Per una fenomenologia del monachesimo femminile nel
Medioevo
Vincenza Musardo Talò
Estratto da “Communio”, n.198, novembre-dicembre 2004, Jaca Book,
Milano
La recente storiografia sul Medioevo ha portato all’attenzione degli studiosi il
sotterraneo e fascinoso universo femminile.
Un problema nuovo, mai sollecitato in termini adeguati dalla ricerca precedente,
se non per quel che attiene l’agiografia o il farsi di alcuni sintagmi delle
storie nazionali, con al loro interno ritratti di regine e imperatrici,
obbligando tutti a chiedersi dove fossero le donne nel Medioevo, quali
distintivi avessero il loro status e il loro ruolo e come e cosa pensassero.
Posto in tali termini, il problema ha mostrato un volto oscuro del Medioevo,
quale dicasi la questione femminile, divenuto, poi, il punto forte, da cui hanno
avuto origine, in specie negli ultimi decenni del Novecento, rilevanti filoni di
ricerca, capaci di restituire risultati insperati, anche se ancora non
risolutivi per molti dei suoi aspetti, primo fra tutti il farsi di un processo
storico dinamico e autonomo del monachesimo femminile e la relativa condizione
della donna religiosa, all’interno e fuori di esso.
Una prima difficoltà è stata quella di reperire strumenti adeguati di ricerca
del problema in questione. In tal senso, va rilevata la posizione riduttiva di
alcuni studiosi del Medioevo femminile, fermi su dei target sfasati, il cui
unico merito è stato, forse, quello di giustificare la vischiosa
“imprendibilità” del fenomeno. La più comune di queste posizioni, giusto un
esempio, ha visto racchiudere la questione della donna in un limitato contesto
di ordine filosofico-religioso. Sono state attaccate la Patristica e la
Scolastica, colpevoli di aver pensato la donna, pur in un sistema di logica
rigorosa, in situazione di netta inferiorità rispetto al maschio, eludendo - gli
autori di tale posizione - la non validità dell’applicazione delle stesse
categorie di pensiero dell’oggi a quel che attiene il rapporto fra i due sessi,
così come concepito al tempo del Medioevo.
Bene hanno fatto, invece, quanti hanno posizionato la loro ricerca in un’ottica
fenomenologica, che si vuole privilegiata per avviare e condurre un processo
oggettivo di conoscenza, circa il ruolo concreto della donna del Medioevo. Non
si può leggere quel che si vuole e come si vuole del fenomeno; l’utilizzo
oggettivo e filologico delle fonti e dei dati - verificati nel loro segmento
epocale e nel dovuto contesto culturale - deve restare lo strumento più rigoroso
nelle mani di colui che studia la
vexata quaestio della donna nel lungo Medioevo. In merito a tanto,
appare puerile pensare, ad esempio, la donna dell’alto Medioevo con gli stessi
attributi di una donna del Duecento o di fine Trecento. I tanti volti della
femminilità medievale vanno compresi e giustificati all’interno di precise
discipline e nell’usuale contesto, sia quello della famiglia, della corte, del
castello, della città mercantile o del monastero. Tutte realtà lontane
dall’esistere dell’oggi e da certe posizioni del femminismo contemporaneo,
colpevole - anche quest’ultimo - di aver veicolato non poche ricerche di parte
sulla donna medievale.
Però, tra i diversi filoni di ricerca sulla donna, che debbono e possono
adeguarsi a un’indagine fenomenologica - vale a dire un’analisi rigorosa dei
fatti, colti nella loro reale essenza e scevri da condizionamenti culturali -
quello relativo alla condizione della donna religiosa appare essere uno dei più
assertivi, perché utilizza i contesti più vari della civiltà medievale, colti a
volte sia pure in complesse situazioni di trasversalità, nel senso che la
donna-monaca viene da una famiglia (aristocratica, curtense o
cittadina che sia), a sua volta calata in una precisa porzione geografica, con
la quale un monastero quasi sempre interagisce. E così, la donna religiosa,
rispetto alle sue simili laiche, mostra connotazioni più ampie ed esaustive per
un’analisi complessiva che riguarda il suo genere, perché ella, ancor prima di
prendere il velo, è già stata cittadina del mondo come figlia e non di rado
anche moglie, madre e poi vedova; i monasteri del primo Medioevo erano pieni di
figure femminili dallo status diverso.
Da qui, l’utilità che la conoscenza della voce femminile, proveniente dalle
clausure e che attraversò la fascia epocale situata tra il VI e il XV secolo, si
debba ancorare a un’indagine tesa a scrutare ogni singolo
fenomeno socio-antropologico-culturale che l’abbia coinvolta. Tale
fenomenologia può legittimarsi già attraverso lo studio di carte che sono al
chiuso di tanti monasteri medievali ancora attivi o lasciate sepolte negli
archivi diocesani; nè va distolta l’attenzione dalla mole preziosa di atti
notarili, afferenti la volontà di tanti laici che testano nelle vesti di
benefattori dei monasteri femminili; e ancora, giova guardare ai diplomi regi e
imperiali, ai
cartulari e alle platee e a ogni sorta di fonte, il cui contenuto
si pensa possa essere correlato a presenze monastiche femminili del territorio a
cui è riferita la scrittura medievale.
Inoltre, dinanzi a un’avarizia documentaria del tempo, dovuta alla cultura della
parola più che dello scritto, non mancano pagine preziose di cronache
monastiche, repertori e obituari di comunità, documenti vescovili, in specie
riferiti a tempi posteriori al Mille, oltre a tutta una letteratura mistica e
teologica, prodotta anche da donne monache, che si offrono come un’invitante
documentazione e da cui - piace evidenziarlo - non di rado può tratteggiarsi un
profilo di tutto rispetto circa la situazione della donna religiosa, per niente
lasciata ai margini di una società, che pure era, per cultura e mentalità,
palesemente maschilista. La conoscenza ancora inesplorata di tale e altro
materiale di studio circa lo stato della
mulier religiosa nel Medioevo, concorrerà al farsi di una
fenomenologia del monachesimo femminile. Vale un cauto invito a essere vigili,
al fine di non incappare in situazioni ambigue o devianti, nello scorrere una
realtà complessa e per certi aspetti ancora sommersa, quasi carsica. Infatti,
già un primo ostacolo rimane, per il farsi di una fenomenologia del monachesimo
femminile, la sofferta dipendenza dal monachesimo maschile, nonostante le
vistose diversità intrinseche, sia nelle sue forme storiche di sviluppo, che nei
rapporti istituzionali, sociali, culturali ed economici, interni ed esterni alla
realtà della clausura. La storiografia tradizionale a disposizione, spesso ha
mutuato - con risultati grossolanamente approssimativi - dalla storia del
monachesimo maschile situazioni di falsa dipendenza circa le fondazioni e i
vissuti di molti monasteri di donne, le loro
Regulae vitae, l’amministrazione del patrimonio monastico, ecc.;
insomma, apparentemente parrebbe impossibile il farsi di una storia autonoma del
monachesimo femminile.
E invece, ripercorrendone la storia, dal Paleocristiano a tutto il Medioevo, la
nota più interessante che emerge è quella di un fenomeno sostanzialmente
autonomo, un fenomeno capace di caratterizzarsi e sostanziarsi di aspetti e
contenuti propri.
L’ingresso in monastero al femminile sottintendeva motivi e giustificazioni
completamente diversi, se non opposti, alla monacazione maschile, pur non
trascurando - in alcune epoche - una chiara interdipendenza tra le due forme
cenobitiche, anche se tale accostamento invocava soprattutto un allinearsi alla
comune osservanza di una regola (agostiniana, benedettina, ecc.), stante la
mancanza di regole
ad hoc per una donna religiosa.
Diverso da quello maschile è anche il ruolo storico, oltre che spirituale, che
tanti monasteri femminili hanno egregiamente svolto all’interno dei regni
dell’Europa medievale, in specie nell’antico mondo germanico, dall’età
merovingia a quella degli Ottoni. Era quello il tempo in cui l’aristocrazia, i
re e le regine si facevano diretti committenti di case monastiche, per ospitarvi
le proprie donne, senza che i fondatori o le fondatrici avessero l’obbligo di
assicurare i nuovi monasteri alle dipendenze dell’ordinario diocesano o
sottoporli alla guida di un cenobio maschile. Spesso, diversa da quello maschile
appare anche la destinazione del monastero femminile, considerato provvidenziale
rifugio di regine-vedove e di principesse cadette, residenza a volte obbligata
di dame a cui norme giuridiche lesive vietavano sistemazioni diverse. Il
monastero fu anche luogo di riscatto e rigenerazione spirituale per donne di
malcostume e misere diseredate, fu scuola di formazione per tante giovani, ma fu
anche luogo di straordinarie vocazioni, fabbrica di sante, cenacolo di cultura e
di arte, come testimoniano i testi colti di Rosvita, quelli
filosofico-sentimentali di Eloisa o le grandi effusioni mistiche di monache come
Ildegarda di Bingen, Mechtilde di Magdeburgo o Caterina da Siena. Questo e altro
va ricordato, nel riflettere la concreta indipendenza del monachesimo femminile
da quello maschile.
Fin ora, si è osservata anche un’altra difficoltà, connessa al farsi di una
corretta fenomenologia del monachesimo femminile, ovvero la precaria e difficile
posizione dello storico di fronte a luoghi, tempi e figure che interagiscono in
un’atmosfera dilatata, dallo spessore diacronico millenario, con prospettive e
movimenti di idee sempre diversi, che a volte hanno alterato il farsi stesso
delle fonti. Fonti non di rado insistenti su un terreno minato, mistificate come
sono da tutta una cultura che, a seconda dei tempi e dei movimenti di pensiero,
compilava documenti, agiografie, cronache e memorie che oggi necessitano del
piglio filologico per essere comprese secondo lo spirito del tempo, adagiate,
come sono, in una stratificazione complessa e spesso dubbia per lo studioso
contemporaneo.
Giustificare in termini storici la concezione della donna, così come appare, ad
esempio, nella letteratura della Patristica - che nella donna non votata alla
verginità individuava lo strumento preferito del demonio - è un altro aspetto
del problema femminile a cui aggiustare il tiro. L’aver sottratto la donna
dall’esiguo ruolo ecclesiastico, ricoperto al tempo del primo Cristianesimo e
l’insistenza di una trattazione apodittica circa la virtù virginale per tutto il
tardoantico: questi i motivi di fondo che facilitarono il successivo generarsi
di una situazione di minore libertà della donna, anche all’interno dello stesso
movimento cenobitico. Movimento che, a partire dal VI secolo, sembrerebbe,
dall’esterno, configurarsi - in specie per la rigida filosofia delle regole -
come un’istituzione rigorosamente pensata per soli religiosi maschi, oltre che
prefigurarsi come contenitore in cui ricercare i nuovi tòpos agiografici, una
volta trascorsa l’età dei martiri, quanto mai ricca di volti femminili. E questa
era anche la convinzione delle stesse donne dei monasteri sino al XII secolo, se
Ildegarda, filosofa e profetessa, non trascura, soprattutto nel suo sostanzioso
Epistolario, di evidenziare lo stato di inferiorità suo
(sono una povera piccola donna) e della donna in genere;
dall’altro Eloisa, badessa al Paracleto, chiede ad Abelardo di
comporre per pietà una Regola, che finalmente contemplasse le pur
più naturali esigenze femminili. In realtà, sino ad allora, rari erano stati gli
sforzi di adattare al femminile statuti o regole per monaci: dal tempo di
Agostino sino al XII secolo sono noti solo tre esempi di
Regula destinate alla donna religiosa, l’Epistula
CCXI, Ad sanctimoniales, di S. Agostino, la
Regula ad virgines di Cesario d’Arles e la Regola di Abelardo per
il monastero di sua moglie, Eloisa.
E’ sul finire del secolo XII e la prima metà del successivo, che si profila il
rinascimento del monachesimo femminile, attuato non solo con innovazioni
canoniche da parte della Chiesa (che mutarono il precedente volto giuridico), ma
principalmente per il farsi di una più moderna e democratica concezione
femminile, proprio all’interno del vasto movimento spirituale del Duecento,
alimentato dal farsi degli Ordini mendicanti, il cui fascino valse a reclutare
schiere nutrite di donne in tutto l’Occidente cristiano. E in tal senso, non può
tacersi, l’effetto forte della comparsa di una nuova
Regula vitae, scritta finalmente per sole donne da una donna
monaca, quale si mostrò essere quella che Chiara d’Assisi ideò per le
Sorelle povere di San Damiano, subito divenuta attiva nei numerosi
monasteri clariani che, come una rete presero a diffondersi ovunque.
Utile allo studio fenomenologico del monachesimo femminile è anche la volontà a
dissotterrare e legittimare quella cultura di produzione monastica, in cui si
attesta l’elevata spiritualità di religiose eccezionali; e ancora, mancano
elementi sufficienti al fine di conoscere e considerare, nel giusto contesto
epocale e soprattutto culturale, la capacità di gestire, da parte di tante
religiose, forme di potere spirituale (e pensiamo a una Ildegarda di Bingen, a
Brigida di Svezia, a Caterina Benincasa), ma anche temporale, come quello
esercitato dalle badesse regine e principesse dell’alto Medioevo, o il ruolo
primario, nel tempo del particolarismo, delle badesse-feudatarie, quali fra le
tante, le benedettine spagnole di Las Huelgas o quelle di Conversano, in Puglia.
Né può trascurarsi l’azione di tante altre donne religiose che istituirono
monasteri, seppero organizzare e dirigere clausure di grande prestigio
religioso, si posero a confronto con la cultura e i potenti del loro tempo e non
di rado furono protagoniste di svolte di certo rilievo nella storia più generale
della Chiesa e dell’Europa intera, come, ad esempio, accade nell’età degli
Ottoni. Carte medievali compulsate riferiscono di donne monache, che in un clima
di concreta autonomia, seppero amministrare patrimoni familiari e comunitari,
frutto di doti monacali, di generose elargizioni reali o lasciti
dell’aristocrazia locale, come al tempo dei Longobardi e dei Carolingi; guidare
e reggere istituzioni religiose e sociali (quali le numerose realtà ospedaliere
o i rifugi dei pellegrini) con spirito di carità e abnegazione, che è solo della
natura femminile.
E che dire delle tante realtà esistenti dietro le mura di un monastero femminile
medievale? Si ignorano ancora certi aspetti, a volte anche i più elementari, di
quel che accadeva realmente all’interno dei chiostri, luoghi non solo di alta
perfezione dello spirito, ma anche di tristi condizioni esistenziali. Un qualche
spiraglio, se non una porta ancora chiusa, concede a volte di spiare in molte
comunità religiose femminili, dove non erano ignote situazioni di disagio e di
offesa alla dignità della donna e dove non mancava il fiore velenoso della
monacazione forzata. Vi è una qualche testimonianza di come le passioni e i moti
dell
’animus potessero determinare situazioni per noi estreme o
drammatiche, come la vicenda della monaca di Wotton o di Eloisa.
In tal senso, il monachesimo femminile medievale invoca ancora un’analisi
fenomenologica che si vorrebbe profonda circa lo spessore “reale” del suo farsi
nei secoli, soprattutto dell’alto Medioevo, quando le vicende e le situazioni
s’indovinano a volte come filtrate. Sembrerebbe che secoli di storia della vita
dei monasteri femminili di alcune regioni occidentali ci siano preclusi, avvolti
come sono in una forma di silenzio documentario, anche per quel che attiene la
ordinaria quotidianità interna, come la recita della Liturgia delle Ore
canoniche, le orazioni comuni al coro, la meditazione mentale, la levata
notturna, l’impegno nei vari uffici, i capitoli, il canto, i pasti comuni al
refettorio, la
lectio divina, la disciplina periodica, le letture edificanti e la
ricreazione, l’arte e la cultura contemplate negli
scriptoria. Lavorare in simili contesti, vuol dire munirsi di
adeguati strumenti di ricerca e, soprattutto, partire dal presupposto che il
fenomeno del monachesimo femminile vada indagato come un fenomeno autonomo.
Più accessibile si mostra, invece, l’analisi dei fatti (e delle cause che li
hanno generati) afferenti il fenomeno del monachesimo femminile dalla rinascita
dell’anno Mille al crepuscolo della civiltà medievale, perché più ricca è la
disponibilità delle fonti, la cui produzione è dovuta alla maturazione culturale
dei tempi e soprattutto a quell’atmosfera nuova, che prese ad alitare - dopo il
Mille - intorno alla questione della donna, che ha fatto parlare di
“cristianizzazione femminile”. Si trattò di un vero rinascimento all’interno del
fenomeno monastico femminile, che va ricercato tra la seconda metà del secolo
XII e il Duecento, al tempo di Ildegarda di Bingen, di Chiara d’Assisi e con la
nascita di nuove e più convincenti forme del vivere in religione, sollecitate
dagli Ordini Mendicanti.
In quel tempo, quasi
un fiume in piena, si mosse un esercito di
donne nuove, che operavano all’interno della sfera del vivere in
religione, assegnando soprattutto al monachesimo una forte connotazione
femminile. Le
donne nuove sono le recluse, le beghine, le terziarie e, ancor
più, le claustrali dei nascenti ordini mendicanti, che trasformano il
tradizionale monachesimo femminile, benedettino in particolare, da un fenomeno
di condizione elitaria a un movimento aperto. Lo
status di monaca, che nell’alto Medioevo era appannaggio quasi
esclusivo delle donne di stirpe, ora si allarga e conquista una più ampia fascia
del mondo femminile, chiamando nel sociale dei chiostri forze nuove,
rigeneratrici. Sono le giovani donne, maturate negli ambienti della emergente
borghesia cittadina e del popolo, specie in quei centri urbani della Germania e
dell’Italia centro-settentrionale, l’invaso geografico dentro cui corse più
veloce il ricambio culturale ed economico della società duecentesca.
Indagare in questo nuovo contesto epocale può essere quanto mai fertile, poiché
porterebbe - pur sempre all’interno del Medioevo - a una visione nuova della
donna religiosa, non più circoscritta al vivere in clausura, tenuto conto del
farsi dei beghinaggi, dei tanti reclusori cittadini, del movimento delle
pinzochere e delle monache laiche. Eppure, nel 1215, la rigida istituzione degli
Ordines monastici, secondo i canoni del Laterano IV, sembrerebbe
rallentare il fenomeno; invece, si ha di fronte una nuova generazione di donne
religiose, la quale manifesta prospettive nuove e trasformazioni radicali, ormai
lontana dalla rigida configurazione dell’età del particolarismo feudale.
In tal senso va letto il fenomeno dei rapporti tra città e monastero, tra
monastero e politica, tra monastero e le altri istituzioni ecclesiastiche, tra
monastero e cultura laica, tra il monastero e il resto del mondo (la Terrasanta
e le crociate, la partecipazione alla gestione di ospedali e ricoveri per folle
di viandanti, mossi nei pellegrinaggi penitenziali di massa, l’apertura del
chiostro agli educandati e altro).
Il profilarsi di simili condizioni nuove postula un approccio alle fonti in
chiave più spiccatamente sociologica e antropologica, per comprendere e indagare
il come - all’interno delle società europee di quel tempo - si pensava e
utilizzava la nozione dell’essere donna del monastero. Anche il comprendere gli
aspetti vocazionali, della chiamata alla vita contemplativa, aspetti più
spiccatamente legati alla spiritualità nuova e al farsi della santità monastica
nei primi tre-quattro secoli del secondo millennio, richiede l’uso di nuove
categorie di pensiero.
Un ulteriore aspetto da prendersi in considerazione all’interno dello studio del
fenomeno del monachesimo femminile nel tardo Medioevo, é la produzione scritta
pervenutaci da parte delle donne religiose. I generi più ricchi si mostrano
quelli della mistica, della trattatistica devozionale e opere di edificazione
spirituale, ma non mancano epistolari, biografie di donne sante, poemi e poesie,
che restano ancora al margine della cultura medievale e che pure potrebbero
chiarire il ruolo non solo spirituale, ma anche politico e sociale della donna
monaca.
E ancora, il monachesimo femminile medievale offre un altro significativo
contributo: l’opera pedagogica svolta all’interno dei monasteri. L’educandato
monastico fu la prima forma di scuola fuori dalla famiglia che una fanciulla non
necessariamente votata alla monacazione poteva allora frequentare. Tra l’altro,
l’educandato diviene un contenitore privilegiato per il reclutamento di nuove
monacazioni. In tal senso, si pilotavano sapientemente le giovani educande alla
rigida vita claustrale, allineandole agli obblighi ad essa connessa, facendo
loro praticare lo stesso
modus vivendi delle religiose. Il Trecento e il Quattrocento
soprattutto, vedranno l’educandato monastico aprirsi non solo alle figlie delle
famiglie aristocratiche, ma anche a quelle della ricca borghesia cittadina.
Questa complessa interazione dei monasteri femminili col sociale e gli elementi
strettamente legati al vivere interno delle comunità - dove l’educandato si
mostra come un corridoio tra clausura e mondo esterno, tra gerarchia sociale
della comunità religiosa e quella cittadina, laica - rendono il monachesimo
femminile degli ultimi tempi del Medioevo una istituzione che vive e opera nel
più ampio contesto sociale. Ma ci si accorge che per tale fenomeno manca ancora
un’analisi puntuale e una lettura sventagliata su più fronti, non solo per
comprendere il ruolo e l’attività pedagogica delle
monache-maestre, ma anche il prezioso apporto della cultura
monastica fuori dalla clausura, con il porsi in essere nel sociale delle idee e
dei comportamenti di tante donne laiche educate alla scuola delle monache. E’
dato sapere che non poche monache di cultura godessero di un ampio consenso da
parte delle famiglie notabili della città in cui insisteva il monastero, come ad
esempio, accadeva per il monastero medievale delle Clarisse di Nardo, dove
venivano educate quasi tutte le figlie dei feudatari di Terra d’Otranto. E’
questo il tempo in cui il monastero si mostra come una realtà viva e pulsante,
sempre presente nel sociale, con forme di fluido interscambio tra cultura
monastica e cultura laica.
Altro problema connesso al farsi di una esaustiva fenomenologia del monachesimo
femminile è dato dalla necessità di ricercare con strumenti idonei la
facies normativa e giuridica dell’istituzione, che si sostanzia di
tutta una serie di provvedimenti canonici, emanati nel tempo dalla Chiesa e dai
sinodi diocesani, utili a volte a mutare il corso degli eventi di un ordine
monastico o del fenomeno nel suo complesso.
Sempre in un alveo rigorosamente fenomenologico sono da ascriversi anche quelle
ricerche su aspetti della vita in monastero che parrebbero poco incisive per la
storia più generale del monachesimo, come l’abbigliamento delle religiose,
l’arredo claustrale, l’approvvigionamento di quanto necessitava a una comunità
e, poi, bisognerebbe conoscere le dotazioni delle biblioteche, la funzione degli
ambienti claustrali del noviziato, quelli delle converse, la stanza del
capitolo, il dormitorio o le celle, il parlatorio e le grate, i magazzini, il
frantoio e il mulino, il forno e le cisterne, la foresteria. E ancora,
gioverebbe individuare la visione della morte secondo la cultura monastica e il
culto dei morti, quando i sepolcreti dei monasteri erano posizionati quasi
esclusivamente sotto il pavimento della chiesa interna o dell’oratorio, in una
sorta di ipogeo, la cui struttura più frequente (almeno per quelli da me
visitati) ospitava dei sedili in pietra, dove si ponevano le monache defunte,
mentre una mensola posta in alto vedeva allineati i teschi, nominati e numerati,
delle monache trapassate nel tempo e, sulle pareti, unico testimone di sempre,
un Crocifisso con accanto una massima eterna.
In ultima analisi, non disdice alla ricerca l’occuparsi di quella parte meno
visibile del vivere in clausura, ovvero, tentare di conoscere e capire quel che
è sotteso al fatto che tante donne abbiano lasciato la famiglia e il mondo,
calandosi nel complesso vissuto di un organismo comunitario (quale è un
monastero), dove tante diversità si sommavano pericolosamente, dove tante
tensioni correvano sotterranee, ma dove tante anime non di rado pare abbiano
incontrato un modello di Cristo sposo, capace di donare ad alcune di loro i
segni stessi della sua Passione e una convivenza con l’estasi, a volte
razionalmente inspiegabile. Tutti aspetti di un unico, articolato sistema -
quello del vivere in clausura - che, al di là del trascorrere del tempo, a noi
estranei pare essere stato un sistema immobile, pur nella lunga e fertile
testimonianza dei tanti monasteri, disseminati come una rete sull’Europa
medievale.
Nota biografica
Vincenza Musardo Talò (1950), storico, autore di numerose pubblicazioni sulla
condizione femminile, laica e religiosa, nel Medioevo e in Età moderna. Socio
ordinario della Società di Storia patria per la Puglia, Presidente dell’Istituto
di Storia per il Risorgimento, comitato di Taranto...
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15 novembre
2024 a cura
di Alberto "da Cormano "
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