Regola di S. Benedetto

 

XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio: All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza.  In altre parole non si anteponga nulla all'Opera di Dio".

L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio: I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora fissata per l'Opera di Dio, se l'impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall'abate, recitino pure l'Opera di Dio sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.

LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli:
Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio"..... In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Opera di Dio, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.

LXVII - I monaci mandati in viaggio:
I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell'abate;  e nell'orazione conclusiva dell'Opera di Dio si ricordino sempre tutti gli assenti.

 


La sola vera opera

Estratto da "La saggezza del monaco" di Luigi Gioia O.S.B., Ed. Dehoniane Bologna 2017

Nella regola benedettina troviamo significativamente che all’amore di Cristo e all’opus Dei è attribuito uno stesso primato, espresso in entrambi i casi con l’avverbio nihil: «Non anteporre nulla all’amore di Cristo»[1] e «nulla sia anteposto all’opera di Dio».[2] Questo parallelo, anche e forse soprattutto se non è intenzionale, esprime qualcosa di profondo sul senso da dare all’espressione opus Dei: opus Dei e amore di Cristo sono la stessa realtà e per questo hanno lo stesso primato.

Questo ci fa già capire che amore di Cristo qui vuol dire prima di tutto amore di Cristo per me, per noi e solo dopo mio, nostro amore per Cristo. In questo modo siamo condotti a porci un interrogativo legato all’espressione stessa opus Dei: perché chiamare la celebrazione comunitaria della liturgia delle ore opus Dei, cioè «opera non dell’uomo ma di Dio»? Da un punto di vista teologico, la risposta è semplice: perché la liturgia è accoglienza e celebrazione di ciò che solo Dio opera, solo Dio dona e al quale possiamo corrispondere solo per dono di Dio.

Il Vangelo di Giovanni parla sia di opere di Dio al plurale che di opera di Dio al singolare. Al plurale quando Gesù dice:

Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre (Gv 14,10-12).

Al singolare nel passaggio seguente: «Essi dunque gli dissero: “Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” Gesù rispose loro: “Questa è l’opera di Dio [l'opus Dei]: che crediate in colui che egli ha mandato”» (Gv 6,28-29). Ai discepoli che gli chiedono quali siano le opere di Dio, cioè le opere che gli uomini devono fare per Dio, Gesù risponde in modo inaspettato capovolgendo la prospettiva: prima di parlare di opere degli uomini per Dio, occorre accogliere l’opera di Dio per l’uomo, l’opus Dei, ciò che Dio opera in noi, cioè il dono della fede. E il dono della fede, lo sappiamo bene, nel senso giovanneo e neotestamentario, non indica solo il contenuto da credere (cosa credo), ma prima di tutto il dono della relazione con Dio, il dono della comunione con Dio.[3]

Raggiungiamo così un dato teologico fondamentale: l’opus Dei è ciò che Dio opera in noi, è la grazia, è il dono di Dio, ed esso è comunione, è alleanza, è riconciliazione. La fede, intesa come adesione a Dio, ci conferisce un dono, una grazia che è di natura essenzialmente comunitaria. A sua volta, tale dono, tale grazia si traduce in un’azione di grazie (eucaristia) che è anch’es- sa essenzialmente comunitaria, sia come forma di preghiera che come forma di vita.

L’espressione della regola di san Benedetto nihil operi Dei praeponatur non vuole dunque dire «non si anteponga nulla alle opere che noi dobbiamo fare per Dio», ma «non si anteponga nulla all’accoglienza e alla celebrazione di ciò che Dio fa per noi», cioè all’accoglienza e alla celebrazione dell’opera di salvezza di Dio in noi, dell’alleanza, della riconciliazione, della comunione di Dio.

La comprensione di cosa sia l’opus Dei in questa prospettiva è radicalmente trasformata. In essa è ristabilito il primato dell’iniziativa e dell’azione del Signore. L’accento non è più su come noi celebriamo la liturgia delle ore, cioè sulla forma, con tutte le derive rubriciste o estetizzanti che questo approccio può comportare, ma su quello che il Signore fa attraverso la liturgia.

In questa prospettiva, «non anteporre nulla all’accoglienza e alla celebrazione di ciò che Dio fa per noi» vuol dire prima di tutto lasciarsi continuamente convocare (con-vocare: «chiamare insieme», «riunire insieme») in questa alleanza per mezzo della parola di Dio, cioè lasciarsi sempre più profondamente ri-conciliare con il Padre e con i fratelli. Poi vuol dire rispondere continuamente a questa grazia con il sacrificio di azione di grazie della celebrazione eucaristica e del suo prolungamento, la salmodia, la cui natura è essenzialmente comunitaria. Nella liturgia si celebra la grazia, il dono di Dio, si rende grazie per la grazia, cioè si rende dono per dono e in questo modo diventiamo, in unione con Cristo, un sacrificio gradito a Dio. Poi vuol dire ancora lasciare esprimere questa alleanza, questa riconciliazione, questa comunione, lasciare che si manifesti in una vita che effettivamente diventi segno di questa grazia la cui natura è essenzialmente comunitaria: se è questa la grazia che riceviamo, se effettivamente la accogliamo con cuore aperto e sincero, allora lo si vedrà nella qualità (e nella fecondità) della nostra vita comunitaria.

 Tutti insieme

San Benedetto aveva una chiara consapevolezza di tutto questo. Nella sua regola, infatti, entrambe le espressioni che abbiamo preso come base, «nulla sia anteposto all’opera di Dio» (RB, 43,3) e «non anteporre nulla all’amore di Cristo» (RB, 4,21; cf. RB, 72,11 e 5,2), proprio perché mettono al centro della vita del monaco il carattere essenzialmente comunitario della salvezza, sono incastonate in un contesto comunitario.

La celebrazione della liturgia delle ore è per sua natura comunitaria e la regola dispone che tutta la comunità vi partecipi integralmente e per tutta la sua durata. Solo l’abate può dispensare il monaco dal parteciparvi per ragioni serie. Ma anche quando i monaci sono lontani dal monastero devono recitare l’ufficio alle ore fissate, lì dove si trovano (RB, 50). Il luogo di visibilità principale della comunità è la celebrazione comune della liturgia. Ma altre disposizioni esprimono questa stessa concezione di fondo, per esempio nei capitoli dedicati alla scomunica dei monaci che hanno commesso delle colpe, siano esse gravi o leggere (RB, 23-30; 43-44).

La parola «scomunica» ha perso oggi lo spessore ecclesiale del suo significato originario. Nella regola di san Benedetto essa è un’esclusione dalla comunione visibile con uno scopo medicinale, cioè un mezzo di guarigione, un modo per aiutare il monaco a capire la vera portata delle colpe che ledono la vita comunitaria, introducono divisioni, come soprattutto l’orgoglio, il mormorio, la disobbedienza (RB, 23,1). La scomunica è una pedagogia per aiutare il fratello recalcitrante a prendere coscienza della gravità delle conseguenze del suo atteggiamento sulla comunità.[4] Un isolamento fisico, con la solitudine che esso comporta, aiuta a capire quanto ancora più grave sia l’isolamento morale nel quale ci si rinchiude separandosi dai fratelli con atteggiamenti di ripiego su se stessi. Ora, nella regola, la forma di scomunica più grave riguarda appunto la celebrazione della liturgia. Essa può andare dalla proibizione di esercitare un ruolo attivo nella preghiera (intonare salmi, fare le letture) (RB, 24,2; 44,4-6) all’esclusione pura e semplice dall’oratorio (RB, 25,1; 44). La nostra preghiera è gradita a Dio solo se è fatta in unione con Cristo e con il suo corpo che è la Chiesa. Il monaco che con il suo comportamento ha leso la vita comunitaria deve prendere coscienza delle conseguenze delle sue azioni attraverso l’esclusione dalla celebrazione comune della liturgia.

La seconda espressione, «non anteporre nulla all’amore di Cristo», è a sua volta inserita nel celebre capitolo 72 della regola che è unanimemente riconosciuto come una delle pagine più importanti del codice benedettino:

Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno, così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. Ed è proprio questo zelo che i monaci devono esercitare con la più ardente carità e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; sopportino con grandissima pazienza le loro debolezze fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi scambievolmente; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; si portino a vicenda un casto amore fraterno; temano Dio con amore; amino il loro abate con sincera e umile carità; non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Alla luce di tale contesto appare più chiaramente il senso dell’ingiunzione «non anteporre nulla all’amore di Cristo»: possiamo dire di stare veramente accogliendo questa grazia, questa salvezza, questa alleanza, questa riconciliazione; possiamo veramente dire di non preferire nulla all’amore di Cristo, di non preferire nulla all’opus Dei, solo quando realmente ci onoriamo a vicenda, solo quando realmente portiamo con pazienza le nostre infermità, solo quando siamo aperti gli uni nei confronti degli altri, non cerchiamo il nostro interesse, ma quello degli altri, ecc. E il carattere comunitario della salvezza si traduce in particolare nel «tutti insieme» con il quale questo capitolo si conclude: i monaci benedettini non cercano una salvezza individuale, ma una salvezza comunitaria, vogliono giungere tutti insieme, pariter, alla vita eterna.

Quando ci si interroga dunque sul carisma o sulla spiritualità del monachesimo benedettino è in questa preferenza (nihil preponatur, nihilpraeponere, pariter) che occorre cercarli: nulla può essere anteposto all’opera di salvezza del Padre in noi, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, che è alleanza, riconciliazione, comunione; nulla può essere anteposto all’accoglienza di questo amore, alla sua celebrazione nella preghiera e in una vita fraterna che permetta a questa grazia di esprimersi; nulla può essere anteposto alla comunione, cioè a questa comunità di cui faccio parte e alla Chiesa locale nella quale essa è inserita e alla cui edificazione devo concorrere con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Infine, nulla può essere anteposto a questo pariter: occorre avanzare tutti insieme; non c’è vera gioia se non si giunge al traguardo tutti insieme.



[1] RB, 4,21: Nihil amori Christi praeponere. Cf. RB, 72,11: Christo omnino nihil preponant e RB, 5,2: Haec convenit his qui nihil sibi a Christo carius aliquid existimant (Questa (obbedienza) è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo).

[2] RB, 43,3: Nihil operi Dei praeponatur.

[3] Cf. lGv 1,1-4: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena».

[4] Questo spiega perché, per san Benedetto, la condizione fondamentale perché la pena della scomunica possa essere inflitta è la capacità di comprenderne la gravità. Cf. RB, 23,4: Si vero neque sic correxerit, si intellegit qualis poena sit, excommunicationi subiaceat (Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione); 30,2: Ideoque, quotiens pueri vel adulescentiores aetate, aut qui minus intellegere possunt quanta poena sit excommunicationis (Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica).

(Le traduzioni dei versetti della Regola nelle note sono state aggiunte dal redattore del sito)


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19 febbraio 2018          a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net