SOLITUDINE E SOLIDARIETÀ
DONNE RECLUSE NEL MEDIOEVO

 

Capitolo undicesimo

 

Estratto da “La figura della donna nel Medioevo” a cura di Jean Leclercq O.S.B. – ed. Jaca Book 1994


 

Tra le prime lettere che ricevetti da Thomas Merton nel 1950 ce n’è una che rivela il suo interesse per la vita eremitica in generale e per la reclusione medievale in particolare. Dopo diversi anni, il sabato santo del 1964, commentando un articolo che aveva appena letto, mi scrisse: «Mi aiuterà un po’ nel mio lavoro sui reclusi. Sto continuandolo pazientemente e silenziosamente, e spero proprio di incominciare ad avere qualcosa in più su Grimlaico...». A quanto pare Merton non finì mai, o almeno non pubblicò mai questo studio. Parecchie volte egli accennò al problema della solitudine e della comunione, specialmente in Mystics and Zen Masters e in Contemplation in a World of Action, ma in realtà non approfondì mai l’argomento. Sarà un atto di fedeltà alla sua memoria cercare di farlo qui.

In queste pagine mi limiterò a considerare le donne recluse. Già dagli inizi del cristianesimo le donne hanno avuto un posto importante nella Chiesa e una parte attiva nel diffonderlo tra i popoli. Recentemente un teologo ha notato, a proposito di un dizionario di nomi propri biblici, che si trovano «2900 uomini e solamente 170 donne, vale a dire poco più del 5%. Nel Nuovo Testamento la percentuale è molto più alta e questo è un segno del nuovo ruolo che Gesù assegnò alle donne, operando una sorta di rivoluzione che venne quasi subito ridimensionata dalla mentalità maschilista allora dominante» [1]. Anche se da una parte può essere vero che la funzione istituzionale e ufficiale delle donne diventò ben presto secondaria, tuttavia il loro influsso è sempre rimasto reale e vario, sia nelle opere di carità sia nel servizio—non meno importante nella Chiesa—della preghiera.

Ciò era vero al tempo delle origini come pure nel medioevo. Le mogli dei re barbari ebbero spesso un ruolo decisivo nella conversione al cristianesimo dei loro mariti e di conseguenza dei loro popoli. Le monache erano strettamente unite all’opera di evangelizzazione compiuta dai monaci, e a partire dal VII secolo diventarono vere e proprie missionarie [2]. Generalmente la loro preghiera era comunitaria, ma esse talvolta conservavano la tradizione della preghiera solitaria e naturalmente questo valeva soprattutto per le recluse.

Perciò è importante collocare il fenomeno della reclusione femminile nel contesto della tradizione precedente. Solo dopo averlo fatto saremo nella giusta prospettiva per esaminare la vita delle recluse nel medioevo e la loro presenza attiva nella società di quel tempo.

 

1. La reclusione delle origini

Il termine reclusione si riferiva a una persona che viveva in una «cella»—che poteva essere una capanna o una casetta—. Questa fu una delle forme più estreme del monachesimo primitivo, e talvolta fu vissuta in modi strani e stravaganti, per noi difficili da capire. Tuttavia la reclusione era allora concepita come una delle vie più facili e convenienti per abbracciare la vita monastica. Trovava le sue radici nel desiderio di fare qualcosa di veramente grande per Dio e per il mondo. La reclusione non era sempre assoluta e neppure aveva carattere definitivo. Spesso accadeva che una persona incominciasse con una totale separazione dalla società circostante e poi vi ritornasse gradualmente per partecipare agli altri l’esperienza spirituale vissuta nella solitudine. Quasi sempre i reclusi comunicavano col mondo esterno attraverso una finestra, i loro volti restavano nascosti ma le loro voci potevano essere ascoltate. Ogni volta che tendevano a esagerare nelle pratiche ascetiche, i vescovi intervenivano per moderare il loro zelo. L’istituzione monastica dimostrò una mirabile e sorprendente flessibilità che permise l’esistenza di tante strane vocazioni. Le autorità avevano larghezza di vedute, e così pure le istituzioni; non imponevano il loro modo di pensare, ma rispettavano la libertà degli individui [3].

La storia ricorda più nomi di uomini che di donne reclusi, ma noi comunque sappiamo per certo che le donne vissero questa vita. La più famosa è santa Taide, una prostituta convertita dallo zio, il vecchio eremita Pafnuzio. La sua leggenda è un best-seller anche ai nostri giorni. Nel XIX secolo, Massenet ne compose un’opera, intitolata appunto Thais, che è tuttora citata, letta e rappresentata. Anche il grande romanziere francese Anatole France, i cui lavori sono stati tradotti in diverse lingue, ne fa menzione.

Questa leggenda ci rivela la concezione che tante generazioni hanno avuto dell’atteggiamento monastico verso le prostitute pentite. Esso consisteva nella sollecitudine per l’anima di una peccatrice, era un atteggiamento di carità concreta che cerca di fare qualcosa per venire in aiuto. Pafnuzio va da Taide, nella sua stanza, e le parla di Dio. Lei si pente, raccoglie tutto ciò che ha guadagnato col peccato e lo brucia nella piazza del mercato per testimoniare la rottura col suo perverso passato. Pafnuzio la fa vivere reclusa in una angusta cella per tre anni. Poi chiede consiglio a sant’Antonio su questa penitente. Antonio riunisce tutti i suoi confratelli e chiede loro di pregare Dio perché li illumini. Questo è un atteggiamento tipicamente monastico di solidarietà, umiltà e coraggio; quegli uomini non avevano paura di aver a che fare con ima simile donna. A Paolo, uno dei discepoli di Antonio, appare in visione un letto splendente. Tutti pensano che sia per Antonio, ma una voce dal cielo proclama che è per Taide. Anche qui vediamo l’idea che un peccatore pentito può essere più grande agli occhi di Dio rispetto a dei monaci che hanno speso tutta la loro vita in un’esperienza ascetica. Pafnuzio voleva liberare Taide dalla reclusione, ma essa rifiutò e morì nella pace due settimane dopo [4].

«L’origine e la funzione dell’uomo santo nella tarda antichità» sono state oggetto di un pregevole studio di Peter Brown [5]. L’autore vi ha descritto quelle «stelle ascetiche» di cui avevano bisogno i popoli orientali, raffinati e insieme violenti. Ogni società infatti si procurava dei modelli, dei punti di riferimento, delle «stelle» appunto. E a quei tempi tali modelli, tali stelle non erano belle regine o campioni sportivi, ma uomini e donne che davano prova di libertà interiore e, in alcuni casi, di forza spirituale contro l’oppressione del mondo diabolico e anche di quello secolare. Inizialmente appartato, lontano dalla violenza dilagante, il campione cristiano, ossia la stella, aveva il potere di pacificare uomini e cose. Era visto come un «uomo di potere», potere che usava come arbitro e mediatore. Talvolta arrivava anche a maledire e spesso esorcizzava. «Nel IV secolo, in Siria, le bambine giocavano ai monaci e ai diavoli: una, vestita di stracci, faceva scoppiare dalle risa le sue amichette esorcizzandole» [6].

Il contesto sociale nel quale questi santi solitari esercitavano il loro influsso era quello dei villaggi, dove essi erano le uniche autorità. Per molti versi erano simili ai guru indiani di oggi. Nessuno faceva qualcosa senza aver prima chiesto il loro consiglio. È inutile dire che questo non rientra nello stile di certi famosi guru che troviamo nelle ricche città occidentali [7]. Sembra che poche siano state le donne tra queste figure di «santoni», o almeno che pochi nomi femminili siano stati trasmessi dalle cronache della storia. Ma si ha l’impressione che, al contrario di questi «uomini di potere» piuttosto terribili, le donne non maledicevano. Erano non-violente e questa forma femminile di carità cristiana, unita al fascino, era probabilmente altrettanto efficace per placare i loro brutali contemporanei.

 

2. La reclusione nel medioevo

Nonostante le differenze tra i singoli casi, alcune caratteristiche comuni portano a distinguere due grandi periodi [8]. Il primo, che arriva sino quasi alla fine del XII secolo, è un tempo di larga diffusione della reclusione monastica; uomini e donne vivevano questa forma di eremitismo in un monastero o nelle sue vicinanze. Questi reclusi erano in contatto con la comunità ed erano alle dipendenze di un abate o di una badessa. La reclusione monastica sembra aver raggiunto il suo culmine nell’XI secolo [9].

Dal secolo XIII al XV, con lo sviluppo dell’urbanizzazione gli uomini e le donne reclusi si stabilirono nel cuore della città o alla periferia. Se ne potevano trovare nei pressi delle porte, vicino a una chiesa o a una cappella, in una posizione tale che tutti quelli che passavano potevano vedere attraverso la loro finestra ed essere sicuri che qualcuno stava pregando per i cittadini e i visitatori. Nella sua storia, Tolosa ebbe contemporaneamente sei reclusi, uno per ogni porta. I reclusi vivevano anche vicino agli ospedali, per pregare per gli ammalati o per suffragare i defunti. In questi casi non ricevevano aiuti materiali dai monasteri, poiché era l’amministrazione pubblica a curarsi di loro. Naturalmente essi non erano più sottomessi all’obbedienza e al controllo di un abate o di una badessa, ma dei vescovi e del clero locale. Molte città provvedevano a coprire le spese per costruire le celle e mantenervi i monaci reclusi. È dunque comprensibile che uno storico abbia interpretato questo fatto come «una prova di quanto la gente di quel tempo credesse con fede profonda nell’efficacia potente della preghiera propiziatoria dei monaci solitari» [10].

Qualunque fosse l’ambiente sociale, monastico o urbano, lo stile di vita del recluso possedeva sempre gli stessi caratteri distintivi. Sulla base delle fonti, abbastanza numerose, gli storici hanno raccolto molti particolari pittoreschi e a volte divertenti sulla vita quotidiana dei reclusi. In questo campo, più che in altri, i documenti vanno utilizzati con cautela. Si deve stare attenti a non idealizzare queste figure fondandosi sull’agiografia che parla di casi eccezionali, né abbandonarsi a una facile ironia, come talvolta capitava, anche se raramente, in alcuni autori di fabliaux. La nostra esperienza oggi—ripensando anche a Thomas Merton—è la stessa di sempre. Ci mostra che la gente comune ha un’innata tendenza ad abbassare al proprio livello uomini e donne più grandi di sé. Dobbiamo inoltre stare in guardia dai riformatori di professione che tendono a ingigantire le mancanze per poi dilettarsi a proporre dei rimedi. Sembra che questo sia stato il caso, per esempio, di Aelredo di Rievaulx, quando scrisse ima regola per le recluse, tra il 1147 e il 1167 [11].

Come tutti i grandi scrittori cisterciensi della generazione di san Bernardo, Aelredo fu un riformatore. San Bernardo, Isacco della Stella e altri proposero programmi di riforma per ogni stato di vita nella Chiesa—per papi, vescovi, clero, istituzioni monastiche, cavalieri—. Ma vi era una forma di vita della quale nessuno di questi riformatori aveva parlato. Se ne occupò allora Aelredo, e lo fece in modo davvero mirabile. Anziché presentare un ideale di altissimo fervore o splendidi temi per la meditazione delle recluse, si divertì a scrivere una sorta di satira rivolta a tutti gli eremiti del suo tempo. Ne risulta un testo piuttosto interessante, scritto con arte ma probabilmente con qualche esagerazione, che può essere attendibile quanto le satire di san Bernardo sulla curia romana, sulla pompa dei vescovi o sui Cluniacensi.

I documenti più utili per conoscere la vita reale delle recluse sono le Regole, come l’Ancrene Riwle scritta probabilmente tra il 1190 e il 1230, o le Vite, come quella di santa Cristina di Markyate. Qui, come pure in altri testi scritti da vescovi, la vita delle recluse è improntata di realismo, di buon senso e dimostra una ricerca di quell’equilibrio armonico che evita eccessi e stravaganze. Questa vita di reclusione, nell’intento di quelli che la vissero come di quelli che la alimentarono e la difesero, è caratterizzata da una profonda sensibilità a tutto quanto vi è di migliore nell’uomo, compresi la gioia e l’umorismo. La vita di una reclusa è essenzialmente umana e questa dimensione si può constatare in diversi campi.

Innanzitutto c’è il rapporto tra la reclusa e gli animali. Cristo stesso, nelle grevi ore di solitudine in cui scelse di incominciare la sua vita pubblica, visse «con le bestie della foresta». La tradizione vide in questo il simbolo della riconciliazione universale, prefigurata da strane mandrie di animali nella profezia di Isaia; questi infatti predisse che il leone e l’agnello si sarebbero sdraiati insieme e le bestie più inconciliabili sarebbero vissute in pace. Molti antichi eremiti avevano un animale che li aiutava e teneva loro compagnia; se ne accenna in diversi passi di «poesia eremitica», specchio delle usanze irlandesi nell’alto medioevo [12]. Sembra che le recluse solitamente avessero un gatto, non perché fosse il loro animale prediletto, ma molto più semplicemente per liberarsi dai topi.

Talvolta, però, per garantirsi il necessario per vivere, si esagerava nelle eccezioni, ed è proprio contro questo fatto che reagì l’Ancrene Riwle: «Non avrete alcuna bestia, mie care sorelle, se non un gatto. Una donna che sceglie la vita solitaria e che possiede bestiame sembra simile a Marta, migliore come donna di casa che come anacoreta; e nemmeno può essere come Maria, con la sua serenità di cuore, poiché deve pensare al foraggio per la mucca, al salario per il mandriano, deve tenere buoni rapporti col vicinato, difendersi quando il bestiame è chiuso nel recinto e soprattutto rifondere i danni. Cristo sa che è una cosa spiacevole quando la gente della città si lamenta per le bestie delle recluse.. .» [13].

Un cronista racconta che la reclusa Verdiana, nel XIII secolo, visse con due serpenti che dividevano con lei il cibo e mangiavano dalla sua stessa scodella. Quando un giorno il vescovo le fece visita, ne rimase inorridito e voleva far uccidere i serpenti, ma Verdiana lo persuase a lasciarli vivere, perché essa aveva pregato Dio per averli [14]. Questa è una notevole testimonianza di libertà da parte di un prelato: la storia non dice se il vescovo oppose o no resistenza; probabilmente ammise che quella donna di Dio aveva dei poteri straordinari, superiori alle sue stesse capacità.

Quanto all’igiene personale, le recluse non si lavavano mai o, se si lavavano, lo facevano raramente. Tuttavia l’Ancrene Riwle sembra essere più vicina alla realtà quando dice che le recluse potevano lavarsi ogni volta che lo ritenevano necessario. Naturalmente va ricordato che si tratta di un testo britannico, ed è noto che i nordici sono sempre stati molto favorevoli ai bagni e all’idroterapia. Lo stesso Aelredo dice che Maria fece il bagno a Gesù Bambino [15]. Sappiamo anche che l’aerazione della cella poteva avvenire mediante una finestra particolare, che non era quella da cui la reclusa comunicava coi visitatori, e neppure quella che le permetteva di vedere l’altare e di assistere alla messa. Avere tre finestre era quasi un lusso a quel tempo, quando, come dice un cronista del XIII secolo, «perfino le case grandi e belle avevano poche finestre, solitamente di piccola dimensione, e mancavano di luce» [16].

Per quanto concerne il cibo, esso doveva essere sufficiente e ben cucinato, ma mai raffinato. L’Ancrene Riwle afferma che le recluse non devono lamentarsi se il cibo è un po’ stantio. Qualora fosse stato davvero immangiabile, era loro concesso di riferire il fatto educatamente. Dovevano stare attente a non brontolare e a non crearsi la fama di pignole e incontentabili. Se una di loro non mangiava qualcosa, doveva darlo alle donne povere e ai loro bambini [17].

Gli storici hanno spesso voluto sottolineare la longevità di alcune recluse. Si citano esempi di donne che rimasero recluse per venti, trenta, quaranta e perfino cinquant’anni. Il primato sembra appartenere ad Agnese Durscher, figlia di un’agiata famiglia della borghesia parigina, che trascorse ottanta lunghi anni rinchiusa in una minuscola cella nella parrocchia di Sainte- Opportune, fino alla morte, avvenuta nel 1483 [18]. Gli storici giudicano sorprendente questo fatto, perché tendono a paragonare le sue condizioni di vita, comprese quelle igieniche, con le nostre attuali, anziché con quelle dell’età medievale. Alcuni fatti che conosciamo mostrano invece che Agnese probabilmente viveva in condizioni migliori rispetto a quelle della maggioranza dei suoi contemporanei, perfino di quelli che abitavano nei castelli.

Le recluse naturalmente non potevano chiedere la carità, ma era loro consentito di accettare elemosine o qualsiasi altra offerta da parte delle comunità monastiche e delle città a cui erano collegate. Talvolta due recluse dividevano la stessa cella, con tutte le gioie e i fastidi vissuti anche dagli studenti che alloggiano insieme. Tuttavia, quando due o tre recluse vivevano insieme, sembra che generalmente avessero celle separate con finestre comunicanti. Poteva addirittura accadere che nella cella vicina vivesse un uomo recluso. Santa Cristina di Markyate aveva come vicino Ruggero di Saint Albans. Parlavano insieme di Dio, ma egli la vide una volta sola [19]. Il caso di un’altra amicizia spirituale, simile alla precedente, tra Herveus ed Eva è veramente eccezionale nella storia letteraria delle recluse e forse anche nella storiografia stessa. Però è una cosa bella e richiama un ideale di vita. Sollevava naturalmente un problema, mirabilmente espresso, insieme con la sua soluzione, in alcuni versi di Ilario di Orléans, un discepolo di Abelardo:

«Eva visse là per molto tempo col suo compagno Herveus. / Penso che tu sia turbato nell’udire una simile cosa. / Fratello, evita ogni pensiero sospettoso;/ questo fatto non ne sia la causa. / Un tale amore era in Cristo, non nel secolo» [20].

Due sono i temi principali che emergono da ciò che conosciamo della vita stessa e dei riti coi quali uomini e donne si sottoponevano alla reclusione. In primo luogo l’idea di libertà. Le recluse ne offrono il modello più alto, e in una maniera paradossale. Lungo tutta la tradizione monastica, dalle sue origini fino ai nostri giorni, è presente il tema della «prigionia volontaria», non come punizione per un crimine, ma per amore di Cristo che nella sua passione accettò di essere prigioniero per amore di suo Padre, per salvare il mondo [21]. Ora sappiamo che le leggende di donne rinchiuse contro la propria volontà sono miti, almeno all’interno del cristianesimo [22]. Le recluse dimostrarono che è possibile svincolarsi dalla elementare libertà di poter andare da un luogo all’altro e così raggiungere una libertà ancora più grande, quella di essere capaci di abbandonarsi totalmente a Dio. Ecco perché l’ingresso in clausura era a volte accompagnato da una messa dello Spirito santo, poiché lo Spirito di Dio è la sorgente di ogni libertà. Se leggiamo tutto quello che sta scritto nelle Regole e nelle Vite, ci rendiamo conto che la reclusione era un simbolo e insieme una realtà; non aveva un senso assoluto: la cella era segno di una prigionia volontaria, ma non era un carcere.

L’altro tema spirituale di cui le recluse erano la figura o meglio la personificazione, è quello dell’intensa vita interiore che si può raggiungere quando si rinuncia alla realizzazione di molte doti naturali. Il rituale per chi si ritirava in clausura era talvolta quello funebre, una messa da Requiem che simboleggiava la reclusione come un sepolcro. Le recluse ricevevano a volte addirittura l’estrema unzione e sulla cella venivano gettate le ceneri come si usava fare sui corpi. Questi riti un po’ tetri avevano in realtà un fine pratico. Se la reclusa moriva all’improvviso, senza che nessuno lo sapesse, allora avrebbe avuto almeno il soccorso di santa madre Chiesa. Ma il motivo era ancora più profondo. Queste semi-morte, o false o pretese morte erano anche il simbolo della totale rinuncia al compimento terreno delle doti naturali. L’osservanza era solo la conseguenza pratica della morte al mondo. Nell’Ancrene Riwle si legge: «Ci sono recluse che mangiano con i loro amici fuori dal convento. Questa è un’amicizia eccessiva. Si è sentito spesso di morti che parlano con i vivi; ma che anche mangino con loro è proprio una novità» [23]. Una simile separazione dal nostro modo di vita, spesso mediocre, apre a un’esistenza vissuta alla sola presenza di Dio. Questo è ben espresso da un’antifona che talora si cantava durante la cerimonia per l’ingresso in reclusione: «Questo è il luogo del mio riposo per sempre»[24]. Riposare, in un tale contesto, voleva dire essere nell’otium, avere tempo libero e quiete—essere in permesso sabbatico, potremmo dire, per Dio—. Questa è la vita contemplativa.

Un caso interessante è quello di santa Ida, che morì nell’825, ma la cui Vita, cioè la leggenda che la propose come modello di vita cristiana, fu scritta da un monaco verso la fine del X secolo. Ida era vedova: era stata sposata con il conte Egberto, che amava profondamente. Avevano avuto parecchi figli, cinque dei quali risultavano viventi. Come marito e moglie essi condivisero il loro amore umano nel matrimonio e così facendo amarono Dio e vissero insieme in comunione col suo santo Spirito. Quando Egberto morì, Ida rimase fedele alla sua memoria e si fece reclusa presso la cappella che il marito aveva costruito e nella quale era sepolto. Quando essa morì fu sepolta con lui. Questa Vita molto esplicita, densa e leggendaria illustra un esempio di fedeltà coniugale in una vedova reclusa. Fino alla sua morte aveva avuto due amori, uno terreno—il suo compianto marito—e uno celeste. Essa unì questi due amori nella pace e nella letizia e lasciò così ai posteri un modello di umanità e di pietà [25].

Nel XIII secolo troviamo una storia interessante—e più verosimile—nella leggenda del beato Filippo Bruizo, una storia in cui si fondono il contesto religioso e quello sociale del tempo. Il testo è semplice e commovente. Mentre Filippo stava camminando lungo una strada di Todi, vide due prostitute che cercavano di attirare clienti. Gridando «Dio vi perdoni!» cercò di far loro ricordare il prezzo che Gesù aveva pagato per redimerle col suo prezioso sangue. Che almeno spendessero i soldi che guadagnavano in opere di carità. Ma le donne gli dissero che non avevano altro mezzo per guadagnarsi da vivere. Replicò Filippo: «Vi prego, per amore della Vergine Madre di Dio, non commettete peccato per i prossimi tre giorni. Ecco del denaro per il vostro sostentamento». Non appena presero il denaro dalle sue mani, la grazia dello Spirito santo sgorgò nei loro cuori. Il giorno dopo vennero da lui tra le lacrime, supplicandolo di chiedere perdono per loro. Filippo diede a quelle donne il perdono di Dio. Esse lasciarono la loro vita peccaminosa ed entrarono in una cella. Un’altra versione, che sembra meno autentica, dice che fu Filippo stesso a rinchiuderle, in modo che non potessero ritornare alla vita di prima. In ogni caso, sta di fatto che le due donne rimasero nella loro cella e vissero santamente fino alla morte [26].

Non è facile sapere esattamente se o quante prostitute pentite diventarono recluse durante il medioevo. Ma questa idea è indubbiamente presente nella letteratura. Nel X secolo Rosvita, una badessa sassone, che voleva persuadere le sue monache a non leggere Terenzio, ne riprese lo stile e scrisse una commedia sulla conversione di Taide. La badessa descrisse tutte le peripezie dello zio Pafnuzio che partì per cercare sua nipote Taide e convertirla. Quando vi riuscì le propose di diventare reclusa. I suoi amanti (amatores) non erano d’accordo e cercavano di dissuaderla, dicendole che era pazza. Essa esitò, ma Pafnuzio intervenne ed ebbe la meglio. Poi dovette cercare una badessa disposta ad assumere la cura di questa insolita «prigioniera». Riuscì anche in questo e descrisse alla nipote il tipo di vita che avrebbe condotto nel seguente dialogo:

Taide: La mia viltà non rifiuta di andare subito là dove vostra paternità mi comanda; ma c’è un certo disagio in questa dimora che per la mia debolezza è difficile da sopportare.

Pafnuzio: Qual è dunque questo disagio?

Taide: Ho vergogna a dirlo.

Pafnuzio: Coraggio, non arrossire. Sii sincera fino in fondo.

Taide: Che cosa vi è di più sconveniente o potrebbe essere più sgradevole di dover soddisfare i vari bisogni fisiologici in uno stesso luogo? Davvero diventerebbe subito inabitabile a causa dell’eccessivo fetore.

Pafnuzio: Abbi timore della crudeltà dell’inferno e non aver paura delle cose che passano.

Taide: La mia debolezza mi terrorizza.

Pafnuzio: Mi sembra giusto che tu espii la dolcezza del piacere che viene da colpevoli gioie con il fastidio di un soverchio fetore.

Taide: Non mi oppongo, non nego che sia giusto che un essere ripugnante quale io sono vada a vivere in un angusto tugurio sporco e squallido; ma penso sia assai sconveniente che non ci sia un altro luogo dove io possa decorosamente e castamente invocare il nome della Tremenda Maestà [27].

Tutto qui è immaginario. Nel medioevo tutto era materia di letteratura, e la reclusione non faceva eccezione. Vi è sempre una certa esagerazione nel genere letterario teatrale. Un passo, nella Vita di Cristina di Markyate, è in contraddizione con quanto pensa Rosvita nel testo sopra citato, anche se dimostra ugualmente che il ritmo di vita di una reclusa era mortificante: «La cosa più insopportabile in tutto questo era il fatto che essa non poteva uscire fino a sera per soddisfare i suoi bisogni naturali» [28].

Inoltre le recluse generalmente avevano una «domestica» che usciva per prendere o per portare qualcosa. L’immagine eroica attribuita a Taide ha però senso quando pensiamo che la maggior parte dei drammi scritti da Rosvita, in particolare il Dulcitius, sono incentrati sul tema del martirio come testimonianza delle vergini cristiane. Tale è il «martirio d’amore» attribuito a san Romualdo nell’XI secolo: «Martyr fuit, sed amoris» [29]. Questo non era solo un simbolo. È noto infatti che almeno una reclusa, santa Viborada, fu uccisa dagli Ungheresi il 2 maggio 926 [30].

Thomas Merton sviluppò questa idea quando scrisse che «proprio come la Chiesa di Dio non può mai esistere senza martiri, così non può vivere senza uomini solitari, perché l’eremita, come il martire, è il testimone più eloquente del Cristo Risorto» [31]. Una delle principali sofferenze in una vita di questo tipo poteva certo essere la vecchiaia, anche se ognuno, compreso il servitore, dava al recluso ogni medicina conosciuta a quel tempo. Oggi molte persone anziane concorderebbero con queste parole dette da una donna con fine senso dell’umorismo: «Se avessi saputo come è noioso invecchiare, sarei rimasta giovane». Ma la solitudine di una reclusa alla fine della sua vita era probabilmente meno dolorosa di quella dei vecchi di oggi.

Così vivevano le recluse nel medioevo, in continuità con lo stile di vita della tradizione antica, che sembra essere stato un fattore costante nella vita della Chiesa. Conosciamo casi di reclusione nel XVII e XVIII secolo in Europa [32] e in America. In Canada, nei pressi di Montreal, Catherine Leber trascorse vent’anni come suora in una congregazione che aveva poca simpatia per la vita solitaria, come spesso accade anche oggi. Poi per quindici anni fino alla morte, nel 1714, visse come reclusa nella casa di suo padre, dopo che il vescovo Lavai di Québec le diede il permesso, cosa tra l’altro abbastanza normale. La sua vocazione nacque dalle letture sulle recluse medievali [33].

 

3. Solitudine e comunione

Ora, dopo aver esaminato alcuni aspetti esteriori della reclusione nel medioevo, dobbiamo dare uno sguardo alla realtà spirituale che sta al cuore di questo mistero. Stiamo considerando un paradosso il cui significato e la cui interpretazione riguardano la fede. Certamente possiamo chiederci se a chiunque sia dato di ritirarsi in modo così totale dalla società secolare, ecclesiastica e monastica. Non può essere questa una forma di egoismo la quale, benché rivestita di motivi spirituali, sia tuttavia in contraddizione con i requisiti fondamentali del cristianesimo, cioè con un amore verso tutta l’umanità che si manifesta nella condivisione di ogni bene concesso da Dio? Questo aspetto della reclusione è stato molto meno studiato rispetto agli elementi esteriori, indubbiamente più pittoreschi; tuttavia costituisce l’aspetto più importante, e i documenti ce ne parlano molto. Ci mostrano come le recluse condividessero ogni stato della normale vita umana, da quello più basso a quello più elevato.

La prima e più profonda forma di solidarietà della reclusa è la consapevolezza di essere, come ogni altra persona umana, peccatrice. Questo spiega l’importante ruolo che riveste la tentazione nelle Vite, nelle Regole e in diversi altri documenti. Queste tentazioni, descritte a volte con una certa esagerazione, obbligano la reclusa a rendersi conto della propria tendenza al peccato, nella quale non è diversa da qualsiasi altra persona; l’unica differenza stava nell’esserne più profondamente consapevole, e questo aumentava la sua responsabilità nei confronti degli altri.

Era essenziale allora che la reclusa si sottoponesse a una volontaria penitenza. Se consideriamo la maggior parte dei testi e teniamo conto dell’esagerazione letteraria, possiamo tuttavia constatare come le mortificazioni fisiche non fossero tutto sommato esagerate. L’autrice dell’Ancrene Riwle, per esempio, dice: «Mi sembra che abbiate mangiato e bevuto meno di quanto io richiedessi. Non digiunate a pane e acqua se non quando ne abbiate il permesso...»[34]. Tuttavia la penitenza, anche se non eccessiva, era costante. Era un modo volontario di condividere le sofferenze involontarie di tutte le vittime del peccato e delle sue conseguenze. L’esito più importante della mortificazione è la crescita nell’umiltà e la purificazione del cuore, degli intenti e dei desideri. La gente, uomini e donne, confidava nelle recluse proprio perché le sentiva vicine a sé e contemporaneamente vicine a Dio. Proprio come nel Tristano e in altri romanzi medievali gli amanti infelici si rifugiano e cercano consiglio da un eremita della foresta, così la gente in qualsiasi frangente si sfogava dei propri dolori e apriva il proprio cuore con una reclusa dolce e compassionevole.

Ma soprattutto la reclusa pregava per ciascuno. Era questa una delle sue forme di solidarietà verso gli altri—essa condivideva l’assoluta solitudine di Cristo e così partecipava anche della sua sollecitudine per tutti—. Un testo del XII secolo ci dice che Cristo era «veramente un eremita e la croce era il suo eremitaggio» [35]. La reclusa perseverava nella preghiera come la profetessa Anna nel tempio [36] e come Maria Maddalena ai piedi di Gesù. Inoltre va notato che nella mentalità di quel tempo la Maddalena era il simbolo della peccatrice pentita, convertita e piena d’amore [37]. Oltre alla sua esperienza di profonda solitudine, una solitudine simile a quella di Cristo, la reclusa doveva spesso soffrire il severo giudizio dei farisei nei confronti di un peccatore pentito, e anche l’incomprensione di cui talvolta era circondata. Veniva messa in ridicolo nei racconti satirici [38]. Perfino alcuni ecclesiastici tendevano insidie per cercare di sedurle [39]. Esse dovevano rinunciare non solo al prestigio e alla vanagloria, ma anche alla buona reputazione.

Qualsiasi influsso esercitato da una reclusa poteva nascere solo da quella sua duplice e indivisibile esperienza di umiliazione, in quanto peccatrice, e di unione con Cristo, in quanto amorosa penitente. Eccezionalmente questo influsso poteva manifestarsi anche dopo la sua morte, attraverso il racconto della sua vita [40], o ancora mediante i suoi stessi scritti. Quest’ultimo fu il caso di Eva di Saint-Martin a Liegi e di Ava Göttweig[41]. La reclusa era a volte considerata anche una guaritrice. Ma solitamente la sua azione era più spicciola e meno sensazionale—magari semplicemente nell’insegnare a leggere alle bambine—. Santa Ildegarda, che divenne una delle persone più colte del XII secolo, imparò a leggere da una reclusa di Disibodenberg. Quando una reclusa si dedicava all’assistenza spirituale, solitamente comunicava attraverso la finestra del parlatorio posto vicino alla cella [42].

Gli storici sottolineano spesso come questa finestra fosse motivo di preoccupazione per gli autori delle diverse Regole e per i vescovi che ne dovevano sorvegliare l’osservanza. Ovviamente ogni genere di abuso era possibile e alcuni ve ne furono. Ma ancora una volta dobbiamo guardarci dall’esagerazione letteraria su questo punto come su ogni altro riguardo le recluse e altre persone che conducevano una vita fuori dal comune. Gli scrittori che vogliono attirarsi un pubblico di lettori sono sempre stati abili nel far leva sullo scalpore. In realtà sembra che la maggior parte dei visitatori ricevuti dalle recluse fossero persone afflitte e bisognose di un conforto spirituale piuttosto che di inutili pettegolezzi.

L’influsso della reclusa si esercitava anche attraverso la sua preghiera, che è un modo efficace di essere unita alla preghiera salvifica di Cristo. La reclusa leggeva e meditava, e talvolta è ritratta nei dipinti con un libro tra le mani [43]. A volte contribuiva alla diffusione di nuove devozioni, grazie al suo esempio e al suo incoraggiamento; in altri casi era lei stessa a iniziare nuove devozioni. Si è scritto infatti che «alcune delle devozioni che più tardi sarebbero diventate fonte della pietà popolare erano già coltivate dalle recluse del XII secolo; basti citare, per esempio, la devozione alle cinque piaghe, alla santa Croce, ai misteri della vita di Cristo e ai misteri gaudiosi di Maria. Circa nello stesso periodo nel mondo claustrale si cominciò anche a ripetere la breve formula usata nel saluto dell’angelo, e questa ripetizione, unita ad altri elementi, si trasformò gradualmente nella forma popolare delle devozioni mariane: il rosario» [44].

Le recluse recitavano anche il salterio e avevano a questo scopo libri liturgici, l’ufficio divino. Uno degli sviluppi più spettacolari della liturgia del xii secolo è legato al nome di una reclusa. La devozione popolare al santissimo Sacramento e l’istituzione della festa del Corpus Domini fu dovuta principalmente alla beata Giuliana di Mont-Cornillon e alla sua amica Eva, una beata reclusa dell’abbazia di Saint-Martin a Liegi [45].

Infine l’influsso delle recluse si fece sentire per mezzo della loro carità verso tutti, specialmente verso coloro che stavano nelle immediate vicinanze. Si è detto che la reclusa era un «legame tra due mondi». Questo ruolo di mediazione e di riconciliazione è già stato studiato in rapporto alla figura dell’«uomo santo» dei villaggi orientali nella tarda antichità [46]. Per quanto riguarda il medioevo, in un articolo di H. Mayr-Harting si è parlato delle «funzioni di una reclusa nel XII secolo» [47]. Essa poteva sedare liti locali senza schierarsi con l’una o con l’altra parte, poiché era sufficientemente lontana dalle passioni che elettrizzano l’atmosfera. Nella preghiera intercedeva particolarmente per tutte le miserie del mondo. San Pier Damiani, scrivendo sugli eremiti, ebbe espressioni meravigliose sulla teologia della comunione universale nel suo trattato Dominus vobiscum. Egli mostra come anche il più solitario dei solitari deve pregare al plurale, perché prega a nome e a beneficio di tutti [48]. Aelredo di Rievaulx si è espresso in termini simili a proposito delle donne recluse, in forma più breve ma con altrettanto fervore:

«Quanto bene allora saprai fare al tuo prossimo? Nulla vale di più, disse un santo, della buona volontà. Sia questa la tua offerta. Che cosa vi è di più utile della preghiera? Sia questa la tua generosità. Che cosa vi è di più umano della pietà? Sia questa la tua elemosina. Abbraccia così tutto il mondo con le braccia del tuo amore e in quell’atto pensa e rallegrati dei buoni e guarda e piangi sui malvagi. In quell’atto vedi gli afflitti e gli oppressi e prova compassione per loro. In quell’atto richiama alla tua mente la miseria dei poveri, i gemiti degli orfani, l’abbandono delle vedove, la tristezza di chi soffre, i bisogni di chi viaggia, le preghiere delle vergini, i lunghi tempi di chi naviga, le tentazioni dei monaci, le responsabilità dei sacerdoti, le fatiche di chi va in guerra. Nel tuo amore portali tutti nel cuore, piangi per loro, offri per loro le tue preghiere» [49].

La stessa enfasi si ritrova nell’Ancrene Riwle. Fin dall’inizio, nelle intenzioni per le quali la reclusa deve recitare l’ufficio divino, notiamo come si esprima al plurale: «Da’ loro il riposo eterno, Signore... Cristo, abbi pietà di noi» [50]. La reclusa prega nella Chiesa, con la Chiesa e per la Chiesa: «Per la pace della santa Chiesa... per le anime di tutti i cristiani... O Signore, accogli con misericordia le preghiere della tua Chiesa, perché liberata da ogni male possa servirti sicura e libera» [51]. Poco più avanti si legge questa preghiera per ogni forma di sofferenza:

«Pensa e ricorda tutti quelli che sono malati e sofferenti, che patiscono l’afflizione e la povertà, le sofferenze dei prigionieri che giacciono con pesanti catene ai piedi. Pensa specialmente ai cristiani che vivono tra i pagani, alcuni in carcere, altri in terribile schiavitù, come buoi o asini. Abbi compassione di quelli che soffrono grandi tentazioni; pensa a tutti i dolori umani e prega tra i sospiri nostro Signore perché voglia guardare a loro con occhi di grazia.. .» [52].

 

4. Reclusione e profezia

È interessante e indicativo notare che il teologo dell’amicizia spirituale abbozzò una teologia della vita di reclusione. Aelredo di Rievaulx, così umano e aperto, ebbe un vivo senso del ruolo universale che poteva avere nella Chiesa ima donna consacrata a Dio nell’assoluta solitudine. Cristina di Markyate, contemporanea di Aelredo, e molte altre come lei incarnarono questo insegnamento. L’amicizia può diventare tanto intima da permettere a una persona di leggere nel cuore di un’altra come chi ha il dono della profezia. Un modello per le recluse, come abbiamo visto, fu la profetessa Anna [53].

Se volessimo mettere in connessione il carisma della reclusione con altri menzionati dalla Scrittura e dalla tradizione, la profezia sembrerebbe quello più adatto. Secondo il Nuovo Testamento e i documenti dei primi secoli cristiani, la profezia era una forma di insegnamento con cui una persona partecipava agli altri le rivelazioni che aveva ricevuto [54]. Questa comunicazione era accompagnata dalla preghiera e aveva il carattere di testimonianza pubblica nella Chiesa. Dopo la carità, la profezia era il carisma più alto, più ancora del ministero attivo. «Ma quando si arriva alla profezia, gli uomini e le donne sono completamente sullo stesso piano», e sembra che le donne abbiano ricevuto questo dono in misura più larga degli uomini [55]. Era una realtà indipendente dalla gerarchia e dal clero. «A questa categoria appartengono tutti quei gruppi organizzati non per un ministero esterno, ma per una funzione spirituale, cioè per pregare e per testimoniare l’altro aspetto terreno della Chiesa con la loro vita di preghiera e di ascesi. Tra loro vi sono donne da poco vedove, anziane vergini e quelle comunità monastiche di ispirazione più eremitica che ecclesiale» [56].

La reclusione—indubbiamente un grande fatto nella Chiesa— mantenne la sua vitalità lungo tutto il medioevo. Una grande badessa come santa Ildegarda, una illustre reclusa come Cristina di Markyate furono chiamate profetesse. E come abbiamo già visto, alcune recluse svolgevano un genere di servizio attivo nella Chiesa. Ma esistevano altre donne, meno note, che sicuramente erano profetesse allo stesso modo. Tutte avevano in comune, e questo era loro specifico, il compito di mantenere vivi nella Chiesa i caratteri della «vita profetica» [57], cioè il distacco dalle abitudini mondane, il desiderio di Dio, la preghiera contemplativa per il bene di tutta la Chiesa e di tutta l’umanità.

Proprio all’inizio del suo studio sull’«eremitismo francescano» [58], Thomas Merton sottolineò i fattori comuni a ogni forma di eremitismo: solitudine e desiderio di aiutare ogni uomo. Questi due atteggiamenti scaturiscono dalla stessa fonte— amore per Dio in Cristo, amore per Cristo e per tutti gli esseri umani—. Nel 1975, durante un convegno ecumenico dove ortodossi, cattolici romani, anglicani e altri cristiani si incontrarono per discutere sul tema Solitudine e comunione, uno dei partecipanti fece un lungo intervento sull’espressione di san Pier Damiani solitudo pluralis [59]. Un altro citò «un vero eremita, Thomas Merton» [60]. E nel suo Statement on the Solitary Life il simposio riassunse le proprie conclusioni in diversi punti, il primo dei quali è quello più importante:

«La vita solitaria, sebbene implichi una separazione esteriore dalla società, è nello stesso tempo una vita vissuta in profonda comunione con tutto il genere umano. Anche se rimane ‘alla frontiera’, separato da tutti, il solitario è al tempo stesso unito a tutto. Vivendo spesso in condizioni di estrema povertà e semplicità, quest’uomo o questa donna si identificano con tutti gli altri esseri umani nel loro bisogno e nella loro povertà davanti a Dio» [61].

 

5. Conclusione

Ogni essere umano è come uno specchio di tutti gli altri uomini e di tutto l’universo; la persona è come una via di incontro del mondo intero. E il Logos che è in Dio, che è Dio, che è lo specchio nel quale Dio Padre si riflette nell’unità del loro Spirito, è anche Io specchio di ogni essere umano.

Esiste perciò una solidarietà ontologica tra tutti gli uomini, perché la solidarietà, prima che essere una qualità psicologica o spirituale, è una realtà ontologica. È su questo piano fondamentale che noi siamo fratelli gli uni con gli altri, al di là del fatto che ciò si realizzi o no. Questa realtà ontologica deve essere radicata nella coscienza e nell’esperienza spirituale—altrimenti non siamo in grado di capire come il peccato di Eva possa avere conseguenze su di noi, e neppure possiamo comprendere come il sacrificio della Croce avvenga per la nostra salvezza.

Considerato in questa prospettiva di realtà ontologica e di consapevolezza, il monachesimo appare un grande sacramento, un mistero di solitudine e di comunione, più che un’attività specialistica di pochi eletti. La monaca, o il monaco, è una persona in cui il centro della coscienza e il senso cosmico coincidono; è una persona, quella monastica, che è incentrata, che è il centro, che è con-centrata in modo tale che in quest’unica persona convergano come in un solo punto focale i centri di ogni altra realtà.

Ecco il fine della solitudine contemplativa: essere il centro di un centro che è dappertutto, un centro senza circonferenza. Ed eccone il risultato: diventare totalità, vivere senza limiti di spazio e tempo, consapevoli con profonda umiltà della propria condizione. Questa non è vuota retorica. È un fatto, e questa lettera che ho ricevuto nell’autunno del 1977 da un monaco americano lo testimonia:

«La mia esperienza della vita contemplativa si rivela nel fatto che più vivo, più mi sembra di diventare universale. Mi sento in amicizia con tutto. Penso che padre Louis [Thomas Merton] avesse molto da dire su questo fatto. Ed è davvero meraviglioso sperimentarlo senza neppure averne parlato e poi leggere qualcosa scritto da lui... che è una esplicitazione di qualcosa che già c’è. Ma penso che questo sia uno dei maggiori dinamismi della preghiera contemplativa».



[1] R. Laurentin, in una recensione ne Le Figaro su O. Odelain-R. Sequineau, Dictionnaire des noms propres de la Bible, Paris 1978.

[2] E. de Moreau, Le rôle de la femme dans la conversion des peuples païens, in «Nouvelle revue théologique» 58 (1931), pp. 317-339.

[3] H. Leclercq, art. Reclus, in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie, XIV/2, Paris 1939, coll. 2155-2158.

[4] Vitae patrum, PL 73, 661-662; BHL 8012-8019.

[5] The Rise and Function of the Holy Man in Late Antiquity, in «Journal of Roman Studies» 62 (1971), pp. 98-100.

[6] Ibid., p. 88.

[7] F. Charya, The Guru: The Spiritual Father in the Hindu Tradition, in Abba. Guides to Wholeness and Holiness East and West, a cura di J.R. Sommerfeldt, Kalamazoo 1982, pp. 243- 275 (Cistercian Studies Series, 38).

[8] La storia della reclusione è stata oggetto di numerosi studi: se ne può trovare una bibliografia in L. Gougaud, Ermites et reclus. Études sur d’anciennes formes de vie religieuse, Ligugé 1928; P.F. Anson, The Call of the Desert, London 1966, pp. 265-268; e soprattutto in R. Rouillard, art. Reclusione, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VII, Roma 1983, coll. 1229-1245.

[9] Questa forma di reclusione vicino a un monastero durò molto più a lungo. Per il XIV secolo si veda M.W. Bloomfield, Piers Plowman as a Fourteenth Century Apocalypse, Rutgers University Press s.d., p. 70. Egli arriva a dire che «al tempo di William Langland tutti i monasteri provvedevano a recluse ed eremiti e molti dipendevano da questi centri».

[10] J. Hubert, Les recluseries urbaines au moyen âge, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Milano 1965, p. 487.

[11] De institutione inclusarum, tradotta da M.P. McPherson col titolo A Rule of Life for a Recluse, in Aelred of Rievaulx: Treatises and the Pastoral Prayer, Kalamazoo 1982.

[12] Alcuni testi sono citati in J. Kenneth, Studies in Early Celtic Nature Poetry, Cambridge 1935, pp. 93-109.

[13] La citazione segue l’edizione di J. Morton, The Nun’s Rule: Being the Ancrene Riwle mo- dernised, intr. di A. Gasquet, London 1905, p. 316.

[14] Secondo P.F. Anson, op. cit., p. 215.

[15] De Iesu puero, 6, tradotto da T. Berkeley col titolo Jesus at the Age of Twelve, in Aelred of Rievaulx..., cit., p. 10.

[16] MGH SS, XVII, 232, qui citato secondo la traduzione di G.G. Coulton, Life in the Middle Ages, II, Cambridge 1967, pp. 191-192.

[17] Secondo P. F. Anson, op, cit., p. 215.

[18] L. Gougaud, op. cit., p. 93.

[19] The Life of Christine of Markyate, a cura di C.H. Talbot, Oxford 1959.

[20] Dall’edizione di N.M. Häring, Die Gedichte und Mysterienspiele des Hilarius von Orléans, in «Studi medievali» 17 (1976), p. 928.

[21] J. Leclercq, Libérez les prisonniers. Du Bori Larron à Jean XXIII, Paris 1976, pp. 36-59: Monastère et prison.

[22] L. Gougaud, op. cit., p. 75.

[23] J. Morton, op. cit., p. 314.

[24] Sal 131,14 (Vulgata).

[25] Acta Sanct. Bolland., Sept. II, Paris 1868, pp. 260-262.

[26] Legenda beati Pbilippi... auctore incerto saeculi XIV, in A. Morini - P. Soulier, Monumenta Ordinis Servorum S. Mariae, Bruxelles 1898, pp. 77-78.

[27] Paphnutius. Conversio Thaidis meretricis, ed. Homeyer, in Hrotsvitae Opera, Paderborn- Wien 1970, pp. 333-334.

[28] Cap. 4, ed. cit., p. 105.

[29] Su questo testo e su questo tema si veda J. Leclercq, La vie parfaite, cit., pp. 148-157 (tr. it. pp. 145-154).

[30] L. Gougaud, op. cit., p. 81.

[31] Prefazione a J. Leclercq, Seul avec Dieu. La vie érémitique d’après la doctrine du B.x Paul Giustiniani, Paris 1955, p. xiii (tr. it. Il richiamo del deserto. La dottrina del beato Paolo Giustiniani, Roma 1977.

[32] Cont. H. de Boissieu, Une recluse au XVIIe siècle, Paris-Gembloux 1934.

[33] Sr. E. Clarkin, The Story of a Recluse, in «Review for Religious» 19 (1978), pp. 387-392. In memoria di Catherine Leber, la Congregazione delle Missionarie Recluse fu fondata in Canada.

[34] J. Morton, op. cit., pp. 314-314.

[35] J. Leclercq, Pétulance et spiritualité dans le commentane d’Hélinand sur le Cantique des cantiques, loc. cit., p. 41.

[36] Citato da L. Gougaud, op. cit., p. 110.

[37] Aelredo, De institutione inclusarum, 31, ed. cit., p. 91; si veda anche Monks on Marriage.

[38] J.J. Jusserand, Les Contes à rire et la vie des recluses au XIIe siècle, in «Romania» 24 (1895), p. 122-128. In questo articolo, Jusserand cita Abelardo e conclude che egli «fa delle aggiunte ai cenni che già si avevano sugli innumerevoli modi in cui venivano costruite le storie e si svolgevano le avventure, ossia sul materiale fondamentale dei fabliaux». Ma non dà indicazioni su tali storie, se esse esistevano.

[39] Come accadde per Cristina di Markyate.

[40] L. Gougaud, op. cit., p. 85.

[41] Ibid., pp. 96-97.

[42] Ibid., p. 102.

[43] J. Hubert, Les recluseries urbaines au moyen âge, loc. cit., p. 486.

[44] L. Gougaud, op. cit., pp. 110-111.

[45] lbid., p. 82.

[46] Cfr. supra, nota 5.

[47] Functions of a Twelfth Century Recluse, in «History» 60 (1971), pp. 337-352.

[48] J. Leclercq, 5. Pierre Damien, ermite et homme d’Église, Roma 1960, pp. 265-273: Solitude et communion d’après le «Dominus vobiscum» (tr. it. S. Pier Damiano, eremita e uomo di Chiesa, Brescia 1972; questa appendice non compare nella versione italiana, ndt).

[49] De institutione inclusarum, 28, ed. cit., pp. 77-78.

[50] J. Morton, op. cit., p. 18.

[51] Ibid., p. 19.

[52] Ibid., p. 25.

[53] Sr. M.L. McKenna, Women in the Church, cit., p. 149.

[54] Ibid., p. 155.

[55] Ibid., p. 160.

[56] Ibid., p. 159.

[57] J. Leclercq, La vie parfaite, cit., pp. 125-160 (tr. it. pp. 123-158).

[58] Contemplation in a World of Action, New York 1971.

[59] A. Louf, Solitudo pluralis, in Solitude and Communion. Papers on the Hermit Life given at St David's, Wales, in the Autumn of 1975, Oxford 1977, pp. 17-29.

[60] A.M. Allchin, The Solitary Vocation. Some Theological Implications, ibid., p. 16.

[61] Ibid., p. 77.

 


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17 ottobre 2021                a cura di Alberto "da Cormano "       Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net