Eugippio. Un promotore di cultura d’altri tempi

Estratto da "Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli",

 di Giovanni Liccardo - Newton Compton Editori, 2017

 

Sembra assai probabile che alla metà del VI secolo era ancora diffusa a Napoli una certa cultura “antica”. Vari elementi concorrevano a conservare e perpetrare questa tradizione classica, in primo luogo le scuole; ancora in quel tempo esistevano scuole di greco; osserva Domenico Ambrasi nella ricerca II cristianesimo e la Chiesa napoletana dei primi secoli (in Storia di Napoli, Napoli 1967):

Il rampollo delle famiglie benestanti e aristocratiche trovava entro le pareti domestiche nel liberto pedagogo il primus magister o litterator, che l'istruiva nei primi elementi del leggere e scrivere. Ai fanciulli di origine modesta era aperta la scuola pubblica primaria (ludus litterarius). Gli alunni apprendevano poi dai grammatici non solo a parlare e a scrivere correttamente, ma le regole della grammatica, della prosodia e della metrica ed inoltre, attraverso la spiegazione dei testi studiati (enarratio, explanatio auctorum), gli elementi essenziali dello scibile umano in modo da acquisire una cultura generale [...]. Il ciclo completo dell'istruzione, strutturato sul modello greco, integrava le tre arti letterarie, grammatica, retorica e dialettica, con le quattro parti della matematica, ossia aritmetica, geometria, musica, astronomia. Il culmine della carriera scolastica era la scuola di retore, che si protraeva da quattro a sei anni e dava all’allievo la possibilità di uscirne o brillante conferenziere o, dopo un’adeguata frequenza della scuola di diritto, un temibile avvocato.

Più tardi, durante i secoli V-VIII, divenne sempre più rara l’istruzione bilingue, anche delle classi superiori; quindi, scomparse le scuole pubbliche, dove i bambini tra i sette e i dodici anni apprendevano a leggere e a far di conto, Napoli ebbe soltanto scholae ecclesiastiche, la maiore la minor; inoltre, dal VI secolo vennero fondate anche a Napoli scuole per i bambini presso le parrocchie. In tali scuole è logico immaginare, secondo una tradizione diffusa in molte epoche, che ci fossero maestri che facevano largo uso della frusta, che impiegavano senza troppi scrupoli sulle spalle degli alunni negligenti o indisciplinati.

Accanto alle scuole parrocchiali e ad una speciale scuola dell’episcopio napoletano, l’elevato numero di cenobi e monasteri fondati a Napoli prima del medioevo determinò la diffusione in città delle cosiddette “scuole monastiche”, che sostituirono lentamente le scuole "laiche”, convertendo il cursus scolastico via via alle esigenze dei destinatari alla monacazione; prima del medioevo scienza, arte, letteratura vengono oramai dai monasteri, nei secoli dove diffuso sarà l’analfabetismo, i conventi rappresentano i luoghi nei quali continua la ricerca e dove si legge, si scrive, si copiano opere antiche.

Tra queste scuole, fama e importanza ebbe a Napoli prima del medioevo quella fondata nel castrum Lucullanum, nella cittadella sorta intorno alla tomba che la nobile vedova Barbaria, o Barbara, aveva preparato per san Severino, l’eremita del Norico. Nato da una nobile famiglia italica, spinto da divina ispirazione, Severino lasciò la sede eremitica orientale e raggiunse, verso il 454, i confini danubiani per recare aiuto a quelle popolazioni oppresse dalle continue scorrerie barbariche. Qui diede vita ad un nuovo ideale di vita monastica, morì nel 482; il suo corpo nel 488 fu traslato dalla primitiva sepoltura e portato in Italia, prima a Montefeltro, vicino Rimini, quindi fu definitivamente deposto, intorno al 495, nel mausoleo costruito sull’altura napoletana di Pizzofalcone, che avendo trasformato la “classica” villa e i giardini di Lucullo prese il nome di castrum Lucullanum.

Però se i primi abati che si susseguirono nella direzione del cenobio (Lucilio, Marciano e Macrino) mostrarono attenzione principalmente a consolidare il culto e la devozione verso il santo, nel tempo durante il quale ebbe la direzione del monastero Eugippio, il castrum raggiunse livelli culturali e intellettuali riconosciuti universalmente.

Eugippio sintetizza in modo emblematico la figura dello scrittore cristiano della tarda latinità. Abate e scrittore, di lui si hanno pochissime informazioni, quasi tutte ricavabili dalle sue opere. Persino il luogo nativo non è definito con certezza, alcuni ipotizzano che fosse originario dell'Africa, altri con più probabilità del Norico. Tutti concordano su una possibile data di nascita tra il 460 e il 467. Probabilmente in giovane età entra a far parte della comunità monastica diretta da Severino presso Fauianae ed è coinvolto nell’evacuazione del Norico nel 488; in seguito negli anni del pontificato di Gelasio (492-496) raggiunge il castrum Lucullanum, quando a Napoli viene fondato il monastero in memoria del santo, che diviene un attivo centro di irradiazione culturale e che lo stesso Eugippio, come indicano le fonti, dirige in qualità di presbyter dal 511. Infine, si ipotizza che la sua morte sia avvenuta prima della conquista bizantina di Napoli nel 536, evento rilevante e di cui non si è trovata menzione in nessuno dei suoi scritti.

Anche del cenobio Lucullanum poco si conosce, se non che diviene, insieme al monastero di Vivarium istituito da Cassiodoro, uno dei posti più celebri per la formazione ecclesiastica dell’Italia meridionale della prima metà del VI secolo. Tra l’altro, Eugippio, benché contemporaneo di san Benedetto, pare non abbia avuto alcun incontro con il fondatore di Montecassino: nessuna fonte storica lo testimonia.

La straordinaria erudizione di Eugippio fu lodata da insigni scrittori dell’epoca, come ad esempio Pascasio e Massenzio. Cassiodoro, paragonandolo a sant’Agostino, lo giudicò «uomo non così sapiente nelle lettere umane, tuttavia assai esperto nella interpretazione delle Sacre Scritture». Fu in corrispondenza con vari famosi personaggi del tempo; Dionigi il Piccolo, conosciuto per il calcolo dell’era moderna e morto nel 540, al quale Eugippio aveva suggerito l’idea di tradurre in latino lo scritto De creatione hominis di Gregorio di Nissa, lo definì nella dedica dell’opera «sacro presbitero» e «assai venerando». Al contrario, nel 348 fu Eugippio a dedicare alla ricca vergine romana Proba, discendente degli Anici e nipote di Cassiodoro, una raccolta antologica tratta da più di quaranta scritti di Agostino, redatta su suggerimento e invito dell’abate Marino e dei confratelli.

Tuttavia non è la genealogia di Proba ad aver interessato gli studiosi, ma la sua disponibilità libraria; Eugippio infatti sottolinea più volte la necessità di condivisione degli scritti per lo sviluppo di un’unica opera utile alla coesione della comunità contro avversari comuni. Nella lettera si rivolge alla donna con queste parole:

Per il santo zelo di cui siete ricca avete voluto ricevere subito il codice di estratti che io, incoraggiato in ogni modo dal mio signore abate Marino e da altri santi fratelli, ho raccolto da alcune opere di sant'Agostino: e benché tra le molteplici ricchezze della vostra biblioteca sia conservata l’opera intera da cui io ho estrapolato pochi frammenti, tuttavia avete accettato tali estratti [...]. Infatti coloro che combattono contro i molti nemici della Chiesa, e soprattutto contro i dissimulatori avversari della grazia di Dio, una volta istruiti dalla dottrina di sant'Agostino o meglio illuminati dalla stessa grazia, sono sempre vittoriosi.

Pure l’illustre letterato Fulgenzio di Ruspe gli mandò, tra il 507 e il 515, un biglietto pieno di ammirazione e di stima, nel quale lo pregava anche «di far trascrivere dai tuoi servi i libri che ci servono dai vostri codici». Non è improbabile, ha commentato Ambrasi «che le copie dei codici napoletani siano stati poi importati dai monaci di Fulgenzio dalla Sardegna in Africa. Da parte sua, Eugippio chiedeva al dotto vescovo di Ruspe il soccorso della sua scienza teologica: ma erano parecchi a ricorrere a lui per avere chiarimenti e spiegazioni. Morto Fulgenzio nel 533, Eugippio chiese a Ferrando, che si fece poi accorto biografo del maestro, di rispondere alle obiezioni rivoltegli da un conte ostrogoto ariano sulla divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre: ne ottenne una risposta esauriente nel De essentia Trinitatis et de duabus Christi naturis».

Per di più, Ferrando, diacono di Cartagine e probabilmente maggiore artefice della conservazione della corrispondenza di Eugippio, trasmette notizie curiose e interessanti sull’uso e sull’origine delle campane. Nella breve epistola che destina ad Eugippio, infatti, si coglie un elemento insolito nella parte riservata al commiato; Ferrando invia una campana a Eugippio, come dono, simbolo della comunione tra le due rispettive congregazioni, africana e napoletana. Ferrando dichiara:

Infine non celebri da solo questo rito, ma esorti moltissimi altri alla condivisione della buona azione, per il quale ufficio la santissima regola dei beatissimi monaci ha stabilito che sia utile una sonora campana. Questa inviamo per la vostra felicità, giacché la richiedeste.

La possibilità di uno scambio di questo genere è sintomatica di un ambiente in cui le comunicazioni, il trasporto, non sono ancora ostacolati; quindi probabilmente precedente al periodo turbolento della riconquista giustinianea. L’uso della parola latina campana in Ferrando è significativo, perché si tratta della più antica attestazione letteraria a richiamo della terminologia corrente per indicare lo strumento in metallo utilizzato per invitare i fedeli alla liturgia della messa in ambiente monastico. Il termine era però già noto a Eugippio, la sua etimologia deriva infatti dal latino tardo (vasa) campana, che significa appunto “vasi (di bronzo) della Campania”: provincia, appunto, in cui si trova l’abate del Lucullanum. Nondimeno, le fonti agiografiche e le regole monastiche occidentali di V e VI secolo utilizzano numerose varianti per riferirsi allo stesso oggetto: cloca, nola (dall’originario toponimo campano), fuerit signus, facto signo. La variazione lessicale allude in genere a dimensioni diverse dello strumento; infatti se cloca e nola designano un esemplare di piccole dimensioni, quindi facilmente trasportabile, con il termine campana si intende un oggetto che può raggiungere un'altezza di quaranta centimetri.

Comunque, circa l’eredità teologica e culturale di Eugippio, Isidoro di Siviglia, celebre scrittore afro-ispanico, attesta che prima di morire l’abate lasciò ai monaci che condividevano con lui la vita del cenobio una regola, quasi testamento iure, che ricalcava probabilmente quella che san Benedetto in quello stesso frangente lasciava ai suoi discepoli: tale Regula, ritenuta perduta, è stata invece da pochi anni finalmente ritrovata.

In questa Regula l’enfasi in Eugippio è posta, oltre che sull’equità delle funzioni, sui valori di umiltà e obbedienza, cui è destinato il monaco. Per preservare nei monaci queste qualità è necessario sottolineare l'importanza anche delle attività pratiche. Ritorna il principio della caritas e di tutte le doti richieste alle diverse componenti del monastero inteso come Ecclesia Christi, quindi castità, penitenza, preghiera, giustizia, obbedienza, silenzio e carità che si devono amalgamare nell’abate, immagine del divino sulla terra.

Eppure, Eugippio è noto soprattutto per la composizione della Vita sancti Severini, anche se gli è riconosciuta la paternità di altre due composizioni, gli Excerpta ex operibus sancti Augustini, oltre alla Regula. Gli Excerpta sono un’opera composta di 348 estratti, estrapolati da una quarantina di testi di Agostino; si tratta di un contributo fondamentale per la conoscenza delle relazioni patronali, dei canoni letterari e del ruolo delle istituzioni monastiche nel periodo tardo antico. Questi testi confermano che Eugippio è stato uno dei maggiori studiosi e promotori delle teorie agostiniane nei primi anni del VI secolo.

Dunque, Eugippio diede al castrum Lucullanum e a tutta la cultura del suo tempo un impulso intenso di operosità e fecondo di risultati. I diversi edifici conventuali, cinti da mura e circondati da ampi giardini, divennero in poco tempo «dei centri di vita intensa sia sul piano spirituale che materiale e potettero svolgere una grandiosa azione culturale, economica e sociale; al punto che le loro aziende agricole debbono essere considerate le rigeneratrici della vita agraria durante il medioevo».

Sono molte le testimonianze che provano il livello di fama e prestigio raggiunto dal monastero, tale da collocarlo tra i centri culturali più importanti di quel tempo. Annota ancora Ambrasi:

Il grosso volume in pergamena nitida e sottilissima, scritta in onciale romana elegante e con le iniziali e i titoli dei capi in minio, che si conserva a Montecassino con la segnatura n. 150346, in calce al f. 123 reca la postilla autografa "Donatus gratia Dei presbyter proprium codicem Iustino Augusto tertio post consulatum eius in Aedibus Beati Petri in Castello Lucullano infirmus legi, legi, legi" (“lo Donato, per grazia di Dio prete, l'anno terzo del consolato di Giustino Augusto, mentre ero infermo, questo mio proprio codice nella cappella di S. Pietro nel castello Lucullano lessi, lessi, lessi”) [...]. Pertanto, nel 522 (nel 543, secondo il Tosti, nel 570 secondo altri studiosi) il prete Donato di S. Pietro a Castello, nel corso di una sua infermità, leggeva e rileggeva il codice ch’era di sua appartenenza, forse per correggere eventuali errori del servus scriptor o copista. Il volume di lì a poco esulò a Montecassino e fu tra i manoscritti che accompagnarono sempre i monaci di S. Benedetto nelle loro peregrinazioni; forse fu conosciuto e adoperato dallo stesso patriarca.

Nella biblioteca di Eugippio, ricorda lo studioso napoletano, sembra che «fosse addirittura pervenuto il codice dei vangeli appartenuto a San Girolamo. Comunque, è certo ed è ben degno di nota che il celebre codice lat. 9398 della Biblioteca Nazionale di Parigi, dell’ottavo-nono secolo, dipende da quello napoletano. Appartenne al monastero di Echternach (Treviri), donde prese il nome di Epternacense, ma risente la forte influenza di Lindsfarne in Inghilterra, ove codici e usanze napoletane furono importate nel 668. Il codice parigino ha in fondo la postilla: “Proemendavi ut potui secundum codicem de biblioteca eugipi presbiteri quem ferunt fuisse sancti hieronimi indictione VI post consulatum basilii v. c. anno septimo decimo” (“Ho emendato come ho potuto sul codice della biblioteca del prete Eugippio, che dicono essere stato di S. Girolamo”). Esso fu copiato da mano irlandese o sassonica dall’archetipo che era stato corretto nel 558 con la collazione di un codice del Lucullanum. S'intravede abbastanza quale influsso abbia avuto e quanta luce di civiltà e di cultura abbia irradiato il Lucullanum nei primi secoli del Medio Evo».

La cittadella monastica del castro lucullano, ricca di edifici e popolata da una fiorente comunità, fu attiva sicuramente fino al 902, quando, in seguito alla minaccia musulmana dell’emiro di Sicilia Ibrâhim ibn Ahmad, che incombeva sulle coste meridionali della penisola, fu abbandonata e distrutta, per non offrire, in quel luogo fortificato naturalmente, l'opportunità di un insediamento ai Saraceni, già presenti ad Agropoli e sul Garigliano. Quindi, i monaci di San Severino si ritirarono in città e si stabilirono nel grande cenobio fondato dal vescovo Atanasio II (876-898), che tuttavia fu dedicato oltre che al santo del Norico anche a san Sosso, poiché vi furono traslate le reliquie di questo santo, compagno di martirio di san Gennaro, dal castello di Miseno, già da molti anni distrutto e abbandonato.

 


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14 novembre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net