelli, al quale è stato affidato l’incarico di cucinare o di servire, versa qualcosa, per poco che sia, venga corretto con una preghiera in chiesa, terminato l’ufficio, così che i fratelli preghino per lui. Chi dimentica di inchinarsi durante la sinassi, cioè la recita dell’ufficio - si tratta dell’inchino che si fa in chiesa alla fine di ogni salmo - faccia la medesima penitenza. Allo stesso modo, chi lascia cadere delle briciole sia corretto con una preghiera in chiesa. Questa lieve penitenza, però, si infligga soltanto a chi spreca qualcosa in piccola quantità.

III, Se invece qualcuno per negligenza o dimenticanza o trascuratezza versa una quantità abbastanza consistente di liquido o di solido, si sottoponga a una lunga penitenza in chiesa, rimanendo prostrato, immobile, mentre si cantano dodici salmi alla dodicesima ora. O, se è molto quello che spreca, sappia che quanti

litri di birra o quante misure di qualsiasi altro alimento saranno andati perduti a causa della sua negligenza, per altrettanti giorni non gli verrà data la razione consueta che gli sarebbe toccata, e berrà acqua invece della birra, Per quello che viene versato sulla mensa e cade per terra, diciamo che basta chiedere perdono al momento di andare a coricarsi.

Per chi uscendo di casa non si inchina per chiedere una preghiera, non si segna quando gli viene data la benedizione, e non si avvicina alla croce, si dispone che venga corretto con dodici colpi. Similmente dodici colpi a chi dimentica la preghiera prima o dopo il lavoro. Dodici colpi anche a chi prende il pasto senza la benedizione. Venga punito con dodici colpi chi, di ritorno al monastero, entrandovi, non si inchina a chiedere una preghiera. Ma al fratello che confessa tutte queste colpe ed altre ancora fino a quelle che meritano un giorno di privazione della parola o del cibo verrà inflitta una semipenitenza, cioè mezza penitenza, e altrettanto per colpe analoghe; sarà però bene, ormai, astenersene.

IV, Per chi, tossendo all’inizio di un salmo, non canta bene, si prescrive la punizione di sei colpi. Così pure sei colpi a chi lascia il segno dei denti sul calice della salvezza. Sei colpi anche a chi non rispetta l'ordine d'anzianità nel recarsi alla comunione [all’offerta]. [ll sacerdote celebrante, che non si sia tagliato le unghie, e il diacono, che non si sia raso la barba, se riceve l’ostia dall’altare e si accosta al calice venga punito con sei colpi]. Anche a chi sorride durante la sinassi, cioè durante l’ufficio, sei colpi; se qualcuno scoppia in una risata, sia punito con un giorno di privazione, a meno che si tratti di una irriverenza perdonabile. [Il sacerdote celebrante e il diacono che custodiscono le specie sacramentali devono astenersi dal guardarsi attorno; se non ottemperano a questa norma, siano puniti con sei colpi. Chi dimentica il crismale nella fretta di andarsene lontano a qualche lavoro, sia punito cinque volte con cinque colpi; se lo lascia per terra in un campo e subito lo trova, venga punito dieci volte con cinque colpi; se l'appende ad un albero, gli si diano tre volte dieci colpi; se ve lo lascia per tutta la notte, la punizione consista in un giorno di privazione]. A chi riceve il pane benedetto con le mani sudice si infliggano dodici colpi. Chi dimentica di preparare le offerte prima che ci si rechi all’ufficio, venga punito con cento colpi.

Chi tiene con un altro una conversazione futile e subito se ne accorge e tronca il discorso, basta che chieda perdono; se però non smette [ma va cercando come scusarsene], lo si punisca con un giorno di privazione della parola o con cinquanta colpi. Se uno che adduce delle scuse, senza ponderazione, quando viene rimproverato per qualche fallo, non dice subito chiedendo perdono: Mea culpa, mi pento, sia punito con cinquanta colpi. A chi, senza riflettere, a un avvertimento ne contrappone un altro, cinquanta colpi. A chi urta l’altare cinquanta colpi.

V. Se uno alza la voce senza ritegno, a meno che non vi sia costretto dalla necessità, gli si infligga un giorno di privazione della parola, oppure lo si punisca con cinquanta colpi.

Se uno si scusa invece di chiedere perdono, subisca lo stesso castigo. Se uno, a un fratello che afferma qualcosa, risponde: «Le cose non stanno come tu dici» - all’infuori del caso di anziani che stiano semplicemente parlando con fratelli più giovani - gli si infligga un giorno di privazione della parola, oppure lo si punisca con cinquanta colpi. Soltanto questo è consentito: che uno risponda a un fratello coetaneo, se si ricorda di qualcosa in modo più preciso di come l’altro dice: «Se ben ricordi, fratello», e questi, a tali parole, non insiste nella sua affermazione, ma umilmente dice: «Spero che tu ti ricordi meglio di me; io, per dimenticanza, ho sbagliato nel parlare e mi pento di non aver detto secondo verità». Queste sono le parole dei figli di Dio che non fanno nulla per spirito di rivalità - come dice l’Apostolo — né per vanagloria, ma con tutta umiltà considerano gli altri superiori a se stessi. Invece chi si scusa non sia ritenuto un figlio spirituale di Dio, bensì un figlio carnale di Adamo. VI. Chi non si rifugia subito nel porto della pacificante umiltà del Signore, e invece apre agli altri la via di una accanita contestazione ostinandosi nel suo dire pieno di superbia, privato della libertà della santa Chiesa, venga segregato in una cella per fare penitenza, finché non dia prova di buona volontà e per la sua umiltà possa essere di nuovo reintegrato nella santa comunità dei fratelli,

Chi alza la voce per criticare l’operato del portinaio, quasi che costui non osservi scrupolosamente le ore, venga punito con un giorno di privazione della parola o con cinquanta colpi. E a chi nasconde qualche colpa che vede in un suo fratello, fino a quando costui venga ripreso per un’altra mancanza o proprio per la colpa tenuta nascosta, e allora si fa accusatore del fratello parlandone, sia inflitta la punizione di tre giorni di privazione. Chi critica o scredita l'operato di altri fratelli incorra nella medesima punizione. Analoga sanzione per chi oppone rimprovero a rimprovero, vale a dire corregge chi lo corregge.

VII. A chi sparla di qualche fratello o sente qualcuno che ne sparla, e non interviene [subito] a correggere il detrattore, tre giorni di privazione. Analogamente faccia la penitenza di tre giorni di privazione chi, rattristato, mostra disprezzo verso qualcuno. Chi ha qualcosa da riprendere e non vuole dirlo a chi gli è preposto riservandosi di farlo presente, quando gli sarà possibile, al padre superiore, sia punito con tre giorni di privazione, a meno che agisca così per un motivo di pudore. Se qualche fratello è triste [se è possibile, venga consolato], si astenga per il momento dal farne la confessione, se è in grado di sopportare il peso, al fine di parlarne con maggior pacatezza, quando si sarà rasserenato [i fratelli preghino per lui].

Se qualcuno dice a un suo parente, che abita in un luogo privilegiato, come per sollecitarlo: «È meglio che tu dimori con noi o con altri», incorre in tre giorni di privazione. La stessa penitenza per chi si mostra contrariato per un servizio da prestare a qualche fratello. VIII. Chi istiga un parente, che sta imparando qualche mestiere o qualsiasi altra cosa per ordine degli anziani, dicendogli che sarebbe meglio che imparasse a leggere, sia punito con tre giorni di privazione.

Se un fratello osa dire a chi gli è preposto: «Non giudicherai tu il mio caso, ma il nostro superiore o tutti gli altri fratelli», oppure: «Andremo tutti dal padre del monastero», deve essere castigato con una penitenza di quaranta giorni [a pane e acqua], a meno che dica [prostrato davanti ai fratelli]: «Mi pento di ciò che ho detto». [Un fratello occupato in qualche lavoro, anche se fosse molto stanco, dica tuttavia all'economo, se si tratta di un problema suo: «Se lo permetti, lo dirò all’abate, diversamente non lo dirò»; se invece si tratta di un altro fratello, dica: «Dal momento che tu sei un portavoce, non dovrebbe sembrarti inopportuno se ne parlo con l'abate». Ciò al fine di salvaguardare l’obbedienza].

[Chi non restituisce fino all’indomani ciò che ha avuto in uso, se ricordandosene lo riporta, sia punito con sei colpi; ma, qualora se ne dimentichi finché non gli venga richiesto, gli siano dati dodici colpi. Se qualcuno si scorda di chiedere fino al giorno dopo quale penitenza debba fare, venga punito con sei colpi. Chi mormora, chi dice: «Non lo farò, se non è l’abate a comandarmelo o il secondo», incorre nella sanzione di tre giorni di privazione, Per corse non necessarie o salti, dodici colpi. È proibito che uno prenda la mano di un altro].

[L’economo procuri che si faccia premurosa accoglienza a chi arriva, sia ai forestieri sia agli altri fratelli, e tutti i monaci siano pronti a servirli in ogni loro necessità, con grande diligenza per amore di Dio, Anche se l’economo non ne fosse informato oppure fosse assente, tutti gli altri facciano con solerzia quanto è necessario e custodiscano i bagagli degli ospiti, finché non vengano consegnati in ordine all’incaricato; se si verificasse qualche trascuratezza, si rimetta al giudizio del sacerdote il valutare la penitenza da infliggere].

Chi, corretto, non chiede perdono, faccia la penitenza di un giorno di privazione. La medesima penitenza per chi fa visita ad altri fratelli nella loro cella, senza chiederne il permesso; così pure per chi va in cucina dopo nona [senza l’ordine o il permesso], Si infligga un giorno di privazione a chi, senza averne l’autorizzazione, esce dalla clausura, cioè dal recinto del monastero. Gli adolescenti, per i quali è fissato un tempo in cui non devono parlare tra di loro, se trasgrediscono questa norma, siano puniti con tre giorni di privazione [semplicemente dicano: «Sai che non ci è lecito parlare con te»]. E, se qualcuno comanda loro ciò che non è consentito, dicano: «Sai che non ci è permesso»; e [se] chi comanda, insiste, lui stesso sia punito con tre giorni di privazione, ma essi dicano:

«Facciamo quel che dici, perché sia conservato il bene dell`ubbidienza». Gli adolescenti però, come non possono parlare tra di loro, così devono guardarsi in modo tutto particolare dal comunicare tra loro per bocca di un altro fratello. Nel caso in cui consapevolmente trasgrediscano tale norma, siano puniti come se avessero parlato tra loro direttamente.

A chi lascia cadere il crismale, [anche se] non si rompe, siano inflitti dodici colpi.

IX. Chi dice parole inutili sia punito con il silenzio tra due ore consecutive o con dodici colpi.

I fratelli penitenti, anche se compiono lavori duri e che insudiciano, non lavino la testa se non nel [giorno di] domenica, cioè l’ottavo; altrimenti ogni quindici giorni, a meno che singolarmente ottengano il permesso del superiore di lavarsi il capo, se i capelli divengono troppo lunghi e fluttuanti. [A chi prende una strada diversa senza averlo chiesto o senza la benedizione, sei colpi], Chi presiede la mensa, se è a conoscenza che alcuni fratelli hanno meritato lievi penitenze, le infligga al momento del pasto, ma non si diano [in una sola volta] più di venticinque colpi.

I fratelli penitenti e quelli che devono sottoporsi a una penitenza di salmi - cioè coloro che devono cantare altri salmi a motivo di un sogno fatto di notte: infatti, a causa di un inganno del diavolo o per la natura stessa del sogno, alcuni devono cantare trenta salmi, altri ventiquattro di seguito, altri quindici, altri dodici - tutti costoro, essendo in stato di penitenza, la notte della domenica e nel tempo pasquale s’inginocchiano.

[Se l'abate o un preposto dà un ordine a qualcuno e questi lo ripete ai fratelli, si deve badare che il più giovane obbedisca al più anziano; ma si abbia cura di appurare se sia esatto ciò che è stato loro riferito. Se l’abate o l’economo principale dà un ordine, e un economo subalterno lo ripete in altri termini, si deve obbedire a costui, facendo tuttavia notare, a bassa voce, quale sia l’ordine dell’economo principale. All’interno del monastero, però, nessuno comandi qualcosa quando sia già stato dato un ordine da uno che ha maggior autorità, eccezion fatta per chi è a capo del cenobio].

[Gli abiti che si indossano dall’inizio del giorno fino a sera, e gli indumenti che si indossano per la notte, vengano cambiati in privato. Colui che, la domenica o in altro giorno di festa, presta servizio al bagno o per qualsiasi altra necessità, ha bisogno di una sola preghiera prima di uscire e di entrare. La deve però chiedere. Se uno non deve andare lontano, gli basta un segno di croce. Sebbene sia in cammino, si segni; ma non è necessario che si volga verso Oriente. Chiunque esca di casa in fretta e segnandosi, non è necessario che si volga verso Oriente. La stessa norma vale se lungo il cammino s'imbatte in qualcuno e ha fretta: chieda una preghiera e s’inchini. All’interno di una casa, in cui non è opportuno fare una genuflessione, si stabilisce che ci s'inchini soltanto].

[Chi lo voglia, il giorno di sabato prepari l'offerta per la domenica. Fatto il bagno, i sacerdoti si cambino d'abito, se torna loro comodo; i diaconi, invece, compiano il loro proprio servizio prima o dopo l’istruzione].

[Se qualcuno fa un sogno impuro o si macchia per una polluzione o si trova in penitenza, deve rimanere in piedi durante l’istruzione. Ma nelle grandi solennità, quando viene dato il segnale di sedersi, quasi a metà dell’istruzione quotidiana, è loro prescritto di mettersi a sedere. Poi, quando tutti sentono il segnale dell’inizio della sinassi per l’incontro del giorno, si lavino prima di entrare nell'oratorio, qualora non l’abbiano fatto in precedenza. È’ di norma che il primo di grado salmeggi per primo e poi salmeggi il secondo; e non si faccia la genuflessione, ma soltanto l’inchino. I più anziani prendano posto al centro dell’oratorio, tutti gli altri si dispongano a destra e a sinistra, all’infuori del celebrante e di chi l'assiste. Tutte le feste domenicali si canti l'inno proprio della domenica, cosi pure il giorno dell'inizio della Pasqua. Chi si avvia per andare all`altare a ricevere l'ostia, si inchini tre volte. Coloro che sono venuti in monastero da poco, non essendo ancora formati, e tutti coloro che si trovano nella stessa condizione, non si accostino al calice; e quando si offre l’oblazione, nessuno sia costretto a ricevere per forza l’ostia, se non in caso di necessità. Ogni domenica e in ogni solennità, chi, costretto da qualche necessità, non può prendere parte all’assemblea dei fratelli che innalzano la loro preghiera a Dio, preghi da solo. E mentre si fa l'offerta, si eviti quanto più possibile ogni andirivieni. Se un penitente si trova a doversi spostare ed è in cammino con altri ai quali è lecito prendere cibo, se all’ora terza c’è ancora molta strada da percorrere, prenda anche lui un po’ di cibo con parsimonia; prenderà il resto quando sarà arrivato].

Tutti i giorni e tutte le notti, quando si fa la preghiera, alla fine di ogni salmo, tutti i fratelli insieme devono inginocchiarsi di buonanimo in preghiera - a meno che una infermità fisica non lo impedisca - dicendo a bassa voce: O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto. Dopo aver cantato tre volte silenziosamente questo versetto nel corso della preghiera, insieme si alzino dalla loro preghiera fatta in ginocchio; ciò a eccezione della domenica e dal primo giorno della santa Pasqua fino a Pentecoste, giorni in cui, durante la salmodia, inchinandosi leggermente, senza piegare le ginocchia, pregheranno con cuore ardente il Signore.

X, Se qualche fratello disobbedisce, per due giorni a pane e acqua (un solo pane). Se qualcuno dice; «Non lo farò», tre giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se uno mormora, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se uno non chiede perdono o adduce scuse, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se due fratelli discutono per qualcosa e finiscono con l’adirarsi, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se un altro sostiene una menzogna e non recede dal suo punto di vista, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se qualcuno contraddice un fratello e non gli chiede perdono, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se qualcuno viola un ordine e infrange la regola, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se qualcuno, quando gli si assegna un lavoro, lo esegue con negligenza, due giorni a pane (un solo pane) e acqua. Se uno sparla del suo abate, sette giorni a pane (un solo pane) e acqua; se denigra un fratello, ventiquattro salmi; se diffama un secolare, dodici salmi. Nel caso che qualcuno dimentichi una cosa fuori: se si tratta di una cosa da poco, dodici salmi, ma se si tratta di qualcosa di più importante, trenta salmi, Se qualcuno perde o danneggia qualcosa, gli si infligga una penitenza proporzionata al valore dell’oggetto.

 

XI. Se qualcuno si trattiene a parlare con un secolare senza esserne autorizzato, ventiquattro salmi. Se qualcuno, terminato il suo lavoro, non ne chiede [un altro] e fa qualcosa senza il permesso, canti ventiquattro salmi. Se qualcuno è ambiguo nel parlare e getta nel turbamento il cuore dei fratelli, un giorno a pane (un solo pane) e acqua, Se qualcuno mangia in casa di estranei senza permesso e rientra a casa sua, un giorno con un solo pane. Se qualcuno racconta una colpa passata, un giorno con un pane. Se qualcuno è stato fuori, nel mondo, e parla dei peccati che ha visto, un giorno a pane e acqua. E il fratello tiepido, che sente qualcuno mormorare e denigrare o lo vede fare qualcosa contro la regola e consente ad astenersi dal confessarlo, un giorno con un solo pane.

XII, Se uno eccita all’ira un fratello e poi gli rende soddisfazione, e questi non gli perdona, lo manda dal suo superiore, ventiquattro salmi per colui che ha suscitato la collera, all'altro un giorno a pane e acqua. Se qualcuno vuole una cosa che l’economo proibisce e l’abate comanda, cinque giorni. Se uno non è presente alla preghiera che si dice prima del pasto e dopo, canti dodici salmi. Nel caso che uno dorma mentre si prega, se ciò capita frequentemente, dodici salmi, se di rado, sei salmi. Se qualcuno non risponde «Amen», trenta colpi, Se uno omette un'ora dell’ufficio, quindici salmi; se tralascia i quindici salmi graduali, eccezion fatta per l'ora di mattutino in inverno, dodici salmi. E a chi non sente il segnale della preghiera, dodici salmi. Se qualcuno viene alla comunione con addosso il cingolo o l’abito della notte, dodici salmi,

 

Xlll. Se qualcuno, il mercoledì o il venerdì, mangia prima dell’ora nona, a meno che sia malato, [viva] per due giorni a pane e acqua. Se uno dice una menzogna senza saperlo, cinquanta colpi, ma se la dice consapevolmente e sfrontatamente, due giorni a pane e acqua. Se la menzogna viene smascherata ed egli si accanisce a sostenere quanto ha detto, sette giorni a pane ed acqua. Se un monaco dorme nella stessa casa in cui c’è una donna, due giorni a pane e acqua; se ignorava che non lo si può fare, un giorno solo. Se qualcuno non chiude la porta della chiesa, dodici salmi. Se qualcuno sputa e colpisce l’altare, ventiquattro salmi; se colpisce una parete, sei salmi. Se si dimentica di salmodiare o leggere, tre salmi.

 

XIV. Se qualcuno arriva in ritardo alle preghiere, cinquanta colpi, o rumorosamente, cinquanta colpi, o se esegue con eccessiva lentezza ciò che gli si comanda, cinquanta colpi. Se dopo la pace uno fa rumore, cinquanta colpi; altrettanti a chi risponde arrogantemente. Se uno entra nella casa col capo coperto, cinquanta colpi; cinquanta colpi anche a chi, entrando nella casa, non chiede una preghiera. Se uno mangia senza avere pregato, cinquanta colpi. Se parla con la bocca piena, cinquanta colpi. Se fa rumore durante la preghiera, cinquanta colpi. Se uno conserva collera, o amaro risentimento, o invidia nei confronti di un fratello, faccia penitenza a pane e acqua per tanto tempo quanto ha covato in cuore tali sentimenti; ma se lo confessa, il primo giorno, canti ventiquattro salmi.

 

XV. Chiunque perda l'ostia o non ricordi dove l'abbia messa, faccia penitenza per un anno, Chi tratta l’ostia con negligenza così che si secchi e venga mangiata dai vermi, tanto che non ne resti nulla, faccia penitenza per sei mesi. Chi incorre in qualche trascuratezza verso l’ostia, così che si trovi in essa un verme e tuttavia sia ancora intera, bruci il verme sul fuoco e ne nasconda la cenere in terra vicino all’altare, e faccia penitenza per quaranta giorni. E chi non ha cura dell’ostia così che si alteri e perda il sapore del pane, se essa prende un colore rosso, faccia penitenza per venti giorni, se prende un colore violaceo, faccia penitenza per quindici giorni. Se invece l’ostia non ha cambiato colore, ma si è come conglutinata, faccia sette giorni di penitenza. Chi lascia che l'ostia si bagni, subito beva l'acqua contenuta nel crismale e consumi l’ostia. Se il crismale gli cade da una barca o da un ponte o da cavallo, non per trascuratezza, ma accidentalmente, faccia penitenza per un giorno; se però lascia che l’ostia si bagni per irriverenza, cioè se esce dall'acqua e non prende in considerazione il rischio che l’ostia corre, faccia quaranta giorni di penitenza. Se un monaco, avendo mangiato un po’ più del solito, vomita la cena in un giorno in cui si fa la comunione, ma non perché si sia satollato con ghiottoneria, bensì per indigestione, faccia penitenza per venti giorni; se invece ciò avviene a causa di malattia, faccia dieci giorni di penitenza a pane e acqua.

[Chi è a conoscenza che un suo fratello commette un peccato che conduce alla morte e non lo corregge, sia considerato colpevole di trasgressione della legge del Vangelo, finché non riprenda colui di cui ha taciuto la colpa e si confessi al sacerdote, e faccia penitenza nell'afflizione per tanto tempo quanto la sua cattiva coscienza l'ha fatto tacere. Chi tace una colpa leggera, faccia la stessa penitenza, ma non nella stessa afflizione, bensì con trenta colpi, oppure canti quindici salmi. Se in seguito trascura queste lievi mancanze sottovalutandole, faccia penitenza a pane e acqua, affinché chi pecca venga corretto secondo il comandamento del Signore. Ma chi corregge senza mitezza, sia considerato colpevole finché non chiede perdono al fratello che ha corretto, e sia punito con trenta colpi o con quindici salmi. Chi rimprovera a qualcuno, alla presenza di altri, un peccato vergognoso prima di correggerlo da solo a solo, come dice il Signore, sia ripreso in attesa che renda soddisfazione al fratello messo alla gogna, e faccia penitenza per tre giorni a pane e acqua.

[Chi trasgredisce una norma derivante da un preciso comando oppure dalla disciplina generale, resti escluso dalla comunità, senza cibo, e vi sia riammesso il giorno dopo.

[Chi parla familiarmente da solo con una donna sola, senza la presenza di persone fidate, rimanga senza cibo, oppure a pane e acqua per due giorni, oppure gli siano inflitti duecento colpi.

[Chi si azzarda a fare un viaggio senza il permesso del superiore andandosene con sfrenata libertà e senza necessità, sia punito con cinquanta colpi. A chi osa fare qualcosa a proprio vantaggio, cento colpi; chi è trovato in possesso di qualche cosa che non sia concessa a tutti i fratelli perché necessaria, ne venga privato e sia castigato con cento colpi. Fare, dare o ricevere qualcosa di necessario e consentito senza una specifica autorizzazione è colpa passibile di dodici colpi, se non ci sia un motivo che giustifichi la cosa, nel qual caso basta che si renda soddisfazione umilmente per essere perdonati.

[A chi parla mentre mangia, sei colpi, a colui che fa udire la sua voce da una tavola all'altra, sei colpi; e dodici colpi a chi parla facendosi sentire dalla casa all'esterno, o viceversa.

[Uscire dalla casa o entrarvi o compiere un lavoro senza pregare e senza farsi il segno di croce è mancanza passibile di dodici colpi; diversamente, cinque colpi.

[Venga punito con sei colpi chi dice ‘mio’ o ‘tuo’. '

[Se a una parola se ne contrappone un'altra alla buona, la punizione è di sei colpi; ma se lo si fa con spirito di contesa, la penitenza consista in cento colpi o in un giorno di privazione di parola.

[Se qualcuno non osserva l'ordine della salmodia, sei colpi,

[Se uno nel tempo del silenzio si permette di parlare senza averne necessità, sia punito con diciassette colpi.

[Se uno per incuria perde qualcosa del materiale in dotazione al monastero oppure li rovina, compensi la perdita o il danno col proprio sudore, cioè con un lavoro supplementare, oppure in proporzione all’entità del danno, secondo la valutazione del sacerdote, faccia penitenza con un giorno di privazione o digiunando un giorno a pane e acqua. Se invece l’oggetto è stato smarrito o danneggiato non per incuria, ma accidentalmente, il monaco sconti la sua negligenza semplicemente con una penitenza pubblica, cioè quando tutti i fratelli sono riuniti per la sinassi, chiederà perdono rimanendo prostrato per terra finché sia terminato l'ufficio; lo otterrà quando l'abate, a sua discrezione, gli comanderà di alzarsi. La stessa penitenza faccia chiunque, chiamato alla preghiera o a qualche lavoro, arrivi in ritardo.

[Se uno si mostra incerto nel cantare un salmo, se risponde in modo prolisso, troppo aspro o arrogante, sia punito con un giorno di privazione; un giorno di privazione anche per chi compie con negligenza dei servizi comandati. Un giorno di privazione per una mormorazione sia pure leggera, Un giorno di privazione a chi preferisce la lettura al lavoro o a un'obbedienza. A chi esegue con pigrizia i compiti assegnatigli, un giorno di privazione. Se uno, dopo lo scioglimento della sinassi, non torna immediatamente in cella, venga punito con un giorno di privazione. A chi si intrattiene con un altro per qualche istante, un giorno di privazione. Se uno si apparta sia pure per poco in qualsiasi luogo, un giorno di privazione. A chi si permette di chiacchierare anche soltanto per un momento con un fratello che non condivide con lui la cella, un giorno di privazione, Un giorno di privazione anche a chi prende la mano di un altro. Se uno prega con un fratello che è escluso dalla preghiera, un giorno di privazione.

[Se un fratello vede qualcuno dei suoi parenti o dei suoi amici secolari o con lui parla senza il permesso, se riceve una lettera da chicchessia, se si permette di spedirne una all'insaputa del suo abate, venga punito con un giorno di privazione. La medesima penitenza per chi impedisce a qualcuno di compiere un atto necessario. A chi, per l'ardore del suo spirito, oltrepassa la giusta misura in fatto di devozione, un giorno di privazione. Se però qualcuno si permette, per la sua tiepidezza, di distogliere un fratello fervoroso da quanto è consentito fare, sia punito con un giorno di privazione.

[In questi casi e in altri analoghi va messa in atto la correzione spirituale, affinché la riprensione fatta da molti giovi alla salvezza del peccatore e costui, in futuro, reso più prudente e diligente, si salvi, correggendo, con l'aiuto di Dio, la propria condotta.

[A chi provoca un alterco, sette giorni di penitenza. Chi mostra disprezzo per il suo superiore o parla male della regola, deve essere espulso, a meno che dica:

«Mi pento di ciò che ho detto». Ma se non si umilia, faccia penitenza per quaranta giorni, perché è nei lacci della superbia.

[ll ciarliero deve essere punito con il silenzio, l’irrequieto con la pacatezza, il goloso con il digiuno, l’amante del sonno con la veglia, il superbo con la segreta, il sovvertitore con l’espulsione. A ciascuno venga inflitta la punizione adatta e proporzionata alla colpa, affinché viva da giusto secondo giustizia. Amen.

[Si dispone che in ogni luogo e in ogni attività la regola del silenzio sia rigorosamente osservata, affinché, per quanto è possibile all’umana fragilità, che solitamente tende a cadere a precipizio nei vizi seguendo la lingua, ci purifichiamo da ogni vizio e proferiamo, invece, parole di edificazione per coloro che ci stanno vicino, per i quali il Salvatore nostro Gesù ha effuso il suo santo sangue, piuttosto che parole di denigrazione degli assenti, covate in cuore, e altresì quelle parole oziose di cui dovremo render come al giusto Giudice.

[Queste norme ci è sembrato bene stabilire per coloro che vogliono intraprendere il sublime cammino che conduce alle supreme altezze del cielo e che, mentre le malefatte degli uomini volgari li circondano con le loro tenebre, sono decisi ad aderire all’unico Dio, inviato sulla terra. Certamente riceveranno i premi immortali con quella suprema gioia che mai verrà meno.

 

[Termina la Regola Cenobiale di san Colombano abate. Deo gratiam].

 


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net