Per una fenomenologia del monachesimo femminile nel Medioevo

Vincenza Musardo Talò

Estratto da “Communio”, n.198, novembre-dicembre 2004, Jaca Book, Milano


 

La recente storiografia sul Medioevo ha portato all’attenzione degli studiosi il sotterraneo e fascinoso universo femminile.

Un problema nuovo, mai sollecitato in termini adeguati dalla ricerca precedente, se non per quel che attiene l’agiografia o il farsi di alcuni sintagmi delle storie nazionali, con al loro interno ritratti di regine e imperatrici, obbligando tutti a chiedersi dove fossero le donne nel Medioevo, quali distintivi avessero il loro status e il loro ruolo e come e cosa pensassero. Posto in tali termini, il problema ha mostrato un volto oscuro del Medioevo, quale dicasi la questione femminile, divenuto, poi, il punto forte, da cui hanno avuto origine, in specie negli ultimi decenni del Novecento, rilevanti filoni di ricerca, capaci di restituire risultati insperati, anche se ancora non risolutivi per molti dei suoi aspetti, primo fra tutti il farsi di un processo storico dinamico e autonomo del monachesimo femminile e la relativa condizione della donna religiosa, all’interno e fuori di esso.

Una prima difficoltà è stata quella di reperire strumenti adeguati di ricerca del problema in questione. In tal senso, va rilevata la posizione riduttiva di alcuni studiosi del Medioevo femminile, fermi su dei target sfasati, il cui unico merito è stato, forse, quello di giustificare la vischiosa “imprendibilità” del fenomeno. La più comune di queste posizioni, giusto un esempio, ha visto racchiudere la questione della donna in un limitato contesto di ordine filosofico-religioso. Sono state attaccate la Patristica e la Scolastica, colpevoli di aver pensato la donna, pur in un sistema di logica rigorosa, in situazione di netta inferiorità rispetto al maschio, eludendo - gli autori di tale posizione - la non validità dell’applicazione delle stesse categorie di pensiero dell’oggi a quel che attiene il rapporto fra i due sessi, così come concepito al tempo del Medioevo.

Bene hanno fatto, invece, quanti hanno posizionato la loro ricerca in un’ottica fenomenologica, che si vuole privilegiata per avviare e condurre un processo oggettivo di conoscenza, circa il ruolo concreto della donna del Medioevo. Non si può leggere quel che si vuole e come si vuole del fenomeno; l’utilizzo oggettivo e filologico delle fonti e dei dati - verificati nel loro segmento epocale e nel dovuto contesto culturale - deve restare lo strumento più rigoroso nelle mani di colui che studia la vexata quaestio della donna nel lungo Medioevo. In merito a tanto, appare puerile pensare, ad esempio, la donna dell’alto Medioevo con gli stessi attributi di una donna del Duecento o di fine Trecento. I tanti volti della femminilità medievale vanno compresi e giustificati all’interno di precise discipline e nell’usuale contesto, sia quello della famiglia, della corte, del castello, della città mercantile o del monastero. Tutte realtà lontane dall’esistere dell’oggi e da certe posizioni del femminismo contemporaneo, colpevole - anche quest’ultimo - di aver veicolato non poche ricerche di parte sulla donna medievale.

Però, tra i diversi filoni di ricerca sulla donna, che debbono e possono adeguarsi a un’indagine fenomenologica - vale a dire un’analisi rigorosa dei fatti, colti nella loro reale essenza e scevri da condizionamenti culturali - quello relativo alla condizione della donna religiosa appare essere uno dei più assertivi, perché utilizza i contesti più vari della civiltà medievale, colti a volte sia pure in complesse situazioni di trasversalità, nel senso che la donna-monaca viene da una famiglia (aristocratica, curtense o cittadina che sia), a sua volta calata in una precisa porzione geografica, con la quale un monastero quasi sempre interagisce. E così, la donna religiosa, rispetto alle sue simili laiche, mostra connotazioni più ampie ed esaustive per un’analisi complessiva che riguarda il suo genere, perché ella, ancor prima di prendere il velo, è già stata cittadina del mondo come figlia e non di rado anche moglie, madre e poi vedova; i monasteri del primo Medioevo erano pieni di figure femminili dallo status diverso.

Da qui, l’utilità che la conoscenza della voce femminile, proveniente dalle clausure e che attraversò la fascia epocale situata tra il VI e il XV secolo, si debba ancorare a un’indagine tesa a scrutare ogni singolo fenomeno socio-antropologico-culturale che l’abbia coinvolta. Tale fenomenologia può legittimarsi già attraverso lo studio di carte che sono al chiuso di tanti monasteri medievali ancora attivi o lasciate sepolte negli archivi diocesani; nè va distolta l’attenzione dalla mole preziosa di atti notarili, afferenti la volontà di tanti laici che testano nelle vesti di benefattori dei monasteri femminili; e ancora, giova guardare ai diplomi regi e imperiali, ai cartulari e alle platee e a ogni sorta di fonte, il cui contenuto si pensa possa essere correlato a presenze monastiche femminili del territorio a cui è riferita la scrittura medievale.

Inoltre, dinanzi a un’avarizia documentaria del tempo, dovuta alla cultura della parola più che dello scritto, non mancano pagine preziose di cronache monastiche, repertori e obituari di comunità, documenti vescovili, in specie riferiti a tempi posteriori al Mille, oltre a tutta una letteratura mistica e teologica, prodotta anche da donne monache, che si offrono come un’invitante documentazione e da cui - piace evidenziarlo - non di rado può tratteggiarsi un profilo di tutto rispetto circa la situazione della donna religiosa, per niente lasciata ai margini di una società, che pure era, per cultura e mentalità, palesemente maschilista. La conoscenza ancora inesplorata di tale e altro materiale di studio circa lo stato della mulier religiosa nel Medioevo, concorrerà al farsi di una fenomenologia del monachesimo femminile. Vale un cauto invito a essere vigili, al fine di non incappare in situazioni ambigue o devianti, nello scorrere una realtà complessa e per certi aspetti ancora sommersa, quasi carsica. Infatti, già un primo ostacolo rimane, per il farsi di una fenomenologia del monachesimo femminile, la sofferta dipendenza dal monachesimo maschile, nonostante le vistose diversità intrinseche, sia nelle sue forme storiche di sviluppo, che nei rapporti istituzionali, sociali, culturali ed economici, interni ed esterni alla realtà della clausura. La storiografia tradizionale a disposizione, spesso ha mutuato - con risultati grossolanamente approssimativi - dalla storia del monachesimo maschile situazioni di falsa dipendenza circa le fondazioni e i vissuti di molti monasteri di donne, le loro Regulae vitae, l’amministrazione del patrimonio monastico, ecc.; insomma, apparentemente parrebbe impossibile il farsi di una storia autonoma del monachesimo femminile.

E invece, ripercorrendone la storia, dal Paleocristiano a tutto il Medioevo, la nota più interessante che emerge è quella di un fenomeno sostanzialmente autonomo, un fenomeno capace di caratterizzarsi e sostanziarsi di aspetti e contenuti propri.

L’ingresso in monastero al femminile sottintendeva motivi e giustificazioni completamente diversi, se non opposti, alla monacazione maschile, pur non trascurando - in alcune epoche - una chiara interdipendenza tra le due forme cenobitiche, anche se tale accostamento invocava soprattutto un allinearsi alla comune osservanza di una regola (agostiniana, benedettina, ecc.), stante la mancanza di regole ad hoc per una donna religiosa.

Diverso da quello maschile è anche il ruolo storico, oltre che spirituale, che tanti monasteri femminili hanno egregiamente svolto all’interno dei regni dell’Europa medievale, in specie nell’antico mondo germanico, dall’età merovingia a quella degli Ottoni. Era quello il tempo in cui l’aristocrazia, i re e le regine si facevano diretti committenti di case monastiche, per ospitarvi le proprie donne, senza che i fondatori o le fondatrici avessero l’obbligo di assicurare i nuovi monasteri alle dipendenze dell’ordinario diocesano o sottoporli alla guida di un cenobio maschile. Spesso, diversa da quello maschile appare anche la destinazione del monastero femminile, considerato provvidenziale rifugio di regine-vedove e di principesse cadette, residenza a volte obbligata di dame a cui norme giuridiche lesive vietavano sistemazioni diverse. Il monastero fu anche luogo di riscatto e rigenerazione spirituale per donne di malcostume e misere diseredate, fu scuola di formazione per tante giovani, ma fu anche luogo di straordinarie vocazioni, fabbrica di sante, cenacolo di cultura e di arte, come testimoniano i testi colti di Rosvita, quelli filosofico-sentimentali di Eloisa o le grandi effusioni mistiche di monache come Ildegarda di Bingen, Mechtilde di Magdeburgo o Caterina da Siena. Questo e altro va ricordato, nel riflettere la concreta indipendenza del monachesimo femminile da quello maschile.

Fin ora, si è osservata anche un’altra difficoltà, connessa al farsi di una corretta fenomenologia del monachesimo femminile, ovvero la precaria e difficile posizione dello storico di fronte a luoghi, tempi e figure che interagiscono in un’atmosfera dilatata, dallo spessore diacronico millenario, con prospettive e movimenti di idee sempre diversi, che a volte hanno alterato il farsi stesso delle fonti. Fonti non di rado insistenti su un terreno minato, mistificate come sono da tutta una cultura che, a seconda dei tempi e dei movimenti di pensiero, compilava documenti, agiografie, cronache e memorie che oggi necessitano del piglio filologico per essere comprese secondo lo spirito del tempo, adagiate, come sono, in una stratificazione complessa e spesso dubbia per lo studioso contemporaneo.

Giustificare in termini storici la concezione della donna, così come appare, ad esempio, nella letteratura della Patristica - che nella donna non votata alla verginità individuava lo strumento preferito del demonio - è un altro aspetto del problema femminile a cui aggiustare il tiro. L’aver sottratto la donna dall’esiguo ruolo ecclesiastico, ricoperto al tempo del primo Cristianesimo e l’insistenza di una trattazione apodittica circa la virtù virginale per tutto il tardoantico: questi i motivi di fondo che facilitarono il successivo generarsi di una situazione di minore libertà della donna, anche all’interno dello stesso movimento cenobitico. Movimento che, a partire dal VI secolo, sembrerebbe, dall’esterno, configurarsi - in specie per la rigida filosofia delle regole - come un’istituzione rigorosamente pensata per soli religiosi maschi, oltre che prefigurarsi come contenitore in cui ricercare i nuovi tòpos agiografici, una volta trascorsa l’età dei martiri, quanto mai ricca di volti femminili. E questa era anche la convinzione delle stesse donne dei monasteri sino al XII secolo, se Ildegarda, filosofa e profetessa, non trascura, soprattutto nel suo sostanzioso Epistolario, di evidenziare lo stato di inferiorità suo (sono una povera piccola donna) e della donna in genere; dall’altro Eloisa, badessa al Paracleto, chiede ad Abelardo di comporre per pietà una Regola, che finalmente contemplasse le pur più naturali esigenze femminili. In realtà, sino ad allora, rari erano stati gli sforzi di adattare al femminile statuti o regole per monaci: dal tempo di Agostino sino al XII secolo sono noti solo tre esempi di Regula destinate alla donna religiosa, l’Epistula CCXI, Ad sanctimoniales, di S. Agostino, la Regula ad virgines di Cesario d’Arles e la Regola di Abelardo per il monastero di sua moglie, Eloisa.

E’ sul finire del secolo XII e la prima metà del successivo, che si profila il rinascimento del monachesimo femminile, attuato non solo con innovazioni canoniche da parte della Chiesa (che mutarono il precedente volto giuridico), ma principalmente per il farsi di una più moderna e democratica concezione femminile, proprio all’interno del vasto movimento spirituale del Duecento, alimentato dal farsi degli Ordini mendicanti, il cui fascino valse a reclutare schiere nutrite di donne in tutto l’Occidente cristiano. E in tal senso, non può tacersi, l’effetto forte della comparsa di una nuova Regula vitae, scritta finalmente per sole donne da una donna monaca, quale si mostrò essere quella che Chiara d’Assisi ideò per le Sorelle povere di San Damiano, subito divenuta attiva nei numerosi monasteri clariani che, come una rete presero a diffondersi ovunque.

Utile allo studio fenomenologico del monachesimo femminile è anche la volontà a dissotterrare e legittimare quella cultura di produzione monastica, in cui si attesta l’elevata spiritualità di religiose eccezionali; e ancora, mancano elementi sufficienti al fine di conoscere e considerare, nel giusto contesto epocale e soprattutto culturale, la capacità di gestire, da parte di tante religiose, forme di potere spirituale (e pensiamo a una Ildegarda di Bingen, a Brigida di Svezia, a Caterina Benincasa), ma anche temporale, come quello esercitato dalle badesse regine e principesse dell’alto Medioevo, o il ruolo primario, nel tempo del particolarismo, delle badesse-feudatarie, quali fra le tante, le benedettine spagnole di Las Huelgas o quelle di Conversano, in Puglia. Né può trascurarsi l’azione di tante altre donne religiose che istituirono monasteri, seppero organizzare e dirigere clausure di grande prestigio religioso, si posero a confronto con la cultura e i potenti del loro tempo e non di rado furono protagoniste di svolte di certo rilievo nella storia più generale della Chiesa e dell’Europa intera, come, ad esempio, accade nell’età degli Ottoni. Carte medievali compulsate riferiscono di donne monache, che in un clima di concreta autonomia, seppero amministrare patrimoni familiari e comunitari, frutto di doti monacali, di generose elargizioni reali o lasciti dell’aristocrazia locale, come al tempo dei Longobardi e dei Carolingi; guidare e reggere istituzioni religiose e sociali (quali le numerose realtà ospedaliere o i rifugi dei pellegrini) con spirito di carità e abnegazione, che è solo della natura femminile.

E che dire delle tante realtà esistenti dietro le mura di un monastero femminile medievale? Si ignorano ancora certi aspetti, a volte anche i più elementari, di quel che accadeva realmente all’interno dei chiostri, luoghi non solo di alta perfezione dello spirito, ma anche di tristi condizioni esistenziali. Un qualche spiraglio, se non una porta ancora chiusa, concede a volte di spiare in molte comunità religiose femminili, dove non erano ignote situazioni di disagio e di offesa alla dignità della donna e dove non mancava il fiore velenoso della monacazione forzata. Vi è una qualche testimonianza di come le passioni e i moti dell ’animus potessero determinare situazioni per noi estreme o drammatiche, come la vicenda della monaca di Wotton o di Eloisa.

In tal senso, il monachesimo femminile medievale invoca ancora un’analisi fenomenologica che si vorrebbe profonda circa lo spessore “reale” del suo farsi nei secoli, soprattutto dell’alto Medioevo, quando le vicende e le situazioni s’indovinano a volte come filtrate. Sembrerebbe che secoli di storia della vita dei monasteri femminili di alcune regioni occidentali ci siano preclusi, avvolti come sono in una forma di silenzio documentario, anche per quel che attiene la ordinaria quotidianità interna, come la recita della Liturgia delle Ore canoniche, le orazioni comuni al coro, la meditazione mentale, la levata notturna, l’impegno nei vari uffici, i capitoli, il canto, i pasti comuni al refettorio, la lectio divina, la disciplina periodica, le letture edificanti e la ricreazione, l’arte e la cultura contemplate negli scriptoria. Lavorare in simili contesti, vuol dire munirsi di adeguati strumenti di ricerca e, soprattutto, partire dal presupposto che il fenomeno del monachesimo femminile vada indagato come un fenomeno autonomo.

Più accessibile si mostra, invece, l’analisi dei fatti (e delle cause che li hanno generati) afferenti il fenomeno del monachesimo femminile dalla rinascita dell’anno Mille al crepuscolo della civiltà medievale, perché più ricca è la disponibilità delle fonti, la cui produzione è dovuta alla maturazione culturale dei tempi e soprattutto a quell’atmosfera nuova, che prese ad alitare - dopo il Mille - intorno alla questione della donna, che ha fatto parlare di “cristianizzazione femminile”. Si trattò di un vero rinascimento all’interno del fenomeno monastico femminile, che va ricercato tra la seconda metà del secolo XII e il Duecento, al tempo di Ildegarda di Bingen, di Chiara d’Assisi e con la nascita di nuove e più convincenti forme del vivere in religione, sollecitate dagli Ordini Mendicanti.

In quel tempo, quasi un fiume in piena, si mosse un esercito di donne nuove, che operavano all’interno della sfera del vivere in religione, assegnando soprattutto al monachesimo una forte connotazione femminile. Le donne nuove sono le recluse, le beghine, le terziarie e, ancor più, le claustrali dei nascenti ordini mendicanti, che trasformano il tradizionale monachesimo femminile, benedettino in particolare, da un fenomeno di condizione elitaria a un movimento aperto. Lo status di monaca, che nell’alto Medioevo era appannaggio quasi esclusivo delle donne di stirpe, ora si allarga e conquista una più ampia fascia del mondo femminile, chiamando nel sociale dei chiostri forze nuove, rigeneratrici. Sono le giovani donne, maturate negli ambienti della emergente borghesia cittadina e del popolo, specie in quei centri urbani della Germania e dell’Italia centro-settentrionale, l’invaso geografico dentro cui corse più veloce il ricambio culturale ed economico della società duecentesca.

Indagare in questo nuovo contesto epocale può essere quanto mai fertile, poiché porterebbe - pur sempre all’interno del Medioevo - a una visione nuova della donna religiosa, non più circoscritta al vivere in clausura, tenuto conto del farsi dei beghinaggi, dei tanti reclusori cittadini, del movimento delle pinzochere e delle monache laiche. Eppure, nel 1215, la rigida istituzione degli Ordines monastici, secondo i canoni del Laterano IV, sembrerebbe rallentare il fenomeno; invece, si ha di fronte una nuova generazione di donne religiose, la quale manifesta prospettive nuove e trasformazioni radicali, ormai lontana dalla rigida configurazione dell’età del particolarismo feudale.

In tal senso va letto il fenomeno dei rapporti tra città e monastero, tra monastero e politica, tra monastero e le altri istituzioni ecclesiastiche, tra monastero e cultura laica, tra il monastero e il resto del mondo (la Terrasanta e le crociate, la partecipazione alla gestione di ospedali e ricoveri per folle di viandanti, mossi nei pellegrinaggi penitenziali di massa, l’apertura del chiostro agli educandati e altro).

Il profilarsi di simili condizioni nuove postula un approccio alle fonti in chiave più spiccatamente sociologica e antropologica, per comprendere e indagare il come - all’interno delle società europee di quel tempo - si pensava e utilizzava la nozione dell’essere donna del monastero. Anche il comprendere gli aspetti vocazionali, della chiamata alla vita contemplativa, aspetti più spiccatamente legati alla spiritualità nuova e al farsi della santità monastica nei primi tre-quattro secoli del secondo millennio, richiede l’uso di nuove categorie di pensiero.

Un ulteriore aspetto da prendersi in considerazione all’interno dello studio del fenomeno del monachesimo femminile nel tardo Medioevo, é la produzione scritta pervenutaci da parte delle donne religiose. I generi più ricchi si mostrano quelli della mistica, della trattatistica devozionale e opere di edificazione spirituale, ma non mancano epistolari, biografie di donne sante, poemi e poesie, che restano ancora al margine della cultura medievale e che pure potrebbero chiarire il ruolo non solo spirituale, ma anche politico e sociale della donna monaca.

E ancora, il monachesimo femminile medievale offre un altro significativo contributo: l’opera pedagogica svolta all’interno dei monasteri. L’educandato monastico fu la prima forma di scuola fuori dalla famiglia che una fanciulla non necessariamente votata alla monacazione poteva allora frequentare. Tra l’altro, l’educandato diviene un contenitore privilegiato per il reclutamento di nuove monacazioni. In tal senso, si pilotavano sapientemente le giovani educande alla rigida vita claustrale, allineandole agli obblighi ad essa connessa, facendo loro praticare lo stesso modus vivendi delle religiose. Il Trecento e il Quattrocento soprattutto, vedranno l’educandato monastico aprirsi non solo alle figlie delle famiglie aristocratiche, ma anche a quelle della ricca borghesia cittadina. Questa complessa interazione dei monasteri femminili col sociale e gli elementi strettamente legati al vivere interno delle comunità - dove l’educandato si mostra come un corridoio tra clausura e mondo esterno, tra gerarchia sociale della comunità religiosa e quella cittadina, laica - rendono il monachesimo femminile degli ultimi tempi del Medioevo una istituzione che vive e opera nel più ampio contesto sociale. Ma ci si accorge che per tale fenomeno manca ancora un’analisi puntuale e una lettura sventagliata su più fronti, non solo per comprendere il ruolo e l’attività pedagogica delle monache-maestre, ma anche il prezioso apporto della cultura monastica fuori dalla clausura, con il porsi in essere nel sociale delle idee e dei comportamenti di tante donne laiche educate alla scuola delle monache. E’ dato sapere che non poche monache di cultura godessero di un ampio consenso da parte delle famiglie notabili della città in cui insisteva il monastero, come ad esempio, accadeva per il monastero medievale delle Clarisse di Nardo, dove venivano educate quasi tutte le figlie dei feudatari di Terra d’Otranto. E’ questo il tempo in cui il monastero si mostra come una realtà viva e pulsante, sempre presente nel sociale, con forme di fluido interscambio tra cultura monastica e cultura laica.

Altro problema connesso al farsi di una esaustiva fenomenologia del monachesimo femminile è dato dalla necessità di ricercare con strumenti idonei la facies normativa e giuridica dell’istituzione, che si sostanzia di tutta una serie di provvedimenti canonici, emanati nel tempo dalla Chiesa e dai sinodi diocesani, utili a volte a mutare il corso degli eventi di un ordine monastico o del fenomeno nel suo complesso.

Sempre in un alveo rigorosamente fenomenologico sono da ascriversi anche quelle ricerche su aspetti della vita in monastero che parrebbero poco incisive per la storia più generale del monachesimo, come l’abbigliamento delle religiose, l’arredo claustrale, l’approvvigionamento di quanto necessitava a una comunità e, poi, bisognerebbe conoscere le dotazioni delle biblioteche, la funzione degli ambienti claustrali del noviziato, quelli delle converse, la stanza del capitolo, il dormitorio o le celle, il parlatorio e le grate, i magazzini, il frantoio e il mulino, il forno e le cisterne, la foresteria. E ancora, gioverebbe individuare la visione della morte secondo la cultura monastica e il culto dei morti, quando i sepolcreti dei monasteri erano posizionati quasi esclusivamente sotto il pavimento della chiesa interna o dell’oratorio, in una sorta di ipogeo, la cui struttura più frequente (almeno per quelli da me visitati) ospitava dei sedili in pietra, dove si ponevano le monache defunte, mentre una mensola posta in alto vedeva allineati i teschi, nominati e numerati, delle monache trapassate nel tempo e, sulle pareti, unico testimone di sempre, un Crocifisso con accanto una massima eterna.

In ultima analisi, non disdice alla ricerca l’occuparsi di quella parte meno visibile del vivere in clausura, ovvero, tentare di conoscere e capire quel che è sotteso al fatto che tante donne abbiano lasciato la famiglia e il mondo, calandosi nel complesso vissuto di un organismo comunitario (quale è un monastero), dove tante diversità si sommavano pericolosamente, dove tante tensioni correvano sotterranee, ma dove tante anime non di rado pare abbiano incontrato un modello di Cristo sposo, capace di donare ad alcune di loro i segni stessi della sua Passione e una convivenza con l’estasi, a volte razionalmente inspiegabile. Tutti aspetti di un unico, articolato sistema - quello del vivere in clausura - che, al di là del trascorrere del tempo, a noi estranei pare essere stato un sistema immobile, pur nella lunga e fertile testimonianza dei tanti monasteri, disseminati come una rete sull’Europa medievale.

Nota biografica

Vincenza Musardo Talò (1950), storico, autore di numerose pubblicazioni sulla condizione femminile, laica e religiosa, nel Medioevo e in Età moderna. Socio ordinario della Società di Storia patria per la Puglia, Presidente dell’Istituto di Storia per il Risorgimento, comitato di Taranto...

 


Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


15 novembre 2024                a cura di Alberto "da Cormano "       Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net