Regola di Abelardo

Estratto da “Abelardo ed Eloisa – Epistolario

a cura di Ileana Pagani – Utet 2013

Il testo originale è completo di ben 548 note.

 

 [1] Dopo aver risposto come ci è stato possibile ad una parte della tua richiesta, ora, con l’aiuto di Dio, dobbiamo dedicarci ad esaudire i desideri tuoi e delle tue figlie spirituali a proposito della parte che resta. Secondo l’ordine della vostra richiesta ci resta, infatti, da scrivervi e consegnarvi una forma di istruzione quasi una regola della vostra condotta di vita, affinché dal testo scritto vi venga una norma di comportamento più certa che dalla consuetudine. Fondandoci, dunque, in parte su buone consuetudini, in parte sulla testimonianza delle Scritture e in parte sul sostegno della ragione, abbiamo deciso di raccogliere insieme tutti questi insegnamenti per poter decorare con essi quel tempio spirituale di Dio che siete voi, come ornandolo di belle pitture, e, partendo da un certo numero di elementi incompleti, creare un opuscolo, per quanto ci è possibile, completo. Nel far ciò ho deciso di imitare il pittore Zeusi e di operare nel tempio spirituale come egli stabilì di fare in quello materiale. Come racconta, infatti, Tullio nella sua Retorica, gli abitanti di Crotone si rivolsero a lui perché decorasse di bellissime pitture un tempio che veneravano con grandissima devozione. Per riuscire a farlo nel modo migliore, egli si scelse tra il popolo cinque bellissime vergini perché gli stessero intorno mentre dipingeva ed egli, guardandole, nel dipingere imitasse la loro bellezza. È probabile che si sia fatto così per due ragioni: perché, come ricorda il citato dottore, quel pittore aveva raggiunto il più alto grado di perizia nel raffigurare donne e, in secondo luogo, perché l’immagine di una fanciulla è considerata naturalmente più elegante e squisita della figura virile. Il filosofo sopra menzionato dice che furono da lui scelte più vergini, perché non credeva che fosse possibile trovare in una sola fanciulla tutte le membra ugualmente perfette e non credeva che dalla natura fosse mai stata concessa a nessuno una tale perfezione di bellezza da avere tutte le membra ugualmente belle, così che essa nel creare i corpi non ha prodotto nulla che sia perfetto in ogni parte, quasi che riversando in uno solo ogni attrattiva non ne avesse più da donare agli altri.

[2] Così anche noi, per dipingere la bellezza dell’anima e per raffigurare la perfezione della sposa di Cristo, nella quale voi possiate cogliere la vostra bellezza o bruttezza, come nell’immagine allo specchio di una vergine spirituale tenuta sempre davanti agli occhi, ci siamo proposti di regolare la vostra condotta di vita sulla base di molti insegnamenti dei santi e delle migliori consuetudini dei monasteri, scegliendo ogni elemento man mano che viene alla memoria, e raccogliendo come in un mazzo di fiori ciò che ritengo adatto alla santità della vostra norma di vita, considerando ciò che è stato stabilito non solo per le monache ma anche per i monaci. Come, infatti, siete a noi unite nel nome e nella professione di continenza, così vi convengono quasi tutti le norme per noi stabilite. E tra queste scegliendone numerose, come ho detto, quasi fossero fiori con i quali ornare i gigli della vostra castità, descriveremo, dunque, la vergine di Cristo con cura molto maggiore di quella che Zeusi impiegò per dipingere l’effigie dell’idolo. Egli ritenne che fosse sufficiente avere cinque vergini da usare come modello; invece noi, disponendo dell’esuberante ricchezza degli insegnamenti dei Padri, e fiduciosi nell’aiuto di Dio, non disperiamo di lasciarvi un’opera più perfetta, con la quale possiate giungere ad eguagliare il destino e la raffigurazione delle cinque vergini sagge, che il Signore vi propone nel Vangelo come rappresentazione delle vergine di Cristo. E grazie alle vostra preghiere speriamo di realizzare il nostro proposito. Vi saluto in Cristo, spose di Cristo.

[3] Abbiamo deciso che il trattato che abbiamo steso per istruirvi sia diviso in tre parti per descrivere e rafforzare la vostra osservanza, e delineare come va celebrato l’ufficio divino; in esse io ritengo consistano i principi fondamentali della vita monastica e cioè vivere in castità, vivere senza proprietà, e osservare in particolar modo il silenzio. Questo è cingere i fianchi, rinunciare a tutto, guardarsi dalle parole inutili, secondo l’insegnamento della regola evangelica che proviene dal Signore.

[4] La continenza è quella pratica della castità esortandoci alla quale l’Apostolo dice: «La donna senza marito, come la vergine, si dà pensiero delle cose del Signore, per essere santa sia nel corpo che nello spirito». In tutto il corpo, dice, non in un solo membro, affinché un suo membro non si abbandoni alla lascivia nei fatti o nelle parole. Ella è santa nello spirito quando il consenso non macchia la sua mente, né la gonfia la superbia, come le cinque vergini fatue che rimasero fuori della porta, mentre andavano a cercare i venditori d’olio. Mentre esse bussavano invano alla porta ormai chiusa e gridavano: «Signore, Signore, aprici», lo Sposo in persona rispose loro con parole terribili: «In verità vi dico: non vi conosco».

[5] In secondo luogo, dopo esserci spogliati di tutto, noi seguiamo nudi Cristo nudo, come fecero i santi apostoli, quando per lui non solo mettiamo da parte i beni terreni o l’affetto delle parentele carnali, ma anche la nostra stessa volontà, per vivere non secondo il nostro volere, ma per essere governati dagli ordini del nostro superiore e per Cristo sottometterci totalmente a colui che ci governa in nome di Cristo, come fosse Cristo. Il Signore stesso, infatti, disse loro: «Chi ascolta voi, ascolta me e chi disprezza voi, disprezza me». E se questi — non sia mai! —, pur governando bene, si comporta male, non dovrà essere disprezzata la parola di Dio per i difetti di un uomo, di uno qualsiasi dei quali Cristo stesso ordina: «Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le opere loro». Egli stesso descrive con cura questa conversione spirituale dal mondo a Dio, dicendo: «Chiunque non rinunzierà a tutto ciò che possiede non potrà essere mio discepolo», e ancora: «Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, e la moglie e i figli, e i fratelli e le sorelle, ed anche la sua anima, non può essere mio discepolo». Questo odiare il padre e la madre ecc. significa non voler seguire gli affetti delle parentele carnali, come odiare anche la sua anima significa non voler seguire la propria volontà, comandamento che egli dà anche altrove quando dice: «Se uno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi segua». Così, infatti, ci avviciniamo e andiamo dietro di lui, cioè seguiamo, imitandolo, lui che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato», come se dicesse: a fare tutto per obbedienza.

[6] Che cos’è infatti «rinnegare se stesso» se non mettere da parte gli affetti carnali e la propria volontà e sottomettersi non al proprio ma all’altrui volere? E di certo in tal modo uno non riceve da altri la sua croce ma la prende lui stesso, così che per mezzo suo il mondo sia per lui crocefisso e lui per il mondo, quando, con il voto spontaneo della propria professione religiosa, si interdice i desideri mondani e terreni, il che significa non seguire la propria volontà. Cosa desiderano, infatti, gli uomini legati alla carne se non realizzare i propri desideri? E che cos’è il piacere terreno se non il compimento della propria volontà, anche quando facciamo quello che vogliamo a costo di enormi sacrifici o pericoli? E cos’è prendere la croce, cioè patire qualche tormento, se non fare qualche cosa contro la nostra volontà, per quanto questo possa apparirci facile e utile? Per questo un altro Gesù, di gran lunga inferiore, nell’Ecclesiastico ci ammonisce dicendo: «Non andare dietro alle tue passioni, allontanati dalla tua volontà. Se accontenti l’anima tua nelle sue cupidigie, farà di te la gioia dei tuoi nemici».

[7] Ma quando così rinunciamo completamente sia alle nostre cose che a noi, allora, rifiutata ogni proprietà, iniziamo veramente quella vita apostolica che mette tutto in comune, secondo come sta scritto: «E la moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola, né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era fra loro comune. E si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno». I bisogni non erano, infatti, uguali in tutti e perciò non si dava a tutti nella stessa misura, ma a ciascuno secondo la necessità. Il cuore era uno nella fede, perché si crede col cuore. L’anima era una perché, grazie all’amore, la loro volontà era la stessa, poiché ciascuno desiderava per l’altro quello che voleva per sé, e non cercavano il proprio vantaggio ma quello degli altri, e tutto veniva da tutti giudicato in base all’utilità comune, mentre nessuno cercava o desiderava i propri interessi ma quelli di Gesù Cristo. In caso contrario non si vive senza proprietà, perché essa consiste più nel desiderio di avere che nel possesso.

[8] La parola oziosa e superflua è uguale alla loquacità. Perciò Agostino nel libro I delle Ritrattazioni dice: «Sia lungi da me considerare loquacità quando si dicono cose necessarie, quale che sia il numero e l’ampiezza dei discorsi». Perciò per bocca di Salomone è detto: «Nella loquacità non mancherà il peccato. Chi invece frena le sue labbra è molto prudente». Occorre, dunque, essere molto cauti là ove non manca il peccato, e con tanta maggiore cura bisogna affrontare questo morbo quanto più esso è pericoloso e difficile da evitare. Per far fronte a questo pericolo san Benedetto dice: «In ogni momento i monaci devono applicarsi con zelo al silenzio». Applicarsi con zelo al silenzio è certo più che stare in silenzio. Lo zelo è, infatti, applicazione intensa dell’animo a fare qualche cosa. Invero noi facciamo molte cose con negligenza o contro voglia, mentre non pratichiamo nulla con zelo senza averne la volontà e l’intenzione.

[9] Considerando con attenzione quanto sia difficile e utile tenere a freno la lingua, l’apostolo Giacomo dice: «Tutti manchiamo infatti in molte maniere. Se uno non manca nel parlare è un uomo perfetto», e ancora: «Ogni specie di bestie e di uccelli e di serpenti e di altri animali può essere domata ed è stata domata dalla specie umana». Ma nello stesso tempo egli, considerando quale alimento al male ci sia nella lingua e quale mezzo di distruzione di ogni bene, così dice prima e dopo: «La lingua, piccolo membro, ma fuoco quanto grande, quanto grande foresta incendia! Universo d’iniquità, male che non si può reprimere, pieno di veleno mortale». Ma cosa c’è di più pericoloso del veleno e di più temibile? Come, dunque, il veleno annienta la vita così la loquacità distrugge completamente la vita religiosa. Perciò lo stesso apostolo in un passo precedente dice: «Se uno crede di essere religioso, senza tenere a freno la lingua, ma ingannando il suo cuore, la religione di costui è vana». Perciò anche nei Proverbi sta scritto: «Come una città smantellata e priva di mura così è l’uomo che parlando non sa dominare il suo spirito». E proprio questo considerava con attenzione quel vecchio che, quando Antonio gli chiese a proposito dei loquaci confratelli che si erano uniti a lui lungo il cammino: «Hai trovato con te dei buoni confratelli, padre?», rispose: «Sono buoni certo, ma la loro casa non ha porte. Chiunque vuole entra nella stalla e slega l’asino». La nostra anima, infatti, è come legata alla mangiatoia del Signore e si nutre in essa per così dire ruminando la meditazione sacra; ma da questa mangiatoia essa si scioglie e con i suoi pensieri vaga qua e là per il mondo intero, a meno che non la trattenga il vincolo del silenzio. Le parole introducono, infatti, nell’anima l’intellezione affinché essa volga la propria attenzione a ciò di cui ha intelligenza e aderisca ad esso mediante il pensiero. Ma con il pensiero parliamo con Dio, così come con le parole parliamo con gli uomini. E allora, mentre da una parte prestiamo attenzione alle parole degli uomini, è inevitabile che dall’altra veniamo distratti, e non possiamo prestare attenzione contemporaneamente a Dio e agli uomini.

[10] Non devono essere evitate solo le parole oziose, ma anche quelle che sembrano possedere una qualche utilità, perché è facile passare dalle parole necessarie alle oziose e dalle oziose alle dannose. Come dice Giacomo: «La lingua è male che non si può reprimere», e quanto più è piccola e sottile, rispetto alle altre membra, tanto più è mobile e, mentre le altre si stancano muovendosi, essa si affatica quando non si muove e per lei è gravoso il riposo. E quanto più essa è in voi sottile e flessibile per la morbidezza del vostro corpo, tanto più è mobile e pronta alle parole e si mostra evidente vivaio di ogni malizia. L’Apostolo, notando che questo è un vostro vizio tipico, proibisce assolutamente alle donne di parlare in chiesa, e non permette loro di fare domande neanche su argomenti che riguardano Dio se non a casa al marito. Inoltre, sia quando studiano che quando fanno qualsiasi altra cosa, le assoggetta particolarmente al silenzio, poiché al proposito così scrive a Timoteo: «La donna ascolti l’istruzione in silenzio, con totale sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare, né di dettar legge all’uomo, ma deve stare in silenzio». Ma se, a proposito del silenzio, l’Apostolo ha preso questi provvedimenti per le donne laiche e coniugate, cosa dovete fare voi? Spiegando ancora al medesimo Timoteo perché aveva dato queste disposizioni, egli rimprovera alle donne di essere loquaci e di parlare quando non è opportuno.

[11] Nel tentativo di trovare, dunque, un qualche rimedio a questa sciagura così grande, sottomettiamo totalmente la lingua ad un continuo silenzio almeno in questi luoghi e momenti: nell’oratorio, nel chiostro, nel dormitorio, nel refettorio durante tutti i pasti, e in cucina; e il silenzio sia da tutti osservato in particolar modo dopo compieta. In questi luoghi e momenti, se è necessario, usiamo i segni al posto delle parole. Si provveda con cura ad insegnare e ad apprendere questi segni, per mezzo dei quali, se è proprio necessario usare le parole, si inviti al colloquio in un luogo adatto e a ciò destinato. Una volta detto rapidamente quanto necessario, si ritorni alle occupazioni precedenti o si faccia ciò che è richiesto.

[12] L’eccesso di parole e di segni non sia punito con indulgenza, e soprattutto quello delle parole, nelle quali è insito il pericolo maggiore. Anche san Gregorio, desiderando ardentemente rimediare a questo frequente e grave pericolo, così ci istruisce nel libro VII del Commento morale: «Mentre non ci curiamo di evitare le parole oziose, finiamo per cadere in quelle dannose. Di qui si seminano provocazioni, nascono conflitti, si accendono le fiamme degli odi, è spenta tutta la pace dei cuori. Perciò bene è detto per bocca di Salomone: “Chi dà la stura all’acqua, è origine delle liti”; dare la stura all’acqua è lasciare libera la lingua all’effluvio delle parole. Al contrario e con significato positivo dice: “Acqua profonda dalla bocca dell’uomo”. E, dunque, colui che dà la stura all’acqua è origine delle liti, perché chi non frena la lingua distrugge la concordia. Perciò sta scritto: “Chi impone il silenzio allo stolto, placa le ire”». Queste parole ci ammoniscono ad essere severissimi in particolare nel correggere questo vizio, affinché non ne venga in alcun modo rinviata la punizione con gravi rischi per la vita religiosa. Infatti le malignità, le liti, le contese, e talora le cospirazioni e le congiure, che da questo vizio germogliano, non fanno solo vacillare l’intero edificio della vita religiosa ma lo distruggono. Una volta invece che tale vizio sia sradicato, forse non vengono completamente eliminati i cattivi pensieri, ma almeno cesseranno di corrompere gli altri. Questo unico vizio ci raccomandava di fuggire l’abate Macario, quasi ritenendo che ciò fosse sufficiente per la disciplina religiosa; sta scritto infatti: «L’abate Macario, superiore di Scete, diceva ai confratelli: “Fratelli, dopo la Messa fuggite dalla chiesa”. Gli rispose uno dei confratelli: “Padre, dove dobbiamo fuggire ancora oltre questo deserto?”. E Macario si pose un dito sulle labbra e disse: “Questo è ciò che dico di fuggire”. Rientrato poi nella sua cella e chiusa la porta, sedeva solo». Questa virtù del silenzio che, come dice Giacomo, rende l’uomo perfetto, e della quale Isaia ha predetto: «Nutrimento della giustizia è il silenzio», fu praticata con tale fervore dai santi Padri che, come sta scritto, l’abate Agatone tenne in bocca un sasso per tre anni finché alla fine non imparò a stare in silenzio.

[13] Sebbene il luogo non sia la salvezza, tuttavia esso contribuisce molto a far rispettare le norme della vita religiosa e a meglio difenderle, e dal luogo derivano molti aiuti o impedimenti alla devozione. Per questa ragione anche i figli dei profeti che, come dice Gerolamo, a quanto leggiamo nel Vecchio Testamento, erano monaci, si trasferirono nella solitudine del deserto e si costruirono le loro capanne al di là del corso del Giordano. E, inoltre, Giovanni e i suoi discepoli, che consideriamo i capostipiti del nostro modello di vita, e poi Paolo, Antonio, Macario e quelli che in esso si distinsero, fuggendo la confusione della vita secolare e il mondo pieno di tentazioni, trasferirono nella quiete di un luogo solitario il lettuccio della loro contemplazione per potersi dedicare a Dio più integralmente. E anche lo stesso Signore, che era inaccessibile agli impulsi delle tentazioni, ammaestrandoci con il suo esempio, quando si proponeva di compiere qualcosa d’importante cercava i luoghi solitari e si allontanava dalla confusione della gente. Perciò il Signore in persona ci ha reso sacro il deserto con il digiuno di quaranta giorni, nel deserto ha nutrito le folle e, quando cercava una preghiera più pura, si separava non solo dalle folle ma anche dagli apostoli. Egli istruì e designò gli apostoli stessi in un luogo isolato sul monte, un luogo deserto esaltò con la gloria della sua trasfigurazione, su un monte riempì di gioia i suoi discepoli riuniti con la manifestazione della sua risurrezione, da un monte ascese al cielo, e compì in luoghi deserti o isolati tutti gli altri suoi grandi miracoli. Anche a Mosè e agli antichi egli apparve in luoghi deserti, attraverso il deserto condusse il popolo alla terra promessa, nel deserto lo trattenne a lungo e gli consegnò la legge, fece piovere la manna, sgorgare l’acqua dalla pietra, lo confortò con frequenti apparizioni, e operò miracoli: tutto questo per insegnare chiaramente quanto il suo desiderio di solitudine prediliga per noi l’isolamento, perché in esso possiamo a lui dedicarci nella maniera più pura.

[14] Inoltre egli, descrivendo con cura in forma simbolica la libertà dell’onagro, che ama la solitudine, e lodandola con forza, così parla al santo Giobbe: «Chi ha mandato libero l’asino selvaggio e chi ha sciolto i suoi legami, a lui al quale ho dato il deserto per casa e per rifugio la terra salmastra? Disprezza la folla della città e non ode gli urli dell’esattore. Osserva intorno a sé le montagne suoi pascoli ed esplora tutto ciò che è verdeggiante». Come se dicesse chiaramente: chi lo ha fatto se non io? Giacché l’onagro, che noi chiamiamo asino selvatico, è il monaco, che sciolto dai vincoli delle cose terrene si è rifugiato nella tranquilla libertà della vita solitaria e, fuggendo il secolo, nel secolo non è rimasto. Perciò abita nella terra salmastra perché le sue membra sono secche e aride per l’astinenza. Non ode le urla ma la voce dell’esattore, perché concede al ventre non il superfluo ma il necessario. Chi infatti è esattore tanto importuno ed esattore quotidiano come il ventre? Questi emette urla, cioè una smodata richiesta, quando richiede cibi superflui e delicati, e in ciò non deve essere assolutamente ascoltato. Le montagne suoi pascoli sono la vita e gli insegnamenti dei più grandi, leggendo e meditando i quali noi ci ristoriamo. E tutto ciò che è verdeggiante sono tutti gli scritti che trattano della vita celeste e immarcescibile.

[15] Per esortarci in particolare a questo comportamento san Gerolamo così scrive al monaco Eliodoro: «Considera il significato della parola monaco, cioè il tuo nome. Cosa fai in mezzo alla folla, tu che sei solo?». Ancora Gerolamo, distinguendo la nostra vita da quella dei chierici, scrive al prete Paolo queste parole: «Se vuoi esercitare il ministero di prete, se forse ti attrae il compito o l’onere dell’episcopato, vivi nelle città e nei castelli e metti a profitto della tua anima la salvezza degli altri. Se vuoi essere quello che dici, monaco, cioè solo, che fai nelle città che non sono certo abitazione di uomini soli, ma di moltitudini? Ogni tipo di vita ha i suoi iniziatori. E per venire alla nostra, vescovi e preti abbiano come esempi gli apostoli e i seguaci degli apostoli, possedendo il cui rango, cerchino di possederne anche i meriti. Noi invece abbiamo come iniziatori del nostro modo di vita, i Paolo, gli Antonio, gli Ilarione, i Machario e, per tornare alla scrittura, il nostro iniziatore Elia, Eliseo, guide dei profeti, che abitavano nei campi e nel deserto e si costruivano capanne oltre il corso del Giordano. Di costoro erano parte anche i figli di Rechab, che non bevevano né vino né bevande fermentate, che abitavano in tende, che sono lodati dalla voce di Dio per bocca di Geremia che dice che della loro stirpe non mancherà mai un uomo che stia al cospetto del Signore». E, dunque, anche noi, per poter essere in grado di stare più degnamente al cospetto del Signore e di essere pronti a servirlo, costruiamoci capanne nel deserto, affinché la numerosa presenza degli uomini non scuota il lettuccio della nostra quiete, turbi il riposo, faccia sorgere tentazioni, trascini via la mente dal suo santo proposito.

[16] Quando il Signore ha guidato sant’Arsenio alla libera tranquillità di questa vita, in una sola persona ha dato un esempio chiaro per tutti. Sta scritto infatti: «Quando viveva ancora a palazzo, l’abate Arsenio pregò il Signore dicendo: “Signore guidami alla salvezza”. E giunse a lui una voce che diceva: “Arsenio, fuggi gli uomini e sarai salvo”. Ritiratosi a vita monastica egli di nuovo pronunciò la stessa preghiera, dicendo: “Signore guidami alla salvezza”. E udì una voce che gli diceva: “Arsenio, fuggi, stai in silenzio, stai tranquillo; queste sono le radici del non peccare”». Istruito, dunque, da quest’unica regola del precetto divino, non solo fuggì gli uomini, ma li fece anche fuggire da sé. Un giorno il suo arcivescovo si recò da lui con un giudice, chiedendogli un discorso di edificazione; egli ripose loro: «“Se ve lo dirò, lo seguirete?”; essi promisero di seguirlo e allora disse loro: “Ovunque sentirete parlare di Arsenio, non avvicinatevi”. L’arcivescovo lo andò a trovare una seconda volta, ma prima mandò a vedere se gli avrebbe aperto; Arsenio gli mandò a dire: “Se vieni ti aprirò, ma se aprirò a te, aprirò a tutti e allora non potrò più starmene qui”. Ciò udito l’arcivescovo disse: “Se la mia visita significa perseguitarlo, allora non mi recherò più da quell’uomo santo”». E ad una matrona romana che era andata a visitare la sua santità disse: «“Come hai osato intraprendere un viaggio per mare così lungo? Non sai che sei una donna e non dovresti andartene in giro? O l’hai fatto per tornare a Roma e dire che hai visto Arsenio, così che il mare divenga una strada piena di donne che vengono da me?”. Ella rispose allora: “Se Dio vorrà farmi ritornare a Roma, non permetterò che nessuno venga qui; ma prega per me e ricordati sempre di me”. Ma egli le ripose così: “Prego Dio che cancelli dal mio cuore il ricordo di te”. A queste parole ella se ne andò turbata». Sta scritto infine che, quando l’abate Marco gli chiese perché fuggisse gli uomini, gli rispose: «Sa Iddio quanto ami gli uomini, ma non posso essere con Dio e con gli uomini contemporaneamente».

[17] I santi Padri nutrivano, dunque, una tale avversione per i rapporti con gli uomini e la notorietà che alcuni, pur di allontanarli da sé, si finsero pazzi, o, cosa stupefacente, si dichiararono addirittura eretici. Se qualcuno ne ha voglia, si legga nella Vite dei Padri come l’abate Simone si preparò a ricevere la visita del giudice della provincia: si vestì di una tela di sacco, prese in mano pane e formaggio, si sedette sulla porta della sua cella, e cominciò a mangiare. Si legga ancora quanto narrato dell’anacoreta che, quando si accorse che delle persone si stavano recando da lui con delle fiaccole, si spogliò, immerse nel fiume i suoi vestiti, e stando in piedi tutto nudo cominciò a lavarli. A quella vista il suo servo arrossì di vergogna e pregò gli uomini dicendo: «Tornatevene a casa perché il nostro vecchio è impazzito». Ritornato da lui, gli disse: «Padre che hai fatto? Tutti quelli che ti hanno visto hanno detto che il vecchio era posseduto dal demonio», e lui gli rispose allora: «Era proprio quello che volevo sentire». Legga, inoltre, quanto scritto dell’abate Mosè che, per tener lontano da sé il giudice della provincia, si alzò e fuggì in una palude. Il giudice col suo seguito si imbatté in lui e gli chiese: «Vecchio, dicci, dov’è la cella dell’abate Mosè?» e lui rispose loro: «Perché lo cercate? È un pazzo e un eretico». Che dire ancora dell’abate Pastore che non volle farsi vedere dal giudice della provincia neppure per liberare dalla prigione il figlio di sua sorella, che lo supplicava di farlo? Ecco, i potenti del mondo, con grande venerazione e devozione, cercano di vedere i santi e questi si affannano a cacciarli via anche coprendosi di disonore!

[18] Perché, ora, voi conosciate la virtù del vostro sesso anche a questo proposito, chi potrebbe esaltare in maniera degna la vergine che rifiutò anche la visita del santissimo Martino per dedicarsi alla contemplazione? Perciò, scrivendo al monaco Oceano, Gerolamo dice: «Nella Vita di san Martino leggiamo che Sulpicio racconta che san Martino, di passaggio dalle sue parti, volle salutare una vergine famosa per i suoi costumi e la castità; ella rifiutò, ma gli inviò un dono e, guardandolo attraverso la finestra, disse al sant’uomo: “Padre, prega lì dove sei, perché non ho mai ricevuto la visita di un uomo”. Udite queste parole san Martino rese grazie a Dio, perché ella, forte di questi costumi, aveva conservato la sua volontà di castità; la benedisse e se ne andò pieno di gioia». Veramente questa donna, sdegnando o temendo di alzarsi dal lettuccio della sua contemplazione, era pronta a dire ad un amico che batteva alla porta: «Ho lavato i miei piedi, come sporcarli di nuovo?».

[19] Quanto gravemente riterrebbero di essere stati offesi i vescovi e i prelati di oggi, se avessero ricevuto un tale rifiuto da Arsenio e dalla vergine! E se ancora esistono dei monaci che vivono in solitudine, di fronte a questi comportamenti arrossiscano di vergogna, quando si compiacciono delle frequenti visite dei vescovi, e costruiscono per loro abitazioni particolari ove alloggiarli, e non solo non fuggono i potenti del mondo, con tutta la folla che li accompagna o che corre a vederli, ma addirittura li chiamano, e moltiplicando gli edifici con la scusa degli ospiti, trasformano in città il luogo solitario che erano andati a cercare. Certo per inganno dell’antico e astuto tentatore quasi tutti i monasteri d’oggi, che furono inizialmente costruiti in luoghi solitari per fuggire gli uomini, col raffreddarsi del fervore religioso, hanno in seguito richiamato gli uomini e, riunendo servi e serve, hanno costruito grandi città nei luoghi riservati ai monaci e sono così ritornati al mondo, l’hanno anzi attirato a sé. Facendosi coinvolgere nelle miserie più meschine e sottomettendosi completamente ai potenti, sia ecclesiastici che secolari, mentre aspiravano a vivere senza preoccupazioni e a mantenersi con la fatica altrui, hanno perso insieme il modo di vita e il nome stesso di monaci, cioè solitari. Spesso sono anche incalzati da tali guai che, mentre si affannano a proteggere i propri seguaci e le loro proprietà, perdono le proprie; e di frequente nell’incendio delle case vicine vanno bruciati perfino i monasteri stessi. Ma neppure questo pone freni alla loro ambizione.

[20] Quelli poi che, non sopportando in alcun modo la costrizione del monastero, si sono sparsi per i villaggi, i castelli e le città, dove vivono senza osservare alcuna regola a gruppi di due o tre o addirittura da soli, sono tanto peggiori degli uomini del mondo quanto più rinnegano la loro professione religiosa. Essi, usando come loro proprietà anche le loro abitazioni chiamano obbedienze questi luoghi ove non si rispetta alcuna Regola, ove non si obbedisce ad altro se non al ventre e alla carne, ove, soggiornando con i parenti e la servitù, fanno quello che vogliono con tanto maggiore agio, quanto meno temono i rimproveri della loro coscienza. Non vi è alcun dubbio che in questi spudorati apostati divengono criminosi quegli eccessi che sono veniali negli altri uomini. E voi non solo non dovete tollerare di avere rapporti con la vita di costoro, ma anche di sentirne parlare.

[21] L’isolamento è tanto più necessario alla vostra debolezza, quanto meno in esso siamo esposti all’attacco delle tentazioni carnali e meno andiamo vagando dietro alle cose del corpo trascinati dai sensi. Perciò anche sant’Antonio dice: «Chi vive nell’isolamento e se ne sta tranquillo, si sottrae a tre combattimenti, quelli cioè dell’udito, della parole e della vista, e dovrà combattere una sola lotta, quella del cuore». Gerolamo, il grande dottore della Chiesa, considerando con attenzione proprio questi e gli altri vantaggi offerti dal deserto e ad essi esortando con forza il monaco Eliodoro, esclama: «O deserto che gioisci della presenza di Dio! Fratello, che fai nel mondo, tu che sei più grande del mondo?».

[22] Dopo aver ragionato di dove convenga costruire i monasteri, vediamo ora quale debba essere la disposizione stessa del luogo. Così come ha consigliato anche san Benedetto, nel progettare il sito del monastero, se è possibile, bisogna far in modo che entro i suoi confini siano presenti tutte le cose che al monastero sono primariamente necessarie, cioè l’orto, l’acqua, il molino, il panificio con il forno, e i locali ove le sorelle possono compiere il lavoro quotidiano, affinché non vi sia occasione di andare girando fuori.

[23] Come negli eserciti del mondo, così anche negli eserciti di Dio, cioè nelle congregazioni monastiche, devono essere stabiliti coloro che governano sugli altri. Nell’esercito, infatti, un’unica persona è posta a capo di tutti e ogni cosa viene fatta secondo i suoi ordini. Ma, secondo la grandezza dell’esercito e la molteplicità dei compiti, egli affida ad alcuni parte dei suoi oneri e si avvale di ufficiali subordinati, che provvedano alle diverse schiere di uomini e ai diversi compiti. Anche nei monasteri deve avvenire così, e una sola madre deve avere il governo su tutte, mentre tutte le altre devono compiere ogni cosa in base alla sua valutazione e al suo giudizio e nessuna deve osare opporsi a lei in nulla o anche mormorare contro un suo ordine. Nessuna comunità di uomini o nessuna famiglia, per quanto piccola e che vive in una sola casa, può, infatti, restare integra se in essa non si conserva l’unità in modo, cioè, che il suo governo risieda tutto nelle mani di un’unica persona. Perciò anche l’arca, che è figura della Chiesa, pur avendo molti cubiti sia di lunghezza sia di larghezza, finiva in uno solo. E nei Proverbi sta scritto: «Per le colpe di una terra molti sono i suoi principi». Per questa ragione anche alla morte di Alessandro, quando i re si moltiplicarono, si moltiplicarono anche i mali. E Roma non riuscì a conservare la concordia quando fu affidata a più governanti. Perciò così dice Lucano nel primo libro: «Tu cagioni i tuoi mali, o Roma, divenuta proprietà comune a tre padroni, funesti accordi di un regno giammai diviso fra tanti». E poco oltre: «Finché la terra sosterrà il mare, e l’aria la terra, e lunghi travagli faranno svolgere il sole, e la notte si avvicenderà al giorno nel cielo con immutate costellazione, non vi sarà lealtà tra padroni associati nel regno; il potere non tollera spartizioni».

[24] Tali erano certamente anche i discepoli del santo abate Frontone, che egli, dopo aver raccolto nella città in cui era nato fino a giungere al numero di settanta e dopo aver lì acquistato grande favore presso Dio e presso gli uomini, abbandonato tuttavia il monastero di città, aveva trascinati con sé nel deserto, nudi con le cose che potevano portare. Ma poi essi, alla maniera del popolo di Israele che si lamentava contro Mosè perché lo aveva guidato fuori dell’Egitto nel deserto, abbandonando vasi di carne e una terra ricca, cominciarono a mormorare vanamente dicendo: «Forse che la castità sta solo nel deserto e non esiste nelle città? Perché, dunque, non torniamo nella città da dove siamo venuti via temporaneamente. Forse che Dio esaudirà le nostre preghiere solo nel deserto? Chi potrebbe vivere del cibo degli angeli? Chi potrebbe trarre diletto dall’avere come compagni bestie e fiere? Che necessità abbiamo di restare qua? Perché, dunque, non benediciamo il Signore ritornati nel luogo ove siamo nati?». A tal proposito anche l’apostolo Giacomo ammonisce dicendo: «Fratelli miei, non vogliate essere in molti a fare i maestri, sapendo che vi assumete un giudizio più severo». E anche Gerolamo, scrivendo al monaco Rustico per istruirlo sulla condotta di vita, dice: «Senza un maestro non si apprende alcuna arte. Anche gli animali muti e i branchi di bestie feroci seguono i loro capi. Tra le api tutte tengono dietro all’unica che va per prima. Le gru seguono una di loro in schiera a forma di lettera. Uno è l’imperatore, uno il giudice della provincia. Quando fu fondata Roma non poté avere contemporaneamente due fratelli come re e ciò fu dimostrato col fratricidio. Esaù e Giacobbe si fecero guerra nell’utero di Rebecca. Ogni chiesa ha un unico vescovo, un unico arciprete, un unico arcidiacono e ogni ordine ecclesiastico fa assegnamento sul suo capo. Sulla nave c’è un unico timoniere, in casa un unico padrone. In un esercito, per quanto possa essere grande, si guarda al segnale di uno solo. Attraverso tutti questi esempi il mio discorso mira a questo, ad insegnarti che non devi affidarti al tuo giudizio, ma devi vivere nel monastero sotto la disciplina che dipende da un unico padre in compagnia di molti».

[25] Affinché, dunque, fra tutte possa essere conservata la concordia, è bene che a capo di tutte ci sia una sola, alla quale tutte obbediscano in tutto. È inoltre necessario che, secondo le sue decisioni, siano poste sotto di lei alcune altre persone, come una sorta di ufficiali. Esse si occuperanno dei compiti che lei avrà stabilito, fino a quando ella vorrà, così da essere come dei comandanti o dei consoli nell’esercito del Signore. Invece tutte le altre combattano liberamente contro il maligno e i suoi seguaci come cavalieri o fanti, sotto le cure delle altre. Riteniamo che sette di voi siano necessarie e sufficienti per tutte le esigenze di amministrazione del monastero, e cioè: la portinaia, la celleraria, la guardarobiera, l’infermiera, la maestra del coro, la sacrestana e infine la diaconessa, che ora chiamano badessa. In questo esercito, dunque, in questa sorta di milizia divina — secondo quanto sta scritto: «Milizia è la vita dell’uomo sulla terra», e in un altro luogo: «Terribile come schiera ordinata d’esercito» — la diaconessa ha il ruolo di generale, al quale tutte devono obbedire in tutto. Le altre sei sotto di lei, che chiamiamo ufficiali, hanno la posizione di comandanti o consoli. Invece tutte le altre monache, che chiamiamo claustrali, compiono con zelo il servizio divino come cavalieri, mentre le converse che, rinunciando anch’esse al mondo, si dedicano al servizio delle monache, vestendo una sorta di abito religioso ma non monastico, occupano un grado inferiore come fanti.

[26] Con l’ispirazione di Dio, ora non ci resta che inquadrare ogni grado di questa milizia, affinché contro gli attacchi dei demoni sia veramente, ciò che si dice, «schiera ordinata d’esercito». Cominciando, dunque, questa istruzione da quello che abbiamo detto essere il capo, che chiamiamo diaconessa, diamo prima di tutto direttive a proposito di colei che ogni cosa deve dirigere. Come abbiamo ricordato nella lettera precedente, il santo apostolo Paolo, scrivendo a Timoteo, indica con cura quanto debba essere grande e provata la sua santità; e dice: «Si scelga la vedova che non abbia meno di sessant’anni, che sia stata moglie di un solo marito, che sia conosciuta per le sue buone opere: se ha allevato figli, se ha esercitato l’ospitalità, se ha lavato i piedi dei santi, se ha soccorso gli afflitti, se ha compiuto ogni opera buona. Evita le vedove più giovani, ecc.». E poco prima, dando norme per il comportamento dei diaconi, dice delle diaconesse: «Parimenti le donne siano pudiche, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa».

[27] Nella nostra lettera precedente abbiamo esposto a sufficienza quanta intelligenza e razionalità vi siano in tutte queste prescrizioni e quanto le valutiamo; e in particolare perché l’Apostolo abbia voluto che ella sia stata moglie di un unico uomo e di età avanzata. Perciò ci meravigliamo non poco di come nella Chiesa si sia affermata la consuetudine dannosa di scegliere per questa funzione vergini piuttosto che donne sposate, e di mettere di frequente le più giovani a capo delle più anziane. E questo sebbene l’Ecclesiaste dica: «Guai a te, o terra, il cui re è un fanciullo», e sebbene tutti noi si condivida quanto dice il santo Giobbe: «Nei vecchi sta la sapienza e nella longevità la prudenza». A tal proposito è scritto anche nei Proverbi: «Corona d’onore è la canizie, si trova sulla via della giustizia»; e nell’Ecclesiastico: «Quanto s’addice il giudicare ai capelli bianchi, e dagli anziani avere giusto consiglio! Quanto è bella la sapienza dei vecchi e apportatore di gloria il discernimento e il consiglio. Corona dei vecchi è la grande esperienza, e loro gloria il timore di Dio», e ancora: «Parla, o anziano, infatti a te conviene. Parla, o giovane, delle cose che ti riguardano, ma poco. Se sarai interrogato due volte, la tua risposta sia breve. Tra molti sii come uno che non sa e ascolta tacendo e insieme chiedendo, e in mezzo alle persone importanti non osare di parlare, e, ove ci sono i vecchi, non parlare molto». Perciò anche nella Chiesa quelli che sono posti a capo del popolo si chiamano presbiteri, che significa più vecchi, affinché il nome stesso insegni quali essi debbano essere. E gli autori delle Vite dei santi chiamavano vecchi quelli che noi chiamiamo abati.

[28] Bisogna, dunque, provvedere in ogni modo a che, nell’elezione e consacrazione della diaconessa, prevalga il consiglio dell’Apostolo, che venga, cioè, eletta una persona tale da essere superiore alle altre per condotta di vita e dottrina e che per l’età dia, inoltre, speranza di maturità di costumi e che abbia meritato di comandare obbedendo, e abbia appreso, e saldamente conosca, la Regola più per averla praticata che per averla ascoltata. Se non sa leggere e scrivere, sappia che deve dedicarsi non all’insegnamento della filosofia o alle dispute della dialettica ma a dare ammaestramenti di vita anche solo con l’esempio del suo operare, come è scritto del Signore: «Egli incominciò a fare e ad insegnare» e, cioè, prima a fare e poi ad insegnare, perché l’insegnamento che viene dalle opere è migliore e più perfetto di quello della parola, quello dell’operare di quello del parlare. Prestiamo sempre attenzione a questo fatto, così come sta scritto: «Disse l’abate Ipizio: “Veramente sapiente è colui che insegna agli altri con le sue azioni, non con le parole”». E in ciò egli ci dà non poca consolazione e fiducia. Presti attenzione anche al ragionamento con il quale sant’Antonio confutò i filosofi verbosi, quelli cioè che deridevano il suo magistero dicendo che era quello di un ignorante e di un illetterato: «“Ditemi”, disse, “che cosa viene prima, il significato o le lettere, e quale dei due è l’inizio, il significato nasce dalle lettere o le lettere dal significato?”. Poiché essi risposero che il significato è il creatore e l’inventore delle lettere, egli disse: “E dunque colui che ha integro il significato, non cerca le lettere”». Ascolti anche le parole dell’Apostolo e trovi conforto nel Signore: «Non ha forse Dio resa stolta la sapienza di questo mondo?», e ancora: «Ma Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti; e Dio ha scelto le cose deboli del mondo per confondere i forti; e Dio ha scelto le cose ignobili e disprezzate del mondo per distruggere sia quelle che sono sia quelle che non sono, affinché nessun uomo possa vantarsi al suo cospetto». Infatti, come egli stesso dice più avanti, il regno di Dio non sta nelle parole ma nella virtù. Se, per conoscere meglio alcune cose, ella riterrà di dover ricorrere ai testi scritti, non si vergogni di richiederlo a quelle che sanno leggere e scrivere e di imparare da loro e in ciò non disprezzi le testimonianze della loro cultura, ma le accetti coscienziosamente, poiché anche lo stesso principe degli apostoli accolse coscienziosamente la pubblica correzione di Paolo, suo compagno di apostolato. Come, infatti, dice anche san Benedetto: «Spesso il signore rivela ad uno inferiore la soluzione migliore».

[29] Inoltre, per meglio conformarci alla saggezza divina che anche l’Apostolo ha menzionato sopra, non sia mai eletta una donna di famiglia nobile o potente nel mondo, se non in caso di gravissima e incombente necessità e per una ben fondata ragione. E facile, infatti, che tali donne, a causa dalla loro origine, divengano arroganti, altezzose o presuntuose o superbe, e la loro elezione si rivela perniciosa per il monastero soprattutto quando sono originarie del luogo. C’è, infatti, da temere che la vicinanza della famiglia la renda ancora più presuntuosa e le frequenti visite dei parenti siano gravose per il monastero o generino disturbo, e che, a causa loro, ella tolleri il deterioramento della vita religiosa o finisca per essere disprezzata dalle altre, secondo le parole della Verità: «Un profeta non èprivo d’onore se non nella sua patria». Anche san Gerolamo lo prevedeva quando, scrivendo ad Eliodoro, dopo aver enumerato le molte cose che nuocciono ai monaci che risiedono in patria, dice: «Da questo conto deriva la conclusione che un monaco non può essere perfetto nella sua patria. Ma non voler essere perfetto, è compiere il male».

[30] Ma quale enorme danno viene alle anime se colei che presiede al magistero religioso è di religiosità inferiore? Per le subordinate è, infatti, sufficiente rivelare singole virtù; in lei, invece, devono spiccare gli esempi di tutte le virtù, per mostrare in anticipo nel suo comportamento tutto ciò che impone alle altre, affinché non sia lei stessa a minare con i suoi costumi ciò che ordina, e distrugga ella stessa con le azioni ciò che costruisce con le parole, e sia tolta alla sua bocca la possibilità di pronunciare parole di correzione, perché si vergogna a correggere nelle altre quelle mancanze che palesemente commette lei stessa. Proprio perché ciò non gli avvenga il Salmista prega il Signore dicendo: «Non togliere mai dalla mia bocca la parola di verità». Stava, infatti, considerando con attenzione quel gravissimo rimprovero del Signore di cui, altrove, fa menzione lui stesso dicendo: «E Dio disse al peccatore: “Perché reciti le mie leggi e hai sulle tue labbra il mio patto? Tu hai invece in odio la disciplina e hai gettato dietro le spalle le mie parole”». E l’Apostolo, sforzandosi di evitare questo pericolo, dice: «Punisco il mio corpo e lo tengo sottomesso, affinché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io sia trovato colpevole». Quando uno, infatti, conduce una vita spregevole, alla fine vengono disprezzati anche la sua predicazione e il suo insegnamento. E se qualcuno, che deve curare un altro, soffre lui per primo della stessa infermità, si sentirà rivolgere dal paziente il giusto rimprovero: «Medico, cura te stesso».

[31] Chiunque svolge funzioni di governo nella Chiesa consideri attentamente quale sciagura provocherebbe la sua caduta, poiché egli trascinerebbe insieme con sé nel precipizio anche i subordinati. Dice la Verità: «Chi avrà trasgredito uno solo di questi comandamenti, anche i più piccoli, e così avrà insegnato agli uomini, sarà chiamato il più piccolo nel regno dei cieli». Trasgredisce, infatti, il comandamento colui che lo infrange agendo contro di esso e che, corrompendo con il suo esempio gli altri, siede sulla cattedra come maestro di un morbo contagioso. E se una persona qualsiasi che agisce così deve essere considerato il più piccolo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa presente, come deve essere considerato il prelato pessimo alla cui negligenza il Signore chiede ragione del sangue non solo della sua anima ma di quella di tutti i subordinati? Perciò giustamente la Sapienza rivolge a tali individui queste minacce: «Dal Signore vi è dato il potere e la forza dall’Altissimo, che esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri. Perché voi, che siete ministri del suo regno, non avete governato bene e non avete osservato la legge della giustizia. Egli vi apparirà presto e con terrore perché un giudizio severissimo vi sarà per quelli che governano. Al piccolo è usata misericordia, mentre i potenti patiranno grandi tormenti e per i più forti ci sarà punizione più forte». A ciascuna delle anime dei subordinati basta, infatti, guardarsi dai propri peccati, sui prelati grava invece la minaccia di morte anche per i peccati degli altri. Quando, infatti, si moltiplicano i doni, cresce anche il rendiconto che se ne chiede, e a chi più viene dato più si richiede. Nei Proverbi siamo esortati a guardarci in particolar modo da questo pericolo, quando si dice: «Figlio, se hai garantito per il tuo amico, hai impegnato la tua mano con un estraneo. Ti sei legato con le parole della tua bocca, ti sei lasciato prendere dai tuoi stessi discorsi. Figlio mio, fa’ dunque come dico, e libera te stesso, perché sei caduto nelle mani del tuo prossimo. Va’, affrettati, scuoti il tuo amico; non concedere sonno ai tuoi occhi, né riposino le tue palpebre». Noi garantiamo per un amico quando la nostra carità accoglie qualcuno nella vita della nostra comunità; gli promettiamo di prenderci cura di lui con sollecitudine, così come lui promette di obbedirci. E così impegnamo anche la nostra mano con lui quando, facendoci garanti, promettiamo il nostro sollecito operare per lui. Allora cadiamo nelle sue mani, perché, se non prendiamo precauzioni per noi contro di lui, proveremo che è l’uccisore della nostra anima. Contro questo pericolo viene dato un consiglio, aggiungendo: «Va’, affrettati, ecc.».

[32] Andando, dunque, di qua e di là, come provvido e attivo capitano, la diaconessa perlustri e frughi attentamente il suo accampamento, affinché la negligenza di qualcuno non apra la strada a colui «che si aggira come leone in cerca di chi divorare». Individui per prima tutti i mali della sua casa, per poterli correggere prima che le altre li vengano a conoscere e siano trascinate ad imitarli. Si guardi da ciò che san Gerolamo rimprovera agli stolti e agli incuranti: «Di solito siamo gli ultimi a venire a sapere dei mali di casa nostra, e ignoriamo i vizi dei figli e dei coniugi anche quando sono sulla bocca dei vicini». Stia attenta colei che comanda, perché si è assunta la custodia sia dei corpi che delle anime. A proposito della custodia dei corpi c’è un avvertimento per lei nelle parole dell’Ecclesiastico: «Qui hai tu delle figlie? Custodisci il loro corpo e non mostrare a loro un viso ridente», e ancora: «Una figlia è per il padre un affanno segreto, e la preoccupazione per lei non lo lascia dormire, nel timore che possa essere contaminata». Contaminiamo i nostri corpi non solo quando fornichiamo, ma anche quando compiamo con il corpo qualsiasi cosa indecente, sia con la lingua sia con un altro membro, o abusiamo dei sensi del corpo in qualche membro per cercare cose vane, secondo quanto sta scritto: «La morte entra dalle nostre finestre», cioè il peccato penetra nella nostra anima per mezzo dei cinque sensi.

[33] Ma quale morte è più grave e quale custodia è più rischiosa di quella dell’anima? Dice la Verità: «Non temete coloro che possono uccidere il corpo, ma che nulla possono fare all’anima». Se pure ascolta questo consiglio, chi non temerà la morte del corpo più di quella dell’anima? Chi non si guarderà dalla spada più che dalla menzogna? E tuttavia sta scritto: «La bocca che mente uccide l’anima». Che cosa può essere ucciso così facilmente come l’anima? Quale freccia può essere costruita così rapidamente come il peccato? Chi può guardarsi anche solo dai pensieri? Chi è in grado di prevenire i propri peccati, e tanto meno quelli degli altri? Quale pastore di carne è capace di custodire le pecore spirituali dai lupi spirituali, invisibili le une come gli altri? Chi non ha paura del predatore, che non cessa i suoi attacchi e che non possiamo tenere lontano con nessuna palizzata, né ferire o uccidere con nessuna spada? A stare in guardia contro di lui, che senza tregua tende le sue insidie e perseguita soprattutto i religiosi — secondo la parole di Abacuc: «Il suo cibo è scelto» —, ci esorta l’apostolo Pietro, dicendo: «Il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente, in cerca di chi divorare». E quanto grande sia la sua speranza di divorarci lo rivela il Signore stesso al santo Giobbe: «Inghiottirà un fiume senza stupirsi; ed è tranquillo se anche il Giordano penetri nella sua bocca». Che cosa non oserebbe intraprendere colui che ha cercato di tentare anche il Signore stesso, che dal paradiso ha subito trascinato via in schiavitù i primi progenitori, che ha strappato dalla comunità degli apostoli proprio colui che il Signore aveva scelto come apostolo? Quale luogo è al sicuro da lui, quale fortificazione è a lui impenetrabile? Chi può difendersi dalle sue insidie? Chi può resistere alla sua forza? Egli è colui che, scuotendo con un colpo solo i quattro angoli della casa di Giobbe, sant’uomo, schiacciò ed uccise i figli e le figlie innocenti. Cosa potrà contro di lui il sesso più debole? Chi dovrà temere la sua seduzione più della donna? Infatti per prima ha sedotto una donna e, per mezzo suo, ne ha asservito anche il marito e tutta la discendenza. La brama di un bene maggiore ha privato la donna del possesso di uno minore. Con quest’arte anche oggi sedurrà facilmente la donna, se essa desidererà più governare che giovare, a ciò spinta dal desiderio di ricchezza e onore. Il comportamento successivo mostrerà quale di questi sentimenti nutriva in precedenza. Se la superiora vivrà con più agio dell’inferiore o se essa pretenderà qualcosa esclusivamente per sé, al di là di quanto è necessario, non c’è dubbio che aveva desiderato proprio questo. Se, dopo essere stata eletta, andrà in cerca di ornamenti più preziosi di prima, è certo che il suo animo è gonfio di vano orgoglio. Si rivelerà, dopo, quello che ella era prima, e l’elezione indicherà se, ciò di cui faceva mostra prima, fosse virtù o simulazione.

[34] Sia trascinata alla carica, non si faccia avanti lei, perché il Signore dice: «Tutti quelli che sono venuti sono ladri e assassini», e Gerolamo precisa: «Che sono venuti, non che sono stati inviati». Sia cercata per assumere la carica non se la cerchi; dice l’Apostolo: «Nessuno, infatti, si attribuisce da sé la dignità, ma colui che è chiamato da Dio, come Aronne». Se chiamata a tale onore, pianga come se fosse condotta alla morte; se rifiutata, si rallegri come se fosse stata liberata dalla morte. Arrossiamo di vergogna nel dirci migliori degli altri, ma quando, venendo eletti, sono i fatti stessi a dirlo, vergognosamente non ci vergognamo. Chi, infatti, ignora che i migliori devono essere preferiti agli altri? Perciò nel libro XXIV del Commento morale si dice: «Non deve assumere il governo degli uomini chi gli uomini non sa rimproverare bene con le sue ammonizioni; affinché non avvenga che colui che viene scelto per correggere le colpe degli altri, non commetta egli stesso ciò che dovrebbe eliminare». E se magari, quando veniamo eletti, talora respingiamo questa ignominia, respingiamo la dignità offertaci con deboli parole di rifiuto, solo per le orecchie, certo proferiamo contro di noi quest’accusa per apparire più giusti e più degni. Quante persone abbiamo visto piangere col corpo ma ridere in cuor loro, al momento della loro elezione! Dichiararsi indegne e, con queste parole, cercare piuttosto la benevolenza e il favore degli altri uomini, ben ricordando che sta scritto: «Il giusto è il primo accusatore di se stesso». E, se in seguito è capitato che siano accusati e si sia offerta loro l’occasione di dimettersi, essi si affannano a difendere nel modo più inopportuno e spudorato quella loro carica che, con finte lacrime e vere accuse, avevano fatto mostra di assumere contro voglia. Nelle chiese quanti canonici abbiamo visto resistere ai propri vescovi quando venivano da loro spinti ad assumere gli ordini sacri, e proclamare di essere indegni di ministericosì importanti e di non voler acconsentire in alcun modo, mentre poi, se per caso il clero li ha innalzati all’episcopato, non si è visto opporre che un debole rifiuto o addirittura nessuno! E quelli che ieri fuggivano il diaconato per non mettere a rischio — dicevano — la loro anima, ora, quasi purificati in una sola notte, non temono di precipitare da un grado più alto. Proprio di loro sta scritto nei Proverbi: «Lo stolto batte le mani quando offre garanzia per l’amico», infatti il misero si rallegra di una cosa di cui dovrebbe, piuttosto, piangere quando, assumendo il governo degli altri, con la propria promessa si obbliga a provvedere ai subordinati, dai quali deve essere amato più che temuto.

[35] Al fine di prevenire, per quanto possibile, questa peste, proibiamo assolutamente che la superiora viva più comodamente o con più agi delle subordinate, che abbia stanze private per mangiare e dormire, ma faccia ogni cosa insieme al gregge che le è stato affidato, e provveda a loro tanto più efficacemente quanto più sarà presente in mezzo a loro. Certo sappiamo che san Benedetto, sempre sollecito verso pellegrini ed ospiti, istituì una mensa separata per l’abate e per loro. Sebbene questa fosse in origine una pia norma, in seguito, con un provvedimento assai opportuno per il governo dei monasteri, essa è stata assai modificata, in modo che l’abate non si separi dalla comunità e un fedele dispensiere provveda ai pellegrini. A tavola è, infatti, facile peccare, ed è allora che più bisogna stare attenti alla disciplina. Inoltre molti, con la scusa degli ospiti, più che di questi si preoccupano di trattar bene se stessi e perciò, assenti, suscitano contro di sé i peggiori sospetti e fanno nascere mormorazioni; e tanto minore è l’autorità di un superiore quanto più la sua vita è sconosciuta ai suoi. Inoltre qualsiasi privazione è per tutti più sopportabile quando da tutti è condivisa in egual misura e in particolare dai superiori, come abbiamo imparato anche da Catone; secondo quanto sta scritto, infatti, «mentre il popolo con lui pativa la sete», rifiutò le poche gocce d’acqua offerte a lui e le versò, «e l’acqua bastò per tutti».

[36] Poiché, dunque, la sobrietà è massimamente necessaria ai superiori, essi devono vivere tanto più parcamente in quanto è per mezzo loro che si deve provvedere agli altri. Inoltre per non volgere in superbia il dono di Dio, cioè l’autorità a loro conferita, e per non recare con ciò particolare oltraggio agli inferiori, prestino ascolto a quanto sta scritto: «Non essere nella tua casa come un leone, maltrattando i tuoi servitori e opprimendo chi ti è sottoposto. La superbia è odiosa davanti a Dio e agli uomini. Principio della superbia dell’uomo è negare il Signore, perché il suo cuore si è staccato da colui che lo ha creato, perché principio di ogni peccato è la superbia. Il Signore ha distrutto le sedi dei capi superbi e ha posto i miti a sedere al loro posto. Ti hanno fatto loro capo? Non ti esaltare, ma sta tra di loro come uno di essi». E l’Apostolo, dando istruzioni a Timoteo a proposito dei subordinati, dice: «Non riprendere con asprezza chi è vecchio, ma pregalo come un padre; i giovani come fratelli, le donne anziane come madri, le giovani come sorelle». Il Signore ha detto: «Non siete voi ad aver scelto me, ma io voi, ecc.». Tutti gli altri capi sono eletti dai subordinati, e da loro creati e posti al loro posto perché sono scelti non per il potere ma per il servizio; solo Cristo è veramente Signore e può scegliersi i subordinati perché lo servano. Egli, tuttavia, non si è mostrato signore ma servitore e con il proprio esempio ha fatto vergognare i suoi che già aspiravano all’arce della dignità, dicendo: «I re delle genti le dominano e coloro che hanno il potere su di loro sono chiamati benefattori. Per voi non è così, ecc.». Imita, dunque, i re delle genti chi desidera dominare sui subordinati piuttosto che servirli, e si preoccupa di essere temuto più che di essere amato e, traendo ragione di orgoglio dalla sua autorità di capo, «ama i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe, essere salutato nella pubblica piazza ed essere chiamato rabbi dagli uomini». Condannando l’onore di quest’appellativo, affinché non ci gloriamo dei nomi e in ogni cosa abbiamo cura della nostra umiltà, il Signore dice: «Ma voi non vogliate essere chiamati rabbi. E non chiamate nessuno sulla terra padre vostro»; proibendo, infine, tutte le manifestazioni di orgoglio, dice: «Chi si esalterà, sarà umiliato».

[37] È necessario anche provvedere affinché il gregge non sia messo in pericolo a causa dell’assenza dei pastori e affinché nel monastero la disciplina non si indebolisca perché i superiori se ne vanno in giro fuori. Abbiamo, pertanto, stabilito che la diaconessa si dedichi più alle cose spirituali che alle corporali, e perciò non lasci mai il monastero per occuparsi di faccende esterne e sia tanto più sollecita nei confronti delle subordinate quanto più costante è la sua presenza, e le sue apparizioni siano per gli uomini tanto più degne di venerazione quanto più rare, come sta scritto: «Se ti chiama un potente, allontanati, perciò ti chiamerà con maggiore insistenza». Se poi il monastero ha necessità di inviare una qualche ambasceria, ne siano incaricati i monaci o i loro conversi. Bisogna, infatti, che gli uomini provvedano sempre alle necessità delle donne; e quanto maggiore è la devozione delle donne, tanto più intensamente esse si dedicano a Dio ed hanno maggiore bisogno dell’assistenza degli uomini. Perciò anche Giuseppe è esortato dall’angelo a prendersi cura della madre del Signore, che tuttavia non gli viene consentito di conoscere carnalmente; e il Signore stesso, morendo, fornisce la madre come di un secondo figlio, che provveda alle sue necessità materiali. Non vi è poi dubbio, e l’abbiamo già ricordato altrove a sufficienza, di quante cure dedicassero gli Apostoli alle donne devote, per assistere le quali istituirono anche i sette diaconi. Seguendo il loro esempio autorevole, e poiché lo esigono le necessità della situazione stessa, abbiamo stabilito che i monaci e i loro conversi provvedano ai monasteri delle donne per quanto riguarda le faccende esterne, così come già fecero gli apostoli e i diaconi. In particolare i monaci sono a loro indispensabili per la celebrazione della Messa, e i conversi per i lavori manuali.

[38] È, dunque, necessario che, come leggiamo avvenne ad Alessandria sotto l’evangelista Marco ai primordi della Chiesa nascente, accanto ai monasteri di donne non manchino monasteri di uomini e che tutti gli affari esterni che riguardano le donne siano condotti per mezzo di uomini che seguono lo stesso tipo di vita religiosa. Sono fermamente convinto che i monasteri di donne osservano con maggiore determinazione i doveri connessi al loro stato, se sono retti dalla guida di uomini di alta spiritualità e se la stessa persona è nominata pastore tanto delle pecore che degli arieti, cosicché, cioè, chi è a capo degli uomini lo sia anche delle donne e, secondo il precetto apostolico, sempre «l’uomo sia capo della donna come Cristo dell’uomo e Dio di Cristo». Perciò anche il monastero di santa Scolastica, situato in una proprietà del monastero dei fratelli, era retto dal governo del fratello e riceveva istruzione e conforto spirituale dalle visite frequenti sue e dei fratelli.

[39] Anche un passo della Regola di san Basilio ci istruisce su questa forma di direzione e dice: «Domanda: È opportuno che colui che governa dica qualcosa di edificante alle vergini, salvo a colei che governa? Risposta: E come si rispetterà il precetto dell’Apostolo che dice: “Tutto ciò che vi riguarda si faccia con onestà e con ordine”?». Ancora, al capitolo seguente: «Domanda: È conveniente che colui che governa abbia frequenti colloqui con colei che governa, soprattutto se qualcuno dei fratelli viene da ciò turbato? Risposta: Benché l’Apostolo dica: “Perché la mia libertà deve essere giudicata dalla coscienza altrui?”, è bene imitarlo quando dice: “Perché non ho fatto uso di questo diritto? Per non offendere in qualcosa il Vangelo di Cristo”, e per quanto è possibile, esse devono essere visitate molto raramente e la durata del colloquio deve essere minima». A questo proposito c’è anche la deliberazione del Concilio di Siviglia: «Di comune accordo abbiamo deciso che nella provincia Betica i monasteri di vergini siano retti dall’amministrazione e dal governo dei monaci. Prendiamo, infatti, salutari provvedimenti per le vergini a Cristo votate quando scegliamo per loro anche padri spirituali che non solo possano custodirle con la loro guida ma anche istruirle con il loro insegnamento. È tuttavia necessario prendere precauzioni a proposito dei monaci affinché non abbiano con loro rapporti, né abbiano il permesso di accedere liberamente neppure fino al vestibolo; non sia lecito né all’abate né a chi è da lui incaricato parlare con le vergini di ciò che riguarda l’istruzione morale salvo colei che governa. Ed egli non deve intrattenersi da solo in frequenti colloqui con colei che governa, ma alla presenza di due o tre sorelle, e in modo che le visite siano rare e la conversazione breve. Sia lungi da noi, infatti, volere che i monaci abbiano rapporti di familiarità con le vergini di Cristo, cosa scellerata solo a dirsi, ma, secondo quanto stabiliscono i precetti delle regole e dei canoni, siano ben separati e divisi. Noi vogliamo solo affidare le monache al loro governo in modo che sia scelto un monaco di specchiata virtù che si assuma l’incarico di amministrare le loro proprietà in campagna e in città, di badare agli edifici, e di provvedere a qualsiasi altra cosa sia eventualmente necessaria al monastero, affinché le serve di Cristo, preoccupate solo del bene della loro anima, vivano solo per il culto di Dio e si dedichino alle sue opere. Naturalmente colui che è incaricato dall’abate deve ricevere l’approvazione del suo vescovo. Per parte loro le monache devono confezionare gli abiti per la comunità da cui si aspettano protezione, perché da questa in cambio riceveranno, come si detto, i frutti del lavoro e il sostegno dell’assistenza».

[40] Seguendo, dunque, questa disposizione, noi vogliamo che i monasteri delle donne siano sempre sottoposti ai monasteri degli uomini, così che i fratelli si prendano cura delle sorelle e uno solo sia a capo di entrambi come un padre, alla cui autorità guardino entrambi i monasteri e di entrambi per così dire «si abbia un solo ovile e un solo pastore» nel Signore. Questa società di fraternità spirituale sarà tanto più gradita sia a Dio che agli uomini, quanto più perfettamente essa potrà rispondere alle necessità di entrambi i sessi che si avviano alla vita monastica, così che i monaci accolgano tra di loro gli uomini e le monache le donne, e possa prendersi cura di ogni anima preoccupata della propria salvezza, e chiunque voglia convertirsi con la moglie, la madre, la sorella, la figlia, o qualsiasi altra donna di cui si sia assunta la tutela, in essa possa trovare piena risposta alle proprie necessità, ed entrambi i monasteri siano legati da un tanto maggiore sentimento di carità e siano tanto più solleciti l’uno dell’altro, quanto più le persone che vi vivono sono congiunte da vincoli di parentela o affinità.

[41] Vogliamo, dunque, che il preposito dei monaci, che chiamano abate, governi anche le donne, così da riconoscere in loro, che sono le spose del Signore di cui egli è servo, le proprie signore, e gioisca non a governarle ma a servirle, e sia come l’amministratore di una reggia, che non comanda la signora, ma provvede a lei, obbedendole prontamente per quanto riguarda le cose a lei necessarie, non ascoltandola se chiede cose dannose e amministrando tutto dall’esterno in modo da non penetrare negli appartamenti privati se non quando gli venga ordinato. Noi vogliamo, dunque, che il servo di Cristo provveda in questo modo alle spose di Cristo e al posto di Cristo si prenda cura fedelmente di loro; vogliamo che discuta con la diaconessa di tutto ciò che è necessario e, in merito alle ancelle di Cristo e alle cose che le riguardano, non decida nulla senza averla consultata e nulla ordini ad alcuna di loro o di nulla osi parlare se non per mezzo suo. Ogni volta che la diaconessa lo chiamerà non indugi a recarsi da lei e, per quanto gli è possibile, non sia tardo nel compiere ciò che ella ha deciso relativamente alle necessità sue o di quelle che sono a lei soggette. Se viene chiamato dalla diaconessa, tuttavia, non parli mai con lei se non in pubblico e alla presenza di persone di provato valore, non le si avvicini troppo, né si attardi con lei in lunghe conversazioni.

[42] Tutto ciò che riguarda il vitto, il vestiario e il denaro, se ce ne sarà, verrà raccolto e conservato dalle ancelle di Cristo, e delle cose che a loro resteranno in più verrà trasferito ai fratelli ciò di cui essi hanno bisogno. I fratelli si occuperanno, dunque, di tutte le faccende esterne, mentre le sorelle si limiteranno a quelle attività che sono proprie delle donne e si compiono all’interno del monastero, realizzare, cioè, gli abiti, anche per i fratelli, e lavarli, fare il pane e metterlo a cuocere e ritirarlo quando è cotto. Si occuperanno anche del latte e dei prodotti che ne derivano, di nutrire galline e oche, e di tutte quelle attività che le donne svolgono meglio degli uomini.

[43] Una volta eletto, il preposito giurerà davanti al vescovo e alle sorelle di essere loro fedele amministratore nel Signore e di custodire con sollecitudine i loro corpi contro il contagio della carne. E se, non sia mai, il vescovo lo dovesse scoprire in ciò negligente, lo destituirà immediatamento come colpevole di spergiuro. Anche tutti i fratelli, al momento di pronunciare la loro professione, giureranno alla sorelle di non tollerare mai che esse vengano in alcun modo oppresse e di vegliare sulla purezza dei loro corpi, per quanto capaci. Nessuno, dunque, degli uomini visiterà le sorelle se non con il premesso del preposito, e nulla che sia a loro inviato sarà accettato se non trasmesso dal preposito. Nessuna delle sorelle uscirà mai dalle mura del monastero, ma, come detto, tutte le incombenze esterne saranno svolte dai confratelli, e i forti si affanneranno nelle attività che richiedono forza. Nessun fratello penetrerà mai tra quelle mura senza aver ottenuto il permesso del preposito e della diaconessa, qualora lo richieda una causa necessaria e onesta. Se qualcuno oserà mai infrangere questa proibizione sia immediatamente cacciato dal monastero. Affinché, tuttavia, gli uomini, più forti delle donne, non osino opprimerle in qualcosa stabiliamo che anch’essi non osino fare nulla contro la volontà della diaconessa, ma che essi pure compiano tutto secondo i suoi ordini e tutti ugualmente, sia uomini che donne, facciano a lei la loro professione e promettano obbedienza, affinché tanto più salda regni la pace e meglio sia conservata la concordia quanto minore sarà la facoltà d’agire dei forti; e tanto meno ai forti peserà obbedire alle deboli donne, quanto meno dovranno temere prepotenze da parte loro. E quanto più il forte si umilierà davanti a Dio tanto più sia certo che sarà esaltato. Quanto abbiamo detto della diaconessa può, al momento, bastare; ora volgiamo la penna agli ufficiali.

[44] La sacrista, che è anche la tesoriera, si prenderà cura di tutto l’oratorio, e avrà la custodia di tutte le chiavi relative e di tutto quanto è ad esso necessario; ella raccoglierà le offerte, se ve ne sono, e provvederà a far fare o rifare tutte le cose che servono nell’oratorio e a tutti gli ornamenti. Tocca a lei anche occuparsi delle ostie, dei vasi e dei libri dell’altare e di tutti i suoi paramenti, delle reliquie, dell’incenso, delle luci, degli strumenti per misurare il tempo, e di quelli che vengono suonati per dare il segnale. Se è possibile, le vergini confezionino le ostie e mondino il frumento con il quale vengono fatte e lavino la tovaglia dell’altare. A lei e alle altre vergini, invece, non sarà consentito di toccare né le reliquie né i vasi dell’altare e neppure le palle, se non quando vengono consegnate loro per lavarle. Per far ciò si chiameranno e si aspetteranno i monaci o i loro conversi. Se sarà necessario si dia questo incarico ad alcuni, sotto la sua direzione, che siano degni di toccare questi oggetti quando necessario, e che li prelevino dalle casse, che lei avrà aperto, e ve li ripongano. Colei che è preposta al santuario deve distinguersi per purezza di vita: se possibile, dovrebbe perciò essere integra di mente e di corpo e d’astinenza e continenza provate. Ella deve apprendere in particolare il computo lunare per provvedere all’oratorio secondo il calcolo del tempo.

[45] La cantora si prenderà cura di tutto il coro e regolerà gli uffici divini e sovrintenderà all’insegnamento del canto e della lettura e a tutto ciò che riguarda lo scrivere e il comporre. Avrà anche la custodia dell’armadio dei libri, da dove li tirerà fuori per distribuirli e li ritirerà, e provvederà con cura a farli copiare e comporre in volumi. Ella fisserà l’ordine con cui sedersi nel coro, assegnerà i posti e stabilirà chi deve leggere e cantare, e comporrà la lista che deve essere letta il sabato nel capitolo e che contiene i nomi delle settimanarie. A causa di queste sue funzioni è assolutamente necessario che sappia leggere e scrivere e, in particolare, che conosca la musica. Provvedrà, inoltre, alla disciplina, dopo la diaconessa. Se sarà occupata in altre faccende, le sue veci saranno svolte dall’infermiera.

[46] L’infermiera assisterà le inferme, custodendole dal peccato come dalle necessità materiali. È necessario che alle malate venga concesso tutto ciò che richiede la malattia, per quanto riguarda il cibo, i bagni o qualsiasi altra cosa; a loro riguardo è infatti ben noto il proverbio: «Per gli infermi non esiste legge». A loro non sia mai negata la carne se non il venerdì, nelle vigilie più importanti, e durante il digiuno delle Quattro Tempora e di Quaresima. Ma esse siano soprattutto tenute lontane dal peccato, con tanta più attenzione quanto più devono volgere l’animo al pensiero della morte. Allora bisogna applicarsi in particolar modo al silenzio, quando è più facile allontanarsene, e attendere assiduamente alla preghiera, secondo quanto sta scritto: «Figlio, nella malattia non disprezzare te stesso, ma prega Dio ed egli ti guarirà. Fuggi il peccato, custodisci le tue mani e purifica il tuo cuore da ogni peccato». Inoltre bisogna che un’attenta sorvegliante assista sempre le inferme, per soccorrerle immediatamente quando è necessario, e che l’infermeria sia fornita di quanto serve per curare le malattie. In caso di bisogno, si dovrà anche provvedere ai medica menti, secondo le risorse del luogo, cosa che avverrà più facilmente se colei che si occupa delle malate non sarà priva di nozioni di medicina. Ella dovrà prendersi cura anche di quelle che vanno salassate; è conveniente che vi sia qualcuna che conosce l’arte di praticare i salassi, affinché non sia necessario che un uomo sia introdotto tra le donne per questo intervento. Bisogna anche provvedere perché le inferme non siano private dell’ufficio delle ore e della comunione, in modo che almeno alla domenica sia impartita loro la comunione, dopo che si sono confessate e hanno fatto, per quanto possibile, penitenza. Per quanto riguarda, inoltre, l’unzione degli infermi, ci si attenga scrupolosamente al precetto del santo apostolo Giacomo e per impartirla, in particolare quando si dispera della vita delle inferme, si chiamino due anziani monaci sacerdoti con un diacono; essi portino con loro l’olio santo e celebrino il sacramento alla presenza della comunità delle sorelle, che tuttavia assisteranno al di là di una parete. Ugualmente si deve fare per la comunione, quando necessario. L’infermeria deve essere allestita in modo tale che, per fare queste cose, i monaci possano facilmente entrare e uscire senza vedere la comunità femminile né essere da essa visti.

[47] Almeno una volta al giorno la diaconessa e la celleraria visitino l’inferma, come fosse Cristo, per provvedere con sollecitudine alle sue necessità sia corporali che spirituali e meritare di udire dal Signore queste parole: «Ero malato e mi hai visitato». E se la malata si avvicinerà al trapasso e entrerà in agonia, subito colei che la sta assistendo si recherà dalla comunità e, battendo su una tavoletta, annunzierà l’appressarsi della morte della sorella, e tutta la comunità, qualsiasi ora sia del giorno e della notte, si affretterà a recarsi dalla moribonda, a meno che non sia impedita dalla celebrazione dell’ufficio. Se ciò dovesse accadere, poiché nulla deve essere anteposto al servizio divino, sarà sufficiente che vi si rechi subito la diaconessa con alcune altre da lei scelte, mentre la comunità le seguirà successivamente. Tutte quelle che accorreranno al suono della tavoletta inizino subito a recitare la litania fino alla fine dell’invocazione dei santi e delle sante; seguiranno poi i salmi e le altre preghiere previste dalle esequie. Considerando con attenzione quanto sia salutare visitare gli infermi e i morti, l’Ecclesiaste dice: «È meglio andare in una casa di duolo che in una casa di convito, poiché in quella viene ricordata la fine di tutti gli uomini e colui che vive pone mente a ciò che diverrà», e ancora: «Il cuore dei sapienti è ove c’è tristezza e il cuore degli stolti ove c’è gioia». Il corpo della defunta sia subito lavato dalle sorelle e, dopo averlo rivestito di una camicia povera ma pulita e delle scarpe, sia posto sul feretro con il capo avvolto nel velo. Questi indumenti siano solidamente cuciti o legati al corpo, perché non abbiano a spostarsi. Il corpo sia portato in chiesa dalle sorelle e i monaci lo seppelliscano quando sarà opportuno, mentre le sorelle resteranno nell’oratorio a recitare con devozione i salmi e le orazioni. Rispetto alla sepoltura delle altre la diaconessa abbia in più solo questa onoranza, che il suo corpo sia interamente avvolto solo nel cilicio, e vi sia cucita tutta come in un sacco.

[48] La guardarobiera provvederà a tutto ciò che riguarda la cura degli indumenti, sia le calzature che tutto il resto. Ella farà tosare le pecore e riceverà le pelli per le calzature. Coltiverà e raccoglierà il lino e la lana, e si occuperà della preparazione della tela. Fornirà a tutte filo, ago e forbici. Sovrintenderà al dormitorio e avrà cura di tutti i letti. Si occuperà, inoltre, di tagliare, cucire e lavare le tovaglie della mensa, i tovaglioli e tutti i panni. A lei in particolare si riferiscono le parole: «Si è procurata la lana e il lino e ha lavorato con l’abilità delle sue mani. Ha messo mano alla rocca e le sue dita maneggiano il fuso. Per la sua casa non temerà il freddo della neve. Tutta la sua famiglia, infatti, ha vesti doppie ed ella riderà nell’ultimo giorno. Ha sorvegliato l’andamento della sua casa e non ha mangiato il pane da oziosa. I suoi figlioli si sono alzati e l’hanno proclamata beata». Ella custodirà gli strumenti necessari a tutte le sue attività e di esse stabilirà quali deve affidare alle sorelle e a chi tra di loro. Si prenderà cura, infatti, anche delle novizie fino a quando non saranno accolte nella comunità.

[49] La celleraria provvederà a tutto ciò che riguarda il cibo, alla cantina, al refettorio, alle cucine, al mulino, al panificio con il forno, agli orti e ai giardini, e a tutta la coltivazione dei campi; si occuperà, inoltre, delle api, di tutto il bestiame grande e piccolo e del pollame necessario. A lei verrà richiesto tutto quanto serve per il cibo. Ella non deve essere assolutamente avara, ma pronta a dare tutto il necessario senza essere sollecitata: «Dio ama chi dà con gioia». Nello svolgere il suo compito di amministrazione le proibiamo rigorosamente di mostrarsi più generosa con se stessa che con le altre, preparandosi cibi personali, o riservando a sé ciò di cui ha privato le altre. Gerolamo dice: «L’amministratore ottimo è quello che nulla riserva a se stesso»; e Giuda abusò del suo ufficio di amministratore, quando teneva la borsa, e fu escluso dalla comunità degli apostoli. Anche Anania e sua moglie Saffira trattennero i loro beni e furono condannati a morte.

[50] Alla portinaia, o ostiaria, che è la stessa cosa, spetta il compito di accogliere gli ospiti o chiunque arrivi, di annunziarli e condurli ove necessario, e di provvedere all’ospitalità. Per età e intelligenza ella deve possedere capacità di discernimento, in modo da sapere ricevere e dare risposte, giudicare quali persone devono essere accolte, e come, e quali no. È necessario che la santità del monastero si manifesti degnamente in particolar modo in lei, come se fosse vestibolo del Signore, poiché da lei si comincia a conoscere il monastero. Sia, dunque, gentile nel parlare e cortese nel rivolgere la parola agli altri, per sforzarsi di far crescere la carità anche in coloro che non ha fatto entrare, avendone dato una motivazione adeguata. A tal proposito sta scritto infatti: «Una risposta gentile calma la collera; una parole dura eccita l’ira»; e altrove: «Una parola dolce moltiplica gli amici, e placa i nemici». Inoltre, se ci saranno cibi o abiti da distribuire ai poveri, lo farà lei, perché li vede più spesso e li conosce meglio. Nel caso che lei, o le altre incaricate di uffici, abbiano bisogno di sostegno o aiuto, la diaconessa attribuirà loro delle aiutanti, che bisogna trarre preferibilmente dal numero delle converse, affinché nessuna delle monache debba mai assentarsi dagli uffici divini, dal capitolo o dal refettorio.

[51] Abbia presso la porta una casetta nella quale stiano lei e la sua sostituta, sempre pronte a ricevere i visitatori; non vi restino tuttavia in ozio e tanto più si applichino al silenzio, quanto più facilmente le loro chiacchiere possono essere udite anche da coloro che stanno fuori. Non vi è dubbio che a lei spetta non solo impedire l’accesso alle persone dovute, ma anche tenere assolutamente lontane le chiacchiere, affinché non siano imprudentemente riportate entro la comunità; e a lei si deve chieder conto di qualsiasi infrazione in proposito. Se invece udrà qualcosa che è necessario sapere, lo riferirà riservatamente alla diaconessa, affinché questa prenda al proposito la decisione che preferisce. Non appena qualcuno batterà o chiamerà alla porta, la monaca presente chieda ai visitatori chi sono e cosa vogliono e, se è il caso, apra subito per accoglierli. Sarà lecito ospitare all’interno solo le donne, mentre agli uomini si dirà di rivolgersi ai monaci. Per nessuna ragione, dunque, sarà ammesso all’interno un uomo senza prima aver consultato la diaconessa e aver ricevuto da lei l’autorizzazione. Le donne, invece, potranno entrare subito. La portiera farà sostare nella sua celletta le donne accolte, o gli uomini che per qualsiasi ragione siano entrati, fino a quando verrà loro incontro la diaconessa o le sorelle, se è necessario e opportuno. La diaconessa in persona e le sorelle compiranno verso i poveri che ne hanno bisogno il gesto di ospitalità di lavare loro i piedi. Infatti proprio per aver offerto agli apostoli questo atto di umanità il Signore è detto diacono, come si ricorda anche nelle Vite dei Padri, ove uno di loro dice: «A causa tua, o uomo, il Salvatore si è fatto diacono e, cingendosi di un panno, lava i piedi dei discepoli e ordina loro di lavare i piedi ai confratelli». Perciò l’Apostolo dice della diaconessa: «Se ha esercitato l’ospitalità, se ha lavato i piedi dei santi». E il Signore stesso dice: «Ero forestiero e mi accoglieste». Tutti gli incarichi, salvo la cantora, vengano attribuiti alle sorelle che non sanno leggere e scrivere, se sarà possibile trovarne, affinché quelle adatte possano dedicarsi interamente allo studio.

[52] Gli ornamenti dell’oratorio si limitino a ciò che è necessario, evitando il superfluo, e siano puliti più che preziosi. Non vi sia, dunque, nulla d’oro e d’argento, salvo un calice d’argento, o più d’uno, se necessario. Non vi siano ornamenti di seta salvo le stole e i manipoli. Non vi siano immagini scolpite; ci sia soltanto una croce di legno per l’altare, sulla quale non è proibito dipingere l’immagine del Salvatore, se si vuole. Gli altari non vedano, invece, nessun’altra immagine. Il monastero si limiti ad avere due campane. Fuori della porta dell’oratorio ci sia una vaso per l’acqua benedetta, per farsi con essa il segno della croce entrando al mattino e uscendo dopo compieta.

[53] Nessuna monaca dovrà mancare alla celebrazione delle ore canoniche ma, appena suonato il segnale, tutte le altre attività si interrompano e ci si affretti all’ufficio divino, incedendo tuttavia con modestia. Entrando nell’oratorio, quelle che ne sono capaci recitino: «Entrerò nella tua casa, adorerò il tuo tempio santo, ecc.». Nel coro nessuna abbia libri diversi da quelli richiesti dall’ufficio del momento. I salmi siano recitati in maniera precisa e chiaramente comprensibile e la salmodia e il canto siano tali che possano essere eseguiti anche dalle monache che hanno voce debole. In chiesa non si legga né si canti nulla che non sia tratto da scritti autentici, e soprattutto dal Nuovo e dal Vecchio Testamento. Questi ultimi siano distribuiti in letture in modo tale da essere letti in chiesa integralmente durante l’anno. Invece i commenti ai Testamenti o i sermoni dei dottori o qualsiasi altro scritto di contenuto edificante siano letti a mensa o nel capitolo, e di tutti sia concessa la lettura, ovunque sia necessario. Ma nessuna osi leggere o cantare qualcosa che non ha esaminato in precedenza. Se qualcuna nell’oratorio pronuncerà qualcosa in modo sbagliato, ne faccia lì penitenza supplicando davanti a tutti e dicendo dentro di sé: «Anche questa volta, o Signore, perdona la mia negligenza».

[54] Secondo l’insegnamento del Profeta, a metà della notte bisogna levarsi per le veglie notturne; per questa ragione bisogna coricarsi per tempo in modo che la debole natura possa sopportare la veglia e tutto ciò che deve essere fatto di giorno possa essere compiuto con la luce, come stabilito anche da san Benedetto. Dopo le veglie si torni nel dormitorio fino a quando verrà suonata l’ora delle laudi del mattino; se è ancora notte alla natura debole non venga negato il sonno, perché è soprattutto il sonno che ristora la natura stanca e la rende capace di sopportare la fatica e la conserva sobria e attiva. Se, tuttavia, qualcuna ha bisogno di meditare sul Salterio o su qualche lettura, come prescrive anche san Benedetto, vi si deve dedicare in modo da non disturbare quelle che dormono. Egli, infatti, parla a questo proposito di meditazione piuttosto che di lettura, affinché la lettura di alcuni non impedisca il sonno degli altri; e quando dice: «Dai fratelli che hanno qualche lacuna», evidentemente non impone l’obbligo di questa meditazione. Se, tuttavia, fosse talora necessario anche insegnare il canto, si provveda nello stesso modo a quelli che ne hanno necessità.

[55] L’ora del mattutino sia celebrata appena compare la luce e, se è possibile, essa sia suonata al sorgere di lucifero. Una volta terminata si ritorni nel dormitorio. Se è estate, poiché allora la notte è breve e lungo il mattino, non proibiamo di dormire un poco prima di prima, fino a quando le monache non siano svegliate dal suono del segnale. Nel secondo capitolo dei Dialoghi san Gregorio, parlando del venerabile Libertino, ricorda proprio questo momento di sonno dopo le laudi del mattino, e dice: «Ma quel giorno si era stabilito di trattare un altro affare a vantaggio del monastero. Terminati, dunque, gli inni mattutini Libertino si recò al letto dell’abate, e gli chiese umilmente di pregare per lui, ecc.». Questo sonno del mattino non sia, dunque, negato da Pasqua all’equinozio d’autunno, a partire dal quale la notte incomincia ad essere più lunga del giorno.

[56] Uscite dal dormitorio si lavino, prendano i libri e siedano nel chiostro a leggere e a cantare fino a quando viene suonata prima. Dopo prima si vada nel capitolo, e quando tutte si saranno sedute si legga una lettura del Martirologio, dopo aver indicato il giorno della luna. Vi si pronunci poi qualche discorso di edificazione o si legga qualcosa della Regola e lo si commenti. Poi, se c’è qualcosa da correggere o da amministrare, ci si dedichi ad essa.

[57] Bisogna, dunque, sapere che un monastero o una casa non devono essere definiti disordinati se vi avvengono cose contrarie all’ordine, ma se esse, una volta compiute, non vengono corrette con sollecitudine. Quale luogo è infatti completamente esente da peccato? Considerando con attenzione questo fatto, sant’Agostino così dice ad un certo punto istruendo il suo clero: «Per quanto, infatti, sia vigile la disciplina nella mia casa, sono un uomo e vivo tra gli uomini. Né oso pretendere che la mia casa sia migliore dell’arca di Noè, ove di otto uomini uno fu trovato colpevole; o della casa di Abramo, ove è detto: “Caccia via la serva e il suo figliolo”; o della casa di Isacco, dei cui due gemelli è detto “ho amato Giacobbe e odiato Esaù”; o migliore della casa di Giacobbe ove il figlio profanò il letto del padre; o meglio della casa di Davide, un figlio del quale giacque con la sorellamentre l’altro si ribellò contro il padre così santo e mansueto; o migliore della compagnia con cui viveva l’apostolo Paolo che, se avesse abitato tra tutti uomini buoni, non avrebbe detto: “Lotte al di fuori, timori al di dentro”, né avrebbe esclamato: “Non c’è nessuno che si prenda fraternamente cura di voi. Tutti pensano ai loro interessi, ecc.”; o migliore della compagnia con cui viveva lo stesso Cristo, nella quale gli undici buoni dovettero sopportare Giuda perfido e ladro; o meglio, infine, del cielo da dove caddero gli angeli». Egli, esortando anche noi in sommo grado a mantenere la disciplina nel monastero, aggiunse: «Confesso davanti a Dio che, da quando ho cominciato a servire Dio, difficilmente ho trovato uomini migliori di quelli che hanno fatto progressi nei monasteri; ma ugualmente non ne ho trovati di peggiori di quelli che nei monasteri si sono persi». Per questo, credo, sta scritto nell’Apocalisse: «Il giusto divenga più giusto, l’immondo seguiti ad essere immondo».

[58] La severità della correzione sia, dunque, tale che qualunque monaca, che veda in un’altra qualcosa da correggere e lo tenga celato, sia sottoposta a punizione maggiore di colei che ha commesso la mancanza. Nessuna, pertanto, ritardi a denunciare la colpa sua o di un’altra e chiunque, accusandosi, prevenga le altre, così come sta scritto: «Il giusto è il primo accusatore di se stesso», meriti una punizione più mite, se ha cessato di agire male. Nessuna osi giustificare un’altra, a meno che la diaconessa non la interroghi per apprendere la verità sconosciuta alle altre. Qualsiasi sia la sua colpa, nessuna osi mai percuotere un’altra, tranne colei alla quale ciò sia comandato dalla diaconessa. A proposito della disciplina della correzione sta scritto: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore; e non abbatterti quando ti castiga, perché il Signore ammonisce chi ama, e si compiace di lui come un padre col figlio», e ancora: «Chi risparmia la verga, odia il proprio figlio; chi invece lo ama è pronto a correggerlo. Percuoti il malsano e lo stolto diventerà più saggio. Se il beffardo viene punito, il giovane diventa più saggio. La frusta per il cavallo, la cavezza per l’asino, e la verga per la schiena degli stolti. Chi ammonisce un uomo, poi troverà in lui più favore di chi inganna con l’adulazione della lingua. Qualunque correzione nel momento presente non sembra causa di gioia ma di dolore, ma poi produce in coloro che sono stati così formati frutti di pace e giustizia. In un figlio maleducato sta la vergogna del padre, e una figlia fatua sarà per lui una perdita. Chi ama suo figlio gli farà spesso sentire la sferza, perché infine possa rallegrarsi. Chi educa suo figlio, troverà lode in lui e gloria in lui tra gli amici. Un cavallo non domato diventa intrattabile e un figlio abbandonato a se stesso diviene temerario. Coccola tuo figlio e ti riempirà di paura. Gioca con lui e ti farà piangere».

[59] Quando si discute in consiglio a chiunque sarà lecito esporre il proprio parere ma, qualsiasi cosa appaia opportuna alle altre, si osservi immutabilmente la decisione della diaconessa, dal cui giudizio tutto dipende, anche se — non sia mai — ella dovesse sbagliare e prendere la decisione peggiore. A tal proposito afferma sant’Agostino nel libro delle Confessioni: «Pecca gravemente chi non obbedisce ai suoi superiori in qualcosa, anche se ciò che sceglie di fare è meglio di quanto gli è stato comandato». Per noi è, infatti, molto meglio agire bene piuttosto che fare il bene, e non deve essere pesato tanto ciò che viene fatto, ma piuttosto come viene fatto e con che animo. Ma è ben fatta qualsiasi cosa è fatta per obbedienza, anche se ciò che è fatto non sembra per nulla buono. Pertanto bisogna obbedire ai superiori in tutto, per quanto grande sia il danno materiale che ne può venire, se l’anima non sembra correre alcun pericolo. Il superiore provveda a ordinare bene, perché ai subordinati è sufficiente obbedire bene e non seguire la propria volontà ma quella dei superiori, come hanno promesso.

[60] Proibiamo assolutamente che la consuetudine sia mai anteposta alla ragione, e che mai si difenda una cosa perché è la consuetudine, ma perché è la ragione, non perché si usa ma perché è bene, e tanto più volentieri sia accolta quanto migliore apparirà, altrimenti, imitando i Giudei, anteporremmo l’antichità della legge al Vangelo. A tal proposito sant’Agostino, riportando molte testimonianze dal Concilio di Cipriano, dice in un passo: «Colui che, disprezzata la verità, osa seguire la consuetudine, o è mal disposto e malevolo nei confronti dei fratelli, ai quali si rivela la verità, o è ingrato verso Dio, dall’ispirazione del quale la sua Chiesa riceve insegnamento»; e ancora: «Nel Vangelo il Signore dice: “Io sono la Verità”, non ha detto: “Io sono la consuetudine”. Pertanto una volta rivelata la verità, la consuetudine ceda alla verità»; e ancora: «Una volta rivelata la verità, l’errore ceda il passo alla verità perché anche Pietro che prima circoncideva cedette a Paolo che predicava la verità». E ancora nel libro IV del trattato Sul battesimo: «È inutile che coloro che sono vinti dalla ragione ci oppongano la consuetudine, quasi che la consuetudine sia più grande della verità, o non debba essere seguito nella cose spirituali ciò che per il meglio fu rivelato dallo Spirito Santo. Questo è senza dubbio vero, che la ragione e la verità devono essere anteposte alla consuetudine». E Gregorio VII al vescovo Wimundo: «E certo, per usare le parole di san Cipriano, qualsiasi consuetudine, per quanto antica, per quanto diffusa, deve essere assolutamente posta dopo la verità, e l’uso che è contrario alla verità deve essere cancellato».

[61] Con quanto amore deve essere abbracciata la verità anche nelle parole, ci viene insegnato nell’Ecclesiastico, quando è detto: «Per la tua anima non esitare a dire la verità», e ancora: «Non contraddire in alcun modo la parola di verità», e ancora: «La parola della verità preceda tutte le tue opere e una ferma decisione ogni tuo atto». E nulla sia considerato autorevole perché è fatto da molti, ma perché è approvato dai sapienti e dai buoni. Dice Salomone: «Infinito è il numero degli stolti» e secondo l’affermazione della Verità: «Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti». Tutto ciò che è prezioso è raro, e ciò che è abbondante per numero perde di valore. Perciò nel consiglio nessuno segua la parte più numerosa degli uomini ma la migliore; e non si consideri l’età dell’uomo ma la sua saggezza, né si badi all’amicizia ma alla verità. Donde anche l’affermazione del poeta: «È lecito imparare anche dal nemico». Ogni volta che ci sia bisogno del consiglio non si perda tempo e, se bisogna decidere di cose importanti, si convochi la comunità. Se bisogna, invece, discutere di cose meno importanti, è sufficiente la diaconessa e le poche monache da lei convocate, scelte tra le anziane. Del consiglio sta scritto anche: «Dove non c’è chi governa, il popolo decade, e la salvezza regna dove ci sono molti consiglieri. La via dello stolto è retta ai suoi occhi; il savio, invece, ascolta i consigli. Figlio mio, non fare nulla senza consigliarti, e se farai così non te ne pentirai». Se per caso, senza essersi consigliati, qualcosa riesce bene, il dono della fortuna non giustifica la presunzione dell’uomo. Se invece talora si sbaglia dopo aver chiesto consiglio, l’autorità che ha chiesto consiglio non è considerata rea di presunzione e non deve essere ritenuto colpevole tanto chi ha avuto fiducia quanto quelli a cui ha creduto, sbagliando.

[62] Uscite dal capitolo, le monache si dedichino alle attività necessarie, alla lettura, cioè, o al canto, o al lavoro manuale, fino all’ora terza. Dopo l’ora terza sia detta la messa, per celebrare la quale sia scelto ogni settimana un sacerdote tra i monaci. È opportuno che venga con un diacono e un suddiacono, naturalmente se ce ne sono, che lo servano in quanto è necessario e svolgano i compiti loro propri. Essi entrino ed escano dal monastero in modo tale da non essere assolutamente visti dalla comunità delle sorelle. Se ne serviranno di più, si dovrà provvedere e, se sarà possibile, sempre in modo tale che, a causa delle messe per le monache, i monaci non manchino mai alla celebrazione degli uffici divini della loro comunità.

[63] Se si dovrà impartire la comunione alle sorelle, si scelga un sacerdote anziano, che somministri loro la comunione dopo la messa, una volta usciti il diacono e il suddiaco, per eliminare così ogni occasione di tentazione. L’intera comunità si comunichi almeno tre volte l’anno, cioè a Pasqua, a Pentecoste e a Natale, come stabilito dai Padri anche per le persone che vivono nel secolo. Si preparino a queste comunioni così: tre giorni prima si accostino tutte alla confessione e facciano la dovuta penitenza e si purifichino con un digiuno di tre giorni a pane ed acqua e pregando spesso con tutta l’umiltà e il tremore, meditando in cuor loro la terribile affermazione dell’Apostolo, che dice: «Pertanto chiunque mangerà questo pane e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. L’uomo, dunque, esamini se stesso, e così mangi di quel pane e beva del calice; chi, infatti, mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, perché non sa riconoscere il corpo del Signore. È per questo che tra di voi molti sono deboli e ammalati e molti muoiono, perché, se giudicassimo noi stessi, non saremmo giudicati».

[64] Anche dopo la messa ritornino alle loro attività fino a sesta, e mai vivano in ozio, ma ognuna compia ciò che può e ciò che è necessario. Dopo sesta si pranzi, a meno che non sia giorno di digiuno. In questo caso, infatti, bisogna aspettare nona e, durante la Quaresima, anche i vespri. In nessun momento alla comunità manchino le letture, e quando la diaconessa vuole por fine ad esse dica: «Basta», e immediatamente tutte si alzino in piedi per rendere grazie a Dio. Durante l’estate, dopo pranzo si riposi in dormitorio fino a nona, e dopo nona si ritorni alle occupazioni fino ai vespri. Subito dopo i vespri si deve cenare o bere qualcosa; poi, a seconda del tempo, si vada alla lettura serale. Il sabato invece prima della lettura serale si faccia pulizia, lavandosi i piedi e le mani, e al servizio provveda la diaconessa con le settimanarie impegnate in cucina. Subito dopo la lettura serale ci si rechi a compieta, e immediatamente dopo a dormire.

[65] A proposito del vitto e degli abiti ci si attenga all’affermazione dell’Apostolo che dice: «Quando abbiamo dunque il nutrimento e di che vestirci, di questo contentiamoci», così che sia sufficiente ciò che è necessario e non si cerchi il superfluo. Si conceda ciò che può essere comprato a minor prezzo o che è più facile procurarsi e può essere preso senza dare scandalo. L’Apostolo, infatti, nei cibi evita solo ciò che può dare scandalo alla sua coscienza o a quella degli altri, perché il vizio non consiste nel cibo ma nel desiderio. Dice: «Colui che mangia non disprezzi colui che non mangia, e colui che non mangia non giudichi colui che mangia. Chi sei tu che ti permetti di giudicare il servo altrui? Chi mangia, mangia per il Signore e, infatti, rende grazie a Dio; e chi non mangia, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio. Dunque, non giudichiamoci più a vicenda, ma pensate piuttosto a non creare offesa o scandalo al fratello. Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che niente è comune in sé, se non per chi ritiene che sia comune. Il regno di Dio non è mangiare e bere, ma giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo. Certo, tutte le cose sono pure, ma divengono un male per l’uomo che le mangia per offendere. È bene non mangiare carne e non bere vino, né fare altra cosa in cui tuo fratello sia offeso o scandalizzato». Egli, dopo lo scandalo procurato al fratello, parla ancora dello scandalo procurato a se stesso da colui che mangia contro la propria coscienza, e dice: «Beato colui che non condanna se stesso in ciò che approva. Ma colui che distingue, se mangia, è condannato, perché non agisce secondo la sua convinzione. Tutto quello che non deriva dalla convinzione è peccato».

[66] Infatti noi pecchiamo in tutto ciò che facciamo contro la nostra coscienza e contro quello in cui crediamo. E giudichiamo e condanniamo noi stessi in ciò che approviamo, per mezzo, cioè, della legge che approviamo e accettiamo, evidentemente se mangiamo quei cibi che abbiamo distinto, quei cibi, cioè, che, secondo la legge, escludiamo e separiamo in quanto impuri. Infatti la testimonianza della nostra coscienza è così importante che è soprattutto essa ad accusarci o giustificarci presso Dio. Perciò anche Giovanni dice nella sua prima lettera: «Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera, abbiamo fiducia davanti a Dio. E qualsiasi cosa domanderemo, la riceveremo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che è gradito davanti a lui». Dice, dunque, bene Paolo poco sopra: «Niente è comune per Cristo, se non per chi ritiene che qualcosa sia comune», cioè immondo e proibito se così lo ritiene per sé. Chiamiamo, infatti, comuni i cibi che sono detti immondi secondo la legge, perché la legge, separandoli dai suoi, per così dire li mette a disposizione di coloro che sono fuori della legge e li rende di uso pubblico. Perciò anche le donne comuni sono immonde e tutte le cose comuni e usuali sono vili e meno pregiate. E, dunque, Paolo sostiene che nessun cibo è per Cristo comune, cioè immondo, perché la legge di Cristo non ne proibisce nessuno, se non, come detto, per non dare scandalo alla propria o all’altrui coscienza. A questo proposito dice anche in un altro passo: «Perciò se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò carne in eterno, per non scandalizzare mio fratello. Non sono io libero? Non sono io apostolo? ecc.». Come se dicesse: forse che non ho la libertà, che il Signore diede agli apostoli, di mangiare, cioè, qualsiasi cosa e qualsiasi cosa accettare delle offerte altrui? Infatti, quando inviò gli apostoli a predicare, disse in un certo passo: «Mangiando e bevendo quello che c’è presso di loro», evidentemente senza distinguere nessun cibo dagli altri. Considerando attentamente questo fatto l’Apostolo dice ancora esplicitamente che ai Cristiani è lecito ogni genere di cibo, anche se degli infedeli e offerto in onore degli idoli, purché nel mangiarlo non si dia scandalo; e dice: «Tutto è lecito, ma non tutto è conveniente. Tutto mi è lecito, ma non tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello altrui. Mangiate tutto ciò che viene macellato, senza stare ad investigare a motivo della coscienza. Del Signore è la terra e tutto quello che essa contiene. Se qualche infedele vi invita a cena e volete andarci, mangiate tutto ciò che vi verrà messo davanti, senza stare ad investigare a motivo della coscienza. Ma se qualcuno vi dirà: “Questo è stato offerto agli idoli”, non mangiate, a causa di colui che vi ha avvertito e per la coscienza. Ma della coscienza di quell’altro, intendo dire, non della tua. Non offendete i Giudei e i Gentili e la Chiesa di Dio». Da queste parole dell’Apostolo si deduce chiaramente che nulla ci viene proibito di ciò che possiamo mangiare senza offendere la nostra e l’altrui coscienza. Agiamo senza offendere la nostra coscienza se siamo convinti di mantenerci fedeli alla condotta di vita grazie alla quale possiamo salvarci; mentre agiamo senza offendere l’altrui coscienza se siamo ritenuti vivere nel modo che ci porterà alla salvezza. Vivremo in questo modo se, dopo aver concesso alla natura tutto ciò che è necessario, eviteremo il peccato, e se, senza sopravvalutare la nostra forza, non ci obbligheremo con la nostra promessa al giogo di una vita sotto il cui peso soccombiamo, con una caduta tanto più rovinosa quanto più elevato era stato il livello della promessa.

[67] Prevedendo questa caduta e il voto di una stolta promessa, l’Ecclesiaste dice: «Se hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo. Egli, infatti, non ama le promesse stolte e non mantenute. Ma quello che hai promesso adempilo. È meglio non fare voti che farli e poi non mantenerli». Anche nell’intento di far fronte a questo pericolo l’Apostolo dà questa disposizione: «Voglio che le giovani si sposino, abbiano dei figli, siano madri di famiglia, non diano alcuna occasione all’Avversario. Già alcune hanno deviato per andare dietro a Satana». Considerando la natura debole per l’età, egli oppone il rimedio di una vita più facile al pericolo insito in una migliore, e consiglia di rimanere in basso per non correre il rischio di rovinare dall’alto. Seguendo l’Apostolo anche san Gerolamo, nell’istruire la vergine Eustochio, dice: «Ma, se per altre colpe anche le vergini non sono assolte, che cosa avverrà di quelle che hanno prostituito le membra di Cristo e hanno fatto un lupanare del tempio dello Spirito Santo? Sarebbe stato meglio aver sopportato il matrimonio con un uomo e aver camminato in pianura, piuttosto che precipitare nel profondo dell’inferno nel tentativo di raggiungere le vette». Se poi scorriamo tutte le affermazioni dell’Apostolo, troveremo che egli ha concesso solo alle donne di sposarsi una seconda volta, mentre ha esortato con forza gli uomini alla continenza, e ha detto: «Uno circonciso fu chiamato? Non cerchi di rifarsi il prepuzio»; e ancora: «Sei libero da moglie? Non cercar moglie», sebbene, tuttavia, Mosè, manifestando maggiore indulgenza per gli uomini che per le donne, conceda a un uomo di avere più donne contemporaneamente, non ad una donna più uomini, e punisca gli adultèri delle donne più severamente di quelli degli uomini. Dice l’Apostolo: «Una donna, se morirà suo marito, è sciolta dalla legge del marito, affinché non divenga adultera se sarà stata con un altro uomo», e in un altro passo: «Ma dico ai non sposati e alle vedove: è bene per loro se rimangono come son io. Ma se poi non si sentono di vivere continenti, si sposino. È meglio, infatti, sposarsi che ardere», e ancora: «Una donna, se il marito muore, è libera. Sposi chi vuole, purché lo faccia nel Signore. Ma, secondo il mio consiglio, sarà più felice se rimarrà com’è». Egli non solo concede al sesso debole di risposarsi, ma non osa nemmeno limitare di numero dei matrimoni e, quando muoiono i mariti, permette loro di sposare altri uomini, senza fissare il numero dei matrimoni, purché sfuggano il crimine della fornicazione. Si sposino pure più volte, piuttosto che fornicare anche una sola volta, e paghino il debito del commercio carnale a molti per non prostituirsi ad uno. Certo il pagamento di questo debito non è totalmente immune da peccato, ma si deve mostrare indulgenza verso i peccati minori per evitare i maggiori. Che c’è allora di strano se, per non incorrere nel peccato, si concede ciò in cui non c’è assolutamente peccato, e cioè qualsiasi alimento necessario, non i superflui? Come si è detto, infatti, il vizio non consiste nel cibo ma nel desiderio, quando cioè piace ciò che non è lecito e si brama ciò che è proibito, e talora si assume spudoratamente ciò da cui nasce enorme scandalo.

[68] Tra tutti gli alimenti degli uomini quale è altrettanto pericoloso e dannoso del vino e più contrario alla nostra condizione religiosa e alla santa quiete? Ciò considerando con attenzione, il più grande dei sapienti ci esorta a stare lontani specialmente dal vino dicendo: «Il vino è cosa che genera lussuria e l’ebrietà le risse. Chiunque in essi troverà piacere non sarà saggio. Per chi i guai? Per il padre di chi i guai? Per chi i litigi? Per chi le trappole? Per chi le percosse senza motivo? Per chi gli occhi arrossati? Non per coloro che si perdono nel vino e si affannano a vuotare bicchieri? Non guardare il vino quando rosseggia, quando il suo colore risplende nella coppa. Scende dolcemente ma alla fine morderà come un serpente e spanderà veleno come un basilisco. Allora i tuoi occhi vedranno cose strane e il tuo cuore dirà cose perverse. E sarai come chi dorme in alto mare e come il nocchiero che si è assopito e che ha perduto il timone, e dirai: “Mi hanno bastonato ma non sento male, mi hanno trascinato, ma non me ne sono accorto. Quando mi sveglierò e troverò ancora vino?”». E ancora: «Ai re, o Lamuel, ai re non dare vino, perché non c’è nessun segreto dove regna l’ubriachezza; affinché magari non bevano e dimentichino i loro decreti e tradiscano la causa dei figli del povero». E sta scritto nell’Ecclesiastico: «L’operaio ubriacone non si arricchirà, e chi trascura le piccole cose, a poco a poco cadrà. Il vino e le donne fanno traviare i sapienti e rendono colpevoli i saggi».

[69] Anche Isaia, tralasciando tutti gli altri alimenti, menziona solo il vino come causa della cattività del popolo d’Israele e dice: «Guai a voi che vi alzate la mattina per cercare l’ubriachezza ed il bere fino a sera, per essere accesi dal vino. Nei vostri conviti c’è la cetra e la lira e il timpano e il flauto e il vino, e non considerate l’operato del Signore. Perciò il mio popolo è trascinato in cattività, perché non ebbe scienza. Guai a voi che siete bravi a bere vino, e prodi a mescere bevande inebrianti». Estendendo, inoltre, il suo lamento dal popolo ai sacerdoti e ai profeti, dice: «Anch’essi a causa del vino non seppero e a causa dell’ubriachezza errarono. Sacerdoti e profeti non seppero a causa dell’ubriachezza; sono stati inghiottiti dal vino, errarono nell’ubriachezza, non conobbero colui che vede, ignorarono il giudizio. Infatti tutte le tavole sono piene di vomito disgustoso, così che non c’è più posto. A chi insegnerà la scienza, a chi farà comprendere la parola di Dio?». Il Signore dice per bocca di Gioele: «Svegliatevi ebbri e piangete voi che bevete vino con piacere». Non proibisce, infatti, di bere vino in stato di necessità, come consiglia l’Apostolo a Timoteo «per i frequenti disturbi di stomaco», non per i disturbi ma solo per i disturbi frequenti.

[70] Noè per primo piantò la vigna, forse ignorando ancora il male dell’ubriachezza, e inebriato si scoprì le cosce, perché al vino è congiunta la turpitudine della lussuria. E poiché fu poi deriso per questo dal figlio, scagliò contro di lui la maledizione e lo condannò alla servitù, cosa che non ci risulta fosse mai stata fatta in precedenza. Le figlie di Loth previdero che non avrebbero potuto trascinare all’incesto un uomo santo come lui se non rendendolo ebbro. Anche la santa vedova si persuase che solo in questo modo il superbo Oloferne poteva essere ingannato e vinto. Leggiamo che gli angeli, che apparvero agli antichi padri e furono da loro ospitati, mangiarono carne ma non bevvero vino. E ad Elia, il primo e il più grande degli iniziatori della nostra vita monastica, mentre stava nascosto nel deserto i corvi servivano mattina e sera da mangiare pane e carne ma non vino. Leggiamo che anche il popolo d’Israele, che nel deserto era abituato a cibi raffinatissimi, in particolar modo quaglie, non bevette vino né lo desiderò. E anche quei pasti fatti di pane e pesce, con i quali il popolo si sostentava nel deserto, a quanto viene raccontato, non contemplarono mai il vino. Solo le nozze, alle quali è concessa l’incontinenza, ebbero il miracolo del vino, nel quale sta la lussuria. Invece il deserto, che è la dimora propria dei monaci, ha conosciuto più il dono della carne che quello del vino.

[71] Anche i Nazirei, che si consacravano a Dio con la più alta professione religiosa del tempo della legge, si astenevano solo dal vino e da ciò che può inebriare. Quale virtù, infatti, quale bene restano negli ubriachi? Per questa ragione leggiamo che anche presso gli antichi sacerdoti era proibito non solo il vino, ma tutto ciò che può inebriare. A tal proposito anche Gerolamo, scrivendo a Nepoziano sulla vita dei chierici, pieno di indignazione per il fatto che i sacerdoti del tempo della legge si astenevano da tutto ciò che può inebriare e in questa astinenza superano i nostri, dice: «Non puzzare mai di vino, per non sentire il detto del fiolosofo: “Questo non è baciare ma dare da bere”. Anche l’Apostolo condanna i sacerdoti dediti al bere e l’antica legge lo vieta: “Coloro che sono addetti al servizio all’altare non bevano né vino né sicera”. In ebraico è chiamata sicera ogni bevanda che può inebriare, fatta con la pasta fermentata, col succo della frutta, o col miele fatto cuocere fino a trasformarsi in una bevanda dolce ed esotica, o coi frutti delle palme spremuti in liquore e con l’acqua arricchita colando attraverso i cereali cotti. Come il vino fuggi qualsiasi cosa inebria e sconvolge la mente». Dalla Regola di san Pacomio: «Nessuno tocchi vino e bevanda fermentata, salvo i malati». E chi mai di voi non ha udito che il vino non è assolutamente adatto ai monaci e che per esso i monaci nutrivano, un tempo, una tale avversione che, per impedirne con forza il consumo, lo chiamavano Satana? A tal proposito leggiamo nelle Vite dei Padri: «Narravano alcuni all’abate Pastore di un monaco che non beveva vino, ed egli disse loro che il vino non è per nulla adatto ai monaci»; e ancora, poco oltre: «Una volta venne celebrata la messa sul monte dell’abate Antonio e lì fu trovata una giara di vino. Uno dei vecchi, preso il piccolo vaso, portò una coppa di vino all’abate Sisoi e gliela diede da bere. Quello bevve una volta, e ne accettò e bevve una seconda. Gliene offrì ancora una terza coppa, ma l’abate non l’accettò dicendo: “Basta, fratello, o forse ignori che è Satana?”»; e ancora a proposito dell’abate Sisoi: «Chiese dunque il suo discepolo Abramo: “Se il sabato e la domenica ci si trova in chiesa e si bevono tre coppe, non è molto?”. E il vecchio rispose: “Se non fosse Satana, non sarebbe molto”». Non immemore di ciò san Benedetto, quando in considerazione delle circostanze concede il vino ai monaci, dice: «Sebbene leggiamo che il vino non è assolutamente per i monaci, ma poiché ai nostri tempi non è assolutamente possibile convincerne i monaci».

[72] Cosa c’è infatti di strano se ai monaci non deve essere assolutamente concesso proprio ciò che il beato Gerolamo proibisce del tutto anche alle donne, la cui natura è in sé più debole, ma tuttavia più resistente contro il vino? Egli infatti, istruendo la vergine di Cristo Eustochio su come serbare la verginità, le impartisce con forza questa esortazione: «Se dunque io posso dare un consiglio, se si crede a chi ha provato, innanzitutto di questo ti ammonisco, di questo ti scongiuro, che la sposa di Cristo fugga il vino come un veleno. Questa è la prima arma dei demoni contro la giovinezza. Non altrettanto sconvolge l’avidità, gonfia la superbia, riempie di diletto l’ambizione. Possiamo facilmente evitare gli altri vizi; questo è chiuso dentro di noi e ovunque andiamo, portiamo con noi il nemico. Il vino e la giovinezza sono un doppio incendio di voluttà. Perché aggiungere olio alla fiamma? Perché alimentare il fuoco a questo piccolo corpo che arde?». È, tuttavia, ben noto dalle testimonianze di coloro che scrissero di scienze naturali che la forza del vino può prendere il sopravvento nelle donne molto meno che negli uomini. Nel libro VII dei Saturnali Macrobio Teodosio ne offre questa spiegazione: «Aristotele dice che le donne si ubriacano di rado, i vecchi spesso. La donna ha un corpo ricco di umidità; lo indica la delicatezza e lo splendore della pelle, ma lo indicano soprattutto le frequenti purgazioni che liberano il corpo dell’umore superfluo. Quando dunque il vino bevuto cade in un’ampia massa di umore perde la sua forza e non è facile che, avendo ormai perso vigore, colpisca la sede del cervello». E ancora: «Il corpo della donna, depurato da frequenti purgazioni, è intessuto di molte aperture naturali affinché si apra in passaggi e offra vie all’umore che confluisce verso l’evacuazione esterna. Attraverso queste aperture i fumi del vino svaniscono rapidamente».__  [73] Per quale ragione, dunque, si concede ai monaci ciò che è negato al sesso più debole? E che follia è concederlo a loro, ai quali può più nuocere, e negarlo ad altri? Cosa c’è, infine, di più stolto del fatto che la condotta dei religiosi non rifiuti ciò che è più contrario alla vita religiosa e che più allontana da Dio? Che cosa c’è di più vergognoso del fatto che l’astinenza, che caratterizza la perfezione della vita cristiana, non fugga ciò che è proibito anche ai re e ai sacerdoti del tempo della legge, e anzi trovi in esso il massimo del piacere? Chi potrebbe, infatti, ignorare quanta cura dedichino oggi alla cantina i chierici, in particolare, e i monaci, per riempirla cioè di ogni tipo di vino, per renderlo gustoso con erbe, miele e spezie, e ubriarcarsi tanto più facilmente quanto più piacevole diviene il bere, ed eccitarsi alla libidine con tanta maggiore violenza quanto più ardono per il vino? Quale aberrazione, o piuttosto follia, è questa per la quale coloro che, con il loro voto, si sono più di ogni altro obbligati alla continenza, meno si preparino a rispettare questo voto, facciano anzi di tutto per non poterlo rispettare? È certo che anche se i loro corpi sono chiusi nel chiostro, i loro cuori sono pieni di libidine e il loro animo arde dal desiderio della fornicazione. Scrivendo a Timoteo, l’Apostolo dice: «Non continuare a bere acqua, ma fa uso di un poco di vino, a causa del tuo stomaco, delle tue frequenti indisposizioni». Ma se a causa delle indisposizioni gli viene concesso un poco di vino, è chiaro che da sano non ne beveva affatto. Se professiamo la vita apostolica, e ci votiamo in particolare alla penitenza, e ci proponiamo di fuggire il mondo, perché troviamo il massimo diletto proprio in ciò che vediamo essere massimamente contrario al nostro proposito e che è il più piacevole di tutti i cibi? Sant’Ambrogio, che con tanta cura parla della penitenza, a proposito del vitto di coloro che la praticano non esprime disapprovazione per nulla eccetto che per il vino, e dice: «Qualcuno potrebbe forse ritenere che c’è penitenza dove c’è brama di acquisire onori, dove si versa a profusione il vino, dove si praticano gli stessi rapporti coniugali? Nel rinunciare al mondo è più facile che sia trovato chi ha conservato l’innocenza, che chi pratica bene la penitenza». E nel libro Sulla fuga dal mondo dice ancora: «Fuggi efficacemente se i tuoi occhi fuggono calici e coppe, perché non divengano preda della libidine, mentre si soffermano nel vino». Il vino è il solo di tutti gli alimenti che egli menziona nella Fuga dal mondo, e afferma che noi fuggiamo efficacemente dal mondo se fuggiamo il vino, quasi che tutte le voluttà del mondo dipendessero da questo solo. E non dice neppure se la gola evita di assaporarlo ma addirittura se gli occhi evitano di guardarlo, affinché, guardandolo spesso, non siano catturati dalla libidine e dal piacere che da lui scaturisce. Di qui viene anche l’affermazione di Salomone che abbiamo ricordato sopra: «Non guardiamo il vino quando rosseggia, quando il suo colore risplende nella coppa». E a questo punto cosa diremo noi, di grazia, che, per trarre piacere sia dal gustarlo che dal guardarlo, quando lo abbiamo insaporito con miele, erbe, e varie spezie, vogliamo anche offrirlo in coppe?

[74] San Benedetto, costretto a fare concessioni a proposito del vino, dice: «Almeno mettiamoci d’accordo su questo, di non bere fino alla sazietà, ma con maggiore moderazione, giacché “il vino fa traviare anche i saggi”». Ma volesse il cielo che si fosse capaci di bere fino alla sazientà, senza essere trascinati all’eccesso, con trasgressione maggiore. Anche sant’Agostino, quando organizza i monasteri dei chierici e scrive la loro Regola, concede loro il vino solo il sabato e la domenica, e dice: «Come è uso, il sabato e la domenica, chi vuole, riceva vino», certamente sia per rispetto del giorno del Signore e della sua vigilia, il sabato, sia anche perché in quei giorni si riunivano i confratelli, che vivevano di solito sparsi per le celle. Così narra anche san Gerolamo nelle Vite dei Padri, quando scrive queste parole a proposito del luogo che chiama Cellia: «Ognuno dimora nella sua cella; il sabato e la domenica, però, si riuniscono in chiesa e lì si guardano l’un l’altro come fossero ritornati dal cielo». Perciò la concessione del vino era certamente opportuna, perché, nel momento in cui si riunivano, essi potessero godere insieme di una ricreazione, e non tanto dire a parole quanto sentire: «Quanto è bello e quanto è gioioso che i fratelli abitino insieme».

[75] Ecco ci è attribuito un grande merito se ci asteniamo dalla carne, per quanto grande possa essere l’eccesso con cui ci nutriamo degli altri cibi. Se con grandi spese ci prepariamo svariati piatti di pesce, se insaporiamo i cibi con pepe e spezie, se, ormai ubriachi di vino puro, aggiungiamo anche calici di liquori alle erbe e tazze di vino con droghe: l’astinenza da vili carni scusa tutto questo, a patto solo che non ce ne ingozziamo in pubblico, quasi che la colpa consista nella qualità dei cibi piuttosto che nell’eccesso, quando invece il Signore ci proibisce solo la gozzoviglia e l’ubriachezza, cioè l’eccesso sia di cibo che di vino, piuttosto che la qualità.

[76] Ciò considerò con attenzione anche sant’Agostino e, non temendo alcun alimento, salvo il vino, né facendo alcuna distinzione di qualità tra i cibi, ritenne che, per quanto riguarda l’astinenza, fosse sufficiente questa breve indicazione: «Domate la vostra carne con i digiuni e astenendovi dal mangiare e dal bere per quanto lo consente la salute». Se non mi inganno aveva letto questo passo di sant’Atanasio nell’Esortazione ai monaci: «Per chi lo vuole praticare, il digiuno non abbia un limite prefissato, ma si prolunghi quanto è possibile, salvo che per i malati; eccetto la domenica i digiuni siano sempre osservati, se ad essi ci si è impegnati con un voto». Come se dicesse: se si è assunto l’impegno del digiuno con un voto, deve essere devotamente rispettato sempre, salvo la domenica. A nessun digiuno viene qui posto un limite definito, ma essi durano quanto permette la salute. È detto infatti: «Egli considera solo la possibilità della natura e consente che essa stessa si stabilisca il limite, sapendo che non si erra in nulla se in tutto si segue la giusta misura», affinché, cioè, non ci arrendiamo alle voluttà con meno resistenza del necessario, come è scritto del popolo nutrito con fior di farina e vino purissimo: «Si è ingrassato, è divenuto pingue e ha recalcitrato», né soccombiamo macerati e totalmente vinti da un’astinenza senza misura, o perdiamo la ricompensa per le nostre mormorazioni, o ci vantiamo della nostra eccellenza. Per prevenire questo pericolo l’Ecclesiaste dice: «Il giusto perisce nella sua giustizia. Non essere troppo giusto, né savio oltre necessità, per non restare attonito» e gonfiarti di superbia, preso di ammirazione per la tua eccellenza.

[77] Di questo zelo sia guida la discrezione, madre di tutte le virtù; essa valuti con attenzione quali oneri può imporre e su chi, a ciascuno, cioè, secondo la propria forza e, seguendo la natura piuttosto che forzandola, elimini non la pratica del saziarsi ma l’abuso rappresentato dall’eccesso, e così estirpi i vizi senza ferire la natura. Ai deboli è sufficiente evitare il peccato, anche se non ascendono al culmine della perfezione, e ti basti essere seduto anche in un angolo del paradiso se non ti è possibile sedere insieme ai martiri. È più sicuro promettere piccole cose perché la grazia aggiunga a quanto dovuto cose più grandi. A questo proposito sta scritto infatti: «Quando avrete fatto tutto quanto vi è stato comandato, dite: “Siamo servi inutili, abbiamo fatto ciò che dovevamo”». Dice l’Apostolo: «La legge produce l’ira. Dove, infatti, non vi è legge non c’è neppure trasgressione». E ancora: «Senza la legge, infatti, il peccato era morto. Io un tempo vivevo senza la legge: ma, quando sopraggiunse il precetto, il peccato riprese forza. E io morii e mi venne constatato che il precetto che era per la vita, questo stesso è per la morte. Infatti, colta l’occasione per mezzo del mandato, il peccato mi ingannò e per mezzo suo mi uccise, affinché per mezzo del precetto il peccato diventi peccare all’eccesso». Agostino a Simpliciano: «Il desiderio, accresciuto dal divieto, è divenuto più dolce e così ha ingannato». Ugualmente nel libro delle LXXXIII questioni: «La forza con cui il piacere convince a peccare è più forte quando c’è la proibizione». A questo proposito anche il poeta dice: «Bramiamo sempre ciò che è vietato e desideriamo ciò che è negato». Consideri tremando queste parole chiunque si vuole legare al giogo di una Regola come alla professione della nuova legge. Scelga ciò che può, tema ciò che non può fare. Nessuno diventa colpevole nei confronti della legge, se non chi prima ha promesso di rispettarla. Prima di promettere rifletti; quando hai promesso, rispettala. Prima è volontario ciò che poi diventa obbligatorio. Dice la Verità: «Nella casa di mio padre ci sono molte dimore», e così molte sono anche le strade lungo le quali vi si può giungere. Chi si sposa non è condannato, ma chi pratica la continenza si salva più facilmente. Le Regole dei santi non sono state aggiunte perché noi raggiungessimo con esse la salvezza, ma perché possiamo salvarci più facilmente e dedicarci a Dio con più purezza. Dice l’Apostolo: «E se una vergine si è sposata, non ha peccato; ma costoro sperimenteranno la tribolazione della carne. Ed io vorrei risparmiarvela». E ancora: «La donna senza marito, come la vergine, si dà pensiero delle cose del Signore, per essere santa sia nel corpo che nello spirito. La maritata invece si preoccupa delle cose del mondo, in che modo possa piacere al marito. Io però vi dico questa cosa per il vostro bene, non per tendervi un laccio, ma per ciò che è onesto e che offre la possibilità di servire Dio senza impedimento». Ma ciò può essere compiuto nella maniera più certa quando, abbandonando il mondo anche con il corpo, ci chiudiamo nel chiostro del monastero perché i tumulti mondani non ci turbino.

[78] Non solo chi riceve la legge, ma anche chi la impone si preoccupi di non moltiplicare le occasioni di trasgressione, moltiplicando i precetti. Il Verbo di Dio, venendo sulla terra, ha abbreviato la parola di Dio sulla terra. Mosè ha esposto molti precetti e tuttavia, come dice l’Apostolo: «La legge non portò nulla a perfezione»; molti, invero, ne ha esposti e di così onerosi che l’apostolo Pietro dichiara che nessuno poteva sopportare i precetti da lui imposti, e dice: «Fratelli, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? Ma per mezzo della grazia del Signore Gesù crediamo di essere salvati, nello stesso modo di loro». Con poche norme Cristo ha dato agli apostoli istruzione morale, ha insegnato la santità e ha indicato la via di perfezione. Eliminando quelli austeri e onerosi, ha dato precetti soavi e leggeri nei quali ha racchiuso tutti i principi della vita religiosa; ha detto: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e che siete stanchi, ed io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo, ed imparate da me, perché sono mite e umile di cuore e troverete pace per le anime vostre. Il mio giogo è infatti soave e il mio peso leggero».

[79] Nelle opere buone, infatti, spesso le cose vanno come negli affari del mondo: negli affari molti si danno da fare di più e guadagnano di meno; così molti si affliggono di più esteriormente e meno progrediscono interiormente di fronte a Dio, che esamina il cuore più che le opere. Essi, infatti, quanto più sono presi dai comportamenti esteriori, tanto meno possono dedicarsi alle cose interiori e quanta più fama acquisiscono presso gli uomini, che giudicano i comportamenti esteriori, tanto maggiore gloria ottengono e più facilmente si lasciano sedurre dall’orgoglio. Per prevenire quest’errore l’Apostolo riduce drastica mente il valore delle opere e, accentuando la giustificazione che viene dalla fede, dice: «Se, infatti, Abramo è trovato giusto per le opere, riceve gloria, ma non davanti a Dio. Che cosa dice, infatti, la Scrittura? “Abramo credette a Dio e ciò gli fu ascritto a giustizia”»; e ancora: «Che cosa diremo dunque? Che i Gentili, i quali non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella giustizia che viene dalla fede. Israele, invece, che seguiva una legge di giustizia, a questa legge non è giunto. E perché? Perché cercava di conseguirla non con la fede ma con le opere». Essi, che puliscono esteriormente il catino e il piatto, si preoccupano di meno della pulizia interiore e, facendo attenzione più alla carne che all’anima, sono uomini più della carne che dello spirito.

[80] Noi, invece, poiché desideriamo che per mezzo della fede Cristo abiti nell’uomo interiore, non ci curiamo dei comportamenti esteriori, che sono comuni ai reprobi e agli eletti, guardando a quanto sta scritto: «In me stanno, o Dio, i voti che ti ho fatto, ti renderò lodi». Perciò non seguiamo neppure l’astinenza esteriore stabilita dalla legge, che è certo non conferisce nulla di giustizia. E del resto il Signore, per quanto riguarda i cibi, non ci ha proibito nulla salvo la gozzoviglia e l’ubriachezza, cioè l’eccesso. Inoltre egli non si è vergognato di mostrare in se stesso ciò che ha concesso a noi, sebbene molti, da ciò scandalizzati, non poco glielo rimproverassero. Parlando di sé ha detto infatti: «È venuto, infatti, Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: ha un demonio. È venuto il figlio dell’uomo, che mangia e beve, e hanno detto: ecco un mangione e un bevitore di vino, ecc.». E, giustificando i suoi discepoli perché non digiunavano come quelli di Giovanni ed inoltre, quando mangiavano, non si curavano granché neppure della pulizia del corpo, lavandosi le mani, disse: «I figli dello sposo non possono piangere mentre lo sposo è con loro, ecc.»; e ancora: «Non ciò che entra in bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca. Ciò che esce dalla bocca esce dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo. Non contamina l’uomo mangiare senza lavarsi le mani».

[81] Nessun cibo, dunque, macchia l’anima ma il desiderio del cibo vietato. Come, infatti, il corpo non è insudiciato se non dalla sporcizia materiale, così l’anima non può essere insudiciata se non da quella spirituale. E non si deve aver timore di qualsiasi cosa che venga compiuta dal corpo se l’animo non è indotto al consenso, né si deve fare affidamento sulla purezza della carne se la mente è corrotta dalla volontà. Nel cuore risiedono, dunque, la morte e la vita dell’anima. Perciò anche Salomone dice nei Proverbi: «Custodisci il tuo cuore con la cura più grande, perché da lui procede la vita». E, secondo l’affermazione della Verità appena ricordata, dal cuore procedono le cose che inquinano l’uomo, perché l’anima è dannata o salvata dai desideri buoni o malvagi. Ma poiché in una persona vi è strettissima unione di anima e carne congiunte, bisogna provvedere con estrema cura affinché il piacere della carne non induca l’anima al consenso e, mentre si mostra troppa indulgenza nei confronti della carne, essa, abbandonandosi al piacere, opponga resistenza allo spirito, e cominci a dominare quella parte che deve, invece, stare sottomessa. Potremo evitare questo pericolo se, dopo aver concesso tutto ciò che è necessario, come si è detto più volte, eliminiamo alla radice il superfluo, e non neghiamo al sesso debole l’uso di alcun cibo ma l’abuso di tutti; se concediamo, cioè, di assumere tutto ma di non consumare smodatamente nulla. Dice l’Apostolo: «Tutto ciò che Dio ha creato è buono e niente deve essere rigettato, purché si prenda con azione di grazia. Tutto, infatti, viene santificato per mezzo della parola di Dio e della preghiera. Spiegando queste cose ai fratelli, tu sarai un buon ministro di Gesù Cristo, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina che hai imparato».

[82] Seguendo, dunque, anche noi insieme a Timoteo, quest’insegnamento dell’Apostolo, ed evitando nei cibi solo gozzoviglia e ubriachezza, secondo la parola del Signore, misuriamo ogni cosa in modo che ogni cibo serva a sostenere la natura debole, non a nutrire i vizi, e tutte quelle cose che possono nuocere di più con il loro eccesso, siano più ponderatamente misurate. È, infatti, meglio e più lodevole mangiare con misura che digiunare del tutto. Perciò anche sant’Agostino, nel libro Sul bene del matrimonio, quando tratta dei nutrimenti del corpo, dice: «Nessuno ne fa buon uso, se non chi può anche non usarne. Molti, infatti, hanno più facilità ad astenersene, così da non usarne, che a misurarli così da farne buon uso. Nessuno, tuttavia, può farne uso con saggezza, se non è in grado anche di non usarne, contenendosi». Di questa inclinazione interiore anche Paolo diceva: «So vivere nell’abbondanza e anche sopportare la privazione». Tutti gli uomini possono, infatti, sopportare la privazione, mentre è proprio solo dei grandi saperla sopportare. Ugualmente ogni uomo può anche cominciare a vivere nell’abbondanza, ma saper vivere nell’abbondanza è proprio solo di coloro che l’abbondanza non corrompe.

[83] A proposito del vino, pertanto, poiché, come si è detto, «è cosa che genera lussuria e risse», e perciò estremamente contraria alla continenza e al silenzio, le donne se ne astengano completamente, per amore di Dio, così come il vino era proibito alle mogli dei Gentili per paura degli adultèri, o esso sia mescolato all’acqua in modo da calmare la sete e provvedere alla salute, ma non sia forte abbastanza per nuocere. Riteniamo che ciò possa essere ottenuto se sarà d’acqua almeno la quarta parte di questa mistura. Ma la cosa più difficile è mantenere la misura, quando questa bevanda è servita, in modo da non berne a sazietà, come stabilisce per il vino san Benedetto. Perciò riteniamo più sicuro non proibire la sazietà e non correre così pericoli. Infatti, come abbiamo già detto più volte, il peccato non sta nella sazietà ma nell’eccesso. Non si deve proibire di preparare vini con erbe o anche bere il vino puro ad uso medicinale. Tuttavia di essi non faccia mai uso la comunità, ma siano somministrati ai malati separatamente.

[84] Ugualmente proibiamo assolutamente il fior di farina del cuore del frumento; quando si avrà del frumento, vi si mescoli sempre almeno una terza parte di farina meno raffinata. Non si gusti neppure mai il pane ancora caldo, ma solo quello cotto almeno il giorno prima. Per quanto riguarda i restanti alimenti, come abbiamo già detto, la diaconessa provveda in modo da sovvenire alle naturali necessità del sesso debole con ciò che può essere comprato a minor prezzo o ottenuto più facilmente. Cosa c’è, infatti, di più sciocco di comprare beni da altri quando bastano i nostri; di cercare fuori il superfluo quando in casa abbiamo il necessario; di affannarsi per procurarsi ciò che è superfluo quando abbiamo a disposizione il necessario? Istruiti a questa necessaria e misurata discrezione non tanto dagli insegnamenti umani quanto da quelli degli angeli o meglio del Signore, per far fronte alle necessità di questa vita dobbiamo invece saper non tanto ricercare la qualità dei cibi, quanto accontentarci di quelli che sono a disposizione. Difatti anche gli angeli mangiarono le carni servite da Abramo e il signore Gesù nutrì la folla affamata con i pesci trovati nel deserto. Da ciò ci viene insegnato chiaramente che non bisogna rifiutare di nutrirsi indifferentemente di carne o di pesce, e che bisogna prendere soprattutto il cibo che non comporta peccato e che, offrendosi spontaneamente, si può più facilmente mettere in tavola e richiede minore spesa.

[85] Anche Seneca, il più grande seguace della povertà e della continenza, e tra tutti i filosofi il sommo edificatore dei costumi, dice: «Ci proponiamo di vivere secondo natura. È contro natura torturare il proprio corpo, odiare una normale pulizia, desiderare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo di poco prezzo, ma disgustosi e ripugnanti. Come è indizio di lussuria cercare cose delicate, così è follia rifiutare quelle usuali, procurabili a poco prezzo. La filosofia esige frugalità, non sofferenza. Ci può tuttavia essere una frugalità non priva di decoro, e io preferisco questa moderazione». E anche Gregorio, nel libro XXX del Commento morale, insegnando che nei costumi degli uomini non bisogna badare tanto alla qualità dei cibi quanto piuttosto a quella delle anime, e distinguendo le tentazioni della gola, dice: «Talvolta cerca cibi più prelibati; talvolta desidera che, qualsiasi cibo si debba mangiare, esso sia preparato in modo particolarmente accurato».

[86] Spesso, invero, si può desiderare una cosa piuttosto modesta, ma peccare più gravemente per l’immenso ardore del desiderio. Tratto fuori dall’Egitto, il popolo perì nel deserto perché, sprezzando la manna, desiderò cibi fatti di carne, che riteneva più delicati. Esaù perse l’onore della primogenitura perché desiderò con ardente brama un cibo vile, cioè le lenticchie; nel preferirle alla primogenitura, che volle barattare, dimostrò con quale cupidigia le bramasse. Il peccato non è, infatti, nel cibo ma nel desiderio. Per questa ragione spesso mangiamo senza colpa cibi più raffinati e ne gustiamo di più vili non senza peccare nella nostra coscienza. E, infatti, Esaù, che abbiamo nominato, perse la primogenitura per le lenticchie, mentre Elia conservò nel deserto la purezza del corpo, pur mangiando carne. Perciò anche l’antico nemico, poiché aveva compreso che causa di dannazione non è il cibo ma il desiderio del cibo, asservì a sé il primo uomo non con la carne ma con una mela, e tentò il secondo non con la carne ma col pane. Per questo spesso si commette la colpa di Adamo anche quando si mangiano cibi umili e comuni. Bisogna, dunque, cibarsi di ciò che richiedono le necessità naturali e non di ciò che suggerisce il desiderio di mangiare. Ma noi desideriamo meno intensamente ciò che ci appare meno ricercato e di cui c’è più abbondanza e che si può comprare a minor prezzo, come accade per le vivande fatte di carni comuni, che, inoltre, sostengono la natura debole molto più efficacemente del pesce e costano di meno e sono più facili da preparare.

[87] L’uso della carne e del vino, come anche le nozze, sono considerati intermedi tra il bene e il male, cioè indifferenti, sebbene i rapporti matrimoniali non manchino completamente di peccato, e il vino si riveli il più pericoloso di tutti gli alimenti. E, certo, se bere vino con moderazione non è interdetto ai religiosi, quali altri alimenti dobbiamo temere purché in essi non si ecceda la misura? Se san Benedetto, per un certo senso di opportunità, è costretto a concedere ai monaci del suo tempo proprio ciò che dichiara non essere adatto ai monaci, perché va ormai raffreddandosi l’ardore dell’antica carità, perché noi non dovremmo concedere alle donne tutte le altre cose che ancora non proibisce loro alcuna professione religiosa? Se ai vescovi stessi e ai capi della santa chiesa, se perfino ai monasteri di chierici è lecito mangiare anche carne senza commettere peccato, evidentemente perché non sono obbligati ad astenersene da alcun voto, chi potrebbe considerare colpevole concederla alle donne, soprattutto se nel resto esse sopportano una maggiore austerità? Giacché per il discepolo è sufficiente essere uguale al suo maestro e appare una grande crudeltà proibire ai monasteri di donne ciò che è concesso ai monasteri di chierici. Né deve essere stimata poca cosa se le donne, con il rigore che caratterizza tutti gli altri aspetti della vita monastica, in questa sola concessione della carne non siano inferiori alla religiosità dei laici devoti, soprattutto quando, come testimonia Crisostomo: «Agli uomini che vivono nel mondo non è lecito nulla che non sia lecito ai monaci, salvo soltanto giacere con le mogli». Anche san Gerolamo, giudicando la vita religiosa dei chierici non inferiore a quella dei monaci, dice: «Quasi che tutto ciò che viene detto per i monaci non valesse per i chierici, che sono i padri dei monaci».

[88] Chi, inoltre, potrebbe ignorare che è totalmente contrario alla discrezione imporre ai deboli oneri altrettanto gravosi che ai forti, obbligare le donne ad un’astinenza tanto rigida quanto quella degli uomini? Se, a tal proposito, qualcuno richiede oltre alla stessa testimonianza della natura quella dell’autorità, consulti su ciò anche san Gregorio. Questo grande capo e dottore della Chiesa, infatti, istruendo con cura gli altri capi della Chiesa anche in ciò, così ricorda nel capitolo XXIV del Libro pastorale: «Vanno infatti esortati in modo diverso gli uomini e le donne, perché a questi si devono imporre cose più gravose e a quelle cose più lievi, e gli uni compiano grandi doveri, mentre le altre siano spinte con la dolcezza a compiti più lievi». Nei deboli, infatti, sono considerate grandi quelle cose che sono piccole nei forti. Anche se, in fondo, questa concessione di carni di modesta qualità offre meno piacere di quelle carni di pesce e di uccelli che tuttavia san Benedetto non ci proibisce assolutamente. Quando distingue diversi tipi di carne, anche l’Apostolo dice di esse: «Non ogni carne è la stessa carne; ma altra è la carne degli uomini, e altra è quella delle bestie, altra quella degli uccelli e altra quella dei pesci». E la legge stabilisce che nel sacrificio del Signore sia usata carne di animali e di uccelli ma non di pesci, affinché nessuno creda che davanti a Dio è più puro mangiare pesce invece che carne. Il pesce è, inoltre, cibo tanto più oneroso e dispendioso per i poveri quanto minore abbondanza ce n’è rispetto alla carne, e nutre meno la natura debole, così che l’uno è più costoso, mentre la carne è più nutriente.

[89] Perciò noi, considerando insieme gli averi e la natura degli uomini, a riguardo dei cibi non proibiamo nulla, come abbiamo detto, se non l’eccesso, e limitiamo l’uso della carne o d’altri alimenti in modo che, pur avendo concesso tutto, l’astinenza delle monache sia maggiore di quanto è ora quella dei monaci, ai quali pure sono proibite alcune cose. Vogliamo, dunque, che anche l’uso della carne sia limitato in modo da mangiarne non più di una volta al giorno, che alla stessa persona non sia imbandita in piatti differenti, né si aggiungano altre pietanze, e che non se ne mangi assolutamente più di tre volte alla settimana e cioè domenica, martedì e giovedì, anche se i giorni intermedi sono festivi.

[90] Quanto più solenne è, infatti, la festività tanto maggiore è la devota astinenza con cui bisogna celebrarla. A questo ci esorta con forza il grande dottore Gregorio Nazianzieno nel libro III del Sulle luci e la seconda Epifania e dice: «Celebriamo la festività non indulgendo al ventre, ma esultando nello spirito». E nel libro IV del Sulla Pentecoste e lo Spirito Santo dice ancora: «Questa è la nostra festa: riponiamo nel tesoro dell’anima qualcosa di perenne e perpetuo, non le cose che passano e si dissolvono. Basti al corpo la sua malizia, non ha bisogno di altro nutrimento, né, bestia insolente, ha bisogno di cibi più abbondanti per divenire più insolente e tormentare con più violenza». Perciò la festività deve essere celebrata piuttosto spiritualmente; seguendo questo insegnamento, anche il suo discepolo san Gerolamo così ricorda, in un passo di una sua lettera, a proposito dei doni ricevuti: «Perciò dobbiamo provvedere attentamente a celebrare il giorno di festa non tanto con l’abbondanza dei cibi, quanto con l’esultanza dello spirito, perché è totalmente senza senso voler onorare riempiendosi di cibi il martire che piacque a Dio con i digiuni». E Agostino nella Medicina della penitenza dice: «Considera le migliaia di martiri: perché piace celebrare le loro feste con turpi banchetti e non piace seguire la loro vita con onesti costumi?».

[91] Tutte le volte che non ci sarà la carne concediamo alle monache due piatti di qualsiasi pietanza e non proibiamo di aggiungere il pesce. Nessuno nella comunità insaporisca i cibi con condimenti ricercati, ma le monache si accontentino di ciò che fornisce la terra in cui vivono. Mangino frutta solamente a cena. Tuttavia non proibiamo di servire a quelle che ne hanno bisogno erbe o radici o frutti o altro come medicina. Se per caso capita che sia ospite una monaca forestiera e sieda insieme a loro a tavola, le venga servita una portata in più, perché provi così la dolcezza della carità; se poi di questa portata vorrà dividere qualche cosa con le monache, le sia lecito. Ella o tutte quante, se ce ne saranno di più, siederanno alla tavola più grande e le servirà la diaconessa, che mangerà poi insieme alle altre che servono ai tavoli. Se qualche sorella vorrà domare la carne nutrendosi di meno cibo, essa non osi farlo se non avendone ricevuto il permesso, che non deve esserle negato, se appare chiaro che desidera non per leggerezza ma per virtù ciò che la sua salute può sopportare. Per questa ragione, tuttavia, non sia mai consentito a nessuna di essere assente dalla comunità riunita o di rimanere un giorno intero senza mangiare. Il venerdì non si usi mai grasso come condimento, ma le monache, accontentandosi del cibo che si mangia durante la Quaresima, con una qualche forma di astinenza partecipino al dolore che il loro Sposo ha patito in questo giorno. Non solo sia proibito, inoltre, ma sia assolutamente condannato ciò che si suole fare in alcuni monasteri, pulire, cioè, le mani e nettare il coltello con un pezzo del pane avanzato e destinato ai poveri, imbrattando così, per risparmiare i tovaglioli, il pane dei poveri, anzi di colui che, guardando a se stesso nei poveri, dice: «Ciò che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli lo avete fatto a me».

[92] Per quanto riguarda i digiuni, siano sufficienti per loro le prescrizioni generali della Chiesa; non abbiamo, infatti, la presunzione di imporre loro un peso che vada oltre la devozione dei fedeli laici né osiamo porre la loro debolezza al di sopra della forza degli uomini. Dall’equinozio d’autunno fino a Pasqua, data la brevità delle giornate, riteniamo che basti mangiare una volta sola al giorno. E poiché lo diciamo non per desiderio d’astinenza ma solo per la brevità del giorno, non facciamo qui alcuna distinzione di cibi.

[93] Si evitino con la massima cura le vesti preziose, che la Scrittura condanna recisamente. Per dissuaderci in partico lare dall’usarne il Signore biasima, a motivo loro, la superbia del ricco dannato ed esalta di contro l’umiltà di Giovanni. Ciò considerando con attenzione, san Gregorio dice nella VI omelia sui Vangeli: «Che cosa significa dire: “Chi indossa morbide vesti abita alle corti dei re”, se non affermare con chiara dichiarazione il fatto che sono al servizio di potenze terrene, non celesti, quelli che costantemente fuggono le sofferenze per Dio, e, attratti solo dalle cose esteriori, cercano i piaceri e le gioie della vita presente»; e nell’omelia XL dice ancora: «Ci sono alcuni che non ritengono che l’amore di vesti preziose e raffinate sia peccato. Ma se ciò non fosse peccato la parabola di Dio non direbbe con tanta attenzione che il ricco tormentato nell’inferno si vestiva di porpora e bisso. Nessuno, infatti, cerca vesti raffinate se non per vanagloria, per essere cioè ammirato più di ogni altro. Che si cerchino le vesti più preziose solo per vanagloria, è dimostrato dal fatto stesso che nessuno si mette ad indossare vesti preziose, quando non può essere visto da altri». Anche la prima lettera di Pietro cerca di distogliere da ciò le donne che vivono nel secolo e quelle sposate e dice: «Similmente le donne siano soggette ai loro mariti, affinché se alcuni non credono alle parole, siano guadagnati, senza le parole, dalla condotta delle loro mogli, e vedendo la vostra maniera di vivere casta e riservata. Esse non abbiano l’ornamento esteriore che consiste nell’acconciatura dei capelli, negli ornamenti d’oro e nella bellezza delle vesti che indossano, ma quello che è riposto nel cuore dell’uomo, e che consiste nella purità incorruttibile di uno spirito tranquillo e modesto, che è preziosissimo agli occhi di Dio». Giustamente egli ha ritenuto di dover esortare più le donne degli uomini a fuggire da questa vanità, perché l’animo debole delle donne desidera di più ciò che più stimola la lussuria per mezzo di loro e in loro. Ma se queste sono le proibizioni che riguardano le donne che vivono nel secolo, cosa devono fare quelle consacrate a Cristo, per le quali è eleganza proprio il fatto stesso di essere prive di eleganza? E, dunque, tutte quelle che desiderano vesti eleganti, e che non le rifiutano se vengono loro offerte, danno prova di non essere caste. E tutte quelle che sono così siano stimate prepararsi non alla vita religiosa ma alla fornicazione, e siano ritenute non tanto monache quanto meretrici. Per loro proprio l’eleganza delle vesti è come l’annuncio del lenone che tradisce l’animo corrotto, come è scritto: «Le vesti del corpo e il riso della bocca e l’incedere dell’uomo rivelano il suo essere». Come abbiamo già ricordato, leggiamo che il Signore esaltò e lodò in Giovanni la rozzezza e la grossolanità delle vesti più che del cibo, e disse: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Un uomo vestito di morbide vesti? ecc.». L’uso, infatti, di cibi ricercati talora ha una qualche utile ragione mentre quello di abiti ricercati assolutamente no. È evidente che tali abiti quanto più sono preziosi tanto più gelosamente sono custoditi, e meno usati meno servono e sono più costosi e per la loro delicatezza possono sciuparsi più facilmente e offrono meno riparo al corpo.

[94] Nessun tessuto più di quello nero si addice all’abito da lutto della penitenza, e nessuna pelliccia è più adatta alle spose di Cristo di quella d’agnello, affinché anche nell’abito stesso esse mostrino di essersi rivestite dell’Agnello e Sposo delle vergini e siano ammonite a farlo. I loro veli non siano di seta ma di tela di lino tinta. E desideriamo che i veli siano di due generi, l’uno, cioè, per le vergini già consacrate dal vescovo, l’altro per quelle che non lo sono. Il velo delle vergini porti un segno di croce, con il quale esse mostrino di appartenere specialmente a Cristo anche nell’integrità del corpo e, come si differenziano dalle altre nel rito di consacrazione, così si distinguano anche per questo segno sull’abito, intimoriti dal quale tutti i fedeli più si guardino dall’ardere di concupiscenza per loro. La vergine porterà questo segno di castità virginale ricamato con filo bianco sulla sommità del capo; nessuna osi portarlo prima di essere consacrata dal vescovo e nessun altro velo rechi questo segno.

[95] Sulla carne vestano una semplice camicia e la portino sempre anche per dormire. Non neghiamo alla loro debole natura la morbidezza dei materassi e l’uso di lenzuola. Ma dormano e mangino ciascuna per sé. Nessuna osi assolutamente sdegnarsi se vengono date ad un’altra sorella, che ne ha più necessità, vesti o altro che siano stati a lei donati da qualcuno, ma goda anzi proprio per il fatto che la necessità della sorella le ha dato la possibilità di guadagnare il merito dell’elemosina e di vedere che vive non solo per sé ma anche per le altre. In caso contrario non appartiene alla fraternità della santa comunità e non manca del sacrilegio della proprietà. Riteniamo che a proteggere il corpo bastino una camicia, una pelliccia, una toga e, quando si teme un gran freddo, anche un mantello che, naturalmente, potranno usare anche come coperta sul letto. Considerando che essi possono essere infestati da parassiti e quanto è gravoso lavarli, è opportuno che tutti questi abiti siano doppi, come dice letteralmente Salomone, in lode della donna forte e solerte: «Non temerà per la sua casa il freddo della neve perché tutti i suoi familiari avranno duplice veste». La lunghezza delle vesti sia tale da non oltrepassare l’orlo dei sandali, per non raccogliere la polvere. Le maniche non superino la lunghezza delle braccia e delle mani. Scarpe, calze e sandali proteggano gambe e piedi. Col pretesto della devozione, non vadano mai a piedi scalzi. Nel letto siano sufficienti un materasso, un guanciale, una coperta e un lenzuolo. Una benda candida avvolga il capo e su di essa si ponga il velo nero; sul capo si potrà mettere un berretto di lana di agnello se se ne sentirà la necessità a causa dei capelli tagliati corti.

[96] Bisogna fuggire l’eccesso non solo nel vitto e nelle vesti, ma anche negli edifici e in qualsiasi proprietà del monastero. Negli edifici l’eccesso si riconosce palesemente se essi sono più grandi o più belli del necessario, se, ornandoli di sculture e pitture, non edifichiamo abitazioni di poveri ma innalziamo palazzi di re. Dice Gerolamo: «“Il figlio dell’uomo non ha ove poggiare il capo” e tu possiedi portici spaziosi e case amplissime?». Quando ci compiaciamo di cavalcature costose e belle, si fa riconoscere in noi non solo l’eccesso, ma la vanità della superbia. Quando motiplichiamo le greggi di animali e le proprietà terrene, allora cresce il desiderio delle cose esteriori, e quanto più ne possediamo sulla terra tanto più siamo costretti a preoccuparci di loro e siamo distolti dalla contemplazione delle cose divine; pur essendo chiusi col corpo nel chiostro, l’animo è costretto a inseguire i beni che sono fuori e che esso ama, e vaga qua e là con loro, e quanti più beni possediamo, che possono essere persi, tanto più siamo tormentati dalla paura, e quanto più essi sono preziosi tanto più sono desiderati e più avvincono l’animo misero con la brama del loro possesso.

[97] Per questa ragione bisogna provvedere assolutamente a porre un limite certo alla nostra casa e alle nostre spese, e a non desiderare beni oltre quanto necessario, a non accettarli se offerti, a non conservarli se ricevuti. Tutto ciò, infatti, che è al di là della necessità, noi lo possediamo per rapina e siamo colpevoli della morte di tanti poveri quanti avremmo potuto con esso nutrirne Ogni anno, pertanto, quando saranno state raccolte le provviste, si deve provvedere a quanto basta per l’anno e, se avanzerà qualche cosa, dovrà essere non tanto data quanto restituita ai poveri.

[98] Vi sono alcuni che, completamente privi di preveggenza, si rallegrano di avere una comunità numerosa, anche se hanno redditi scarsi; poi, oppressi dalla necessità di provvedere al suo mantenimento, lo vanno a cercare mendicando senza vergogna, o estorcono ad altri con la violenza ciò che non hanno. E ormai vediamo anche molti abati di monasteri di tal genere che, fieri del numero dei loro monaci, si affannano per avere molti figli piuttosto che buoni figli, e ai loro occhi appaiono grandi, se sono ritenuti più importanti tra molti. Per attirare gente sotto di loro promettono una vita agevole, mentre dovrebbero predicarne loro una austera, e, accogliendoli indistintamente senza averli sottoposti prima ad esame, li perdono poi facilmente per apostasia. A mio giudizio, la Verità rimprovera proprio costoro quando dice: «Guai a voi che percorrete il mare e la terra per fare un proselita, e quando lo è diventato ne fate un figlio della Geenna il doppio di voi!». È certo che essi sarebbero meno fieri della quantità dei figli se ricercassero la salvezza delle anime non il loro numero, e meno presumessero delle loro forze nel momento in cui dovranno rendere ragione di come hanno governato il monastero.

[99] Il Signore scelse pochi apostoli, eppure tra questi, scelti da lui in persona, uno lo rinegò al punto che, a proposito di lui, il Signore disse: «Non sono stato io che ho eletto voi dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». E come Giuda tra gli apostoli, così anche tra i sette diaconi Nicolao si perse. E quando gli apostoli avevano raccolto intorno a sé ancora solo poche persone, Anania e sua moglie Saffira meritarono di essere condannati a morte. Ed anche prima quando molti discepoli tornarono indietro, abbandonando il Signore stesso, pochi rimasero con lui. La via che conduce alla vita è, infatti, angusta e pochi sono quelli che vi entrano, mentre, al contrario, ampia e spaziosa è quella che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che spontanemente vi si mettono, perché, come proclama il Signore stesso in un altro passo: «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», e secondo Salomone: «Infinito è il numero degli stolti». Chi si rallegra della moltitudine dei sottoposti tema, dunque, che, secondo l’affermazione del Signore, tra di loro pochi siano alla fine gli eletti e che, accrescendo senza misura il suo gregge, egli si riveli poi incapace di custodirlo, così che giustamente gli uomini spirituali possano rivolgere a lui le parole del Profeta: «Hai moltiplicato il tuo popolo, ma non hai accresciuto la gioia». Anzi gli abati di tal genere, che si gloriano della moltitudine, costretti a uscire assai spesso e a ritornare nel mondo e a correre qua e là mendicando per provvedere alle necessità proprie e della comunità, finiscono per trovarsi presi più dalle cure materiali che da quelle spirituali e si guadagnano l’infamia più che la gloria.

[100] Naturalmente un tale comportamento è tanto più vergognoso nelle donne quanto meno sicuro si rivela per loro andare in giro per il mondo. Chi desidera, dunque, vivere tranquillamente e onestamente e dedicarsi agli uffici divini ed essere caro a Dio e al mondo, si guardi dal raccogliere persone a cui non è in grado di provvedere, e non faccia affidamento sulla borsa altrui per le proprie spese, né si curi di chiedere elemosine ma di farne. L’Apostolo, il grande predicatore del Vangelo, pur avendo il diritto di farsi mantenere in nome del Vangelo, lavora con le proprie mani per non apparire di peso ad alcuno e diminuire la sua gloria. E noi, dunque, che non dobbiamo predicare ma piangere i peccati, con quale ardire e quale spudoratezza mendicando andiamo a cercare le risorse con cui poter sostentare quelli che abbiamo sconsideratamente raccolto? Noi che spesso giungiamo a tal punto di follia che, non sapendo predicare, prendiamo predicatori a nostro servizio, e, conducendo in giro con noi pseudoapostoli, ci portiamo appresso croci e reliquiari per venderle ai cristiani semplici e indotti, insieme con la parola di Dio o anche le illusioni del diavolo, e promettere loro tutto ciò che riteniamo possa servire per estorcere denaro. Ormai ritengo che a nessuno sfugga più in quale discredito siano caduti sia il nostro ordine sia la stessa predicazione della parola divina a causa di questa spudorata cupidigia, che pensa ai propri interessi e non a quelli di Gesù Cristo. Per questa ragione anche gli stessi abati e coloro che nei monasteri appaiono più importanti, frequentando sconvenientemente i potenti della terra e le corti dei principi, hanno ormai imparato ad essere più cortigiani che cenobiti e, ricercando con qualsiasi mezzo il favore degli uomini, si sono abituati più a conversare con gli uomini che a parlare con Dio. Essi inutilmente hanno letto spesso, ma trascurato, e hanno ascoltato, ma non hanno messo in pratica, l’esortazione di sant’Antonio che dice: «Come i pesci muoiono se rimangono a luogo all’asciutto, così i monaci, se si attardano fuori della cella o si trattengono con gli uomini del mondo, sciolgono il voto di solitudine. È, dunque, opportuno che, come i pesci nel mare, così anche noi ci affrettiamo a ritornare nella cella, affinché non capiti che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire la nostra interiorità».

[101] Anche l’autore della Regola monastica, cioè san Benedetto, mostrando grande attenzione per questo fatto, ha indicato chiaramente, sia con l’esempio che con gli scritti, come suo desiderio fosse che gli abati siano sempre presenti nei monasteri e provvedano a custodire con sollecitudine il loro gregge. Egli, infatti, quando una volta, lasciati i fratelli, andò a trovare la sua santissima sorella ed ella voleva trattenerlo almeno una notte per avere da lui insegnamenti spirituali, dichiarò esplicitamente che in nessun caso poteva rimanere fuori del monastero. E non disse «non possiamo», bensì «non posso», perché, mentre con il suo permesso i fratelli potevano farlo, lui non poteva, se non per rivelazione di Dio, come più tardi avvenne. Di conseguenza, scrivendo la Regola, non ha mai menzionato per l’abate la possibilità di uscire dal monastero, ma solo per i fratelli. Ha inoltre provveduto così accortamente alla costante presenza di questi nel monastero, da stabilire che nelle veglie della domenica e dei giorni di festa la lettura del Vangelo e quanto vi è annesso non possano essere fatti se non dall’abate. Stabilendo, inoltre, che la mensa dell’abate sia sempre con gli ospiti e i pellegrini e che, quando ci sono con lui meno ospiti, egli inviti i fratelli che vuole, a patto di lasciare con i fratelli uno o due anziani, fa chiaramente intendere che all’ora dei pasti l’abate non deve essere mai assente dal monastero, e mai, come abituatosi alle prelibate pietanze dei principi, lasci ai sottoposti il pane comune del monastero. Di individui che si comportano in questo modo la Verità dice: «Legano fardelli pesanti e insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini, ma essi non li vogliono muovere neanche con un dito». E altrove dei falsi predicatori: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi, ecc.». Vengono, essa dice, di loro iniziativa, non mandati da Dio, o aspettando di essere mandati a chiamare. Giovanni Battista, il nostro predecessore, a cui per diritto di eredità spettava il pontificato, si ritirò una volta per tutte dalla città nel deserto, lasciando cioè il pontificato per la vita monastica, le città per la solitudine, e il popolo usciva dalle città per recarsi da lui, mentre egli non vi entrava per recarsi dal popolo. E, pur essendo così grande da essere creduto Cristo e da poter correggere molti errori nelle città, era ormai in quel lettuccio donde era pronto a rispondere all’amato che bussava alla porta: «Mi sono spogliato della mia tunica, come indossarla di nuovo? Ho lavato i miei piedi, come sporcarli di nuovo?».

[102] Chiunque, dunque, desidera l’isolamento della quiete monastica, goda di avere un lettuccio piuttosto che un letto. Come dice, infatti, la Verità: «Dal letto uno sarà tolto, mentre uno vi sarà lasciato». Leggiamo che il lettuccio è della sposa, cioè dell’anima contemplativa più strettamente unita a Cristo e a lui legata da sommo desiderio; e leggiamo che chiunque vi è entrato non è mai stato abbandonato. Di questo lettuccio dice lei stessa: «Nel mio lettuccio, notte dopo notte, ho cercato colui che ama l’anima mia». Ed ella, sdegnando o temendo di alzarsi da questo lettuccio, risponde all’amato che bussa alla porta le parole che abbiamo ricordato sopra; ella, infatti, è convinta che solo fuori del suo letto ci sia il sudiciume con cui teme di sporcarsi i piedi.

[103] Uscì Dina per vedere gli stranieri e venne violata. E come fu predetto dal suo abate al monaco schiavo Malco, e come egli stesso sperimentò poi, «la pecora che esce dall’ovile è esposta subito ai morsi dei lupi». Non formiamo, dunque, una comunità numerosa per la cui esigenze cerchiamo occasioni per uscire dal monastero, siamo anzi costretti ad uscire, e facciamo il bene degli altri a nostro danno, alla maniera cioè del piombo che si consuma nella fornace perché rimanga l’argento. Stiamo attenti, piuttosto, a che la fornace ardente delle tentazioni non consumi il piombo come l’argento. La Verità, dicono, afferma: «E chi viene a me, io non lo caccerò fuori», e neppure noi vogliamo che si caccino coloro che sono stati accolti, ma che si provveda a chi si intende accogliere affinché, accolti essi dentro il monastero, per loro non cacciamo fuori noi stessi. Leggiamo, infatti, che il Signore stesso non cacciò chi aveva accolto, ma rifiutò chi si offriva. E difatti a quello che diceva: «Maestro, ti seguirò ovunque andrai», egli rispose, rifiutandolo: «Le volpi hanno delle tane, ecc.».

[104] Ed anche a proposito delle spese, egli ci esorta caldamente, quando intendiamo fare qualche cosa, a valutare prima a cosa esse sono necessarie, e dice: «Chi di voi, volendo costruire una torre, prima non si siede e calcola attentamente le spese che sono necessarie, se ha beni sufficienti per condurla a termine, per evitare che, dopo avere gettato le fondamenta e non averla potuto completare, tutti quelli che la vedranno incomincino a deriderlo, dicendo: “Quest’uomo ha incominciato a fabbricare, ma non ha potuto finire”?». È già tanto se uno riesce a salvare anche solo se stesso ed è pericoloso che provveda a molti chi è a mala pena capace di custodire se stesso. Ma nessuno è attento nel custodire se non è stato timoroso nell’accogliere, e nessuno è tanto perseverante in ciò che ha intrapreso di chi ha deciso dopo aver esitato e meditato. E in questo le donne devono essere tanto più caute quanto meno la loro debolezza sopporta oneri gravosi, mentre ha bisogno di essere sostenuta dalla quiete.

[105] Tutti riconoscono che la Sacra Scrittura è lo specchio dell’anima, perché, chiunque viva leggendola, e progredisca comprendendone il significato, può in essa scoprire la bellezza dei propri costumi o coglierne la deformità, così da far crescere l’una e cercare di eliminare l’altra. Richiamandoci alla memoria questo specchio, san Gregorio nel secono libro del Commento morale dice: «La Sacra Scrittura sta davanti agli occhi della mente come uno specchio, perché appaia in essa il nostro volto interiore. Lì scopriamo la nostra bruttezza e la nostra bellezza; lì percepiamo quanti progressi abbiamo fatto e quanto siamo lontani dal migliorare». Ma chi guarda la Scrittura senza capirla è come un cieco che tiene davanti agli occhi uno specchio nel quale non è in grado di apprendere chi sia, e non cerca nella Scrittura gli insegnamenti per i quali soli essa è stata scritta, e così siede ozioso davanti alla Scrittura come un asino messo davanti ad una lira e, per così dire, ha di fronte del pane col quale, pur affamato, non si ristora, perché, non essendo capace di penetrare da sé la parola di Dio con l’intelligenza, e non essendoci alcuno che gli spezza questo pane con il suo insegnamento, dispone inutilmente di un cibo che non gli è di alcun giovamento.

[106] Perciò anche l’Apostolo, esortandoci in generale allo studio delle Scritture, dice: «Tutto ciò che è stato scritto, è stato scritto a nostro ammaestramento, affinché per mezzo della perseveranza e della consolazione che derivano dalle Scritture possiamo nutrire speranza». E in un altro passo: «Siate ripieni dello Spirito Santo, intrattenendovi fra voi con salmi, inni e cantici spirituali». Parla, infatti, a se stesso o con se stesso, chi comprende quello che dice e mette a frutto la comprensione delle sue parole. Ancora l’Apostolo dice a Timoteo: «Nell’attesa della mia venuta, applicati alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento», e ancora: «Ma tu rimani fedele a quello che hai imparato, e di cui sei pienamente convinto, perché sai bene da chi lo hai appreso e perché fin da fanciullo hai conosciuto le Sacre Scritture, che possono darti gli insegnamenti necessari per la salvezza, mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura divinamente ispirata è utile per insegnare, per convincere, per correggere, per formare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto, preparato per ogni opera buona». Inoltre, esortando i Corinzi alla comprensione della Scrittura per essere in grado di spiegare quello che altri dicono della Scrittura, dice: «Cercate di conseguire la carità, aspirate ai doni spirituali, ma specialmente allo spirito di profezia. Chi, infatti, parla con la lingua non parla agli uomini ma a Dio. Invece colui che profetizza edifica la Chiesa. E perciò chi parla con la lingua, preghi per saperla interpretare. Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con la mente. Canterò con lo spirito, ma anche con la mente. Altrimenti, se pronunzierai parole di benedizione con lo spirito, chi sta al posto del comune fedele come potrà rispondere amen alla tua benedizione, dal momento che non capisce quello che dici? Infatti il tuo rendimento di grazie sarà giusto, ma l’altro non ne riceverà edificazione. Io ringrazio Iddio di avere, tra di voi, il dono delle lingue, ma in chiesa preferisco pronunciare cinque parole con la mia intelligenza, e istruire gli altri, anziché migliaia di parole. Fratelli, non siate dei fanciulli nel comprendere, ma siate bambini nella malizia e uomini fatti nel comprendere».

[107] Si dice che parla con la lingua chi pronuncia le parole solo con la bocca, ma non aiuta con l’intelligenza, spiegando. Profetizza, invece, o spiega, chi, alla maniera dei profeti, che sono detti veggenti cioè intendenti, intende quello che dice, ed è così in grado di spiegare. Prega e salmodia con lo spirito chi pronuncia le parole solo emettendo fiato, ma non vi applica l’intelligenza della mente. Ma quando prega il nostro spirito, cioè pronuncia le parole solo emettendo fiato, e ciò che è proferito con la bocca non è concepito col cuore, la nostra mente non ha quel frutto che dovrebbe ricavare dalla preghiera, in modo, cioè, da provare compunzione ed essere innalzata a Dio grazie all’intelligenza delle parole. Perciò l’Apostolo ci esorta ad avere la perfezione nelle parole, così che non solo sappiamo proferire le parole alla maniera dei bambini, ma ne comprendiamo anche il significato, e afferma che, in caso contrario, preghiamo e salmodiamo senza frutto. Seguendo questo insegnamento anche san Benedetto dice: «Disponiamoci a salmodiare in modo che la nostra mente concordi con la nostra voce». Anche il Salmista lo prescrive e dice: «Salmodiate con sapienza», in modo cioè che all’emissione delle parole non manchi il sapore e il condimento dell’intelligenza e veramente possiamo dire con il Signore: «Come sono dolci le tue parole al mio palato, ecc.». E in un altro luogo dice: «Il suo apprezzamento non sarà nelle tibie dell’uomo». Infatti la tibia emette un suono che ha come scopo il piacere della voluttà non l’intelligenza della mente; perciò giustamente si dice che cantano con le tibie, e così non piacciono a Dio, coloro che con la melodia del loro canto si dilettano in modo da non essere edificati dall’intelligenza. Ma, dice ancora l’Apostolo, con quale raziocinio si risponde amen, quando in chiesa si pronunciano le benedizioni, se non si capisce quale sia il significato della preghiera che si pronuncia con quella benedizione, se cioè è bene o è male ciò che la preghiera chiede? E, infatti, in chiesa vediamo spesso molte persone semplici, e che ignorano il significato della lettera del testo, chiedere per errore, pregando, cose più nocive che utili; così, quando si dice: «Affinché passiamo attraverso i beni temporali in modo che non perdiamo i beni eterni», facilmente l’affinità del suono simile inganna molti, ed essi dicono: «In modo che perdiamo i beni eterni» o «In modo che non prendiamo i beni eterni». Anche per rimediare a questo pericolo, l’Apostolo dice: «Altrimenti, se pronuncerai parole di benedizione con lo spirito», cioè pronuncerai le parole della benedizione soltanto col fiato dell’emissione e non ammaestrerai la mente dell’ascoltatore con il significato, «chi sta al posto del comune fedele», cioè chi degli assistenti, che hanno il compito di rispondere, rispondendo fa ciò che il semplice fedele non può, anzi non deve, fare, «come potrà rispondere amen? ecc.», quando cioè ignora se lo porti a pronunciare una maledizione piuttosto che una benedizione? Infine se le sorelle non avranno intelligenza della Scrittura come potranno offrire l’una all’altra discorsi di edificazione o anche spiegare e comprendere la Regola o correggere parole proferite in modo errato?

[108] Perciò ci chiediamo non poco meravigliati quale suggestione del Nemico abbia prodotto nei monasteri questa situazione, che non vi si compiono più studi sull’intelligenza della Scrittura ma si insegna solo il canto o solo a pronunciare le parole e non a comprenderle, quasi che per le pecore sia più utile belare che mangiare. L’intelligenza della Scrittura, che è data da Dio, è infatti cibo per l’anima e ristoro spirituale; per questa ragione il Signore, destinando alla predicazione anche il profeta Ezechiele, prima lo nutre con il volume che subito «diventa miele dolce nella sua bocca». E ancora a proposito di questo cibo sta scritto in Geremia: «I fanciulli domandarono il pane e non c’era chi lo spezzasse loro». Spezza il pane ai fanciulli chi svela alle persone più semplici il significato della lettera del testo. Ma i fanciulli chiedono che il pane sia spezzato quando desiderano nutrire abbondantemente l’anima dell’intelligenza della Scrittura, come dichiara il Signore in un altro luogo: «Manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua ma d’ascoltare la parola del Signore».

[109] Per questa ragione, al contrario, l’antico avversario ha fatto entrare nei chiostri dei monasteri la fame e la sete di ascoltare le parole degli uomini e le voci del mondo, affinché, tutti presi da inutili chiacchiere, proviamo tanto maggiore fastidio per la parola divina quanto più ci appare insipida, essendo priva della dolcezza e del condimento dell’intelligenza. Perciò, come abbiamo ricordato, anche il Salmista ha detto: «Come sono dolci le tue parole al mio palato, più del miele alla mia bocca», e subito ha aggiunto in cosa consistesse questa dolcezza, dicendo: «Dai tuoi precetti ho compreso», cioè ho ricevuto l’intelligenza più dai tuoi precetti che da quelli umani, da loro, cioè, sono stato ammaestrato e istruito. E non ha tralasciato neppure di indicare quale sia l’utilità di questa intelligenza, aggiungendo: «Perciò detesto tutte le vie dell’iniquità». Molte vie dell’iniquità, infatti, sono di per sé così evidenti che facilmente divengono oggetto d’odio e di disprezzo da parte di tutti, ma solo per mezzo della parola divina riconosciamo tutte le vie dell’iniquità, così da poterle evitare tutte. Per questo è detto «Ho riposto nel mio cuore la tua parola, per non peccare contro di te». La parola sta riposta nel cuore, piuttosto che risuonare sulla bocca, quando la nostra meditazione ne serba l’intelligenza. E quanto meno ci applichiamo alla sua intelligenza, tanto meno riconosciamo ed evitiamo le vie dell’iniquità, e tanto meno siamo in grado di guardarci dal peccato.

[110] Tale negligenza è tanto più riprovevole nei monaci, che aspirano alla perfezione, quanto più facile è per loro questo studio, perché essi sono ben forniti di libri sacri e godono della pace della quiete. Rimprovera bene quelli che si vantano di possedere molti scritti, ma non li leggono, il vecchio delle Vite dei Padri che dice: «I profeti hanno scritto libri, dopo di loro sono venuti i vostri padri, e su di essi hanno lavorato molto, e i loro successori li hanno imparati a memoria. Ma poi è venuta la generazione attuale che li ha scritti su carte e pergamene e li ha riposti sugli scaffali, restandosene in ozio». Anche l’abate Palladio, esortandoci con forza ad imparare ed insieme ad insegnare, dice: «È necessario che un’anima che vive secondo la volontà di Cristo impari fedelmente ciò che non sa e insegni chiaramente ciò che ha imparato». Ma se, pur sapendo fare entrambe le cose, non vuole, essa è tormentata dal morbo della pazzia. Quando ci si allontana da Dio, infatti, il momento iniziale è proprio il fastidio per il suo studio, e come può amare Dio un’anima se non desidera ciò di cui è sempre affamata? Perciò anche sant’Atanasio, nell’Esortazione ai monaci, raccomanda a tal punto lo studio e la lettura da invitare ad interrompere per loro anche le preghiere: «Mi incamminerò», dice, «lungo la via della nostra vita. Per prima cosa la solerte pratica dell’astinenza, la perseveranza nel digiuno, la costanza nella preghiera e nella lettura e, se qualcuno è ancora inacapace di leggere e scrivere, abbia desiderio di ascoltare per la voglia di imparare. Questi, infatti, sono per così dire i sonagli delle culle dei lattanti nella via per apprendere Dio». Poco oltre, dopo aver premesso: «Bisogna attendere così assiduamente alle preghiere che non vi sia tra di loro quasi intervallo», aggiunge: «Se è possibile le spezzi solo l’interruzione della lettura». Né diversa potrebbe essere l’ammonizione dell’apostolo Pietro: «Siate sempre pronti a rendere ragione a tutti coloro che vi chiedono conto della parola di fede e speranza». E l’Apostolo: «Non cessiamo di pregare per voi, perché siate pieni della conoscenza di lui, con perfetta sapienza e intelligenza spirituale», e ancora: «La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente con perfetta sapienza». Nel Vecchio Testamento la parola di Dio inculcò negli uomini una simile cura per la dottrina sacra. Così dice, infatti, Davide: «Beato l’uomo che non va nel concilio degli empi, ecc., ma la sua volontà sta nella legge del Signore, ecc.». E Dio dice a Gesù Nave: «Questo libro non si dipartirà mai dalle tue mani e su di lui mediterai giorno e notte».

[111] Il pericolo dei pensieri cattivi spesso si insinua anche tra queste occupazioni e, benché l’applicazione costante possa mantenere l’animo rivolto a Dio, tuttavia le affannose preoccupazioni per le cose del mondo lo attraggano a sé. Ma se ciò deve inopportunamente patire spesso chi è intento all’attività religiosa, di certo non ne sarà mai libero chi vive in ozio. Anche il santo papa Gegorio nel libro XIX del Commento morale dice: «Noi ci lamentiamo del fatto che è già iniziata un’epoca in cui vediamo molti membri della Chiesa che non vogliono mettere in pratica ciò che comprendono o addirittura disdegnano di comprendere e conoscere la parola sacra. Distogliendo l’orecchio dalla verità si volgono alle favole, mentre “tutti pensano ai propri interessi non a quelli di Gesù Cristo”. Gli scritti di Dio si possono trovare ovunque e mettere davanti agli occhi, ma gli uomini si rifiutano di conoscerli. Quasi nessuno vuole conoscere ciò che crede».

[112] Eppure a far questo essi sono esortati anche dalla Regola della loro professione religiosa e dagli esempi dei santi Padri. Difatti Benedetto non dà alcuna norma a proposito dell’insegnamento e dello studio del canto, mentre molti sono i suoi precetti a proposito della lettura ed egli distingue anche con precisione i momenti destinati alla lettura e quelli riservati al lavoro, e provvede con tale attenzione anche all’insegnamento stesso del comporre e dello scrivere, da includere anche tavolette e stilo tra le cose necessarie che i monaci devono aspettarsi di rivecere dall’abate. E, poiché tra le altre cose ordina che: «All’inizio della Quaresima tutti i monaci ricevano dalla biblioteca un libro a testa e lo leggano di seguito per intero», cosa c’è di più ridicolo di dedicarsi alla lettura e non applicarsi all’intelligenza di ciò che si legge? È noto, infatti, il proverbio del saggio: «Leggere e non capire è trascurare», e a questo lettore si può rimproverare a ragione il detto del filosofo sull’asino e la lira, poiché è come un asino davanti alla lira il lettore che, tenendo in mano un libro, non è capace di compiere ciò per cui il libro è fatto. Sarebbe molto più salutare che tali lettori si dedicassero ad un’altra attività da cui trarre qualcosa di utile, piuttosto che guardare oziosamente le lettere scritte e voltare i fogli. Di certo in tali lettori vediamo compiersi quanto dice Isaia: «Per voi la visione di ogni cosa sarà come le parole di un libro sigillato, che, quando verrà dato ad uno che sa leggere, dicendogli: “Leggilo”, quello risponderà: “Non posso, perché è sigillato”. E sarà dato allora a uno che non sa leggere e gli sarà detto: “Leggi”, e risponderà: “Non so leggere”. E ha detto il Signore: “Poiché questo popolo mi è vicino con la bocca e mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me e mi hanno temuto per comando e insegnamento degli uomini, per questo, ecco, io continuerò a compiere prodigi per questo popolo con miracoli grandi e stupendi. E andrà perduta la saggezza dei suoi saggi e si oscurerà l’intelligenza degli uomini di senno”». Infatti nei chiostri si dice che sa leggere le lettere chiunque ha imparato a pronunciarle. Ma per quelli che, per quanto riguarda la comprensione, confessano di non saper leggere, il libro consegnato è sigillato esattamente come per quelli che lì si dice che non sanno leggere. E sono questi quelli che il Signore rimprovera di avvicinarsi a lui con la bocca e le labbra piuttosto che con il cuore, perché non sono assolutamente in grado di comprendere le parole che in qualche modo sanno pronunciare. E poiché essi mancano della conoscenza della parola divina, seguono ubbidienti la consuetudine degli uomini più che l’utilità della Scrittura. Perciò il Signore minaccia di accecare anche quelli che tra di loro sembrano più sapienti e siedono come dottori.

[113] Anche dalla sua stessa testimonianza, sappiamo quanta fatica e quante spese sia costato l’apprendimento delle lettere a Gerolamo, il più grande dottore della chiesa e l’onore della professione monastica, che, esortandoci all’amore per le lettere, dice: «Ama la conoscenza delle lettere e non amerai i vizi della carne». Tra le altre cose che ha scritto sul proprio studio, così dice in un passo della lettera a Pammachio e Oceano, evidentemente per istruirci anche con il suo esempio: «Quando ero giovane ardevo di uno straordinario desiderio di apprendere, ma non ho mai avuto la presunzione di istruirmi da solo, come certuni. Ad Antiochia ho frequentato assiduamente le lezioni di Apollinare e l’ho seguito quando mi insegnava le Sacre Scritture. Già il mio capo si copriva di capelli bianchi, e si addiceva più ad un maestro che ad un discepolo, eppure mi recai ad Alessandria ed ascoltai Didimo. Gli sono riconoscente per molti motivi: ho imparato cose che non sapevo. La gente poteva pensare che avessi finito di fare il discepolo, invece venni ancora a Gerusalemme e a Betlemme: con qual fatica e a qual prezzo ebbi di notte come maestro l’ebreo Baranina! Aveva, infatti, paura dei Giudei e si mostrava con me un secondo Nicodemo». Egli di certo aveva riposto nella mente memore ciò che aveva letto nell’Ecclesiastico: «Figlio, sin dalla tua giovinezza cerca di istruirti e troverai sapienza fino alla vecchiaia». Istruito in questo non solo dalle parole della Scrittura, ma anche dagli esempi dei santi Padri, tra le grandi lodi che egli fa a quell’eccellente monastero, aggiunge anche questa, a proposito della particolare pratica della Scrittura divina che vi era in uso: «Per quanto riguarda la meditazione e la comprensione della Scrittura divina e anche della scienza divina, non abbiamo mai visto una così grande pratica, tale che crederesti quasi che ciascuno di loro sia un oratore nel campo della sapienza divina». Anche il santo Beda, che era stato accolto in monastero da bambino, dice nella Storia degli Agli: «Da allora risiedetti nello stesso monastero per tutto il tempo della mia vita, e mi dedicai interamente alla meditazione della Scrittura, e nei momenti lasciatimi liberi dall’osservanza della disciplina della Regola e dall’impegno quotidiano di cantare in chiesa, mi fu sempre dolce apprendere e scrivere».

[114] Invece ora coloro che sono istruiti nei monasteri sono così pervicaci nella loro stupidità che, accontentandosi del suono delle lettere, non si preoccupano affatto della loro intelligenza, e si applicano ad istruire non il cuore ma la lingua. È chiaro che proprio contro di loro è diretto il proverbio di Salomone: «Il cuore del saggio ricerca il sapere, la bocca degli stolti si nutre di ignoranza», quando, cioè, si diletta di parole che non comprende. E, certo, essi tanto meno possono amare Dio e infiammarsi di lui, quanto più restano lontani dall’intelligenza di lui e dal significato della Scrittura che su di Lui ci erudisce. Siamo convinti che nei monasteri ciò è accaduto soprattutto per due cause, sia per l’ostilità dei laici conversi e anche dei prepositi stessi, sia a causa dell’inutile chiacchierare che proviene dall’ozio, a cui soprattutto vediamo che oggi si dedicano i chiostri dei monaci.

[115] Costoro, che desiderano volgerci con loro più alle cose terrene che a quelle spirituali, sono come i Filistei che perseguitano Isacco mentre scava i pozzi e, riempiendoli di terra, cercano di impedirgli di attingere l’acqua. Commentandolo san Gregorio dice nel libro XVI del Commento morale: «Spesso, quando ci volgiamo alla parola divina, dobbiamo sopportare più gravemente le insidie degli spiriti maligni, perché essi spargono sulla nostra mente la polvere dei pensieri terreni per privare gli occhi della nostra attenzione della luce della visione interiore». E questo aveva dovuto sopportare oltre misura il Salmista quando diceva: «Allontanatevi da me, malvagi, io voglio meditare i comandamenti del mio Dio», facendo chiaramente capire che non poteva meditare sui comandamenti di Dio quando nella sua mente doveva sopportare le insidie degli spiriti maligni. Nell’operare di Isacco vediamo che questo è significato dalla malvagità dei Filistei che riempivano di terra i pozzi scavati da Isacco. Noi, infatti, certamente scaviamo pozzi quando penetriamo profondamente nei significati nascosti della Sacra Scrittura; ma i Filistei li riempiono di nascosto quando, mentre tendiamo alle cose sublimi, introducono dentro di noi i pensieri terreni dello spirito immondo, e per così dire ci tolgono l’acqua della conoscenza divina che avevamo trovato. Ma, poiché nessuno può vincere questi nemici con la sua forza, per bocca di Elifaz è detto: «L’Onnipotente si schiererà a tua difesa contro i nemici e ammasserà argento per te». Come se dicesse: mentre il Signore con la sua forza allontanerà da te gli spiriti maligni, in te diventerà più splendente il talento della parola divina. Se non mi inganno, Gregorio aveva letto le omelie sulla Genesi del grande filosofo cristiano Origene e aveva attinto dal suo pozzo ciò che ora dice di quei pozzi. Infatti quell’instancabile scavatore di pozzi spirituali, esortandoci con forza non solo a bere da essi, ma anche a scavarli, così dice nell’omelia XII del citato commento: «Tentiamo di fare quello che ci suggerisce la Sapienza dicendo: “Bevi l’acqua delle tue fonti e dei tuoi pozzi e abbi una fonte di tua proprietà”. O ascoltatore, tenta anche tu di avere un tuo pozzo e una tua fonte affinché, quando prenderai in mano il libro della Scrittura, anche tu possa dare qualche interpretazione in base al tuo pensiero, e, secondo gli insegnamenti appresi in chiesa, tenta anche tu di bere dalla fonte del tuo ingegno. È in te la natura dell’acqua viva, ci sono le fonti perenni e i rivi irrigui del pensiero razionale, se solo non sono pieni di terra e di sterpi. Ma cerca di scavare la tua terra e di ripulire la sporcizia, cioè di ripulire l’ingegno, di eliminare la pigrizia e scuotere via dal cuore il torpore. Ascolta, infatti, ciò che dice la Scrittura: “Pungi un occhio e ne farai uscire una lacrima; pungi il cuore e ne farai uscire un pensiero”. E ripulisci anche tu il tuo ingegno, affinché alla fine tu possa bere anche dalle tue fonti e attigere dai tuoi pozzi l’acqua viva. Se, infatti, hai accolto in te la parola di Dio, se hai ricevuto da Gesù l’acqua viva e l’hai accolta con fede, vi sarà in te una fonte di acqua che zampilla per la vita eterna». Ancora Origene, nell’omelia seguente, dice a proposito dei pozzi di Isacco che abbiamo ricordato prima: «I pozzi, che i Filistei avevano riempito di terra, sono senza dubbio coloro che rinchiudono l’intelligenza delle cose spirituali così da non berne essi e da non permettere che ne bevano altri. Ascolta il Signore che dice: “Guai a voi, scribi e farisei, perché vi siete presi la chiave della scienza, ma non siete entrati voi e non avete permesso che vi entrassero quelli che volevano, ecc.”. Noi invece non dobbiamo cessare mai di scavare pozzi di acqua viva e, meditando ora cose antiche, ora anche cose nuove, diveniamo simili allo scriba evangelico del quale il Signore ha detto: “Trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”». E ancora «Ritorniamo ad Isacco e con lui scaviamo pozzi di acqua viva; e anche se i Filistei si oppongono, anche se lottano contro di noi, perseveriamo con lui nello scavare pozzi perché anche a noi si dica: “Bevi l’acqua dei tuoi vasi e dei tuoi pozzi”, e scaviamo fino a quando l’acqua dei pozzi non traboccherà nelle nostre piazze, affinché non solo basti a noi la conoscenza delle Scritture, ma possiamo istruire gli altri e insegnare agli uomini a bere. Beva anche il bestiame perché anche il Profeta dice: “O Signore, salverai gli uomini e le bestie da soma”». E poco dopo dice: «Chi è Filisteo e conosce le cose terrene, non sa trovare l’acqua su tutta la terra, non sa trovare il significato razionale. A cosa ti serve avere l’erudizione e non saperla usare? Avere la parola e non saper parlare? Questo è il lavoro dei servi di Isacco che scavano su tutta la terra pozzi di acqua viva».

[116] Invece voi non comportatevi così, ma evitate rigorosamente le chiacchiere inutili, e quelle tra voi che avranno ottenuto la grazia di imparare si sforzino di apprendere ciò che riguarda Dio, come sta scritto dell’uomo felice: «Ma la sua volontà sta nelle legge del Signore e nella sua legge mediterà giorno e notte». E subito viene aggiunto quale utilità derivi da questo assiduo studio della legge del Signore: «E sarà come un albero trapiantato sulle rive di un corso d’acqua, ecc.». Infatti come se fosse arido e sterile l’albero che non è irrigato dal corso d’acqua della parola divina, della quale sta scritto: «Dal suo ventre scaturiranno fiumi d’acqua viva». Questi sono quei fiumi dei quali la Sposa nei Cantici, descrivendo lo Sposo canta in sua lode: «I suoi occhi sono come colombe su ruscelli d’acqua, che si sono lavate nel latte e si posano lungo i pieni ruscelli». E voi, dunque, lavate nel latte, cioè splendenti del candore della castità, posatevi come colombe sulle rive di questi fiumi e, in essi essendovi abbeverate della sapienza, possiate non solo apprendere ma anche insegnare e, come occhi, mostrare agli altri la via, e non solo possiate vedere lo Sposo ma anche descriverlo agli altri. Sappiamo che della sua Sposa particolare, che meritò di concepire lo Sposo con l’orecchio del cuore, sta scritto: «E Maria, da parte sua, custodiva tutte queste parole e vi rifletteva in cuor suo». La madre del Verbo, dunque, teneva le sue parole nel cuore piuttosto che sulle labbra, e vi rifletteva attentamente, perché esaminava con cura ogni parola e le confrontava tra loro, verificando quanto coerentemente si armonizzassero l’una con l’altra. Sapeva che, secondo il mistero della legge, tutti gli animali sono detti impuri, salvo quelli che ruminano e hanno l’unghia divisa. Nessun’anima è, infatti, pura salvo quella che, meditando per quanto le è possibile, rumina i precetti divini e acquisisce discernimento nel metterli in pratica, non solo per compiere cose buone ma anche per compierle bene, cioè con retta intenzione. Infatti la fessura dell’unghia del piede è il discernimento dell’animo, del quale sta scritto: «Se offri giustamente, ma non dividi giustamente, hai peccato».

[117] La Verità dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Ma chi potrà osservare obbediente la parola o i precetti del Signore, se prima non li ha compresi? Nessuno sarà zelante nel metterli in pratica, se non sarà stato attento ad ascoltarli, come si legge anche della santa donna, che, messa da parte ogni cosa, seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola, certo con le orecchie dell’intelligenza, che egli stesso richiede dicendo: «Chi ha orecchie per intendere, intenda». E se non potete infiammarvi del fervore di tale devozione, almeno imitate nell’amore e nello studio delle lettere le sante discepole di san Gerolamo Paola e Eustochio, su richiesta delle quali, soprattutto, il dottore ha illuminato la Chiesa con tanti scritti. 


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26 marzo 2017        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net