IL MONASTERO DI BOSE E IL SUO RESPIRO ECUMENICO
	
	
	Fratel Guido Dotti
	
	
	21 febbraio 2011
	
	Estratto dal sito della Conferenza Italiana Monastica Benedettine: 
	www.benedettineitaliane.org
	 
	Stasera vorrei dirvi qualcosa di come viviamo, e come 
	vediamo, l’ecumenismo a partire dalla nostra vicenda monastica a Bose. È 
	fondamentale, mi sembra, chiarire fin da subito che essere una comunità 
	composta di fratelli e sorelle non tutti cattolici, ma anche di altre 
	confessioni cristiane, non è stata una scelta deliberata, programmata prima, 
	ma è stata piuttosto un riconoscere, magari con perplessità e con fatica, 
	ciò che ci è sembrato un dono del Signore, un’opportunità che ci veniva 
	data, e che, come tutti i doni in ambito cristiano, impegnativo. C’è questo 
	paradosso: la grazia ha un “prezzo da pagare”. Il dono ci viene dato per 
	grazia, gratuitamente, ma una volta che è stato affidato, come i talenti, 
	viene fatto fruttificare, e poi dobbiamo rendere conto di che cosa ne 
	abbiamo fatto.
	Questo per dirvi che la nostra vicenda, che ha ormai più 
	di quarant’anni, è nata in anni in cui forse il desiderio dell’unità delle 
	chiese e le speranze che si aprivano sull’ecumenismo erano un po’ più vivaci 
	di oggi, anni in cui c’erano più attese. Il pontificato di papa Giovanni 
	XXIII e l’apertura del Concilio e i documenti che man mano il Concilio 
	tirava fuori avevano saputo ridestare non solo all’interno della Chiesa 
	cattolica, ma anche all’interno delle altre chiese, una passione, un 
	desiderio, e avevano fatto confluire anche quello che era un cammino 
	ecumenico delle altre chiese cristiane. Quindi in un certo senso siamo nati 
	in un clima che favoriva certe cose, ma entro certi limiti.
	Per noi è stato subito chiaro, una volta decisi di 
	iniziare, nonostante che non eravamo tutti cattolici – parlo come se fossi 
	stato presente fin dall’inizio, ma sono arrivato solo quattro anni dopo; vi 
	dico quello che mi hanno detto allora, che poi ho potuto verificare - una 
	volta accettato questo dono impegnativo, dovevamo chiarirci bene che cosa 
	volevamo fare di questo nostro essere una comunità ecumenica. È stato chiaro 
	che da un lato la nostra vocazione primaria era quella monastica, ritrovare 
	una forma di vita monastica che fosse leggibile, che fosse comprensibile, 
	con un linguaggio che parlasse alla Chiesa, al nostro mondo contemporaneo, e 
	nello stesso tempo, tener conto di come il monachesimo era stato uno dei 
	luoghi anche di divisione, soprattutto rispetto alle chiese della Riforma. 
	In alcuni periodi, in alcune zone, si era fatta “piazza pulita” della vita 
	religiosa, in particolare della vita monastica. Solo a partire della seconda 
	metà del secolo XIX la vita religiosa, la vita monastica, hanno cominciato a 
	trovare qualche possibilità di “diritto di cittadinanza” all’interno delle 
	chiese della Riforma.
	Per noi, il primo approccio formale è stato quello di dire 
	che noi non siamo una comunità nuova che è slegata rispetto alle chiese dei 
	singoli membri, ma che ogni fratello, ogni sorella, rimane fedele alla 
	chiesa che l’ha rigenerato in Cristo attraverso il battesimo. Questo 
	significa prendere sul serio quello che le nostre chiese hanno stabilito sul 
	riconoscimento reciproco del battesimo. Voi sapete che normalmente, quando 
	un cristiano battezzato e appartenente a una chiesa storica, riconosciuta, 
	cambia di confessione – è perfino improprio usare il termine “conversione” – 
	quindi, quando un battezzato passa ad un’altra confessione, non gli è 
	richiesto di essere ribattezzato. Proprio perché nonostante le differenze 
	anche molto profonde, anche a livello ecclesiologico, il battesimo che si 
	confessa, secondo il Nuovo Testamento, è che uno solo è il Signore, uno solo 
	il battesimo, una sola è la fede. Quindi per noi ciascun membro della 
	Comunità rimane radicato in Cristo attraverso quella chiesa che l’ha 
	rigenerato in Cristo e l’ha educato fino al momento del suo arrivo in 
	Comunità.
	Attualmente, la stragrande maggioranza di noi è cattolica, 
	e questo, perché siamo in Italia, dove la maggioranza dei cristiani è 
	cattolica; però abbiamo alcuni fratelli della chiesa della Riforma: sono 
	tre, tra i quali c’è fratel Matthias, che vi ha parlato la settimana scorsa. 
	E da qualche anno abbiamo una monaca ucraina, ortodossa, della chiesa del 
	Patriarcato di Mosca. Poi, hanno vissuto con noi alcune altre persone, ma 
	non come membri della Comunità, tra le quali un metropolita ortodosso del 
	Patriarcato di Costantinopoli, un amico di vecchia data della Comunità, che 
	è stato uno degli osservatori al Concilio Vaticano II e rappresentante di 
	Costantinopoli a Ginevra, al Consiglio ecumenico delle chiese. Quando è 
	andato in pensione ha chiesto di poter venire a vivere con noi; aveva 76-77 
	anni, faceva il monaco esattamente come noi; tornato in Grecia per 
	festeggiare Pasqua e le grandi feste, si è poi ammalato e ha voluto venire a 
	salutarci per Natale, ha trascorso l’ultimo Natale da noi e poi, ritornato 
	in Grecia, è mancato nel mese di febbraio di cinque anni fa.
	Questo per dirvi che c’è nel nostro atteggiamento 
	ecumenico e nel nostro modo di porci il desiderio di essere una presenza di 
	chi ha ricevuto dal Signore questo dono inatteso ed inaspettato, e che cerca 
	di farlo fruttare per l’insieme delle chiese, lavorando e pregando anche per 
	l’unità della Chiesa. Questo non è il nostro “quarto voto”; non è una 
	missione specifica, un compito particolare: semplicemente, è parte della 
	nostra vita. Così, in fondo, l’ecumenismo è stato letto dal Magistero della 
	Chiesa cattolica, a partire dal Vaticano II, in questi termini. L’Enciclica
	
	Ut 
	unum sint 
	di Giovanni Paolo II è 
	molto esplicita. Non è un di più che si aggiunge alle varie attività, ma è 
	qualcosa che fa parte ontologicamente della Chiesa. La Chiesa cattolica, 
	nella quale sussiste la Chiesa di Cristo, ha in sé questo anelito alla 
	ritrovata unità dei cristiani: è la preghiera che il Signore ha rivolto al 
	Padre all’Ultima Cena. Non si tratta di moda: é la testimonianza del 
	Vangelo, l’annuncio della Buona Novella che il Signore ci ha dato. Ci ha 
	detto che la prima caratteristica per essere riconosciuti come suoi 
	discepoli è l’amore che abbiamo gli uni per gli altri: “Da questo 
	riconosceranno che siete i miei discepoli.”
	È un po’ in questa ottica che ci siamo messi. La nostra 
	Regola è molto chiara, e dice:
	“Fratello, Sorella, tu provieni da una chiesa cristiana, non sei entrato in 
	Comunità per rifare una chiesa che ti soddisfa, alla tua propria misura; tu 
	appartieni a Cristo, attraverso la chiesa che ti ha generato a Lui con il 
	battesimo. Riconoscerai perciò i suoi pastori, riconoscerai i suoi ministeri 
	nella loro diversità, e cercherai di essere sempre segno di unità.”
	
	Poi continua:
	“Guardati dal criticare meschinamente, con amarezza e 
	senza amore le chiese. Nella Chiesa non amare un’astrazione, una visione 
	troppo personale, ma la comunità vivente, in cui Dio attende il tuo impegno 
	e il tuo ministero.”
	
	Si ribadisce:
	“La Comunità non è confessionale, ma è fatta di membri che 
	appartengono alle diverse confessioni cristiane. Ogni membro deve trovare 
	nella comunità lo spazio per la sua confessione di fede e l’accettazione 
	della sua spiritualità.”
	Questo vuol dire anche uno sforzo nell’edificazione 
	quotidiana della comunità. In questo senso possiamo dire che l’ecumenismo – 
	e la Regola lo dice da un’altra parte – è “l’opera di ogni giorno” della 
	comunità. Intraprendiamo delle iniziative, partecipiamo a delle attività più 
	specificamente ecumeniche, ma in realtà il nostro percorso ecumenico, 
	proprio perché non è un’attività in più, o un’attività tra le tante, ma la 
	risposta di ciò che noi siamo, individualmente e come comunità, diventa 
	qualcosa che passa nel quotidiano di ogni giorno, e quindi la struttura, la 
	vita, il modo di pregare insieme, l’organizzazione stessa della comunità 
	tiene conto del fatto di non essere tutti di una stessa confessione 
	cristiana.
	Questo a volte non è facile: è facile in teoria, un 
	protestante battezzato vive in comunità e rimane protestante, e il cattolico 
	vive in comunità e rimane cattolico e ciascuno rimane obbediente anche alla 
	propria confessione di fede, alla propria chiesa, che può chiedergli delle 
	cose ben precise. Per esempio, a noi cattolici può sembrare che la nostra 
	chiesa ci chiede troppo, mentre ai protestanti, le loro chiese non chiedono 
	molto; ci può sembrare che possano fare come vogliono. Se si guarda la 
	Chiesa ortodossa, si vede che essa chiede ancora di più di quello che chiede 
	la Chiesa cattolica, e via dicendo. Ma non è una questione di dover fare o 
	di chiedere di fare di più o di meno. È una questione di obbedienza a una 
	chiesa che storicamente è andata strutturandosi in un modo diverso, e che 
	concepisce in modo diverso anche l’appartenenza. La fedeltà ha a che fare 
	con la fede trasmessa, coltivata, custodita, e che ci ha portati a questa 
	vita monastica, che abbiamo voluto come una vita che si rifà al monachesimo 
	primitivo, ai primi secoli del monachesimo quando – guarda caso – le chiese 
	non erano ancora divise, o almeno non troppo, perché già dal Concilio di 
	Macedonia la Chiesa copta e quella armena presero un'altra strada. 
	Sostanzialmente, durante il primo millennio, c’era l’unità, e l’unica forma 
	di vita religiosa, sia in Occidente che in Oriente, era il monachesimo.
	Poi nell’Occidente si iniziava con i Canonici e poi altre 
	forme di vita religiosa, gli ordini mendicanti, eccetera; mentre 
	nell’Oriente si è mantenuta come unica forma di vita religiosa il 
	monachesimo, anche se poi oggi si trovano, e non da oggi, monasteri, sia 
	maschili che femminili, in cui si fa un po’ di tutto.
	È chiaro che il primo luogo in cui la Comunità di Bose si 
	è trovata a dover fare i conti con questo suo essere non tutti cattolici è 
	stata la liturgia, e in particolare la liturgia delle Ore. Perché la Messa, 
	l’eucaristia, non è qualcosa che sia a disposizione di una singola comunità. 
	L’eucaristia si riceve da una chiesa attraverso dei ministri ordinati per 
	questo, e non è qualcosa che possiamo inventare noi. Mentre invece la 
	liturgia delle Ore, tradizionalmente, è sempre stata il luogo della 
	creatività, anche di ogni singola comunità. Un esempio banalissimo si trova 
	nella Regola di Benedetto. Benedetto scrive dodici capitoli per parlare di 
	uno schema per la liturgia delle Ore, quali salmi cantare a quali ore, come 
	fare, e poi finisce dicendo: “Se, però, l’abate pensa di fare in modo 
	diverso, faccia pure; basti che si recitino tutti i salmi in una settimana.”
	È appunto la liturgia delle Ore che riflette di più 
	l’identità della comunità raccolta in preghiera davanti al Signore. Questo 
	lo sperimentiamo al livello di orari, di ritmi, di melodie, di modalità. Noi 
	abbiamo preso questa sfida e dono bellissimo di non essere tutti cattolici 
	per strutturare una liturgia delle Ore secondo la grande tradizione 
	occidentale – siamo occidentali in un paese occidentale – ma che tenga conto 
	del fatto che siamo di chiese diverse.
	Allora abbiamo impostato questo lavoro – uno dei primi 
	lavori, e tale continua ad essere. Nei prossimi mesi uscirà una nuova 
	edizione della nostra preghiera dei giorni. Abbiamo strutturato una liturgia 
	delle Ore in tre grandi momenti, cioè mattino, mezzogiorno e sera, anche 
	questo è secondo una delle tradizioni più antiche; siamo passati dalle 
	“sette volte al giorno” agli usi della prima tradizione, che si rifaceva 
	alla preghiera ebraica al mattino, a mezzogiorno e a sera: Lodi, Ora media e 
	Vespro, per vivere tutta la giornata davanti al Signore. Abbiamo impostata 
	la preghiera della giornata da un lato basata sulla salmodia; è molto simile 
	alla liturgia delle Ore del breviario romano. C’è un’introduzione, un inno, 
	la salmodia, una lettura breve dall’Antico Testamento alla mattina e 
	dall’Apostolo alla sera, il responsorio breve, la proclamazione del Vangelo, 
	un momento di silenzio, preghiera di contemplazione alla mattina e di 
	intercessione alla sera, un’orazione, il Padre nostro e la benedizione.
	Come vedete, lo schema è fondamentalmente latino; dove 
	abbiamo fatto tesoro del fatto che non siamo tutti cattolici è stato nella 
	scelta degli inni, e nella scelta delle preghiere di contemplazione e di 
	intercessione, in cui abbiamo attinto o direttamente dalla Scrittura che è 
	comune a noi tutti, protestanti e cattolici, prendendo brani o ispirandoci a 
	racconti biblici e trasformandoli in preghiere, oppure attingendo a 
	tradizioni diverse e adattando alcune preghiere da corali luterani, da 
	preghiere di contemplazione ortodosse, in modo che nella sua struttura si 
	vede chiaramente che è una liturgia “latina”, cioè, anche se è in italiano, 
	è una liturgia occidentale; ma nello stesso tempo, e questo abbiamo 
	sperimentato nel corso degli anni, qualunque cristiano di qualunque 
	confessione, che viene e si unisce alla nostra preghiera, può farlo senza 
	dover sconfessare nulla della sua confessione di appartenenza.
	Per questo, per la preghiera comunitaria abbiamo dovuto 
	rinunciare ad alcune tradizioni, magari più devozionali, piuttosto che di 
	tradizione monastica, che non ci avrebbero consentito una preghiera 
	comunitaria dello stesso tipo; un esempio classico è il Rosario. Questo 
	rimane più che lecito per i fratelli e sorelle cattoliche che vi siano 
	abituate e lo vogliono usare, e lo possono benissimo nella loro preghiera 
	personale, ma non è pensabile una recita comunitaria, perché creerebbe 
	problemi per chi non lo sente inerente al proprio cammino di fede, alla sua 
	formazione; non perché avrebbe qualcosa contro, ma si sentirebbe un po’ 
	spiazzato nei riguardi della chiesa che l’aveva generato e formato.
	È chiaro che quando si cerca una convergenza che non sia 
	sincretismo, che non sia attaccare qua e là delle aggiunte, ma che abbia una 
	sua unità, e che sia espressione di ciò che la Comunità è, bisogna essere 
	disposti a rinunciare a qualcosa di non essenziale, per poter invece 
	condividere ciò che è invece essenziale. Questo è un cammino che continuiamo 
	a fare e quindi ci aiuta il fatto di avere ospiti che sono di un’altra 
	confessione, anche se in gran parte sono cattolici. È chiaro che se arriva 
	un ortodosso, o un gruppo di ortodossi, per condividere la nostra preghiera, 
	non riconosce la preghiera come “sua”, nel senso che essa non ha le 
	apparenze esterne di una liturgia ortodossa, ma può riconoscere un sostrato 
	comune in una forma che è occidentale.
	Nella vita fraterna nostra c’è uno sforzo quotidiano, 
	quando ci sono decisioni da prendere, orientamenti da scegliere, di tenere 
	sempre presente l’altro. È chiaro che in una comunità che ha un regime 
	capitolare, tra tutti i fratelli e le sorelle professe, da un punto di vista 
	solo numerico, i cattolici hanno sempre la maggioranza qualificata, sempre 
	di più di due terzi, quindi si potrebbe prendere qualsiasi tipo di 
	decisione, e imporla sui non cattolici. Ma, si capisce che non si fa una 
	comunità di confessioni diverse, per poi fare comandare un gruppo 
	confessionale sugli altri, anche se si tratta del gruppo che rappresenta la 
	maggioranza numerica. In quel caso si può semplicemente formare all’inizio 
	una comunità di soli cattolici, evitando così tali problematiche.
	Per noi è stato forse lo sforzo più costante, ma anche più 
	arricchente, quello di cercare di risalire, soprattutto là dove ci troviamo 
	divisi, alle origini, cioè tornare a quando le chiese non erano ancora 
	divise, e poi chiederci come mai le nostre varie chiese abbiano prese vie 
	diverse, in base a quale istanza di desiderio di essere fedeli al Vangelo, 
	alla tradizione; perché una differenza, magari agli inizi piccola, si è 
	andata allargando sempre di più, e a volte si è molto lontani dagli “altri” 
	perché appena partiti da vicini abbiamo cominciato a costruire il seguito 
	della nostra tradizione in contrasto polemico con essi. Se si cerca di 
	salire alle fonti, e anche alle fonti della divisione, se si vuole, si 
	scopre che da un lato c’era comunque un anelito ad essere discepoli del 
	Signore. Che poi questo desiderio sia stato distorto in un modo o nell’altro 
	non è per noi ormai da capire fino in fondo. Uno dei trucchi più semplici in 
	un qualsiasi conflitto, tra singole persone oppure tra nazioni, è quello di 
	mettere di mezzo la religione. C’entra magari al cinque per cento, ma è una 
	questione talmente carica di emotività, di passione interiore, che tu le 
	puoi attribuire l’ottanta per cento di quello che invece sono solo una 
	matassa di calcolini più meschini. Troviamo spesso che cosiddette “tensioni 
	religiose” in un paese mascherano tensioni di altri tipi, sociali, politiche 
	ed economiche ben più profonde e importanti.
	L’aver quotidianamente questo allenamento a tener sempre 
	conto della posizione dell’altro: non vuol dire scendere a compromessi, 
	oppure accontentare una volta gli uni e poi una volta gli altri, ma cercare, 
	e lo ripeto, di capire il perché di quest’altra posizione, il perché questo 
	è ferito da quest’altro gesto, e allora plasmare, modificare, certe cose in 
	modo che non si ferisce più l’altro. Io rinuncio a qualche cosa per fare 
	capire quello che veramente mi sta a cuore: invece di fare tre passi avanti 
	da solo, ne facciamo insieme uno e mezzo.
	Accanto alla nostra vita fraterna c’è anche il ministero 
	dell’ospitalità, che ci consente di avere degli orizzonti di ecumenismo che 
	si allargano sempre di più. D’altronde il concetto che ho detto all’inizio, 
	cioè che non si tratta di un “quarto voto”, di una scelta precisa e 
	teologica, ma è un’obbedienza e un dono, ha il significato che abbiamo messo 
	l’attenzione su quello che è possibile fare insieme, e soprattutto sul fatto 
	che la ricchezza dell’essere insieme ci porta a conoscere i tesori delle 
	altre chiese indipendentemente dal fatto che ci sia un fratello o una 
	sorella di quella specifica chiesa.
	Noi all’inizio, fino a quando non erano ancora arrivati 
	quel metropolita e quella monaca, eravamo cattolici e protestanti; tutti 
	occidentali, si può dire. Ma fin da subito, uno dei primi lavori che abbiamo 
	fatto, quando ancora non avevamo la casa editrice, è stato quello di 
	tradurre e pubblicare dei testi di spiritualità ortodossa. Perché abbiamo 
	sempre pensato che le ricchezze evangeliche di testimonianza, di 
	spiritualità, le ricchezze di vita interiore delle altre chiese le possiamo 
	condividere, anche prima di condividere la mensa eucaristica. Chissà quando 
	la potremo condividere? Perché non dipende da noi, dipende dalle nostre 
	chiese. Mentre, invece, un santo possiamo “condividere” benissimo; che non 
	sia canonizzato, pazienza! Non è canonizzato, perché è propriamente un santo 
	di un’altra chiesa, ma credete che gli ortodossi non abbiano fatto tesoro di 
	una figura come san Francesco? E perché non possiamo noi fare tesoro di una 
	figura come Serafino di Sarov? D’altronde, queste sono anche cose che ci 
	possono cambiare in meglio, arricchendo la nostra vita spirituale già 
	adesso.
	Se voi pensate, in fondo, la sofferenza per la divisione 
	delle chiese, adesso la stiamo sperimentando di più, perché stanno 
	aumentando le presenze di cristiani non cattolici anche nel nostro paese. 
	Prima, generalmente in Italia - forse non in una grande città come Milano – 
	si poteva incontrare qualche luterano, un valdese, ma la stragrande 
	maggioranza era cattolica. Adesso a Torino e cintura i romeni sono 90.000, 
	per l’ottanta per cento ortodossi. Un tempo, che cosa voleva dire, 
	interessarsi di ecumenismo? Oppure sperare che nelle nostre chiese ci 
	rendesse possibile la comunione sacramentale insieme? Voleva dire, al 
	massimo, che se si fosse realizzato quello, andando in vacanza in Grecia, 
	non avrei dovuto cercare una chiesa cattolica, ma sarei potuto andare a 
	Messa in una chiesa qualunque.
	Mentre, invece, il fare tesoro di quello che è stata la 
	tradizione, le figure, la spiritualità, la comprensione del Vangelo delle 
	altre chiese, di questo posso beneficiare restando a casa, andando in giro; 
	questo arricchisce la mia fede. Questo abbiamo vissuto, e lo viviamo ora 
	negli scambi con gli ospiti che vengono. E in questo senso, da ormai un bel 
	po’ di anni, dal 1993, subito dopo la caduta del muro di Berlino, 
	organizziamo dei convegni di spiritualità ortodossa. Avevamo iniziato con i 
	russi, scelto ogni anno una figura di spiritualità russa e il suo tempo; 
	venivano metropoliti, studiosi, anche monaci, soprattutto dalla Russia. A un 
	certo punto, cominciavano a venire degli ortodossi greci; e abbiamo 
	cominciato a scoprire che tra di loro, greci e russi non parlavano mai. Non 
	avevano dei luoghi dove parlare.
	Ci hanno chiesto: perché fate sempre tematiche russe? 
	Perché non fare delle tematiche anche per noi bizantini? E così abbiamo 
	cominciato a fare convegni “a due atti” – tre giorni su una figura di 
	spiritualità greca, un giorno di pausa, e tre giorni sulla spiritualità 
	russa. Venivano degli ospiti di cui alcuni si fermavano per tutta la 
	settimana, alcuni che venivano solo per i greci e alcuni solo per i russi. 
	Poi abbiamo preso il coraggio a due mani, patrocinati dal Patriarca di 
	Costantinopoli per la sessione greca e dal Patriarcato di Mosca per la 
	sessione russa, e così siamo andati avanti per un po’ di anni. Poi abbiamo 
	detto: proviamo a parlarne con quelli che vengono, e poi decidiamo. E 
	abbiamo detto: perché non fare un’unica sessione, non più su una figura, o 
	su un periodo storico, ma su un tema spirituale, visto nella prospettiva 
	ortodossa, dove “ortodosso” vuol dire Costantinopoli, Mosca, Romania, 
	Bulgaria, Antiochia, l’Egitto, eccetera?
	Per cui, da quattro anni facciamo il convegno su delle 
	tematiche – il primo anno, su Cristo trasfigurato, poi sulla notte 
	spirituale, sulla solitudine e la comunione – in modo che sia concentrato in 
	quattro giorni, tutti gli ospiti vengono a tutto il convegno, e si parlano 
	anche tra di loro, e non solo con noi. Si scoprono molto simili e anche con 
	delle diversità, anche tra loro ortodossi; i cattolici che vengono conoscono 
	un mondo ortodosso molto più variegato di quello che possono immaginare, che 
	non è solo greco; vengono dalla Libia, dalla Siria, da Antiochia. È un mondo 
	culturalmente arabo, ma che è stato cristiano prima che ci fosse l’Islam. È 
	un altro approccio rispetto a quello del mondo ex sovietico, o greco.
	Sono soprattutto studiosi che vengono, ortodossi dagli 
	Stati dell’America, dall’Australia, ancora un’ortodossia diversa; vengono 
	degli ortodossi discendenti da comunità di fuorusciti russi che dopo la 
	rivoluzione si erano trasferiti in Francia, come i discepoli di Evdokimov. 
	Tutto questo ci ha aperto nuove possibilità di scambi. Attraverso i nostri 
	convegni veniamo a conoscere molti monaci. Ogni anno i nostri novizi con il 
	loro Maestro vanno per una settimana in pellegrinaggio al Monte Athos. Ogni 
	tanto riusciamo ad andare in Egitto a visitare i monasteri copti. Tre anni 
	fa, sono stato richiesto e ho accettato di guidare un pellegrinaggio di una 
	trentina di monaci e monache benedettini trappisti dell’Africa francofona, 
	Benin, Senegal, Togo, eccetera; abbiamo visitato i monasteri copti. Alla 
	fine, la cosa più bella che mi hanno detto era: “Grazie, perché ci hai fatto 
	conoscere i nostri nonni!” “Nostri nonni” nella vita monastica, perché – 
	dicevano – noi abbiamo ricevuto il monachesimo dalla Francia, e quindi 
	dall’Occidente. Ma abbiamo scoperto che la Francia ha ricevuto il 
	monachesimo da Benedetto, e Benedetto l’ha ricevuto dall’Oriente: da Antonio 
	e da Pacomio. Poi, sono i nostri nonni come africani.” È vero che il 
	sudsahara e l’Egitto, culturalmente, tradizionalmente, sono realtà ben 
	diverse, ma vi assicuro che quando loro vedevano, per esempio, analogie con 
	le devozioni popolari tra la gente che frequenta i monasteri, a loro 
	sembrava di essere in Senegal.
	Alimentiamo questi scambi, questi contatti, con la 
	Romania, con la Russia, con l’Egitto, con la Grecia; attualmente c’è un 
	nostro fratello che è riuscito a fare quaranta giorni in un monastero sull’ 
	Athos, e adesso sta ad Atene ad approfondire la sua conoscenza del greco per 
	poter coltivare questi contatti. Abbiamo altri rapporti di scambio con la 
	Russia; ad uno dei nostri convegni è intervenuto due volte quello che allora 
	era il capo del dipartimento delle relazioni con l’estero del Patriarcato di 
	Mosca, e che adesso è il patriarca Kirill. Conosciamo da quando era giovane 
	monaco, studente a Oxford, quello che adesso è capo dello stesso 
	dipartimento, il metropolita Hilarione. Veniva come semplice monaco ai 
	nostri incontri; ora è l’equivalente del Segretario di Stato della Chiesa di 
	Mosca e in più Presidente del Consiglio per l’Unità.
	Nascono così scambi e rapporti completamente inattesi. Con 
	il mondo protestante abbiamo più gli scambi a livello di facoltà teologiche 
	con singoli pastori, perché i protestanti non hanno una struttura 
	episcopale, ecclesiale, come la Chiesa cattolica. Ma quando delle facoltà di 
	teologia protestante collaborano con noi per fare insieme a Bose convegni di 
	spiritualità della Riforma, e portano i loro studenti, questo apre delle 
	prospettive diverse dal campo monastico, se volete. Ci sono anche degli 
	scambi con delle comunità come Grandchamps, una comunità di suore, tutte 
	protestanti, luterane e riformate, nata più o meno parallela con Taizé. 
	Negli ultimi anni c’è stata un’apertura assolutamente inattesa verso il 
	mondo Anglicano.
	Avevamo chiesto di poter tradurre un suo libro 
	all’Arcivescovo di Galles, che poi è stato eletto Arcivescovo di Canterbury, 
	Primate della comunione Anglicana. Appena eletto, ci ha telefonato chiedendo 
	di poter fare da noi un ritiro prima della sua ufficiale intronizzazione. 
	Siamo diventati amici, e adesso viene quasi ogni anno, o con sua moglie o da 
	solo, per fare una settimana di ritiro con noi. L’ultimo giorno, facciamo un 
	pranzo di festa e una 
	
	collatio, alla quale partecipa 
	anche lui. Nella Comunione anglicana, una volta saputo che lui veniva da 
	noi, ci hanno chiesto di accogliere un incontro di tutti i vescovi che si 
	interessavano all’ecumenismo. Poi, tre anni fa, sono stato invitato come 
	ospite personale dell’Arcivescovo alla Conferenza di Lambeth, che è 
	l’incontro di tutti i vescovi della Comunione anglicana nel mondo che si 
	tiene ogni dieci anni.
	Arrivato, mi trovo con un altro ospite personale, il p. 
	Timothy Radcliffe, già Maestro generale dei domenicani, che era venuto una 
	volta da noi per predicare gli esercizi. Dopo due giorni di ritiro sono 
	arrivate le delegazioni ecumeniche e il cardinal Kasper.
	Questi legami che si sono intensificati con la Comunione 
	anglicana hanno fatto sì che dopo l’uscita recente del documento del Papa 
	sulla Comunione anglicana siano ripartiti i dialoghi teologici ufficiali tra 
	Chiesa cattolica e Chiesa anglicana, terza fase. A maggio di quest’anno 
	(2011) avremo presso di noi per dieci giorni come nostri ospiti quindici 
	teologi cattolici e quindici anglicani, che discutano su questi argomenti.
	Tutto questo è un risvolto non cercato – ma anche i 
	convegni ecumenici sono nati per caso. Adesso abbiamo legami anche con la 
	Chiesa luterana svedese; a partire da un pastore che è venuto una volta, e 
	ha fatto venire anche il suo vescovo. Il vescovo era incantato, ha portato 
	dei giovani, e ha fatto fare un ritiro a dodici vescovi svedesi luterani a 
	Bose. Hanno portato il loro predicatore, ma hanno voluto fare da noi il 
	ritiro. Ospitiamo dialoghi bilaterali tra cattolici e altri discepoli di 
	Cristo, e il Consiglio ecumenico delle chiese.
	Questo non cambia fondamentalmente la nostra vita; e di 
	nuovo non è per questo che ci siamo. Non siamo un centro che vuole sfornare 
	attività ecumeniche. Semplicemente cerchiamo di fare fruttificare i semi che 
	ci sono messi in mano. Così continuiamo le pubblicazioni, che trattano 
	argomenti di spiritualità ortodossa, anche testi di spiritualità 
	protestante, anglicana– tra l’altro, tre quattro volumi dell’Arcivescovo. 
	Matthias fa parte del gruppo di teologi francofoni, cattolici e riformati, 
	che periodicamente affrontano insieme delle tematiche, ma noi sentiamo 
	questo come qualcosa che alimenta il tessuto della nostra vita, che deborda 
	anche a beneficio della Chiesa. Ma innanzitutto è qualcosa che nutre noi, e 
	che troviamo consonante, corrispondente con la nostra vocazione; non è 
	qualcosa che ci distolga da quello che facciamo e viviamo, crediamo e 
	vogliamo testimoniare.
	Ma anzi ci riporta alla nostra vocazione monastica che è 
	fondamentale, che non a caso è da sempre un possibile potenziale luogo 
	ecumenico. Proprio perché il monachesimo è una forma di vita evangelica che 
	precede la divisione delle chiese, e che è in sintonia con certe istanze 
	delle varie chiese, con l‘idea di una riforma della chiesa intesa come 
	maggior fedeltà al Vangelo. Questa istanza dovrebbe trovare nel monachesimo 
	un terreno fertile, e allora magari è colpa nostra se non lo trova, ma di 
	per sé il monachesimo si presta a questo. D’altronde, la vita monastica 
	nasce all’interno della Chiesa indivisa; diciamo che essa predispone tutto 
	perché si capisca che l’essenziale l’abbiamo in comune e non è diviso. Nel 
	corso della storia e ancora oggi magari trovate che i più agguerriti dei 
	nemici dell’ecumenismo sono i monaci; anche questo accade. Ma penso che sia 
	perché pensano di essere custodi di un’identità che deve essere anche 
	un’identità confessionale, e quindi sono l’ultimo baluardo. Ma questo, non a 
	caso, è qualcosa che ferisce, che blocca anche all’interno delle rispettive 
	chiese.
	Ci sono alcuni monasteri del Monte Athos che hanno tolto 
	dai dittici dell’eucarestia il nome del Patriarca ecumenico, da cui in 
	teoria dipendono, perché lo trovano troppo aperto all’ecumenismo. Poi, 
	pensate che tutto il mondo ex sovietico deve digerire il fatto che il 
	termine stesso “ecumenismo” per loro era sgradito, perché era il modo 
	
	
	soft 
	con cui il regime 
	faceva passare delle possibili aperture; cioè le persone di chiesa potevano 
	andare all’estero solo se si faceva finta di essere ecumenici, persone 
	presenti soprattutto in Russia; meno negli altri paesi del blocco sovietico. 
	Erano infiltrate anche all’interno della chiesa, nella gerarchia stessa 
	della chiesa. Quelli che più si muovevano sul piano internazionale erano 
	quelli che avevano a che fare con il mondo ecumenico. E si capiva che con 
	questi, semplici fedeli, preti, monaci, c’era qualcosa che non andava; 
	“ecumenismo” era un termine “bruciato”.
	Soltanto il tempo, la conoscenza, il sedimentarsi delle 
	nuove leve rendono possibile questo. La vita monastica quindi da un lato ha 
	delle potenzialità enormi di dialogo ecumenico, ma soprattutto 
	nell’ecumenismo vissuto. Se voi andate ospiti in un monastero, sia ortodosso 
	sia copto, per l’ottanta per cento delle cose vi troverete a casa vostra. 
	Come i monaci africani che hanno detto: “Ma questi sono i nostri nonni!” 
	Anche se ovviamente hanno anche molte cose completamente diverse, come la 
	gran lunghezza degli uffici, la modalità di fare la 
	lectio 
	divina, la struttura del monastero. Si respira un’aria 
	comune. Se ospitate monaci di altre confessioni nei vostri monasteri, loro 
	si ritrovano subito. Se mai, il problema grosso è quello della lingua, ma 
	non tutto il resto. Anzi è proprio “tutto il resto” che aiuta la lingua a 
	capire le cose.
	Credo che ci sono allora queste grandi possibilità, e il 
	rovescio è – come è frequente nel monachesimo – il pensare di dovere fare i 
	“puri e duri”. Se si pensa così – e questo vale non solo in campo ecumenico, 
	ma anche in campo cattolico – se si pensa di essere i soli bravi e migliori, 
	è chiaro che tutti gli altri sembrano difettosi, sembra anzi che contaminano 
	la nostra purezza immacolata, che non esiste, se siamo onesti con noi 
	stessi. Se, invece, capiamo che siamo in un cammino comune verso una più 
	forte radicalità del Vangelo, una presa sul serio della fede cristiana, e 
	della sua testimonianza nel mondo di oggi, allora lì troviamo davvero la 
	ricchezza dei tesori che sono gli altri. Conoscere come gli altri hanno 
	conservato la fede, per esempio, sotto la dittatura comunista, nei paesi 
	invasi nella marea musulmana del VI secolo, cosa significa conservare certe 
	tradizioni nel mondo dell’immigrazione, nella diaspora, coinvolti in giro 
	per il mondo.
	Abbiamo fatto un convegno insieme al Consiglio ecumenico 
	delle chiese sul martirio come opportunità ecumenica. Siamo partiti dal 
	fatto che soprattutto nel XX secolo ci sono stati molti cristiani morti 
	martiri, indipendentemente dalla loro confessione particolare. Si trovavano 
	insieme greco cattolici e ortodossi nel 
	gulag, oppure sotto il nazismo; c’è stata opposizione al 
	nazismo sia da parte dei cattolici, che dei protestanti. Come fare tesoro di 
	questo fenomeno allora, come opportunità ecumenica? riconoscere la “santità” 
	dell’altro, nonostante la sua appartenenza a una chiesa che non è in piena 
	comunione con la nostra. Abbiamo poi pubblicato gli atti solo in inglese, 
	perché il convegno è stato sponsorizzato dal Consiglio ecumenico delle 
	chiese in cui l’inglese è la lingua ufficiale. In questi atti sono stati 
	presentati i fondamenti biblici e patristici del martirio. Poi, per aree 
	geografiche, storiche, i martiri di Corea i martiri per la giustizia in 
	America Latina, i martiri sotto il regime comunista, sotto quello nazista: 
	sono venute fuori delle testimonianze straordinarie. E anche delle scoperte 
	di iniziative preziosissime. Pensate che in Romania hanno preparato un 
	martirologio comune dei cristiani morti sotto il comunismo; un martirologio 
	fatto dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa 
	protestante, pubblicato in un unico volume.
	È chiaro che non è un atto formale di canonizzazione, però 
	vuol dire che possiamo commemorare, anche se non celebrare, i nostri 
	fratelli e sorelle nella fede, anche nelle altre confessioni, che, di fronte 
	alla scelta di rinnegare la loro fede in Cristo in modi che sono diversi di 
	quelli dei primi secoli della Chiesa, quando veniva chiesto di bruciare 
	incenso agli dèi pagani, ma tuttavia si sono sentiti imporre di trasgredire 
	i comandamenti evangelici di amore per il prossimo, di non uccidere, di non 
	sopraffare l’altro e hanno saputo rendere testimonianza, indipendentemente, 
	gli uni dagli altri e sovente insieme, sostenendosi vicendevolmente, gli uni 
	gli altri in questa loro prova.
	Anche a noi è venuta l’idea di un martirologio ecumenico, 
	che abbiamo curato e pubblicato attorno al 2000, prendendo lo spunto da 
	quell’accenno all’ecumenismo dei martiri che parla più forte delle divisioni 
	nella 
	Tertio millennio eunte 
	di Giovanni Paolo II. Egli si augurava un futuro 
	martirologio; noi abbiamo cominciato a lavorarci. Ma davvero quando si 
	leggono, si conoscono delle vite come queste, le differenze confessionali 
	vengono superate. Quando in un 
	
	gulag 
	a nessuno era data la 
	possibilità di celebrare l’eucaristia, né la divina Liturgia, né la Messa 
	cattolica, e invece c’era un prete che riusciva ad avere le specie sacre, 
	non si rifiutava di comunicare tutti i cristiani presenti. Formalmente non 
	si poteva, ma nessuno ha scomunicato chi aveva confessato di averlo fatto.
	Si ricordano i prigionieri protestanti, che hanno fatto da 
	muro per nascondere tre-quattro cattolici che celebravano insieme la Messa. 
	Credo che nella misura in cui conosciamo queste realtà, ne veniamo a 
	contatto, diventiamo responsabili. Questo non riguarda solo la Comunità di 
	Bose, ma ogni cristiano. Se per un dono del Signore, che non è mai un caso, 
	ti viene data anche questa possibilità, ti verrà chiesto anche conto di che 
	cosa ne avrai fatto, di questo messaggio che ti è stato lanciato, della 
	preghiera affinché tutti siano una cosa sola, come “Io e il Padre sono una 
	cosa sola.” 
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