Regola di S. Benedetto

Prologo

1. Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, 2. in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza. 3. Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

 

Capitolo V - L'obbedienza

1. Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza. 2. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo 3. e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell'inferno e in vista della gloria eterna, 4. appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio. 5. E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai obbedito" 5. mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi, ascolta me".


 

L’obbedienza del cristiano

Luciano Manicardi – Monaco di Bose

Estratto da “L’obbedienza nella Bibbia” – Edizioni Qiqajon 2003

 

Alla base dell’obbedienza del cristiano c’è Gesù Cristo rivelatore della volontà di Dio e compitore della nuova alleanza: «Ascoltate lui» (Mc 9,7) è la voce del Padre alla trasfigurazione. Il cristiano è l’obbediente a Cristo ed è colui che obbedisce in Cristo: è la fede stessa che pone l’esistenza cristiana sotto il sigillo dell’obbedienza. «Credere è fare la volontà di Dio» ha scritto Ireneo di Lione (Adv. Haer. IV,6,5). Il principio paolino dell’«obbedienza di fede» (Rm 1,5; 16,26) esprime bene questa centralità: «obbedienza e fede sono due modi di dire la stessa esistenza credente e cristiana; la sottomissione e l’abbandono di tutto l’uomo al Dio che lo ha creato e che lo ha riconciliato e salvato in Cristo» [1]. Battezzato in Cristo, il cristiano «riveste Cristo» e con l’obbedienza si appresta a far regnare in sé la presenza e la signoria di Cristo, non quella del peccato (Rm 6,1-14). Pertanto l’obbedienza cristiana è inscindibile dal movimento di conformazione a Cristo, dall’ingresso nella vita interiore, dalla vita in Cristo del credente e dalla vita di Cristo nel credente, dal dimorare in Cristo. Non a caso il grande inno cristologico presente in Filippesi è al cuore di una parenesi comunitaria in cui Paolo chiede ai cristiani di Filippi di avere in sé lo stesso sentire (phrónema: Fil 2,5) che fu in Cristo Gesù nel suo movimento di kenosi, abbassamento e obbedienza. Questo movimento è quello dello spogliamento dell’«io» per far vivere in sé l’«io» di Cristo (cf. Gal 2,20), è il movimento della rinuncia - fatta nell’amore e nella libertà - al proprio volere per compiere il volere di Cristo, per realizzare ciò che è conforme all’evangelo. Senza questa dimensione di profondità e di interiorità l’obbedienza cristiana entra nella logica dell’esteriorità e della prestazione e si allontana dal suo fine, che è quello di fare del cristiano un obbediente, non semplicemente uno che esegue dei comandi, un servo, non semplicemente uno che compie dei servizi.

Questo significa che l’obbedienza del cristiano, secondo il NT, non è solo obbedienza a Cristo, ma anche allo Spirito santo: al cristiano è chiesto di «ascoltare ciò che lo Spirito dice» (cf. Ap 2,7; ecc.). L’intera obbedienza di Gesù, espressione della sua filialità, è stata guidata dallo Spirito (cf. Mc 1,12). Per Giovanni, l’espressione «osservare i comandamenti», vero ritornello che ritma il rapporto tra il Figlio e il Padre e tra il credente e il suo Signore, è condizione essenziale per rimanere nell’amore di Cristo (Gv 15,9-10), per conoscere l’inabitazione della vita divina in sé (Gv 14,23) e per ricevere l’effusione dello Spirito (Gv 14,15-17). L’istanza della docilità allo Spirito sottolinea le dimensioni di creatività, di responsabilità e di libertà richieste dall’obbedienza cristiana: se è lo Spirito che interiorizza nel credente la parola e la volontà di Cristo, allora l’obbedienza cristiana è evento pneumatico, evento nello e dello Spirito santo. E il NT afferma che lo Spirito santo è memoria di totalità nei confronti del Cristo: egli «guida a tutta la verità» il credente (Gv 16,13), gli «insegna tutto» (Gv 14,26) e gli «ricorda tutto» ciò che il Signore ha detto (Gv 14,26), è cioè memoria del Christus totus. Lo Spirito è memoria anche del non-detto di Cristo: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,12-13). Ovviamente questa creatività non è libero sfogo soggettivistico, ma è normata dall’evangelo eterno, sollecita la responsabilità di attualizzazione dell’evangelo nelle differenti situazioni storiche, esige il discernimento e la responsabilità del credente oggettivati dalla comunità in cui egli vive, il suo pieno coinvolgimento al fine di incarnare e inculturare l’evangelo nell’oggi, ma questo non nell’applicazione di una ricetta, di una legge, ma nel rischio e nella responsabilità dell’obbedienza. Del resto, è proprio a coloro che affrontano il rischio e la responsabilità dell’obbedienza a Dio che è rivolta la promessa dello Spirito: «Dio ha dato lo Spirito santo a coloro che gli obbediscono» (At 5,32). Questa dimensione pneumatica è del resto evidente anche per Paolo che fa del credente un figlio di Dio che a tale filialità accede grazie allo Spirito santo (Rm 8,14). Obbedienza e vita nello Spirito si richiamano reciprocamente. È pertanto evidente che la dimensione fondamentale dell’obbedienza cristiana può essere espressa come obbedienza «a Dio» (At 4,19; 5,29), «a Cristo» (2Cor 10,5), «alla fede» (At 6,7), «alla verità» (lPt 1,22; Gal 5,7), «all’evangelo» (Rm 10,16).

Il battesimo immette in questa vita di obbedienza: Paolo lo esprime con forza nella Lettera ai Romani. Dopo la catechesi sul significato del battesimo (Rm 6,1-11) e la parenesi che ne discende direttamente (Rm 6,12-14) Paolo prosegue: «Che diremo dunque? Pecchiamo perché non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia? Non sia mai. Voi sapete che, se vi mettete al servizio di qualcuno per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, quindi o del peccato che conduce alla morte, o dell’obbedienza che conduce alla vita. Ma, grazie a Dio, voi, che un tempo eravate schiavi del peccato, avete poi obbedito di tutto cuore a quella forma di insegnamento alla quale foste consegnati. Liberati dal peccato, siete divenuti schiavi della giustizia. (Parlo alla maniera umana, considerando la debolezza della vostra carne). Quindi: come un tempo avete posto le vostre membra al servizio dell’impurità e dell’ingiustizia e il risultato fu che cadeste nell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per giungere alla santificazione» (Rm 6,15-19; cf. anche vv. 20-23). Colpisce che, nell’antitesi proposta da Paolo, a «peccato» (amartia) si opponga «obbedienza» (hypakoé: Rm 6,16): se con il battesimo ci si sottomette con totale disponibilità all’obbedienza (alla fede, a Cristo), allora l’essere servi di Cristo diviene libertà dal peccato e l’obbedienza («di tutto cuore», che avviene cioè nell’intimo della persona e coinvolgendola totalmente) diventa esperienza di liberazione. Questa obbedienza radicata nel profondo è anche libertà interiore che consente al credente la perseveranza, di rimanere cioè nella fedeltà e nella sequela di Cristo anche in mezzo a situazioni di contraddizione e di difficoltà [2]. Nel concreto dell’esistenza deve essere chiaro, infatti, al discepolo, che il sì pronunciato con il battesimo è un sì a Cristo, non alle tante situazioni indesiderabili che non possono essere previste e che certamente si presenteranno nel corso della vita. In tanti eventi non-divini, in tante situazioni di tenebra, l’obbedienza può discernere, riconoscere e percorrere una strada che conduce a Dio. Ha scritto ottimamente Dietrich Bonhoeffer: «Certamente non tutto quello che accade è semplicemente “volontà di Dio”. Ma alla fine comunque nulla accade “senza che Dio lo voglia” (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio» [3].

Certamente, l’innesto dell’obbedienza cristiana nel battesimo e nella radicalità evangelica mostra che il gesto più epifania) di obbedienza è quello del martire: come per Cristo, così anche per il cristiano il limite dell’obbedienza è la croce, il dare la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Colui che dal battesimo ha assunto come orizzonte possibile della sua fedeltà all’evangelo il dono della vita, non può che contemplare, all’interno di questo dono, anche la rinuncia - nella libertà e nell’amore - al proprio volere. Il valore dell’obbedienza è evidentemente nell’offerta, nel libero e amoroso dono della propria libertà e della propria volontà. In questo appare chiaro che l’orizzonte dell’obbedienza è escatologico, è il regno di Dio: non si tratta anzitutto di soggezione a leggi e a precetti morali, ma di instaurare su di sé e nello spazio comunitario quella signoria di Cristo che, mentre impone una separazione dall’idolatria, annuncia anche la realtà del mondo in Dio, il Regno [4]. La valenza antiidolatrica dell’obbedienza, la dimensione di obiezione in essa insita è ben espressa dall’espressione degli Atti «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 4,19; 5,29). Il contesto dei due passi degli Atti è l’interrogatorio di Pietro e Giovanni (4,1-22) e di Pietro insieme agli apostoli (5,17-42) davanti al sinedrio: al divieto di parlare e insegnare nel nome di Gesù essi rispondono opponendo un rifiuto motivato dall’obbedienza a Dio. Anche l’autorità religiosa, il sinedrio, a cui i discepoli accordano rispetto, quando si pone in contrasto con l’autorità di Dio deve essere disobbedita. L’autorità religiosa che dimentica di essere obbediente a Dio, serva della sua volontà e sottomessa alla sua parola, legittima l’obiezione di coscienza del credente nei suoi confronti [5]. Se dunque l’obbedienza cristiana è essenzialmente l’obbedienza di fede, essa però non è concepita come virtù individuale o come ascesi personale, ma trova il luogo del suo avvenire nello spazio comunitario. La comunità, l’ekklesia, è luogo di inveramento dell’obbedienza a Dio.

Certamente, il NT parla anche dell’obbedienza negli ambiti familiare, sociale, politico, mostrando nei diversi scritti atteggiamenti diversificati a seconda dei diversi contesti culturali e delle congiunture politiche in cui si trovano i cristiani, e in genere presenta un atteggiamento lealista nei confronti dell’autorità statale (si veda però la critica del potere imperiale contenuta nell’Apocalisse) e di accettazione delle istituzioni sociali (per esempio, la schiavitù), nella coscienza che la dignità del cristiano gli conferisce una libertà che gli consente di affrontare e vivere «in Cristo» anche situazioni di subordinazione. Del resto questa struttura che mostra la società umana organizzata gerarchicamente e che ritroviamo nel NT non è un dato rivelato, ma l’assunzione di un modello culturale dell’epoca: è invece significativo sottolineare l’istanza della reciprocità che il cristianesimo inculca (cf. Ef 5,21: «Siate sottomessi gli uni agli altri») e il fatto che la comunità cristiana si ponga come spazio di rapporti in cui l’autorità è vissuta come un servizio, in cui il più grande e il primo prendono l’ultimo posto, in cui si richiede corresponsabilità e si tende a vivere nell’agape, nel perdono, nella gratuità [6].

Tuttavia non mi voglio soffermare su questo aspetto dell’obbedienza ma, sia pur rapidamente, sul «fatto comunitario»[7].Parlando della comunità cristiana come corpo di Cristo, Paolo attesta che in essa i rapporti sono di mutualità, di reciprocità, di bisogno l’uno dell’altro: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1Cor 12,21). Nella comunità cristiana esiste una responsabilità dell’uno verso l’altro, che nasce appunto dalla coscienza di essere «corpo di Cristo», di non appartenere a se stessi, ma a Cristo e, tramite Cristo, a Dio (cf. 1Cor 3,23). Anche l’immagine dell’edificio, della costruzione (oikodomé: cf. Rm 15,20; 1Cor 3,9.10.12.14; ecc.) rinvia alla stessa dimensione di reciproco bisogno nella comune dipendenza dall’unico Signore, che costituisce l’unico fondamento della costruzione, Cristo (1Cor 3,11). Lo statuto dell'altro nella comunità cristiana è per Paolo molto chiaro: l’altro è «un fratello per cui Cristo è morto» (1Cor 8,11). Il richiamo fondante a Cristo è riferimento al terzo che ordina secondo l’evangelo i rapporti nella comunità strappandoli a rivalità e gelosia, invidia e contesa (cf. Fil 4,2: «Esorto Evodia ed esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore»). Diviene allora possibile «sottomettersi gli uni gli altri nel timore di Cristo» (Ef 5,21), «obbedire alle guide (hegoumenoi) ed essere loro sottomessi» perché essi ne devono rendere conto al Signore e giudice (Eb 13,17; cf. anche 1Cor 16,16), «avere riguardo» per quelli che si affaticano per i membri della comunità cristiana e li ammoniscono, perché sono loro «preposti (proïstaménoi) nel Signore» (lTs 5,12). Sempre compare questa terza istanza che illumina anche gli incarichi di responsabilità, di guida e di autorità nella comunità come «servizio (diakonia) ricevuto nel Signore» (Col 4,17). L’epistolario paolino (e significativamente Paolo normalmente indirizza le sue lettere alle chiese, alle assemblee, alle comunità nel loro insieme anche quando vi sono dei precisi responsabili locali: per esempio 1Ts 5,12 oppure «la casa di Stefana» per la comunità di Corinto: 1Cor 16,16) mostra che Paolo tende a creare comunità responsabili, in cui gli incarichi precisi di alcuni non possono rendere disimpegnati gli altri: è compito di tutti il discernimento, la carità che edifica la comunità, la correzione fraterna, che pure è incarico preciso di chi ha ricevuto autorità ed è stato preposto al servizio dell’unità della comunità. Non a caso Paolo tende a creare, nelle comunità da lui fondate, delle relazioni improntate a umanità e fraternità in cui anche «i rapporti di autorità non sono tanto di tipo giuridico, ma si inscrivono in una relazione di carità e di cooperazione reciproca» [8]. Data la durezza del compito di esercitare l’autorità nella comunità cristiana, in questo modo viene creato un clima comunitario di corresponsabilità che rende vivibile tale esercizio (cf. lTs 5,13; cf. anche lTm 5,17; Eb 13,17). Come annota Annie Jaubert nel suo bel saggio sul «fatto comunitario» nelle epistole paoline, Paolo cerca di fare in modo che tutti i membri di una comunità siano «responsabili dei loro responsabili, responsabili di sostenerli nell’oneroso incarico assunto per la comunità ... I responsabili e la comunità sono in reciproca, seppure non simmetrica, dipendenza, e gli uni e l’altra sono tutti in posizione di dipendenza nei confronti del Signore» [9].

 



[1] G. Segalla, «L’“obbedienza di fede” (Rm 1,5; 16,26) tema della lettera ai Romani?», in Rivista Biblica 3 (1988), p. 342. Cf. anche G. Helewa, «Obbedire a Cristo Signore: un aspetto primario della fede secondo san Paolo», in Teresianum 42 (1991), pp. 381-412; F. Raurell, «La obediencia de Cristo, modelo de la obediencia del hombre segun san Pablo», in Estudios Franciscanos 64 (1963), pp. 249-270.

[2] Cf. G. Biguzzi, «“Sii fedele fino alla morte” (Ap 2,10)», in Studio Biblico Teologico Aquilano, L’obbedienza e la disobbedienza nella Bibbia, pp. 183-203.

[3] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 236.

[4] Sul rapporto tra regno di Dio e obbedienza dell’uomo cf. R. E. O. White, Biblical Ethics, John Knox Press, Atlanta 1979, pp. 78-108 (il capitolo: «The Kingdom of God and the Life of Obedience»).

[5] M. Adinolfi, «“Obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. La comunità cristiana e il sinedrio in Atti 4,1-31; 5,17-42», in Rivista Biblica 1-2 (1979), pp. 69-93; A. Barbi, «“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29) nel contesto della persecuzione gerosolimitana», in Studio Biblico Teologico Aquilano, L’obbedienza e la disobbedienza nella Bibbia, pp. 93-113; cf. anche L. Alonso Schökel, «La coscienza dell’obiezione. Considerazioni bibliche», in Id., Lezioni bibliche, pp. 184-192.

[6] Cf. A. Dumas, «La soumission mutuelle dans les épitres», in Communion 96 (1970), pp. 4-19; S. Légasse, «La soumission aux autorités d’après 1 Pierre 2,13-17: version spécifique d’une parénèse traditionelle», in New Testament Studies 34 (1988), pp. 378-396.

[7] A. Jaubert, «Les épitres de Paul: le fait communautaire», in Le ministère et les ministères selon le Nouveau Testament, Seuil, Paris 1974, pp. 16-33.

[8] Ibid., p. 33.

[9] Ibid., p. 26.

 


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24 settembre 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net