Comunità di Bose
Enzo Bianchi
Estratto da “Studi Francescani” 
68, 1971 n. 1
	
	3) Bose l’ecumenismo e l’intercomunione
	
	« Durante un incontro in cui autorità della chiesa avevano accolto dei 
	giovani che potevano porre domande, un italiano di Torino domandò se le 
	chiese autorizzavano la formazione di una comunità veramente ecumenica cioè 
	che non fosse espressione di nessuna confessione particolare che potesse 
	celebrare l’eucarestia in comune. Prelati cattolici, pastori e teologi 
	protestanti presero a turno la parola senza poter nascondere un certo 
	imbarazzo. Si sentivano risuonare le parole di doppia ‘ appartenenza ’ di ‘ 
	setta ecumenica ’. Si rimproverava al giovane interlocutore di porre una 
	domanda solo teorica senza relazione con un’esperienza vissuta... si 
	facevano lunghe digressioni. Quattro volte con pazienza il giovane di Torino
	
	
	ripeté la domanda. Era l’ora di andare a pranzo. 
	Il giorno dopo in seduta plenaria, il cardinale Le Febre diede, a tale 
	domanda una risposta studiata e meno dilatoria delle precedenti, ma 
	all’ultima ora si apprese che questo giovane ostinato accusato di porre una 
	domanda solo teorica viveva in seno ad una fraternità interconfessionale a 
	Torino... » H.P. in
	
	
	La vie protestante, 8 settembre 1967.
	
	Da allora sono passati quattro anni quasi. Quattro anni di vita comune tra 
	cattolici e protestanti a Bose: una vita comune di tipo monacale fatta di 
	lavoro professionale, di preghiera, di accoglienza, di ministero ecclesiale. 
	Questi cristiani di diversa confessione si sono riuniti insieme per vivere 
	l’evangelo e per dedicarsi in modo particolare alla riconciliazione tra le 
	chiese, separate da secoli. Quando il giovane di Torino poneva la domanda, 
	tutto questo poteva sembrare un sogno, un’audacia 
	un po’ folle; un tentativo disperato votato alla provvisorietà. Oggi questa 
	è una realtà che ha tre anni di vita costante e di visibile testimonianza 
	nella chiesa. Si cominciò a vivere insieme, spinti dalla stessa vocazione, 
	sette persone, uomini e donne, cattolici e 
	protestanti. Subito ci scontrammo tra la dura realtà della divisione, 
	esistente tra di noi nonostante i tanti motivi che c i univano. Una 
	divisione che si manifestava soprattutto nella celebra zione dell’eucarestia 
	domenicale. I cattolici la celebravano il mattino e i protestanti il 
	pomeriggio. Questa divisione causava in noi sofferenza e dolore non per una 
	sopravvalutazione che facevamo del segno eucaristico, ma perché dopo una 
	settimana vissuta insieme pregando insieme tre volte al giorno, nutrendoci 
	insieme della stessa parola di Dio, svolgendo insieme lo stesso ministero di 
	accoglienza, scandendo la vita con gli stessi fondamenti di vocazione e di 
	spiritualità e tutto ciò solo in nome di Cristo, dovevamo poi dividerci di 
	fronte a lui nella celebrazione eucaristica. È forse diviso Cristo? Gli 
	ospiti che venivano in comunità trovavano assurdo questo nostro modo di fare 
	e noi veramente non lo capivamo più. Il lavoro teologico comunque ci aveva 
	anche portato ad una fede con occhi semplici, una teologia irenica e anziché 
	dividerci ci univa più profondamente. Dunque noi non potevamo celebrare 
	un’eucarestia insieme solo a causa delle discipline delle nostre chiese. 
	Così per obbedienza alle autorità della chiesa per non fare gesti che 
	costituissero una rottura per i custodi della disciplina e del diritto 
	abbiamo rifiutato per due anni l’intercomunione. Non volevamo fare un gesto 
	di spontaneismo, un gesto di entusiasmo e di sentimentalismo. Intanto 
	continuavamo a ricercare insieme sul problema in comunità e con gli ospiti. 
	Finché tutti i membri della comunità si convinsero della necessità e della 
	possibilità dell’intercomunione. Allora il giovedì santo 1969 inviammo una 
	lettera alle autorità della chiesa cattolica (ordinario, segretariato unità) 
	e valdese. Dicevamo tra l’altro:
	
	
	«... 
	fino ad oggi per obbedienza alle chiese che ci hanno generato a Cristo 
	abbiamo rifiutato di celebrare insieme l’eucarestia che renderebbe visibile 
	la nostra vera comunione di fede e di vita. Ma non possiamo sopportare di 
	più che la nostra effettiva unità debba proprio fermarsi di fronte al 
	sacramento 
	
	istituito da Cristo per manifestare l’unità dei suoi con lui e 
	fra loro.
	
	Il nostro desiderio più profondo è di poterci mettere al servizio delle 
	chiese per accelerare il dialogo ecumenico, perché la 
	
	Chiesa diventi una sola, possa servire di 
	strumento, di sacramento per la salvezza degli uomini. Come possono le 
	chiese annunciare la riconciliazione 
	offerta da Dio al mondo, quando non sono capaci di riconciliarsi tra loro?
	
	Ora noi non possiamo celebrare l’eucarestia insieme. Questa situazione 
	rischia di diventare segno di un rifiuto da parte della Chiesa di Dio che 
	pare non saper riconoscere una chiamata particolare alla nostra comunità 
	ecumenica. Questo limite ci fa soffrire, sappiamo che questa sofferenza è 
	utile alla crescita dell’unità: ma quante volte noi siamo scandalo ai non 
	credenti che sono ospiti o amici della comunità.
	
	Vi domandiamo perciò:
	
	Possiamo noi, pur restando in comunione, celebrare insieme sotto la 
	presidenza di un ministro riconosciuto dalla sua chiesa (sacerdote per la 
	chiesa cattolica, pastore consacrato per la chiesa riformata), l’unica 
	eucarestia con la quale Cristo ci nutre del suo corpo e del suo sangue? Non 
	domandiamo un’intercomunione che consacra la divisione, ma semplicemente la 
	comunione perché siamo una sola cosa: per la vita comune, per la stessa 
	ricerca, lo stesso ascolto della medesima parola.
	
	Attendiamo per tanto una risposta a questi interrogativi (seguono le sette 
	firme dei membri della comunità).
	
	
	Nessuna risposta è venuta da parte cattolica. La chiesa valdese, tramite il 
	pastore Gay ci informava di partecipare alla nostra sofferenza spirituale e 
	ci invitava ad un colloquio con il concistoro, due dei membri della comunità 
	andarono; fu chiaro che il concistoro non aveva nulla in contrario, anche se 
	la questione superava la sua competenza specifica. Continuammo l’astinenza 
	dalla eucarestia in comune finché decidemmo di iniziare l’esperienza con 
	Natale 1969. Volevamo iniziarla tenendo conto dei due anni di ricerca di 
	vita comune che avevamo alle spalle. Non era più un gesto sentimentale o 
	spontaneistico. E non volevamo fosse un gesto clandestino, anche se 
	pensavamo e pensiamo che sia utile per ogni esperienza profetica, per quanto 
	piccola sia, il silenzio, la non pubblicità, l’evitare lo scandalo. 
	Avvisammo le autorità delle chiese, e la notte di Natale fu celebrata la 
	prima intercomunione, nella gioia piena di poter finalmente esprimere in 
	Cristo la nostra unità reale. Precisammo questi punti insieme:
	
	
	1) Facciamo il gesto dell’intercomunione senza 
	volontarie rotture. Per noi è essenziale restare in comunione con le chiese. 
	Se ci giungerà un esplicito divieto siamo disposti a tornare all’astinenza 
	dopo aver dialogato con le autorità, fatto sentire i nostri bisogni e fatto 
	conoscere gli effetti di tale esperienza nella vita cristiana di ciascuno e 
	nella testimonianza di cristiani delle differenti chiese.
	
	
	2) Abbiamo un’unica comprensione dell’eucarestia:
	
	
	a)
	come unico insieme composta da proclamazione 
	della parola di Dio, intercessione per le chiese e il mondo, un 
	ringraziamento per la creazione e la redenzione, parole dell’istituzione del 
	sacramento da parte di Cristo, epiclesi, frazione del pane, comunione;
	
	
	b)
	come rendimento di grazia al Padre;
	
	
	c)
	come convito sacramentale, cena del Signore;
	
	
	d)
	come presenza reale di Cristo nel pane e nel 
	vino;
	
	
	e)
	come memoriale del sacrificio 
	di Cristo;
	
	
	f) 
	come azione dello Spirito Santo e dono di lui;
	
	
	g)
	come comunione del corpo di Cristo nella 
	condivisione dell’unico pane e dell’unico calice per la costruzione 
	dell’unico corpo di Cristo;
	
	
	h)
	come azione del popolo di Dio, presieduta da un 
	ministro riconosciuto dalla propria chiesa come validamente deputato alla 
	presidenza eucaristica.
	
	
	3) L’intercomunione per noi è un mezzo di ricerca dell’unità della chiesa. 
	Essa è sì segno di realtà esistente, ma può e deve essere anche segno 
	profetico dell’unità futura. Il grado di comunione ecclesiale che abbiamo 
	attraverso la nostra fede e il nostro battesimo ci spinge a celebrare 
	insieme la santa comunione.
	
	
	4)L’intercomunione non è per noi un privilegio e 
	un fatto che fa della nostra comunità un’isola 
	di unità all’interno delle divisioni. Indubbiamente essa è un gesto 
	profetico, ma che non ci fa sedere per dire: siamo arrivati. Noi 
	apparteniamo alle chiese che ci hanno generato a Cristo, e non possiamo 
	rallegrarci finché esse non siano giunte all’unità.
	
	
	5) Vogliamo con l’intercomunione far partecipare 
	all’uso dei mezzi della grazia quei cristiani che hanno ritrovato nella 
	nostra comunità la fede o la pratica sacramentale da tempo perduta. Essi ci 
	chiedono l’eucarestia, e noi non possiamo più rifiutargliela come un padre 
	che dà sassi e pietre al figlio che chiede pane.
	
	
	6) Infine l’intercomunione per noi significa dare 
	visibilità dell’unità
	esistente fra di noi e segno che è possibile 
	sperare nell’unità dei credenti anche se ci separano secoli di divisione.
	
	Queste le nostre motivazioni per l’intercomunione: un gesto discreto il cui 
	significato non è da sopravvalutare e neanche da diminuire. In fondo, 
	all’interno delle chiese avvengono ogni giorno inter- comunioni clandestine, 
	nei luoghi ecumenici per eccellenza, nelle parrocchie più vive, dove c’è 
	incontro fra cristiani di differente confessione. Il nostro è un gesto di 
	risposta all’appello di Dio e della nostra coscienza per il lavoro di 
	riconciliazione, ministero essenziale della nostra vita comune.
	
	Non ignoriamo che la motivazione principale per cui la chiesa cattolica non 
	permette l’intercomunione è il giudizio di non validità che essa dà del 
	ministero evangelico. Essa non riconosce, almeno ora, il ministero pastorale 
	protestante come ministero derivante dalla successione apostolica. A questo 
	proposito si possono fare però le seguenti osservazioni:
	
	
	1) I riformatori non hanno mai negato che il ministro del sacramento debba 
	essere inscritto nella successione apostolica.
	
	
	2) Il concetto di successione apostolica è stato 
	indubbiamente, a partire dal X secolo, compreso in modo restrittivo e 
	parziale da ogni chiesa. Dobbiamo intendere per successione apostolica non 
	solo che « colui che succede rimpiazza colui al quale succede »: con questo 
	termine noi dobbiamo intendere la continuità di ciò che è stato fondato una 
	volta per tutte. La Chiesa di oggi succede alla Chiesa degli apostoli. La 
	Chiesa resta la stessa, ma in modi differenti.
	
	
	3) Dobbiamo affermare che la successione 
	apostolica non può essere ricondotta solo a « successione per imposizione 
	delle mani da parte del Vescovo ». La successione apostolica riveste almeno 
	quattro tipi di successione:
	
	a) successione nella
	
	
	vocazione apostolica. Gli apostoli sono innanzitutto uomini « 
	chiamati » da Gesù. Succedere nella vocazione apostolica significa che il 
	pastore è chiamato al ministero non per delegazione di un altro ministero, 
	ma per una missione che gli deriva direttamente da Cristo affinché abbia con 
	la sua Chiesa lo stesso rapporto che avevano gli apostoli con la Chiesa 
	nascente. Questa successione nella Chiesa cattolica avviene per
	
	imposizione delle mani ed è di natura sacramentale.
	
	b) successione nella
	
	
	dottrina. Gli apostoli durante il ministero pubblico di Cristo 
	sono stati istruiti, hanno ricevuto da lui la parola. Gesù era il loro 
	rabbi, il loro « unico maestro »
	
	
	Mt. 23.10). Succedere nella dottrina apostolica significa 
	dunque insegnare la verità, tramandarla, predicare l’Evangelo;
	
	c) successione nella
	
	
	cattedra eucaristica. La Chiesa per restare apostolica deve 
	celebrare l’Eucarestia, che è il luogo in cui Cristo ha accettato di 
	rendersi presente alla Chiesa fino al suo ultimo ritorno. Succedere nella 
	cattedra eucaristica significa presiedere l’eucarestia del popolo di Dio, 
	della Chiesa locale convocata.
	
	d) La Chiesa per restare conforme alla sua 
	apostolicità deve annunciare al mondo la salvezza. Chi annuncia l’Evangelo, 
	la dottrina apostolica, chi converte uomini a Cristo succede alla
	
	
	missione apostolica.
	
	Si può dire che questi elementi manchino alla successione apostolica dei 
	ministri non cattolici? Non vediamo invece che ogni Chiesa ha ipertrofizzato 
	un elemento a scapito degli altri?
	
	
	4) La Chiesa cattolica dovrebbe domandarsi se non 
	esiste di fatto una identità profonda, anche se può sembrare segreta, fra 
	ministero pretridentino e ministero della Riforma. Il fatto che i 
	riformatori abbiano rigettato un titolo di un dato ordine ecclesiastico non 
	prova che con il nome sia stata rigettata una realtà.
	
	
	5) I ministri non cattolici per mezzo della 
	celebrazione eucaristica intendono osservare il memoriale che Cristo compì 
	nell’ultima cena. Cristo dà dunque loro l’identica grazia della sua presenza 
	che i cattolici ricevono nella loro celebrazione eucaristica. Grazia 
	dell’unità in Cristo e di un’unità con quelli che in qualche modo 
	appartengono al Signore.
	
	
	6) La validità dei ministeri è veramente centrale 
	per la questione dell’intercomunione? Non è forse lo Spirito Santo il vero 
	protagonista che induce la Chiesa a raccogliersi, a ricordare la cena del 
	Signore? Non è forse lo Spirito Santo che nell’epiclesi 
	muta il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo?
	
	
	7) La realtà essenziale del ministero non è 
	legata (oltre allappartenenza a Cristo col 
	battesimo) al carisma della vocazione, all’intenzione chiara, nell’azione di 
	ordinazione, di conferire una presidenza a una Chiesa locale, 
	all’autorizzazione da parte della Chiesa in cui si esercita il ministero?
	
	
	8) La supplenza della Chiesa non ripara il 
	difetto eventuale di una ordinazione, integrando così, attraverso una 
	confermazione
	
	
	de facto, la mancanza di ministero?
	
	
	9) Non esiste un ministero straordinario 
	suscitato da Dio in casi di necessità? Dio permetterebbe forse che dei 
	cristiani in buona fede manchino di sacramenti validi ed efficaci per un 
	errore eventuale non imputabile a loro?
	
	
	Tutto questo dovrebbe portare al riconoscimento mutuo dei ministeri. Una 
	reale ricostituzione dell’unità visibile deve passare attraverso questo 
	gesto di amore, di fiducia nell’altro, di scoperta del fatto che anche 
	l’altro cerca di essere fedele al Vangelo, fratello di Gesù, figlio dello 
	stesso Padre.
	
	D’altronde il Concilio Vaticano II riconosce che questi fratelli non 
	cattolici veramente incorporati in Cristo crocifisso e glorificato sono 
	rigenerati per partecipare alla vita divina (D.O. 22), e riconosce pure che 
	nella comunione di Cristo è significata la vita (D.O. 22).
	
	Lo stesso battesimo, viene detto, è ordinato alla piena inserzione nella 
	comunione eucaristica: dunque esso è già una fonda- mentale qualità che non 
	può essere assolutamente contraddetta dall’eventuale mancanza di altre.
	
	Il decreto sull’ecumenismo al paragrafo 8 permette l’intercomunione (communicatio 
	in sacris) non in modo indiscriminato, ma in casi di necessità, e anche 
	per il ristabilimento dell’unità dei cristiani. Nel nostro caso dunque non 
	c’è contravvenzione alle misure conciliari; anzi, direi che nella misura in 
	cui noi siamo una comunità che ha come scopo primario (oltre il vivere 
	l’Evangelo) la ricerca dell’unità, l’intercomunione è per noi il mezzo 
	privilegiato per questo cammino.
	
	La nostra intercomunione risponde ad una necessità spirituale sofferta per 
	due anni. Dunque l’uso nostro dell’intercomunione come mezzo di 
	ristabilimento dell’unità è un mezzo discriminato, non indiscriminato.
	
	Il direttorio ecumenico del maggio 1967 limita seriamente l’interpretazione 
	del paragrafo 8 del decreto conciliare sull’ecumenismo, e nella stessa linea 
	si trova la dichiarazione del segretariato dell’unione dei cristiani del 7 
	gennaio 1970.
	
	
	
	Enzo Bianchi
	
	Comunità di Bose
	
	
	13050 Magnano 
	(VC)
	
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