Regola di S. Benedetto

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: "... Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio... ".

Capitolo IX - I salmi dell'Ufficio notturno: "...Quanto ai libri da leggere nell'Ufficio vigilare, siano tutti di autorità divina, sia dell'antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica."

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: "L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio..."

Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti: "... Si legga all'ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità..."

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola: "...C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana?..."O esiste un'opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la via più rapida e diretta per raggiungere l'unione con il nostro Creatore?..."



Elogio della Parola

La Scrittura nella vita della Chiesa

Bruno Maggioni

Estratto da “La pazienza del contadino

Vita e Pensiero 1996

 

Elogio della Parola

 La fede nasce dall’ascolto, scrive Paolo (Rm 10,17). Non dice dalla carità o dalla santità o da altro. Certo, queste cose contano (ci mancherebbe!), ma - contrariamente a quanto oggi spesso si afferma con un poco di retorica - il posto centrale spetta alla Parola. In ogni caso, la vita, la santità, la carità hanno bisogno della Parola che spieghi e rinvii a Gesù Cristo per tramutarsi in appello che converte. Dicendo «la Parola», non intendo una parola staccata dalla vita, tanto meno una parola vuota. Intendo la Parola di Dio. L’appello non nasce da noi, né da una parola su chi siamo noi, ma da Gesù Cristo, e dunque da una parola che parla di Lui. Forse bisogna riconsiderare alcuni nostri modi di pensare la testimonianza: offrire una testimonianza non significa parlare di noi, né anzitutto della nostra comunità, ma di Gesù Cristo. Sono convinto che occorre recuperare fiducia nella forza della Parola. Non è vero che gli uomini sono stanchi di parole: sono stanchi di parole vuote, ma non di parole vere, non della Parola di Dio. Il Figlio di Dio è venuto fra noi, ha condiviso la nostra esistenza, ha amato e servito, ha donato se stesso. Ma volendo riassumere in un solo termine il significato di Gesù, Giovanni ha scelto «Parola»: «In principio era la Parola» (1,1) e «la Parola si è fatta carne» (1,14) e «narrazione» del Padre (1,18).

La centralità della Parola si regge almeno su quattro motivi, esplicitamente suggeriti dalla stessa Scrittura. Sono motivi che la nostra stessa esperienza, pur modesta, può confermare.

La Parola di Dio ha un'efficacia tutta particolare, unica, che nessun’altra parola può vantare. Isaia (55,10-11) la paragona alla neve e alla pioggia: scende sulla terra e non risale al cielo senza aver prima irrigato e fecondato. Ma è un’efficacia che l’uomo non può programmare: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). L’efficacia della Parola è libera, tutta nelle mani di Dio, non nelle previsioni dell’uomo. E un’efficacia da accogliere, da riconoscere, non da progettare e pretendere. I tempi e le modalità sono di Dio.

La stessa idea è suggerita dalle parabole evangeliche del seme. La Parola di Dio è come un seme, e il seme ha i suoi tempi. La sua efficacia è sicura, prodigiosa, ma nascosta. Germina sotto la terra, quando il contadino è inattivo. Le parole degli uomini non sono mai semi, ma alberi fatti. L’uomo vuole progettare: per ciò definisce prima i tempi e i modi. L’uomo desidera che si realizzi ciò che lui pretende. La Parola di Dio è diversa: è libera, misurata sulla grandezza della fantasia di Dio, non sui progetti previsti (e prevedibili) degli uomini. La Parola di Dio libera l’uomo che raccoglie, non lo imprigiona in uno schema già definito. E libera il seminatore che la semina dal fare calcoli, progetti e previsioni. Il seminatore deve solo assicurarsi che il seme sia buono, che la parola da annunciare sia di Dio e non sua. Non deve fare altro.

La Parola di Dio ha una capacità di discernimento che altre parole non hanno. È parola lucida e sincera. Si legge nella lettera agli Ebrei (4,12): «La Parola di Dio è viva ed energica e più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra sin nell’intimo dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore». Le parole degli uomini vedono ciò che vogliono, e non sempre hanno il coraggio della verità. A volte sono parole conniventi. La parola di Dio mai. Non si possono discernere i segni di Dio, né nella propria vita né nella storia, senza la luce della sua Parola.

La Parola di Dio conosce l’uomo, le sue profonde aspirazioni, le sue esperienze: è come uno specchio in cui possiamo guardarci e riconoscerci. Anche in questa direzione le pagine bibliche sono ineguagliabili e non cessano di sorprendere. Persino Gesù si è specchiato nella parola delle Scritture. Sulla Croce - nel momento più significativo, unico, della sua esperienza - non è ricorso a parole nuove per esprimersi, ma a parole già dette, ascoltate nella sinagoga e lette nei testi del suo popolo: i salmi.

La Parola di Dio è l’unica che sia davvero in grado di parlarci di Dio. È lo specchio di Dio, non solo dell’uomo. Per questo è una Parola sempre «nuova», che non stanca mai, perché il suo orizzonte non è mai esaurito. Parola che affascina, capace di aiutarci a intravvedere non soltanto la volontà di Dio, ma anche la bellezza di Dio. E questo è ciò che conta. Se vogliamo rifare il tessuto lacerato delle nostre comunità - lacerato perché indebolite e confuse nella fede - non si può che iniziare dalla Parola.

 

La Scrittura

nella vita della Chiesa

 

Al termine della Costituzione sulla Divina Rivelazione, il Concilio Vaticano II conclude con un’affermazione che vuole essere la conseguenza pastorale di tutto il discorso precedente: «È necessario (oportet) che i fedeli abbiano largo accesso alle Scritture» (n. 22). Non si tratta, come si vede, di una generica esortazione, ma di una precisa direttiva: «È necessario». E il «largo accesso» alle Scritture non è riservato soltanto a coloro che svolgono un ministero della Parola (sacerdoti, diaconi e catechisti), ma a tutti i fedeli indistintamente. Che si tratti, poi, di una direttiva che stava molto a cuore ai padri conciliari, è provato dal fatto che poco più avanti (nel n. 25) si parla con insolita insistenza e senza tema di ripetersi di contatto continuo con le Scritture, di lettura assidua e frequente, di studio accurato. Senza dire, infine, che il testo conciliare giunge sino a far propria la celebre frase del- l’esegeta san Gerolamo: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (n. 25).

 

Risveglio, non novità

Questa chiara direttiva conciliare è una vivace reazione a una precedente situazione di inerzia, che Paul Claudel riassumeva brillantemente in una battuta: «Il rispetto dei cattolici per la Sacra Scrittura è senza limiti, ma esso si manifesta soprattutto con lo starne lontano»[1].

La presa di posizione conciliare costituisce, senza ombra di dubbio, un deciso cambiamento di rotta nella pastorale. Ma non è l’introduzione di una novità, bensì la ripresa di una tradizione che risale alle origini.

Per più di un millennio, infatti, non si pensò in alcun modo di limitare la lettura della Scrittura, anche se - per necessità di cose - gli esemplari erano rari e costosi e non tutti sapevano leggere: la Bibbia era il libro base della predicazione, della catechesi e della formazione dei fedeli. Fu con l’apparire dei movimenti ereticali - che poggiavano le loro rivendicazioni sulle Scritture in opposizione al magistero - che iniziò un processo di cautela e di restrizione.

 

Alcuni timori

La direttiva conciliare non è stata disattesa. L’ascolto delle Scritture - dalla liturgia alla predicazione, dalla teologia alla catechesi - ha ripreso dovunque slancio e vigore. Ma il cammino non è certo concluso e l’ignoranza delle Scritture è ancora molto ampia. Sorprende, perciò, che si levino voci allarmate: c’è chi parla, ad esempio, di «biblicismo invadente» e chi di «accenti protestanti».

Immagino che le ragioni di questi timori - ancora isolati, ma non per questo da disattendere - siano soprattutto tre. La prima è la paura che una formazione prevalentemente biblica resti dottrinalmente frammentaria, incompleta e persino imprecisa: meglio perciò - si conclude - seguire un itinerario sistematico, con formule chiare e dai contorni definiti. La seconda ragione è la paura che un accentuato riferimento alla Scrittura finisca col relegare l’autorità del magistero in secondo piano: non più al primo posto la Chiesa e la sua autorità, bensì l’ascolto personale della Parola. La terza ragione è indubbiamente la più profonda: il cristianesimo - si sottolinea - non è soltanto, e anzitutto, dottrina, rivelazione, discorso, ma avvenimento. «La Parola è divenuta carne» (Gv 1,14), cioè una persona che ha vissuto una storia concreta e tangibile, fra gli uomini, la cui dilatazione nel tempo è la Chiesa: è dunque nella esperienza concreta e vitale della comunità che si incontra Cristo e la sua salvezza, non anzitutto nella Parola.

Le ragioni brevemente accennate meritano rispetto, ma nulla tolgono al fatto che l’accesso alle Scritture debba essere il più largo possibile e aperto a tutti. Inducono a vigilare perché la lettura della Scrittura sia corretta, nella Chiesa, ma non inducono a limitarla. Sono convinto che la meditazione delle Scritture non è mai «troppa». E una pastorale che si sforzi di aprire a tutti i tesori della Parola non è protestantesimo, ma semplicemente cristianesimo. Purché, naturalmente, questo riferimento alla Parola non sia esclusivo, né avvenga al di fuori della fede della Chiesa.

 

Scrittura e magistero

Sono completamente d’accordo con chi pensa che per la formazione cristiana la meditazione delle Scritture non basti: occorre anche la sistematicità e la completezza di un itinerario che comprenda tutta l’ampiezza della tradizione cristiana e della riflessione teologica che l’ha sempre accompagnata. È questo un compito necessario ed urgente. Tuttavia la Scrittura deve essere - non astrattamente, ma di fatto - Vanima di questo itinerario (DV n. 24). Nessuna sistemazione dottrinale e nessuna riflessione teologica è in grado di sostituire l’efficacia della parola di Dio.

È anche vero che la parola di Dio è più ampia della Scrittura. Il cristianesimo non è una religione del libro e la Chiesa trasmette ben altro che semplici copie della Bibbia. Il cristianesimo è Gesù Cristo, una parola fatta persona, un avvenimento, e l’avvenimento è sempre più ricco della sua registrazione. Tuttavia «le Sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio» (ibidem).

Il riferimento centrale del cristiano cattolico è la Chiesa, la sua fede, la sua vita, la sua autorità. Ma perché la sua rivelazione rimanesse «integra» e «viva» in ogni tempo (DV n. 7), Dio ha fatto dono alla sua Chiesa delle Scritture e della successione apostolica. Né la sola Scrittura dunque, né il solo magistero, ma l’una e l’altro in una vivente unità. Bisogna tenere in mano i due capi della fune, non uno solo. Il magistero, nelle sue diverse forme, interpreta autenticamente la Scrittura, ma non la sostituisce.

 

Centralità e relatività della Scrittura

A questo punto non resta che tornare a leggere con cuore aperto le limpide ed equilibrate affermazioni del Concilio, che troviamo nel n. 21 della Dei Verbum. Le principali sono tre.

Prima affermazione: «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto con il corpo stesso di Cristo». Dunque un parallelo fra la Scrittura e il corpo di Cristo, fra la parola e il sacramento, due realtà che la Chiesa ha sempre ritenute indissolubilmente unite. Con questo viene esplicitamente affermata l’importanza della Scrittura, ma viene anche nel contempo insinuata la sua relatività: la Scrittura non è a sé stante, la sua funzione è importante ma non isolabile, e soltanto all’interno di un’economia in cui giocano altri fattori trova la possibilità di svolgere la sua funzione di rivelazione e di salvezza.

Seconda affermazione: «Insieme con la sacra tradizione, la Chiesa ha sempre considerato e considera le Divine Scritture come la regola suprema della propria fede». Ancora una volta è affermata la centralità della Scrittura «regola suprema», ma anche la sua relatività («insieme con la sacra tradizione»). La Scrittura può rivendicare il diritto di essere la regola suprema almeno per tre motivi: perché scrittura ispirata, e quindi parola di Dio in un senso che nessun’altra parola, anche la più autorevole, può avere; perché parola scritta, quindi adatta a divenire punto di riferimento stabile e perenne («redatta una volta per sempre»); perché, infine, parola efficace, in grado perciò di nutrire la vita della Chiesa.

Terza affermazione: «Nella parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza da essere sostegno e vigore della Chiesa». È ancora abituale considerare la Scrittura come un bene preziosissimo della Chiesa: un bene preziosissimo, ma «passivo», da custodire e difendere, da spiegare. Nel testo conciliare invece la Scrittura è considerata nella sua forza attiva, costruttrice della Chiesa e non soltanto affidata alla Chiesa: la parola di Dio svolge nella Chiesa un ruolo attivo («sostegno e vigore»). Non solo strumento di trasmissione dottrinale, ma luogo di comunione con Dio. Va detto però che la forza attiva della Parola, di cui qui si parla, non appartiene allo scritto come tale, ma allo scritto in quanto capace di ridiventare parola, parola letta e ascoltata, attualizzata, predicata, annunciata, vissuta. Lo scritto è stabile ma esige - perché la sua forza esploda - di ridiventare parola viva. La Scrittura è una parola «scritta», che ha bisogno di essere riportata nel suo ambiente vitale (tradizione e comunità), perché possa di nuovo riacquistare forza e sapore. E lo Spirito non solo è all'origine della Scrittura (ispirazione), ma è anche presente oggi nell’ascolto e nel l’interpretazione della Scrittura e nella sua proclamazione. Lo Spirito, che ha guidato il cammino dalla parola allo scritto, guida ora il cammino dallo scritto alla parola. Anche queste ultime riflessioni ribadiscono, da una nuova angolatura, l'importanza della Scrittura e nel contempo la sua relatività.

 

Una breve conclusione

Tutte queste scarne riflessioni - che si sono sforzate di svolgere il discorso mantenendo uniti i due capi della fune - mirano a una semplice conclusione. La meditazione delle Scritture non è isolabile, né può costituire il riferimento esclusivo della coscienza cristiana. Il riferimento rimane sempre la Chiesa nella sua pienezza. Ma dire «pienezza» significa, appunto, riconoscere l’insostituibile importanza della Scrittura. Mi riesce difficile perciò immaginare come sia possibile una piena esperienza di Chiesa e una matura spiritualità cristiana senza anche l’assiduo contatto con le Scritture. L’ascolto delle Scritture non può essere ridotto, di fatto, ad elemento accessorio, cosa che sembra accadere, ad esempio, là dove se ne fa semplicemente, o quasi, un uso dossologico: la recita dei salmi nella preghiera comune, e la proclamazione delle letture nella celebrazione liturgica, seguita poi da una omelia che cerca altrove il suo contenuto e la sua forza.

Il forte richiamo del Concilio, e queste brevi riflessioni ben più modeste, non vogliono dire che tutti debbano leggere personalmente e con la stessa assiduità le Scritture. Anche gli analfabeti possono essere pienamente cristiani. La Scrittura è da «respirare» prima che da leggere. Una sana pastorale biblica non invita a porre la Bibbia sul comodino per leggerne una pagina ogni sera, ma si sforza di permeare della parola di Dio tutte le sue attività.

 


[1] «La Vie intellectuelle», maggio 1948, p. 10.

 


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13 dicembre 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net