SAN BENEDETTO E L'EUROPA


 

GIORGIO PICASSO O.S.B.

San Benedetto, patriarca d’Occidente

e patrono d’Europa

Estratto da “Brixia Sacra”, XI (2006), Fasc. 1, Associazione per la storia della Chiesa bresciana.

 

 Quando nel 1980 si celebrò il XV Centenario della nascita di san Benedetto, con grande sorpresa di tutti, l’Italia si riscoprì allora benedettina. Non c’è stato centro di cultura, città o diocesi, che non abbia avvertito la necessità di celebrare con convegni, mostre, o altre iniziative, una presenza benedettina, o quanto meno monastica, che in qualche modo riguardava le proprie lontane origini, oppure momenti o monumenti significativi della propria tradizione, del proprio passato. Tutti abbiamo imparato molto da quelle celebrazioni. Hanno lasciato un segno, hanno innestato un germe nelle nostre ascendenze per cui, le ricerche allora avviate sono poi proseguite e hanno propiziato l’occasione per conoscere e valutare meglio momenti fondamentali della nostra storia, religiosa e civile.

Il medioevo monastico bresciano è un caso felice di questa riscoperta storica con tutte le potenzialità insite in questa antica prospettiva che risale fino all’età longobarda, recuperata alla storia attraverso ricerche che si sono moltiplicate in questi 25 anni. È ancora recente l’iniziativa – per fare un esempio – che ci ha condotto a ripercorrere le tracce benedettine in val Camonica, raccolte poi nel bel volume ancor fresco di stampa, che tutti abbiamo ammirato [1]. L’iniziativa di oggi, questa giornata di studi nel monastero di San Faustino Maggiore di Brescia, il monastero della città, ci riporta ancora al medioevo monastico bresciano, con la traslazione della reliquia di san Benedetto alla chiesa dei Santi Faustino e Giovita, patroni della città. Patrono d’Europa san Benedetto; patrono della città i santi Faustino e Giovita. Ancora una volta, dunque, si ritorna, si riparte da san Benedetto. Penso che della storia del monastero di San Faustino Maggiore di Brescia ci sia senz’altro ancora molto da apprendere, ma – mi chiedo – su san Benedetto patriarca d’Occidente e Patrono d’Europa c’è ancora qualche cosa da dire, qualche cosa che non sia già stata detta nelle numerose precedenti occasioni, quando, come ho detto, l’Italia si riscoprì benedettina?

Mi conforta il fatto che tra gli impegni della ricerca scientifica vi è anche quello di un costante ritorno su se stessa per meglio comprendere i risultati in certo modo già acquisiti, per verificare e cogliere – eventualmente – nuove prospettive. Anche il ritorno alla figura patriarcale di Benedetto in tale prospettiva si può comprendere, e perfino giustificare, almeno per la pazienza che richiedo ai miei cortesi uditori.

Come è noto, la Vita di Benedetto è posta al centro dei Dialogi, un testo agiografico, un capolavoro, di Gregorio Magno, papa. Essa si compone di due parti disuguali. In un primo tempo, come riassume il p. Adalbert de Vogüé (pp. 20-22) [2], il giovane santo abbandona Roma e si stabilisce a Subiaco dove, dopo tre anni passati in una grotta, fonda e dirige una dozzina di piccoli monasteri. In seguito passa da Subiaco a Montecassino, che non lascia più fino alla morte. La prima fase è letterariamente breve: occupa solo i primi otto capitoli, mentre il periodo cassinese ne occuperà una trentina. Si può dire che Gregorio dedichi alla seconda fase uno spazio doppio di quello dedicato alla prima.

A questa differenza quantitativa si aggiunge un profondo contrasto morale. Mentre il periodo di Subiaco è punteggiato di prove spirituali che minacciano l’anima del santo e rivelano le sue virtù, quello seguente è caratterizzato da un sereno, ininterrotto irraggiamento: una volta infatti stabilitosi a Montecassino, Benedetto non fa che operare miracoli, gli uni di profezia, gli altri di potenza, a quanto pare senza subire nuove tentazioni. Tuttavia le due dozzine di miracoli cassinesi terminano con un passo avanti. L’ultimo dei dodici miracoli di potenza non è operato da Benedetto stesso, ma – contro la sua volontà – da sua sorella, la monaca Scolastica, che si rivela più potente di lui presso Dio perché ha amato di più. Questo insuccesso finale del taumaturgo è immediatamente seguito da una prima visione, quella dell’anima della sorella che sale al cielo. Poi Gregorio racconta e commenta magnificamente la seconda visione di un’anima portata in cielo, che si accompagna a un altro mirabile spettacolo: mentre assiste all’assunzione celeste di un vescovo defunto, il santo vede tutto il mondo raccolto sotto un unico raggio di luce divina.

Dai miracoli, l’abate di Montecassino passa dunque, per finire, alle visioni dell’aldilà. Dopo di esse, non gli resta altro che entrare egli pure in questa eternità beata. Debitamente annunciata da lui stesso, la sua morte è degna di quel lottatore che è sempre stato: muore nell’oratorio del monastero, in piedi, pregando, sostenuto dalle mani dei suoi figli. Dopo che due di loro hanno avuto la visione del suo itinerario verso il cielo, il racconto si conclude.

Nello schema, nel complesso abbastanza semplice, di questa biografia, si vorrebbe poterne datare i principali avvenimenti. Ma la cronologia non sta a cuore a Gregorio. Egli non dice mai a quale età Benedetto compia questo o quel passo e nemmeno fornisce date relative alla storia generale. Tuttavia ci dà, fin dal Prologo, un’indicazione utile: il suo racconto è basato sulla testimonianza di quattro monaci, discepoli immediati del santo, che Gregorio ha interrogato personalmente: ossia lo scarto cronologico tra il narratore e il suo eroe è poco notevole. Benedetto deve essere vissuto fin verso la metà di quel VI secolo nel cui ultimo decennio Gregorio scrisse i suoi Dialogi.

Questo dato sommario è corroborato e precisato da due episodi particolari del periodo cassinese, che si ricollegano a fatti conosciuti attraverso altre fonti. Ne cito uno: la visita solenne fatta a Montecassino dal re goto Totila, preceduto da tre suoi conti, visita che rappresenta l’occasione per due miracoli di conoscenza (come li chiama il p. de Vogüé) operati da Benedetto. Certamente questi fatti avvennero prima dell’anno 552, quando il re morì. Ma la data del 547 per la morte di Benedetto, mal si accorda con alcuni dati della Regola, che pare terminata tra il 550 e il 560. Anche all’altro estremo, la nascita, la data convenzionale del 480 potrebbe essere ritardata. All’anno 529 il passaggio del santo da Subiaco a Montecassino non è inverosimile.

Questi riferimenti possono soddisfare, almeno sommariamente, la legittima curiosità del lettore moderno, abituato ad ammirare personaggi “storici”, di cui gli vengono indicate anche, nel modo più preciso possibile, le coordinate spaziali, cronologiche, sociali, politiche. Ma se si vuole trarre profitto dal secondo libro dei Dialogi bisogna prestare attenzione ad altri oggetti. Seguiamo ancora una volta la acuta lettura del monaco francese citato: l’importante non è ricostruire il destino dell’uomo Benedetto utilizzando il poco che ci dice il suo biografo e aggiungendovi, in via congetturale, a partire da altre fonti o dalla nostra propria esperienza, quello che egli non dice, ma piuttosto entrare nel disegno dell’agiografo, sposare la visione di questa vita di santo, capire dall’interno, alla luce della Scrittura che egli cita così spesso, il tracciato spirituale che egli ha voluto descrivere.

Qual è dunque quest’itinerario tracciato dalla vita di Benedetto? Quello di un giovane cristiano di famiglia agiata, che i genitori, residenti a Norcia, a nord di Roma, hanno inviato nella capitale perché compia i suoi studi e si prepari a una carriera secolare, ma che prende in avversione i costumi troppo liberi dell’ambiente studentesco e decide di abbandonare Roma, con l’intenzione di dedicare la vita al servizio di Dio.

Ed ora qualche considerazione su Benedetto monaco a Subiaco. Rompendo così con i progetti dei suoi genitori, il giovane non sembra si sia preoccupato di ottenere il loro permesso e nemmeno di informarli. Radicale è la sua rottura, non soltanto con il mondo, ma perfino con quelli che l’hanno messo al mondo. Tuttavia, partendo per le montagne a est di Roma, mantiene ancora un legame con la famiglia: la sua nutrice, che viveva con lui a Roma, lo accompagna in questa prima tappa. Governante e madre insieme, questa persona è la prima figura femminile di una storia in cui le donne interverranno a più riprese, talvolta in modo decisivo.

Senza volerlo, la nutrice provocherà uno di quei mutamenti improvvisi e profondi che scandiscono la vita di Benedetto. Dirigendosi a est di Roma, il giovane e la donna si sono fermati nel villaggio di Enfide (oggi Affile), a circa sessanta chilometri dalla città, e là vivono della carità di alcuni cristiani agiati. Avendo preso a prestito un vaglio per setacciare il grano, la nutrice lo lascia cadere ed esso si rompe. Le lacrime di questa donna desolata commuovono Benedetto, che si raccoglie in preghiera e ottiene la riparazione miracolosa dell’oggetto rotto. Allora l’ammirazione generale che questo primo miracolo aveva provocato suscita in lui una nuova reazione radicale: per sottrarsi alla venerazione degli abitanti di Affile, Benedetto lascia segretamente il villaggio, senza neppure salutare la nutrice, e si dirige verso Subiaco, un po’ più a nord, dove desidera scomparire agli occhi di tutti nella solitudine. Con l’aiuto di un monaco incontrato sul posto, che si chiama Romano, Benedetto si stabilisce in una grotta, dove vivrà da solo per tre anni, sconosciuto a tutti. Romano, l’unico al corrente della sua presenza, gli garantisce il nutrimento calandogli dall’alto, mediante una corda, un po’ di pane prelevato segretamente dalla propria razione. Al di sopra della grotta infatti si trova il monastero in cui vive Romano, monastero retto da un certo abate Adeodato.

Questa scomparsa quasi totale di Benedetto terminerà, in capo a tre anni, con l’episodio di due incontri preparati dalla Provvidenza. Dapprima un prete dei dintorni riceve dal cielo la rivelazione della sua presenza e l’ordine di portargli il pranzo pasquale. In seguito alcuni pastori lo scoprono e, dopo averlo preso per un animale, si accorgono della sua santità. Si instaura allora uno scambio: essi gli portano da mangiare ed egli dà loro buoni consigli. Fermiamoci qui. Questi pochi avvenimenti formano già un ciclo completo che dobbiamo osservare e comprendere. Parecchie volte, in effetti, questo ciclo si ripeterà a Subiaco. Esso è sempre scandito su tre tempi successivi: prima una tentazione, poi una reazione eroica, e infine un irraggiamento. Ecco gli schemi del p. de Vogüé (pp. 25-26):

1. Una tentazione impura; una reazione eroica (tra le spine); la fama di santo.

2. Tentazione del potere (abate a Vicovaro); reazione eroica (abbandona il monastero); fondatore dei monasteri di Subiaco.

Attraverso questi passaggi, scanditi da altrettanti fatti prodigiosi, Benedetto diventa monaco in certo modo completo, maturo per altre esperienze. Altri cinque fatti prodigiosi, sempre a Subiaco, lo fanno rassomigliare ad altrettanti personaggi biblici. Il papa Gregorio è particolarmente interessato alla somiglianza di ogni miracolo con un prodigio della storia sacra.

L’acqua che scaturisce dalla roccia ricorda Mosè; il ferro ripescato nell’acqua fa pensare ad Eliseo; Mauro che cammina sulle acque evoca l’apostolo Pietro. Il pane portato via da un corvo obbediente gli ricorda Elia; le lacrime versate sulla morte di un nemico – il prete Fiorenzo – fanno rassomigliare Benedetto al re Davide. In tal modo si costituisce una serie di cinque fatti che evocano altrettanti personaggi biblici: Mosè, Eliseo, Pietro, Elia, Davide. Tutti questi miracoli sono opera di un solo taumaturgo: il monaco Benedetto. Il diacono Pietro dei Dialogi può concludere che veramente il santo monaco di Subiaco era pieno dello Spirito di tutti i giusti. Nulla meglio di questa formula mostra il disegno del narratore, che celebra il santo del suo secolo, il secolo VI, unicamente per orientare l’attenzione del lettore verso la Sacra Scrittura. La vita di Benedetto – conclude il de Vogüé (p. 35), come l’insieme dei Dialogi, di cui costituisce il centro – l’intero libro secondo – è l’Antico e il Nuovo Testamento resi presenti, attualizzati, prolungati fino al secolo del papa Gregorio Magno e dei cristiani per i quali egli scrive.

Portiamoci ora per una breve sosta a Montecassino, dove san Benedetto salì intorno al 529, come abbiamo detto, e dove fondò il celebre monastero, più volte distrutto durante i secoli e sempre risorto. Lo stabilirsi di Benedetto a Montecassino, come osserva ancora il p. de Vogüé (pp. 36 sgg.), è accompagnato da una azione evangelizzatrice su una popolazione rurale pagana in gran parte. Arrivando su questa altura, il santo vi trova il tempio di Apollo – dice Gregorio, ma forse si tratta del tempio di Giove – e i boschi sacri consacrati al culto del demonio, al quale una folla di infedeli, ancora a quel tempo, rendeva culti sacrileghi.

L’azione violenta di Benedetto, che spezza l’idolo e taglia i boschi sacri, ricorda non solo gli ordini di distruzione dell’Antico Testamento, ma anche le campagne missionarie di san Martino nella Gallia del IV secolo. Si può ben essere certi che questo modello di monaco, divenuto poi vescovo di Tours sia presente alla mente di san Benedetto: infatti egli dedica a san Martino l’oratorio che sostituirà il tempio di Apollo, mentre a san Giovanni Battista dedicò un altro oratorio situato in cima al monte. L’azione antipagana di Benedetto colpisce Satana, l’ispiratore dei culti idolatrici, che si fa autore di una serie di tiri mancini: immobilizza una pietra che i fratelli non riescono a muovere, provoca un incendio illusorio che sembra mandare a fuoco la cucina e fa crollare un muro che schiaccia un piccolo monaco. Ogni volta Benedetto rimedia con la preghiera; anche il monachino torna al suo lavoro sano e salvo.

In queste occasioni Benedetto appare come uomo di preghiera; risolve tutte le difficoltà con la preghiera. Ma i tre episodi demoniaci non sono che una introduzione al periodo cassinese che comprenderà almeno ventiquattro episodi meravigliosi disposti in buon ordine: ai dodici miracoli di conoscenza si succederanno dodici miracoli operativi. Benedetto non soltanto è il profeta che discerne l’invisibile e prevede l’avvenire; è anche l’amico di Dio, la cui parola, il cui gesto od anche il semplice sguardo hanno una efficacia imprevedibile. Solo l’ultimo di questi miracoli di potenza si compirà non come Benedetto vuole, ma contro la sua volontà, in virtù del potere superiore di Scolastica, che in occasione dell’ultimo incontro con il fratello ottiene dal cielo una tempesta che favorisce il protrarsi del colloquio (cfr. de Vogüé, p. 38).

Dall’insieme della narrazione gregoriana la vita di san Benedetto è quella di un santo che non ha altro scopo di condurre altri alla santità. Portiamoci brevemente al capitolo XXXVI del secondo Libro dei Dialogi, e leggiamo:

Gregorio (è il papa che scrive): Mi piacerebbe, Pietro (è l’interlocutore del dialogo) raccontarti ancora molti particolari della vita di questo venerabile padre, ma a bella posta ne tralascio alcuni per affrettarmi a esporre ciò che altri hanno fatto. Non vorrei però che tu rimanessi all’oscuro del fatto che, fra i tanti miracoli che resero famoso al mondo l’uomo di Dio, c’è pure da porre il luminoso splendore della sua dottrina. Scrisse infatti una Regola per i monaci, notevole per il senso della misura e bella per la perspicuità della forma. Se poi qualcuno volesse conoscere con maggior ricchezza di particolari la vita e i costumi del santo, potrebbe trovare nelle prescrizioni medesime della Regola il modo stesso come egli visse in pienezza il suo insegnamento; ché Benedetto non avrebbe in nessun modo potuto insegnare in un modo e vivere in un altro.

Pertanto, è la stessa narrazione gregoriana che ci introduce alla conoscenza della Regola di Benedetto: ci viene presentata con espressioni lusinghiere “discretione praecipua, sermone loculenta”; bella nella forma, discreta nei contenuti, nella disciplina. Ma altresì fonte per comprendere meglio la vita del santo: non sarebbe stato capace di vivere in modo diverso da quello prescritto ai suoi monaci.

La Regola di Benedetto, che in questa sede sarebbe troppo lungo presentare anche in sintesi, trascritta in numerosi manoscritti, diffusa e praticata a partire dal secolo IX in tutti i monasteri del Sacro Romano Impero, maschili e femminili, è alla base della cultura e della civiltà europea. Nessun testo, dopo la Bibbia, ha conosciuto una diffusione altrettanto capillare. Nell’antichità, ossia nei primi secoli della storia monastica, erano state compilate molte regole; nessuno sa esattamente quante se ogni abate si poteva ritenere autorizzato a comporne una per il proprio monastero.

Benedetto di Aniane nella sua Concordia regularum, raccolta all’inizio del secolo IX, ne ricuperò e trascrisse una ventina, ma con lo scopo di mostrare, su tutte, la preminenza della piccola Regola di san Benedetto. E che fosse una ‘piccola’ regola, l’aveva riconosciuto anche Benedetto nel momento di accomiatarsi dal suo monaco:

Dunque, chiunque tu sia – leggiamo nell’epilogo (cap. LXXIII) – che ti affretti verso la patria celeste, realizza con l’aiuto di Cristo questa piccola regola per principianti che abbiamo finito di scrivere; allora soltanto arriverai, grazie alla protezione di Dio, alle vette più elevate di dottrina e di virtù che abbiamo nominato. Amen.

Si noti: “arriverai” (pervenies). Quest’ultima parola dell’epilogo richiama l’espressione usata qualche riga sopra a proposito dei libri dei santi padri cattolici, «per arrivare al nostro Creatore». A sua volta, ricorda l’immagine del ritorno a Dio, presentata nel Prologo, all’inizio della Regola. Ebbene queste metafore del cammino e della corsa, lasciano intravedere assai bene il disegno unico di tutta l’opera di Benedetto, che è quello di condurre ogni monaco o monaca, in Cristo, all’incontro e alla visione del Creatore. L’Europa di Benedetto è orientata verso l’alto, verso le realtà celesti.

Il santo – possiamo concludere – è patriarca d’Occidente perché, ripieno dello Spirito di tutti i giusti, ha rinnovato nel suo secolo le gesta dei patriarchi biblici; il santo, proclamato ufficialmente dal papa Paolo VI [3], è patrono d’Europa perché contribuì con la sua Regola, con i suoi numerosi monasteri e i suoi numerosissimi monaci, a porre le fondamenta cristiane alla costruzione dell’Europa.

 


[1] Si tratta del contributo miscellaneo sostenuto dalla Fondazione Camunitas, Il monachesimo in Valle Camonica, Atti della giornata di studio (Eremo dei Santi Pietro e Paolo di Bienno - Monastero di San Salvatore di Capo di Ponte, 31 maggio 2003), Breno 2004, con testi di G. Camadini, G. Picasso, A. Baronio, G. Andenna, H. P. Autenrieth, G. Archetti, O. Franzoni, P. Trotti e G. Medolago; a cui ha fatto seguito il ricco volume strenna della Banca di Valle Camonica, Monachesimo e sviluppo del territorio nelle Alpi lombarde, a cura di O. Franzoni, Breno 2005, con saggi di A. Breda, O. Franzoni, E. Gusmeroli, M. Mascetti, G. Medolago, G. Archetti e Nota introduttiva di N. Wolf.

[2] In questa conversazione mi è stata di guida l’opera di Aldalbert DE VOGÜÉ, San Benedetto. L’uomo e l’opera, Abbazia S. Benedetto, Seregno (Mi) 2001 (Orizzonti monastici, 27). L’autore, monaco benedettino dell’abbazia di La-Pierre-qui-Vire (Francia), è oggi il migliore studioso di san Benedetto.

[3] Si vedano in proposito i contributi di G. CAMADINI, N. WOLF e L. ACCATTOLI in Paolo VI e la spiritualità monastica benedettina, «Notiziario» dell’Istituto Paolo VI di Brescia, 49 (2005), pp. 125-139.



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8 gennaio 2021                a cura di Alberto "da Cormano"               alberto@ora-et-labora.net