Regola di S. Benedetto

Prologo

1. Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, 2. in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza. 3. Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

 

Capitolo V - L'obbedienza

1. Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza. 2. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo 3. e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell'inferno e in vista della gloria eterna, 4. appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio. 5. E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai obbedito" 5. mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi, ascolta me".


L’obbedienza

Estratto da "Ascolta o figlio – Commento spirituale al Prologo della Regola di san Benedetto",

 di don Divo Barsotti - Ed. Fondazione Divo Barsotti 1998

 

«Ausculta, o fili, praecepta magistri, inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter excipe, et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras».

«Ascolta, o figlio, i precetti del Maestro e inchina l'orecchio del tuo cuore e accogli volentieri gli ammonimenti del tuo padre amoroso e con ogni potere li adempi; affinché tu ritorni per fatica di obbedienza a Colui dal quale ti eri allontanato per l'accidia della disobbedienza».

Si è detto che la vita è essenzialmente un rapporto; si è detto che in questo rapporto l’iniziativa è di Dio; si è detto che la prima cosa che si impone per l’anima è di accogliere la sua Parola. Ma Dio ci parla perché la Parola sua si realizzi in noi; è parola profetica e in noi deve trovare il suo adempimento, è comando divino e da noi aspetta una sua realizzazione: «et efficaciter comple» «e mettilo in pratica risolutamente». Questa parola deve divenire fatto nella tua vita, questa parola deve incarnarsi in te. Qual è la via perché tutto questo si compia?

Si è detto che la mistica precede l’ascesi, ed è vero. Tuttavia si è detto che se viviamo in dipendenza da Dio, non siamo coscienti di questa dipendenza che attraverso un cammino di purificazione interiore; pur essendo lui che ci muove, noi non lo avvertiamo, fintanto che non siamo divenuti leggeri, sì da esser portati via dal soffio del suo Spirito.

La Parola di Dio, che è precetto, «praecepta magistri», gli insegnanti del Maestro, deve ottenere da noi il suo compimento. In che modo? Praticamente tutto questo esige l’obbedienza come contenuto di tutta la vita religiosa. Il cammino che deve condurre l’anima a Dio, secondo le parole del Prologo, è l’obbedienza: «ut ad eum per obedientiae laborem redeas» “affinché tu ritorni con la fatica dell’obbedienza». Si tratta di un ritorno, e non si può fare questo ritorno che in un cammino di obbedienza. Dice di più la Regola: per un cammino penoso, faticoso. Dobbiamo spiegare queste parole. Sembra che non siano vere, perché?

Ricordate il parallelo fra la nostra vocazione e la parola che fu rivolta a Maria dall’Angelo: non soltanto nella vita presente Dio ci parla attraverso degli intermediari, ma anche l’efficacia di una nostra risposta a Dio dipende da un nostro abbandono. La nostra cooperazione è un lasciar fare Dio, secondo le parole stesse di Maria: «Fiat mihi secundum verbum tuum!».

Ce ne vuole prima di arrivare a questa pura passività! Maria ss.ma poteva esserlo fin dall’inizio perché era perfettamente pura. Per giungere a questa purezza bisogna imparare a camminare, e si cammina coi piedi, e il cammino è faticoso, ed è lento! La distanza che ci separa da Dio è infinita. Si diceva: bisogna volare; ma avanti di mettere le ali! Prima ci vuole la fatica dell’obbedienza. L’ascesi vien dopo la mistica, ma noi all’inizio dobbiamo impegnarci nello sforzo dell’ascesi, dobbiamo vivere cioè il nostro sforzo, il nostro impegno volontario di una nostra risposta a Dio, più che sperimentare l’azione onnipotente della Grazia che ci previene, ci sostiene, ci illumina, ci conduce.

Il contenuto del cammino dell’anima è l’obbedienza; un’obbedienza che, prima faticosa, lo diventa sempre meno, via via che si cammina, finché non diviene pura docilità, anzi puro e totale abbandono. Al termine l’anima non deve far altro che lasciarsi amare da Dio, lasciarsi possedere da lui. Di fatto finché ci è chiesto di camminare dobbiamo essere noi a muovere i piedi, almeno abbiamo questa impressione. Poi quando voliamo, staremo fermi. Effettivamente nella vita spirituale tanto più rapido è il nostro cammino quanto più siamo fermi, fermi in Dio, immutabili in lui. Egli stesso ci porta, ci solleva, c’innalza! Ma prima bisogna camminare. Comunque il cammino dell’obbedienza procede verso l’abbandono, e l’abbandono tanto più diviene perfetto, quanto più diviene stabile. Non un semplice atto, ma uno stato permanente dell’anima. In fondo è tutto qui: tutta la vita spirituale consiste in poche cose. La vita spirituale cristiana è talmente semplice che si può dire che consiste in questo: nell’ascoltare e nell’obbedire, e l’una cosa non è senza l’altra. Quando si fa una cosa, ma si fa perfettamente, in quell’unica tutte le altre sono comprese. La carità perfetta non implica la perfezione di tutte le virtù? Così in ogni atto noi viviamo tutta la vita quando siamo perfetti.

Ma avanti di esserlo, l’obbedienza non è la purezza, la purezza non è la povertà, la povertà non è la mortificazione. E noi sentiamo la fatica nell’esercizio di ogni virtù, e dobbiamo vivere questa fatica generosamente, senza stanchezza. Nella vita spirituale la nostra giovinezza si rinnova nella misura della nostra generosità. Non ci si stanca perché si dona molto, ci si stanca perché si dona poco. La fatica nell’esercizio della virtù la sentiamo non perché siamo generosi, ma perché siamo infingardi. Per San Benedetto, in dipendenza del resto dalla spiritualità monastica orientale, l’obbedienza è l’atto costitutivo della vita religiosa. Senza obbedienza non c’è vita religiosa, non soltanto in senso giuridico, ma nel senso più ampio, perché non si ha nemmeno vita cristiana. Nel cattolicesimo praticamente l’esercizio di ogni virtù si risolve sempre nell’obbedienza, precisamente perché non abbiamo noi l’iniziativa, ma dobbiamo dipendere da Dio. Vivere vuol dire dipendere da lui che è il nostro Creatore, il che non si può che attraverso l’obbedienza. Per questo anche la fede, nel cattolicesimo, è obbedienza: obbedienza a un magistero. Non so se avete letto un romanzo scritto dal card. Newman dopo la conversione, Perdita e guadagno. In questo romanzo egli parla di un anglicano che si converte al cattolicesimo (evidentemente è un romanzo autobiografico). In una pagina interessante un amico di questo convertito dice di credere a tutto quello che credono i cattolici, ma di non sentire la necessità di farsi, per questo, cattolico. È il contenuto di quel che crediamo che determina la nostra fede, o è l’obbedienza alla parola di Dio? Questo è il problema che pone il card. Newman. E lo risolve precisamente in questi termini: l’anglicano che crede a tutto quello che crede il cattolico, non crede nulla, perché non crede altro che a se stesso, alle conclusioni di un suo ragionamento; non si affida alla parola di Dio.

Noi siamo garantiti di credere certamente a Dio se il nostro atto è un atto di vera obbedienza; per questo il Signore ha voluto che la sua rivelazione divina ci venisse proposta dal magistero infallibile della Chiesa, perché noi fossimo garantiti contro noi stessi che il nostro atto è veramente un atto di fede, in un atto di obbedienza al magistero. Dio mi supera, Dio mi trascende: se non ci fosse il magistero della Chiesa non sarei sicuro mai di credere a Dio piuttosto che a una conclusione di un mio ragionamento. Come potrei essere sicuro veramente di credere? Credo a tante cose anche indipendentemente dalle verità rivelate: credo per esempio che esista la Cina, ma questo non è un atto di fede soprannaturale... Credo anche ai miei sentimenti, ai miei sensi; credo di vedere, per esempio, ma con questo non faccio un atto di fede soprannaturale, faccio un atto di fede nei miei occhi; penso che i miei occhi non m’ingannino. Ma in tutto questo non c’è fede soprannaturale. Se io credo una verità che la Chiesa mi propone, ma io credo non perché la Chiesa me la propone, ma perché studiando e ristudiando scopro che tale verità è credibile, a che cosa credo? Alla mia intelligenza: non credo a Dio. Il problema è un altro: il problema è se noi possiamo conoscere con la nostra intelligenza come vera una proposizione del magistero ecclesiastico; ma questa è un’altra questione.

Senza il magistero ecclesiastico noi non siamo garantiti di credere a Dio. Allora se credere vuol dire obbedire al magistero, anche la fede è obbedienza. E lo dice la lettera di S. Paolo ai Romani: dobbiamo credere costringendo all’obbedienza la nostra intelligenza, perché il credere sia un ossequio ragionevole a Dio.

Altrettanto è obbedienza nel cristianesimo la carità. Nel Sermone dopo la cena Gesù dice: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti». Osservare i comandamenti divini, questo vuol dire amare. È Gesù che ce lo dice. Ora, osservare i comandamenti, è precisamente obbedire: cosicché nessun cristiano vive un suo rapporto con Dio che attraverso l’obbedienza. Che questo obbedire sia fede o sia carità dipende non dall’oggetto dell’obbedienza, ma dal suo motivo: colui a cui si obbedisce è Dio; cioè nell’esercizio di questa obbedienza, noi viviamo un rapporto diretto con Dio. Non sono le virtù teologali che ci mettono in rapporto diretto con lui? Questa obbedienza di fatto diviene fede, perché mette l’uomo in rapporto diretto con Dio, egli crede alla sua Parola; diviene carità, perché l’uomo in questa obbedienza rinunzia alla sua volontà per vivere la volontà stessa di Dio. Per nostro Signore medesimo la carità si traduce nell’obbedienza: egli vive il suo rapporto di amore infinito col Padre, come Figlio unigenito, nell’obbedienza. «Meus cibus est ut faciam voluntatem ejus qui misit me», «è mio cibo fare la volontà di Colui che mi ha mandato», dice il Signore al ritorno dei discepoli, quando egli si trova con la samaritana. E dice ancora: «Quae placita sunt ei facio semper», «Io compio sempre quello che piace al Padre mio».

La vita di Gesù è obbedienza. Naturalmente questa obbedienza è così perfetta che si identifica con il suo amore, è anzi il suo amore divino tradotto in termini umani, è l’amore infinito del Verbo che si incarna in una vita umana, ed è vissuto negli atti singoli e successivi proprio di lui in quanto uomo. Non vi ha dunque nessuna difficoltà che noi concepiamo tutta la nostra vita religiosa come cristiani, come anime consacrate a Dio, sotto i termini dell’obbedienza. Questo è tanto vero, che nella spiritualità monastica antica, specialmente nella Regola di San Benedetto, praticamente non esiste né un voto di castità, né un voto di povertà, che in quanto sono inclusi nel voto di obbedienza. I voti della vita monastica, più di quelli riconosciuti giuridicamente in un secondo tempo dalla Chiesa (povertà e castità) sono invece: il voto di stabilità, quello della conversio morum (cambiamento di vita) e il voto di obbedienza; soprattutto il voto di obbedienza include gli altri. Così la virtù dell’obbedienza è costitutiva della vita cristiana e tanto più della vita religiosa.

L’obbedienza è tutto, ma l’obbedienza esige uno sforzo perché c’è stato il peccato. Obbedire vuol dire mortificare la propria volontà. Anche a nostro Signore l’obbedienza ha chiesto la morte e la morte di croce. Anche lui ha voluto sentire questa fatica. Non per sé egli doveva tuttavia sentire la difficoltà di obbedire al Padre: «Non mea sed tua voluntas fiat» «Sia fatta la tua volontà, non la mia»! Non per sé, ma perché egli assumeva il peccato umano. Col peccato l’uomo si è rivolto contro Dio: obbedire vuol dire ora per lui morire alla propria volontà. Morire alla propria volontà è una cosa che costa, che deve costare. Tuttavia morire non è necessariamente una pena, non è necessariamente una morte. In qualche modo possiamo dire: nel cielo non vivremo che il nostro venir meno a noi stessi nella presenza di Dio. Non vivremo dunque che il nostro morire in quella presenza ineffabile. Eppure la morte lassù sarà senza pena. Il nostro morire è penoso in quanto viviamo coscientemente o anche inconsciamente, in opposizione alla volontà del Signore; in quanto la nostra natura dopo il peccato si trova inclinata, rivolta non più verso Dio, ma verso di sé, ripiegata su se stessa. Nella misura dunque che in noi vive il peccato, l’obbedienza non soltanto importa la morte (importerà sempre la morte, ma una morte beata: «Beati mortui qui in Domino moriuntur»), ma importa la pena, la fatica: «Per oboedientiae laborem», dice San Benedetto. Importa fatica nella misura che in noi vi è ancora una certa opposizione, anche se non cosciente, non volontaria, ma istintiva, alla divina volontà. Non volontaria, ma istintiva l’ha sentita anche Gesù, perché anche Gesù temé la morte, dové soffrire un’agonia accettando e abbracciando la volontà del Padre.

«Per oboedientiae laborem». Fintanto che non siamo morti, dobbiamo morire e fintanto che il morire ci darà pena, dobbiamo soffrire. Ma Dio non vuole il nostro soffrire, e noi potremmo dire e dovremmo dire quel che diceva S. Caterina da Genova: «Signore, io non voglio soffrire, perché fintanto che soffro è segno che in qualche cosa la mia natura si oppone alla tua volontà». Che cosa voleva S. Caterina da Genova? Voleva vivere la perfezione della carità che in Dio ci trasforma in tal modo che il suo venire meno a se stessa, il suo morire non fosse più per l’anima sofferenza, ma gioia. Ma prima di poter dire questo noi dobbiamo volere la sofferenza, e fino in fondo, senza che Dio ce ne dispensi nemmeno un grammo, perché fintanto che possiamo morire, dobbiamo morire, e fintanto che possiamo soffrire, dobbiamo soffrire. Dobbiamo passare attraverso tutti i martirii finché non saremo più capaci di sofferenza, finché in noi non vi sarà più alcuna opposizione alla divina volontà.

Quando? Probabilmente soltanto nel Cielo. Anche S. Caterina da Genova soffriva morendo; come è detto nella vita del Marabotto. Poteva gridare «Non voglio soffrire», ma anche se nella sua volontà non vi era più alcuna opposizione a Dio, ve ne era ancora nella sua natura fisica, che ripugnava al dolore, e al disfacimento della morte.

Per questo, nonostante tutto, si può parlare, sì, di matrimonio spirituale consumato anche al di qua della morte, ma in realtà è la morte che sigilla una vita, anche nei santi. L’atto supremo della santità umana è sempre per tutti il morire, è sempre per tutti la separazione dell’anima dal corpo, l’uscire definitivamente da questo mondo; anche per S. Teresa di Gesù. E noi dobbiamo tendere alla morte, e volerla fin da ora, e desiderarla precisamente in quanto deve essere l’atto supremo del nostro amore; proprio perché in quell'atto noi possiamo vivere la consumazione dell’unione con lui, nel dono definitivo e totale dell’essere nostro al Signore. Non soltanto della nostra volontà, non soltanto della nostra intelligenza, ma del nostro corpo. Perché vogliamo sottrarglielo? Dono definitivo e totale senza più la possibilità di riprenderci: perché una volta morti, siamo morti. Coloro che ci hanno preceduti nella morte non sono più ritornati con noi, sono precipitati nel seno di Dio, perduti per sempre in quella luce infinita.

«Per oboedientiae laborem». Il contenuto della vita religiosa è l’obbedienza. Se questo è vero, voi capite come l’anima religiosa deve essere affamata di obbedienza. Giustamente nostro Signore ci ha detto che era suo cibo fare la volontà di Dio. Dobbiamo essere affamati! Quando non ci fosse possibile in atto l’esercizio di questa virtù, dovremmo sentire come se ci fosse sottratto quel cibo che ci sostiene, senza il quale noi morremmo. Dobbiamo essere affamati di obbedienza come del pane. Se l’anima religiosa tenta di sottrarsi a questa virtù, tutto quello che fa è perduto, anche se fa mortificazioni, anche se fa grandi opere per il Signore. Dio non ha bisogno delle tue grandi opere. Che se ne fa il Signore di tutte le opere umane? Che cosa se ne può fare di tutte le opere dei santi? Nostro Signore ha fatto meno di tanti santi sul piano visibile. Attraverso le opere, egli chiede il tuo cuore, egli chiede la tua volontà, l’unica cosa che egli non possa possedere senza di te.

«Bonum oboedientiae»: è il termine di San Benedetto. Il bene dell’obbedienza è tutto qui: non nell’opera che tu compi, ma nel fatto che tu attraverso quell’opera, o attraverso quell’atto, rinunci a te stesso, doni te stesso a Dio. Io non sono il mio corpo, io ho un corpo, ma io sono la mia volontà; io praticamente mi identifico a questo volere che è l’atto supremo dell’esistere umano. È nel dono di questa mia libertà, di questa mia volontà, che realmente io mi dono, che realmente io vivo la mia dedizione a Dio, e realmente lo amo.

«Bonum oboedientiae». Dobbiamo essere affamati di obbedienza, perché precisamente attraverso di essa viviamo il dono continuo di noi stessi a Dio, e donandosi a lui, egli ci possiede. Egli ci assume. Come potrebbe la Parola di Dio incarnarsi in noi, per usare il termine che abbiamo usato all’inizio, se noi non ci doniamo a lui? Può egli possederci se non ci lasciamo possedere? Possiamo divenire corpo suo («Unum corpus multi sumus, omnes qui de uno pane et de uno calice partecipamus»; «Pur essendo molti siamo un unico corpo noi tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice») se non ci doniamo al Signore? L’obbedienza soltanto realizza il dono di noi stessi a Dio. Il Signore non guarda le opere, ma al cuore. Nel mondo quanti, quanti immensi sforzi per nulla! Sono forse le opere il fine ultimo del sacrificio di tante vite, dell’immolazione costante di un’esistenza, nella castità, nella povertà, nell’obbedienza religiosa? Nessuna opera umana giustifica il sacrificio di una volontà che è più grande di tutte le opere. Il sacrificio è voluto semplicemente per questa immolazione medesima. Quello che conta è la nostra dedizione a Dio non l’opera, che pure, attraverso questa dedizione, si compie; non l’opera per sé vale, quanto il dono di sé. Si rimarrebbe anime religiose anche se le opere crollassero. Ogni tanto nostro Signore permette queste cose: spogliazione di monasteri, necessità di fuggire, lasciare la casa, abbandonare le opere, andare qua e là, trovarsi chissà dove, chissà come. Son cose che capitano nella vita religiosa; sono sempre capitate e capiteranno. Ma questo non vuol dire proprio nulla, perché non impedisce per sé di vivere ugualmente la vita religiosa. Essa non consiste nel fare questo o quello; consiste nel vivere il nostro morire a noi stessi, nel dono di noi stessi a Dio.

«Bonum oboedientiae»! Questo conta! Se il Signore voleva grandi opere, avrebbe scelto gli uomini più saggi, più sapienti, gli organizzatori più capaci... Ma in generale non è così, Dio non ha bisogno di tutto questo, non gli interessa il risultato apparente, umano, nella storia. La storia? E che se ne fa della storia? Fra cinquecentomila anni che rimarrà di quello che importa tanto oggi? Se l’uomo dovesse vivere per la storia, vivrebbe soltanto per la morte. Quello che conta è l’amore, è l’adesione a Dio, che solo rimane immortale, è la nostra unione con lui, la nostra trasformazione in lui che sola rimane, il dono di noi stessi a Dio, che l’obbedienza garantisce. Ecco perché il Signore può chiedere, e l’ha chiesto tante volte, che si debba obbedire anche a chi è meno sapiente di noi, addirittura a chi non è affatto sapiente; Dio può chiedere che si compia per obbedienza qualche cosa che va contro i criteri più elementari della buona riuscita, il Signore può volere attraverso l’obbedienza anche la fine di tante cose.

Fintanto che l’obbedienza ci costa, non possiamo scansarla, dobbiamo assumere tutta la pena che dall’obbedienza ci viene; ma dobbiamo assumerla con la certezza che nella misura che saremo generosi questa pena si cangerà. Quando l’anima non conosce più opposizione o contrasto ai voleri divini, allora trova la sua pace, il suo riposo: lo trova nel rinunciare al suo proprio volere. È quando l’anima non conosce la volontà del Signore, che si sente smarrita, come se non avesse più un valido appoggio, come se fosse abbandonata in qualche modo da Dio.

«Per oboedientiae laborem», la fatica dell’obbedienza, in realtà, suppone una volontà in noi che può anche essere in contrasto con la volontà divina, comunque suppone una volontà umana.

Quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare confermando il nostro volere, con tutto il potere che gli è proprio, al volere divino. L’obbedienza religiosa non si identifica mai all’abulia. Chi è abulico non dovrebbe essere accolto in un monastero: chi non è capace di fare, di avere una sua volontà, questi non ha il diritto di entrare in una casa religiosa. In una casa religiosa si viene per morire; ma se voi non avete nemmeno la possibilità di morire, perché siete già morti, che ci venite a fare? L’obbedienza deve veramente piegare la nostra volontà, dobbiamo conformare la nostra volontà alla volontà del Signore, così come attraverso i superiori si esprime. Obbedire non vuol dire dormire, non è un essere abulici. L’abulia non è obbedienza. Vi possono essere due anime religiose che ugualmente in apparenza obbediscono; ma soltanto chi nell’obbedienza esercita veramente una sua volontà di rinuncia a se stesso, e vive il dono reale di sé a Dio, quegli è obbediente.

Di qui una conseguenza: l’obbedienza non esclude lo spirito d’iniziativa, non esclude l’apertura dell’anima ai superiori. Proprio perché i superiori sono tenuti a chiedermi anche il sacrificio di me stesso, l’immolazione totale di me, è giusto che essi sappiano d’immolarmi quando mi immolano, essi debbono avere il senso di una responsabilità reale riguardo alle anime che conducono e in queste anime deve essere la consapevolezza e l’accettazione piena di quello che l’obbedienza può imporre: la morte. Anche se parlo, anche se mi apro, la mia apertura non tende mai a circonvenire i superiori perché facciano la mia volontà, ma la mia apertura è piuttosto la condizione perché il mio sacrificio si compia nel modo religiosamente più autentico. Da parte mia, nel senso di una volontaria passione, come per Gesù: «oblatus est quia Ipse voluti» «si è offerto di sua spontanea volontà»; nel superiore col senso di responsabilità proprio di colui che sacrifica, non compiacendosi certo dell’immolazione dei propri figli, ma sapendo precisamente quale prezzo abbia l’atto che chiede per il bene del monastero, e soprattutto per la santificazione di loro stessi che il Padre ama e non potrebbe amare in modo più vero, che chiedendo loro il sacrificio di sé: perché questo è l’amore. Se vi risparmiasse, non vi amerebbe, vi lascerebbe vivere a voi stessi, non a Dio. «Ut ad eum per oboedientiae laborem redeas» «Affinché tu ritorni con la fatica dell’obbedienza a lui». Attraverso l’obbedienza si ritorna. Perché si ritorna? E che cosa implica questo ritorno? «Redeas»: in questa parola è implicita tutta una teologia. Ci siamo allontanati da Dio col peccato. E prima ancora del peccato, con la creazione. «Noi eravamo in Dio», dice il beato Ruysbroeck [1], e altrettanto pensa la teologia orientale: noi eravamo in Dio, noi eravamo Dio in Dio fin dall’eternità perché noi eravamo già nel Verbo, causa esemplare di tutte le cose, non certo distinti da lui. Ma Dio ci ha voluti realmente come separati da sé con la creazione. Ci ha voluti davvero separati da sé e per sempre? La nostra vita è un ritorno a Dio. Noi rimarremo distinti da lui, eppure non saremo che lui; distinti da lui, come la natura umana di Cristo rimane distinta dalla natura divina per l’eternità; distinti da Dio anche come persone, eppur tuttavia viventi tutti una medesima vita: «ut sit Deus omnia in omnibus» «affinché Dio sia tutto in tutti»! Questo è il ritorno! Essere Dio in Dio. La vocazione dell’uomo è essere Dio per partecipazione di amore, c’insegna S. Giovanni della Croce. L’obbedienza è il ritorno dell’uomo a questo «essere Dio in Dio», è il vivere la vita divina.

L’atto umano è quello in cui interviene il volere dell’uomo, il suo senso di responsabilità e la coscienza di quello che fa. Che cosa fa sì che l’atto compiuto da un uomo divenga un atto umano? Il fatto che è un atto libero e pienamente cosciente, un atto cioè in cui si realizza un volere. È la volontà umana che fa sì che l’atto sia umano. Ma se nel mio atto si realizza la volontà divina, che cosa io vivo? La vita di Dio. Vivere la volontà di Dio è in qualche modo realizzare Dio stesso. La volontà di Dio è Dio. Se Dio vuole che io salga le scale, o che io faccia la cucina, attraverso questi atti io faccio la volontà di Dio. Faccio la volontà di Dio attraverso quell’atto, ma quell’atto non si identifica con la volontà di Dio: la volontà di Dio è Dio stesso. Quello che è in Dio è Dio, quello che ha Dio, è Dio. Per la infinita semplicità dell’essere suo, la volontà non si distingue realmente dall’essere di Dio. Fare la volontà di Dio vuol dire realizzare Dio in noi attraverso le cose che egli ci comanda, far sì che Dio viva in noi. Attraverso l’obbedienza così noi viviamo la vita divina, siamo rivestiti di Dio, siamo in qualche modo la sua. Nell’obbedienza perfetta noi vivremo in piena conformità al volere divino, la vita dell’anima trasformata. Finora non viviamo nell’unione trasformante perché ancora c’è una certa opposizione in noi, perché non ancora pienamente la volontà divina si traduce nel nostro atto umano. Qualche cosa è ancora «noi» e non «lui» anche se compiamo esattamente sul piano esteriore la sua volontà.

Tante volte non compiamo la volontà di Dio, ci si compiace dell’atto, non andiamo oltre l’opera, non aderiamo puramente, aldilà di quanto facciamo a lui. Può darsi benissimo che un santo faccia peggio di noi quello che deve fare, ma non è vero che compiendo il nostro ufficio meglio di tanti santi noi facciamo la volontà di Dio meglio di loro, perché essi nel compimento del loro dovere, mettevano, sì, buona volontà, però, non si fermavano e non si interessavano tanto al loro lavoro, quanto, attraverso il loro lavoro, essi aderivano a lui, vivevano di lui. Attraverso l’atto, vivere Dio. Non è l’opera che conta, ma attraverso l’opera è questa volontà che di fatto da quella si distingue, anche se ne è inseparabile.

A questa volontà noi dobbiamo aderire aldilà di tutto quello che ci comanda. Essa sola è assolutamente adorabile. Se sempre per te si manifesta in un particolare avvenimento, in un precetto preciso che tu devi adempiere, Essa tuttavia trascende ogni segno, e ti sollecita perché attraverso ogni segno tu aderisca a Dio. Nell’obbedienza tu devi così soprattutto vuotarti di ogni tua volontà perché in te egli si faccia presente. Il bene dell’obbedienza così non passa in quello che fai, ma rimane in te, è Dio stesso cui tu fai posto nell’intimo centro del cuore.


[1] Jan van Ruysbroeck o Ruusbroec, detto l’Ammirabile, teologo e scrittore ascetico fiammingo (1293-1381), beato.


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11 gennaio 2021                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net