Tracce spirituali per una vita comune
Enzo Bianchi
Estratto da “Studi Francescani” 
68, 1971 n. 1
La Regola è stata rivista tre volte:
- Impegni a un minimo comune, 
[Bose 1968
- Tracce spirituali per una vita comune, 
Bose 1968 (pubblicata in “Studi Francescani” 
68 [1971/1]
- Esortazione al fratello che entra in 
comunità, Bose 1971 (pubblicata col titolo
Tracce spirituali in “Servitium” 
I, 5 [1971/22]
- Regola di Bose,
approvata nel Capitolo del 4 ottobre 1971 ed 
in seguito approvata il 22 aprile 1973 dall’Arcivescovo Pellegrino di Torino 
La Regola di Bose non è stata ancora pubblicata ed è a disposizione dei soli monaci.
2) Tracce per una vita comune
1. Siamo una comunità di uomini e donne che credono in Gesù Cristo e che nel 
mondo di oggi ricreano la comunità cristiana. Tale comunità trova 
come suo fine Vivere l’Evangelo in una vita tra cristiani 
riconciliati, vita condotta come tutti gli altri uomini.
Per questo tale comunità non è un ordine religioso, non è una nuova chiesa, 
e tanto meno una setta ecumenica, ma è un luogo in cui si cerca 
particolarmente l’unità tra i cristiani.
Non ci chiediamo se siamo monaci... L’ideale è semplice e concreto, la 
classificazione inutile.
2.Questa comunità si caratterizza in tre ministeri e servizi.
—             
Riconciliazione tra cristiani separati.
—             
Dialogo nell’accoglienza di ogni uomo.
—             
Attesa del Cristo attraverso la vita comune chiamata « monastica ».
3. Questi tre ministeri li adempiamo:
—             
in obbedienza all'Evangelo;
—             
vissuto nella vita comune;
—             
nel celibato;
—             
e nella povertà;
per una vita secondo lo spirito,
—             
nella ricerca dell’unità dei cristiani;
—             
nell’ospitalità;
—             
nell’annuncio al mondo (missione);
—             
in comunione con la Chiesa Universale.
L’Evangelo
4. Noi siamo dei semplici cristiani che vogliono vivere l’Evangelo 
non da soli, ma in una comunità.
Vivere l’Evangelo significa accettazione ammirata, piena di gioia e di 
riconoscenza della salvezza che Dio ci offre e che Cristo ci porta.
Significa costruire tutto, ogni giorno, con una esigenza di purezza e di un 
certo radicalismo.
Significa rapportare incessantemente all’Evangelo la nostra vita, la vita 
della comunità, la vita della chiesa e quella del mondo.
5. Quali siano le situazioni acquisite, le 
istituzioni, le tradizioni, tutto dev’essere messo costantemente in 
discussione e sottoposto al giudizio dell’Evangelo.
La conformità ad esso, non è mai raggiunta una volta per tutte ma deve 
essere ricercata ogni giorno. Non temiamo questa salutare inquietudine e 
questo dinamismo rinnovatore.
Noi se assimileremo l’Evangelo potremo giudicare le situazioni ecclesiali o 
temporali e ciò liberamente e coraggiosamente perché «L’Evangelo è forza di 
Dio» (cfr. 
Rom. 1.16).
6. L’assemblea della comunità (possibilmente 
settimanale) è innanzitutto lo strumento per rapportare la vita comune di 
ogni giorno all’Evangelo, ascoltare la volontà di Dio sulla comunità, e su 
ciascuno, facendo silenzio in se stessi e mantenendo una coscienza 
rappacificata.
La vita comune
7. La vita comune porta, perché sia efficace 
costruire insieme, come esigenze: l’unità e l’unanimità; queste non sono mai 
piene perché la divisione è in noi, nelle nostre profondità e solo alla fine 
ne saremo liberati.
La nostra fragilità e la nostra debolezza ci portano ad una molteplicità di 
opinioni e atteggiamenti che sovente si oppongono. Non accettare queste 
difficoltà è immaturità e mancanza di realismo.
Nella coppia umana fin dall’inizio i legami sono spontanei.
Noi invece siamo insieme per amarci a motivo del regno di Dio. Accettiamo 
queste difficoltà, usiamo del dono del perdono e della misericordia, dello 
sciogliere e del legare, come han fatto i cristiani di tutti i tempi.
8. Amiamoci l’un l’altro perché da questo si 
conoscerà la qualità del segno. Amiamoci di un affetto pieno e leale, non 
lasciando posto alle antipatie o alla freddezza e ricordiamo che questo 
amore perché aiuti la vita comune e le dia slancio, abbisogna di essere 
manifestato: negli sguardi reciproci, nell’amare gli altri più di se stessi 
(cfr. 
Rom 12.10), nello stimare se stessi con modestia nella misura 
del grado di fede che Dio ha concesso (cfr.
Rom 12.3), nell’obbedienza e nel servizio reciproco. 
Nell’opera di riconciliazione quotidianamente svolta occorre mantenere la 
pace: non mostrarsi tristi ma gioiosi nel Signore è un invito apostolico 
(cfr. 
Fil. 4.4).
9. E cerchiamo di non insegnare al fratello o 
agli altri diversamente da come viviamo, memori della parola di Gesù: « Leva 
prima la trave dal tuo occhio... » (cfr.
Mt. 7.5).
La correzione fraterna deve essere esercitata, ma deve concludersi sempre 
con il perdono. L’esortazione deve avvenire non nel momento sbagliato ma al 
momento opportuno, da solo a solo, con la dolcezza di Cristo e solo se il 
fratello non ascolta ci si rivolgerà alla comunità.
Ricordiamoci che son facili le battute e la beffa, ma esse non sono 
correzione: sono motivi di tensione e di disgregazione nella vita 
comunitaria.
10. Ci sono giorni buoni e giorni cattivi, tempi 
in cui « è rara la parola di Dio » (cfr. 1
Sam. 3) e tempi di luce e chiarezza sul cammino da continuare.
Siamo fedeli alla comunità, ai fratelli che han lasciato « case e campi » 
per vivere con noi e con loro cerchiamo di costruire, non di rovinare; di 
camminare sui passi di Cristo e non di restare immobili.
11. Non illudiamoci la vita fraterna si inizia 
ogni giorno, la comunità si fonda ogni giorno. Questo per sfuggire anche 
alla tentazione di fermare gli sguardi sui progressi o sugli 
indietreggiamenti o di stabilire un bilancio dei favori ottenuti da Dio. 
Consentendo i diversi stadi di maturazione umana e spirituale, dobbiamo 
quindi giungere a certe concretizzazioni comunitarie che con la loro 
visibilità costituiscano una risposta ai bisogni e alle richieste che il 
mondo ci fa tramite i nostri amici e i nostri
ospiti. Altrimenti senza realizzazione visibile 
la ricerca compiuta rimane ideologia.
12. Tra di noi non ci devono essere grandi o 
piccoli, primi o secondi, ma solo fratelli uguali che hanno gli stessi 
doveri, gli stessi diritti, la stessa obbedienza all’Evangelo.
Le funzioni devono essere diverse per la costruzione del corpo ma non c’è 
precedenza. Nessuno è padre, perché uno solo è il padre (cfr.
Mt. 23.9) e il maestro o dottore o direttore è solo il Cristo 
(cfr. 
Mt 23.10). Nessuno fra di noi ha autorità o dominio, perché 
sono i principi delle nazioni che li esercitano (cfr.
Mt 20.26); tra di noi non sia così: per necessità di 
comunione, ci sia solo chi suscita e ricerca l’unità.
Abbia il 
carisma della saldezza per riconfermare i fratelli e il
carisma del discernimento per costruire l’unità della 
comunità. Egli sia attento a prendere la sua funzione ricordando che Cristo 
può fare l’unità molto più di lui e concepisca sempre il suo incarico come 
servizio.
Spetta alla comunità intera prendere decisioni e determinare il cammino da 
seguire. Chi presiede all’unità faccia sì che nessuno sia sopraffatto dagli 
altri: sostenga il timido, contenga gli invadenti. Aiuti la comunità a 
scoprire la volontà di Dio, chieda intransigenza dove l’Evangelo è 
intransigente, ma egli resti sempre nella dolcezza e nella misericordia e 
ami tutti allo stesso modo.
Celibato
13.Celibato per il Regno e basta!
Il celibato non rende la preghiera più intensa, né l’amore più ardente, non 
è uno stato migliore del matrimonio: se ci dà maggiore disponibilità questo 
è un carisma che si esprime nell’ospitalità, nella vicinanza e nell’apertura 
a tutti gli uomini, nella prontezza con cui si assumono i servizi che le 
chiese ci chiedono. La rinuncia al matrimonio non serve a molto di per sé, 
se non alla propria verità. La decisione al celibato va vissuta nel più 
profondo del cuore ed è valida solo se risponde alla chiamata interiore di 
Dio.
Chi sceglie il celibato si fa eunuco per il regno (cfr.
Mt. 19.12) in perfetta conoscenza di causa, e si sforza ad una 
disponibilità
perfetta nel lavoro e nella preghiera per 
acquisire una fecondità che altri non possono realizzare per mancanza di 
libertà.
14. Il celibe sceglie l’amore verso il grande 
numero di fratelli, senza legarsi a qualcuno in particolare; sovente conosce 
una grande gioia perché riesce sulle promesse del Cristo (cfr.
Lc. 18.18) a possedere fin d’ora il multiplo.
Celibato è trasparenza, è semplicità, è essere sempre e subito disponibile 
ai bisogni delle chiese e del mondo. Il celibato è uno stato di povertà 
assoluta che ogni cristiano incontra alla sua fine.
È anche essere come gli uomini più poveri che non hanno avuto la possibilità 
di farsi una famiglia o tale famiglia hanno perso. Celibato e vita comune di 
uomini e donne sono per il mondo di oggi un gran segno: la sessualità non è 
il fine primario dell’uomo!
Povertà
15. Poveri secondo l’Evangelo significa vivere 
nella condivisione dei beni, nel provvisorio massimo consentito (cfr.
Mt. 6.25 -
Lc. 3.11) senza pensare al domani onde aspettare tutto da Dio. 
Povertà significa non accettare che la nostra sussistenza dipenda da altre 
cose, se non dal nostro lavoro: e quindi come gli altri uomini sopportare le 
condizioni di ricerca di un lavoro, vivere di quel lavoro.
Essa si esprime nel rifiuto della proprietà delle abitazioni, nella scelta 
dei mezzi di trasporto, nella solidarietà e vicinanza ai poveri.
La povertà è sempre una realtà che investe tutto il nostro essere. Se 
significa 
condividere con gli altri i pochi beni e il poco 
denaro di cui disponiamo, comunitariamente consiste anche nel restare nelle 
dimensioni di piccolezza scelte: piccolezza del numero di persone, delle 
attività, dei segni. Non siamo un movimento od una associazione. Anche la 
casa, comune a tutti, esige queste dimensioni che esse sole consentono la 
vita fraterna, il crescere della conoscenza, il rifiuto delle antipatie.
16. Viviamo come tutti gli altri uomini del 
nostro lavoro e non dobbiamo accettare offerte per noi, perché le famiglie 
normali non ricevono offerte. Non 
allontaniamoci dal mondo, dagli uomini, ma viviamo come essi più o meno 
socializzati, come le condizioni ci impongono, la nostra « fuga mundi » 
significa non essere integrati nella società del benessere, significa essere 
« sobri e vigilanti » di fronte alle ideologie nascoste (le potenze di cui 
ci parla Paolo) che ispirano il « secolo », la società borghese.
La nostra libertà si esprime con un profetismo e una indipendenza dai 
poteri, che non deve però ostacolare la comunione con essi.
17. Nel mondo di oggi la povertà infine deve 
essere un fatto « politico ». I cristiani finora han mancato di proporre la 
povertà politica e si sono limitati a vivere la povertà personale.
Oggi occorre fare due strade: povertà personale e povertà strutturale 
politica.
Un cristiano cerca la ripartizione dei beni tra tutti gli uomini 
nell’ambiente in cui vive sì, ma anche a livello di macro- strutture.
In questa visione di povertà si impongono alcune realtà cui la comunità 
resterà particolarmente attenta: il terzo mondo sottosviluppato, uomini 
legati al lavoro manuale, uomini con condizioni di sfruttamento.
Siamo solidali e corresponsabili con tutti gli altri uomini nei punti di 
tensione e di lotta, là dove si costruisce il mondo. Prendiamo le 
responsabilità senza paura di sporcarci le mani nella vita sociale e 
politica, nelle macrostrutture della società! Non ricorriamo alla « 
contemplazione », per sottrarci ad essere di tutto corpo presenti negli 
ambienti di lavoro, di studio, di ricerca.
Siamo uomini come gli altri, con gli stessi problemi; semplicemente dobbiamo 
essere uomini, segni di amore fraterno.
18. Una comunità ha la tendenza ad accumulare 
beni, data la grande possibilità di guadagni da parte di più persone che 
vivono insieme. Onde evitare questo pericolo occorre non costituire riserve. 
I luoghi in cui staremo saranno da noi presi in locazione come fanno le 
famiglie che hanno un tenore economico normale.
Vita spirituale
19. Nella vita spirituale, il protagonista è lo 
Spirito Santo. È lui che ci ha radunato, 
che ha suscitato in noi la stessa vocazione è 
lui che fa crescere la comunità.
È lo Spirito Santo che concede a ciascuno di noi il suo dono particolare, 
che suscita i carismi, e che organizza i doni particolari per l’utilità 
comune, il servizio reciproco l’unità della testimonianza. Vivere secondo lo 
Spirito è innanzitutto lasciarlo agire e non contrastarlo.
20. La parola di Dio è il cibo della nostra vita 
di cristiani.
Ogni giorno nella preghiera dell’ufficio essa ci viene data e noi dobbiamo 
vivere con essa tutto il giorno.
Con essa dobbiamo cercare cosa fare, come agire, come interpretare i segni 
dei tempi.
Ne viene che gli elementi della vita spirituale sono quelli che la Scrittura 
propone (e solo quella!): la preghiera, la veglia, il digiuno.
Preghiera: pregate sempre (cfr.
Col 4.2
e Tes 5.17).
La preghiera comune sia lode a Dio solo e intercessione per i fratelli.
A Dio occorre domandare tutto, se da lui tutto attendiamo come i suoi 
poveri!
21. Per la preghiera occorre la creatività di 
tutti noi e dobbiamo perciò cercare modi di esprimerla. L’ufficio di 
mezzogiorno sempre libero nella forma di espressione è il momento in cui 
ognuno di noi deve esprimere la propria creatività in una preghiera attuale 
e viva.
E che pregare non sia uscire dal mondo, ma portare il mondo a Dio in una 
fervente intercessione.
22. Quando la preghiera diventa difficile o dura 
occorre confidare nella capacità dei fratelli a supplire al proprio vuoto.
Essi pregano col fervore che può mancare a ognuno in quel momento. Anche la 
sola presenza fisica accanto ai fratelli nelle ore e nel luogo di preghiera 
è lode e culto a Dio.
E siccome Cristo pregava nel tempio, ma anche nelle solitudini (cfr.
Le 6.12 e
Mt 6.6) cerchiamo nella giornata un tempo per dialogare con 
Dio onde mantenerci in comunione con lui. Quando il lavoro, le attività e le 
iniziative comunitarie rischiano di travolgerci, cerchiamo questi tempi per 
rinnovare la nostra vocazione e ridare slancio alla vita comune. Nella 
preghiera personale, nel silenzio e nella solitudine noi perseguiamo quella 
pace e quella gioia che potremo comunicare agli altri.
Con la preghiera liturgica dell’ufficio 
sosteniamo la preghiera personale, e viceversa: esse sono entrambe 
necessarie.
23. Per l’ascesi non abbiamo nessuna ricetta; 
dall’Evangelo ascoltiamo l’appello al
digiuno (cfr.
Mc 9.29 e
Mt 9.15) e al
vegliare (cfr.
Mt 26.21). Vegliamo nella notte onde essere di tutto corpo, 
animo e spirito, segni di attesa. L’ufficio di veglia nella notte è là fuori 
per farci testimoniare anche con il corpo che attendiamo la venuta di 
Cristo.
Pregate, digiunate e vegliate!
— La preghiera comune (ufficio) che secondo l’antica tradizione, segna le 
ore del mattino, sera e mezzodì, avviene secondo la « Preghiera della 
comunità di Bose ». da noi elaborata, sulle tracce delle liturgie delle 
chiese cristiane.
24. La ricerca dell’unità fra i cristiani ora 
separati è un dovere di ogni cristiano. Per noi è un momento fondamentale, 
un servizio specifico. Per questo ci siamo riuniti anche se provenienti da 
Chiese diverse. L’unità per la quale lavoriamo non deve essere altro che 
l’unità che Cristo vuole, quando lui vorrà, un’unità in lui corpo unico 
della chiesa e non l’unità in una chiesa particolare.
Dunque la nostra testimonianza, la nostra ricerca non sia mai adulazione 
delle chiese, ma sia contestazione dei loro modi non evangelici di essere e 
di agire nel mondo e porti alla riforma delle chiese o « riparazione della 
casa di Dio » senza rotture. Riformare senza rompere, riconciliare 
riformando.
25. Il nostro ecumenismo deve però tener conto 
delle divisioni attuali che solcano ogni chiesa e il mondo: certo l’unità 
delle chiese è finalizzata all’unità di tutti gli uomini per cui Cristo è 
morto e risorto. Mettiamoci al servizio delle chiese in modo umile, 
aiutiamole tutte allo stesso modo, là dove ne hanno bisogno; portiamo pace 
nei conflitti e tra partiti all’interno della stessa
confessione cristiana.
Ricordiamo che noi e le chiese siamo strumenti, umili strumenti, e non il 
fine del nostro essere cristiani. Cristo è l’unico fine, l’unico maestro, 
l’unico mediatore, l’unico capo della Chiesa.
L’ospitalità
26. L’ospitalità è uno dei servizi che il 
celibato ci permette in modo intenso. Tutti gli ospiti saranno ricevuti come 
Cristo, perché « ero ospite e mi avete accolto » (cfr.
Mt 23.25) e allo stesso modo, con gli stessi onori e le stesse 
attenzioni, credenti e non credenti, semplici laici o autorità delle chiese.
Occorre credere che in tutti loro Cristo è presente! Cercheremo poi di 
contenere il numero degli ospiti onde garantire a tutti la possibilità di 
una larga accoglienza e di una discreta vicinanza nei giorni della loro 
permanenza tra di noi. Prestiamo attenzione ai bisogni degli ospiti ed 
evitiamo di turbarli o di metterci nei loro confronti come maestri.
27. Gioiamo sempre per la venuta di Cristo tra di 
noi negli ospiti, ma ricordiamoci che l’ospitalità non ci diminuisce il 
dovere di andare noi verso gli altri quali portatori della pace e 
dell’Evangelo di Cristo: « Andate... » (cfr.
Mc 16.15).
La missione
28. Se ci siamo riuniti in comunità non è per noi 
stessi.
Vivere l’Evangelo sì, ma « per il mondo ».
Il ministero della missione piuttosto che una funzione della Chiesa 
istituzionale è un insieme di relazioni tra i membri della Chiesa e quelli 
che non confessano Cristo a loro salvezza.
La comunità non è fine a se stessa: essa è stata «
inviata » al mondo per annunciare la buona novella.
Il senso della missione deve pervaderla!
Una missione che si attua nella testimonianza di vita sì, ma anche nella
parola predicata.
Non tacciamo la nostra appartenenza a Cristo. Solo l’Evangelo dà fondamento 
e spiegazione alla nostra vita di comunità. Nessun contatto umano viene 
realizzato senza le parole: parole di amicizia, di servizio, di sapienza, ma 
anche parole che devono
tener conto della speranza che è in noi! (cfr.
Ia Pt. 3.15).
Ho creduto per questo parlo (cfr.
Ps. 
116.10e) 
abbiamo creduto per questo parliamo (cfr. 2Cor. 
4.13).
30. In ogni punto di tensione, là dove si 
costruisce il mondo o il domani dell’uomo, uno di noi sia testimone del 
Cristo proporzionatamente alle nostre forze.
Prendiamo sulle spalle il peso dei punti più avanzati della missione: siamo 
noi, e la nostra comunità che incontra i non credenti, che si confronta con 
essi, che deve tradurre il messaggio in forme nuove adatte al tempo e ai 
luoghi.
Assumiamo con gioia tali funzioni!
La Chiesa universale e noi!
31. Noi, che proveniamo da chiese diverse, non 
siamo qui per rifare una chiesa che ci soddisfi, a nostra propria misura.
Noi apparteniamo alle chiese che ci hanno amministrato il battesimo e ci 
hanno generato a Cristo!
32. La nostra vocazione che ci colloca nella 
linea del carisma e del profetismo, piuttosto che nella linea 
dell’istituzione non vuole sostituirsi alle chiese.
Noi siamo pronti al servizio che le chiese ci domandano. Riconosciamo i loro 
pastori e con arditezza fiduciosa, con audacia evangelica, ci presentiamo 
con la nostra forma di vita che assolve i ministeri sopra indicati; questo è 
il nostro specifico contributo alla chiesa universale.
Non abbiamo dunque doppia appartenenza, perché apparteniamo a Cristo solo! 
(cfr. 
Rom. 7.4 -
Col. 3.3).
Conclusione
33. Fin’ora nel costruire una comunità si cercava 
di dare un segno che assicurasse le caratteristiche verticali della 
continuità storica all’intuizione iniziale. Noi preferiamo che la nostra 
comunità sia un segno
orizzontale, cioè della nostra generazione senza bisogno di 
continuità. La continuità ha portato sovente all’istituzionalizzazione 
massiccia, cioè alla sclerosi.
Quindi la nostra comunità è provvisoria.
La nostra esperienza così potrà anche essere una possibilità per
dei giovani che vogliono impegnarsi in una vita « 
monastica » temporanea, quale preparazione al matrimonio o alla vita 
comunitaria.
Vuole essere un normale segno nato sulla chiamata interiore di Dio e sulla 
nostra scelta gratuita ed evangelica.
A noi importa vivere 
l’Evangelo e
oggi lo viviamo così in una comunità.
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8 febbraio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        
       alberto@ora-et-labora.net