IL CANTO DI SAN BENEDETTO [1]

Estratto da “Tre canti danteschi” di Alberto Chiari

Editrice Magenta | Varese 1954

 

Paradiso. Canto XXII

1       Oppresso di stupore, a la mia guida

2           mi volsi, come parvol che ricorre

3           sempre colà dove più si confida;

4       e quella, come madre che soccorre

5           sùbito al figlio palido e anelo

6           con la sua voce, che 'l suol ben disporre,

7       mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo?

8           e non sai tu che 'l cielo è tutto santo,

9           e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

10       Come t'avrebbe trasmutato il canto,

11           e io ridendo, mo pensar lo puoi,

12           poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto;

13       nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi,

14           già ti sarebbe nota la vendetta

15           che tu vedrai innanzi che tu muoi.

16       La spada di qua su non taglia in fretta

17           né tardo, ma' ch'al parer di colui

18           che disïando o temendo l'aspetta.

Paradiso. Canto XXII – Testo in italiano corrente [2]

1. Sopraffatto dallo stupore, mi volsi verso la mia guida, come il bambino che ricorre sempre là dove (=la mamma) ha più fiducia.

4. E quella (=Beatrice), come una madre che soccorre sùbito il figlio pallido [per lo spavento] e affannato [per la corsa], con la sua voce, che lo suole ben disporre,

7. mi disse: «Tu non sai che sei in cielo (=in paradiso)? e non sai che il cielo è tutto santo, e ciò che vi si fa proviene dal buon zelo (=dalla carità)?

10. Come ti avrebbero trasformato il canto e il mio sorriso, ora lo puoi pensare, dopo che il grido [dei beati] ti ha così profondamente sconvolto.

13. In tale grido, se tu avessi inteso le sue preghiere, già ti sarebbe nota la vendetta (=il giusto intervento punitivo di Dio) che tu vedrai prima che tu muoia.

16. La spada di quassù (=della giustizia divina) non taglia in fretta né con lentezza, fuorché al giudizio di colui che l’aspetta con desiderio o con timore.

 

Il canto incomincia con un silenzio di Dante, tutto preso da una inusitata maraviglia: quella dell'avere udito un grido di sì alto suono da non potersi paragonare nemmeno col più fragoroso dei tuoni, un grido così potente che orecchio umano non sopporta e la mente non intende.

Il grido che è risuonato nell’amplissima dorata volta del cielo è ora già trapassato, ma seguita ad esser presente nel suo effetto, che è oppression di stupore, e nel suo contrario, un gran silenzio intorno allo smarrito silenzio del poeta.

L’altezza umanamente inconcepibile di quel suono è come l’immagine sensibile dell’altezza di ciò che per esso si esprime e della incolmabile distanza tra chi lo ha espresso e chi lo ha udito. Lo ha udito, ma non capito; non lo ha capito, ma ne è rimasto stordito; e il silenzio è come l’immagine sensibile di quella distanza tra cielo e terra.

Si aggiunga che l’effetto di un tal suono era da lontano e per suggestione di contrasto preparato da Dante, fin da quando egli aveva immaginato più splendente dei sei già contemplati quel settimo cielo di Saturno, e più aperto e dilatato verso il cielo supremo; ma lo aveva reso muto della dolce sinfonia di paradiso, che fin a quel punto lo aveva rallegrato e incantato.

L’ineffabilità del Paradiso tocca, qui, un grado più alto; e la eccellenza di questo settimo splendore è indicata da un gioco più industrioso che mai di cose espresse e di cose inespresse e inesprimibili.

Beatrice, qui, per la prima volta non segna l’avvenuta ascensione con un più fulgente sorriso né i beati la confermano con un canto più malioso; ma ne dà testimonianza la lucentezza dello scaleo d’oro che dal settimo si innalza e si perde nella sublimità dei cieli, e la lucentezza delle anime, che per lo scaleo compaiono e scompaiono, e così splendenti come se

Canto 21. 32                                                    … ogni lume

                 33           che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

                                                              … ogni stella

della volta celeste diffondesse la sua luce da esse (=da ogni anima).

 

Quale poi sarebbe potuto essere il fulgor di quel riso e la malia di quel canto è negativamente detto dalla nostalgia che Dante ne ha e dalla ragione che ne vien data: egli non sosterrebbe l’espressione dell’aumento di gloria e di grazia e ne resterebbe abbattuto come fronda che tuono scoscende (= come un ramo abbattuto da un fulmine). Pur qualcosa se ne può immaginare, perché se il riso di Beatrice non risplende di più, maggiore è la beatitudine che infonde con lo sguardo al suo fedele; e se il canto più non risuona, addirittura fiammeggiante appare la carità che sospinge le anime a confortare e a illuminare quel fortunato peregrino di spazi ultraterreni. Ed ora che, fattisi tutti roteanti e fulgenti intorno a Pier Damiani ad invocar giustizia e redenzione, i beati han parlato nel linguaggio a lor proprio, Dante può ben capire quale sarebbe stato il riso della sua donna e il canto di quelle anime.

La sproporzione tra Dante e i beati, tra il cielo e la terra, già drammaticamente palesata alla fine del canto ventunesimo, tutta piena di quel grido, torna ad esser dichiarata all’inizio del canto ventiduesimo, tutto pieno di questo silenzio. Si annuncia subito nella prima terzina quando Dante si descrive come il fanciullo ancor piccolo e debole e fragile che ricorre alla mamma, nella quale più che in altri ha ragione di confidarsi e di affidarsi;  si ribadisce nella seconda terzina dove è resa evidente dal soccorso di Beatrice, dato senza indugio, come fa la madre che non tarda un momento a incuorare e ad infondere «ogni disposizione buona nell’animo » [3] del figlio che essa veda tutto pallido ed anelante per l’emozione; e si completa nelle due terzine successive, perché la spiegazione che dà Beatrice è una sottolineature marcata di questa sproporzione:

« Non sai tu — ella dice — che sei in cielo e che il cielo è tutto santo e tutto quello che si fa in cielo è bene e retto desiderio di bene e per ciò tale da non dover sgomentare e da non far temere? Se il grido ti ha fatto una così profonda impressione, puoi pensare quale trasmutazione avrebbe operato in te il canto delle anime e il riso mio, espressioni del gaudio di Paradiso anche più alte e potenti del grido ».

Né Beatrice, che ha inteso quel grido, dice a Dante, che non l’ha inteso e si smarrisce e brama di sapere, se non che è grido di vendetta;  né Beatrice, che vede in Dio il quando e il come di quella vendetta, dice a Dante, che non vede e vorrebbe vedere, se non che la vendetta verrà, al momento giusto, che può esser troppo tardi per chi quaggiù la desidera o troppo presto per chi quaggiù la teme, ma sempre in tempo perché anche Dante ne sia testimone su la terra.

Mistero del non vedere e certezza di vedere; smarrimento del non intendere ed orgoglio di una rivelazione divina si alternano così, qui come altrove, nei versi di Dante e creano la temperie di questo suo Paradiso che sta tra l'umano e il divino: tra l'aspirazione al cielo (che in Dante è sete di verità senza ombre, che è ansia di luce senza tramonti, che è bisogno di pace senza turbamenti ma che muove anche da una delusione non rassegnata dell'umano) e la impossibilità di dimenticare questa terra, che è sangue del suo sangue, che è amore e rimpianto e desiderio sì cocente che affiora di continuo anche nel rapimento gaudioso ed orgoglioso insieme del divino.

 

Ma è tempo ormai che Dante, riconfortato, vinca il suo stupore e da Beatrice si rivolga verso altrui, verso altri assai illustri ospiti del Cielo di Saturno.

 

22. 19       «Ma rivolgiti omai inverso altrui;

       20           ch'assai illustri spiriti vedrai,

       21           se com'io dico l'aspetto redui».

       22       Come a lei piacque, li occhi ritornai,

       23           e vidi cento sperule che 'nseme

       24           più s'abbellivan con mutüi rai.

       25       Io stava come quei che 'n sé repreme

       26           la punta del disio, e non s'attenta

       27           di domandar, sì del troppo si teme;

       28       e la maggiore e la più luculenta

       29           di quelle margherite innanzi fessi,

       30           per far di sé la mia voglia contenta.

19. Ma rivolgiti ormai verso gli altri [beati], perché vedrai spiriti [che sulla terra furono] assai illustri, se sposti lo sguardo come io dico».

22. Come a lei piacque, girai gli occhi e vidi cento piccole sfere che insieme si facevano più belle con i raggi reciproci.

25. Io stavo come colui che reprime in sé il pungolo del desiderio e che non si tenta di domandare, tanto ha paura di [chieder] troppo.

28. La più grande e la più lucente di quelle margherite (=spiriti) si fece avanti, per far contento il mio desiderio con le sue parole.

 

L’annunzio che al cospetto di Dante sono spiriti assai illustri è confermato subito dalla vista: ecco, infatti, dinanzi agli occhi stupefatti del poeta un’infinità di piccole sfere lucenti, belle già di per sé, ma che si rendono tra loro più belle per un mutuo raggiar della propria nella luce altrui.

Dante ancora tace; ma, ora, perché è tutto preso dalla vaghezza di quello sfavillio di luce che testimonia una eccellenza di condizione, e dal palpito di quel reciproco accrescimento di splendore che testimonia un eminentissimo grado di carità. Perciò, un desiderio più vivo che mai di sapere, ma anche più profonda riverenza e più trepido pudore fermano le parole sul labbro di Dante, come già era avvenuto dinanzi alla prima schiera di contemplanti nel canto XXI;  e il silenzio di questo momento è anche più del precedente denso di significato, e mette in maggior risalto la soavità dell’incanto, perché le parole sono anche più di dianzi sospinte su dal cuore da un più acuto desiderio, tanto che Dante non si attenta a domandare nel timore di chiedere troppo.

Ancor l’inespresso a rappresentar l’inesprimibile.

 

Ma ecco che la sfera più grande e più lucente si fa innanzi alle altre, e dal fondo della sua gran luce si dispone, di suo, a far contento il poeta dicendo chi è.

 

22. 31       Poi dentro a lei udi': «Se tu vedessi

       32           com'io la carità che tra noi arde,

       33           li tuoi concetti sarebbero espressi.

       34       Ma perché tu, aspettando, non tarde

       35           a l'alto fine, io ti farò risposta

       36           pur al pensier, da che sì ti riguarde.

       37       Quel monte a cui Cassino è nella costa

       38           fu frequentato già in su la cima

       39           dalla gente ingannata e mal disposta;

       40       e quel son io che su vi portai prima

       41           lo nome di colui che 'n terra addusse

       42           la verità che tanto ci sublima;

       43       e tanta grazia sopra me relusse,

       44           ch'io ritrassi le ville circunstanti

       45           da l'empio cólto che 'l mondo sedusse. 

       46       Questi altri fuochi tutti contemplanti

       47           uomini fuoro, accesi di quel caldo

       48           che fa nascere i fiori e' frutti santi. 

       49       Qui è Maccario, qui è Romoaldo,

       50           qui son li frati miei che dentro ai chiostri

       51           fermar li piedi e tennero il cor saldo».

31. Poi dentro a lei udii: «Se tu vedessi come [vedo] io la carità che arde tra noi, esprimeresti [sùbito] i tuoi pensieri.

34. Ma, affinché tu, indugiando, non tardi a [raggiungere] la meta sublime [del tuo viaggio], io risponderò soltanto al tuo pensiero (=alla domanda che hai soltanto pensato), che sei così timoroso di manifestare.

37. Quel monte, su cui sorge Cassino, un tempo fu frequentato sulla cima dalla gente che viveva nell’errore e che era mal disposta [ad accogliere la verità].

40. Io sono colui (=san Benedetto) che per primo portò su di esso il nome di colui (=Cristo) che sulla terra portò la verità che tanto c’innalza (=ci fa diventare figli di Dio).

43. E sopra di me rifulse tanta grazia [divina], che io sottrassi i paesi circostanti all’empio culto che sedusse il mondo.

46. Questi altri spiriti ardenti [di carità] furono tutti uomini contemplanti, accesi da quel calore (=la carità) che fa nascere i fiori e i frutti santi (=i buoni pensieri e le buone opere).

49. Qui [in questo cielo] è Maccario, qui è Romoaldo, qui sono i miei frati che dentro ai chiostri fermarono i piedi e tennero il cuore saldo [alla regola]».

 

Anche nel canto precedente Dante aveva insistito su l'alta carità che infiamma tutte le anime tra loro e loro tutte verso Dante, serve pronte — come dice Pier Damiani — al volere di Dio.

In questo si insiste di nuovo su la carità.

Il primo accenno alle anime mette in rilievo la carità che muove l'una verso l'altra; la prima presentazione della margherita che innanzi alle altre procede ne dice la carità che la spinge a far contenta la voglia di Dante; e le prime parole che essa pronuncia sono una rivelazione della carità che addirittura le arde, le brucia, le infiamma così come aveva già detto anche l'altro contemplante. Quindi, se Dante anziché solo qualche riflesso, vedesse intera questa carità, certo che parlerebbe, perché certo saprebbe che esse anime non desiderano altro che parlargli; e parlargli vuol dire illuminare la sua mente e giocondare il suo cuore e renderlo sempre più partecipe della verità, della pace, del gaudio infinito che è proprio del paradiso.

E ne dà subito la prova.

Perché Dante, indugiando ancora a domandare, non ritardi di arrivare all’alto fine del suo viaggio, a Dio, quell’anima che in Dio ha conosciuto il segreto pensiero e desiderio di Dante, gli parlerà essa, ancorché non interrogata né cercata, e dirà chi è, che è questo, per il momento, ciò che Dante bramerebbe di sapere;

So bene che la nota della carità ha vibrato fin dal primo etereo apparire della prima creatura di Paradiso, e che Dante non ora soltanto tace aspettando l’incoraggiamento o il permesso; ma pur mi pare che un segreto rapporto abbia voluto il poeta istituire tra le tante tacite ma rapite sospensioni di questi canti dei contemplatori e un più palpitante ardore di carità che investe le anime e dalle anime su di lui si riversa e da lui alle anime torna. Come se Dante anche con questi mezzi avesse voluto creare in sé e nel lettore un’immagine viva del contemplare, quale egli Sentiva che potesse e dovesse essere. Profondità, cioè, intensa del sentire, ma tutta interiormente espressa in un solitario colloquio tra Dio e l’anima; ardentissimo colloquio, ma muto alla voce umana e nascosto alla vista umana; tanto più interiore quanto più alto il senso di distaccò dalla terra e più abbandonato l'amore verso Dio; ma anche più prodigo, che altro mai, verso chi sta su la terra e meno sa da questa elevarsi e batter le ali verso il bene supremo. Perché se Dio è amore, per amore a Sé attrae e all’amore costringe, come raggio che cerca e si posa su lucido corpo; e tanto splende quanto quel corpo può risplendere;  e tanto si dà quanto trova ardore di avere; e tanto più si dilata e si accresce quante più trova anime ansiose di quell’amore, e per ciò stesso capaci di più riceverlo, e di più ricambiarlo, e diffonderlo, come specchi di cui l’uno all’altro renda il fulgor della luce che l’un dall’altro riceve e che per l’uno e per l’altro da un’unica fonte deriva.

Ma la insistenza su la nota della carità, se serve in linea generale a rappresentare lo stato delle anime contemplanti, è da dire che [4] serve, anche in particolare, a rappresentare l’anima che per tutte in questo canto parlerà, l’anima di S. Benedetto, che anche in terra si distinse per un’amabile dolcezza di cuore, per un trepido proposito di portar tutti a Cristo, per una tenera sollecitudine verso chi più avesse bisogno di aiuto, di conforto, di consiglio.

 

La presentazione che S. Benedetto fa di sé è brevissima, ridotta all’essenziale.

Non, dunque, un accenno all’anno e al luogo della nascita, che fu a Norcia, nell’Umbria, da nobile famiglia, nel 480 [5].

Non un accenno all’abbandono, appena quattordicenne, degli studi, della casa, e del patrimonio, per orrore del mondo.

Non un accenno alla vita di rinunzia, di preghiera, e di offerta a Dio che per anni condusse in un angustissimo speco sconosciuto a tutti fuorché al monaco Romano, che gli promise il segreto e l’aiuto.

Non un accenno alla santità che, nonostante l’isolamento strettissimo, fu conosciuta e conquistò dapprima le anime semplici dei pastori e poi si diffuse di gente in gente che, andando a lui a recare «un po’ di cibo pel corpo, riportava dal suo labbro vitale nutrimento » per l’anima; sì che, nonostante le insidie varie del Maligno e degli uomini dal Maligno tentati, intorno al Santo si adunarono più discepoli devoti e fedeli e si fondarono più monasteri.

Ma solo il ricordo di ciò che egli compì, nel 528, a Cassino, dell’avvenimento, cioè, che fa della sua storia tanta parte della storia del mondo.

Fino a quel momento erano state le anime che, attratte dal prodigio della sua santità, erano corse a lui; ora era lui che, illuminato dalla lunga meditazione e fortificato dalla grazia divina, andava a cercare le anime e a costruire il suo incrollabile edificio di bene là dove poteva sembrare ed era più dura la fatica e più ardua la conquista.

Evocato dai versi di Dante ci sta ora innanzi l’alto profilo di un monte, in una vasta insenatura del quale sta Cassino, e per altre tre miglia si leva, su in alto, la cima; e sparsi per il monte villaggi e templi dedicati agli dei falsi e bugiardi, ancor venerati con sacrifici nefandi. Ed ecco che un uomo si avvia di contro al monte severo e di contro alla gente mal disposta ad accoglier l’audacia di quella presenza e la novità della sua parola e della sua opera. Ed egli abbatte i simulacri degli dei; rovescia le are ad essi dedicate; atterra i boschi cresciuti in loro onore; addita l'invilimento del secolare inganno; annuncia il nome del vero Dio; rivela la verità, che da Lui promana, e redime ed innalza oltre il tempo e lo spazio e le miserie e la morte [6]. E tanta grazia di Dio risplende su l’infuocato Suo ambasciatore che ei vince la seduzione dell’errore con la persuasione del vero, e l'empietà dell'antico culto sostituisce con la mite bellezza del nuovo.

Che importa che Dante non abbia dato altri particolari della vita di S. Benedetto?

Dante ha bene intuito che tutto il pregio della sua vita è conchiuso in quel rapimento per la verità che tanto ci sublima, in quell’amore per Colui che in terra l’addusse, in quella gioia di farne altri partecipi, in quell'ardimento che è bello quanto è necessario perché la gioia si attui e la partecipazione si compia.

Ma tutto ha origine dal richiamo radioso della verità. Lì si appunta; lì si incentra il carattere e la virtù del contemplare, a cui si addice l’isolamento dal mondo terreno e il silenzio col mondo.

La solitudine affina la virtù, ma la virtù non è perfetta se non si completa con l’azione; il contemplante si stacca da questo mondo per esser più vicino a Dio, che è la Verità; ma è anche l'Amore, s'è detto;  e il contemplante, proprio in effetto del suo contemplare, al mondo ritorna, per condurlo, con amore, alla conquista della stessa verità che lo sublima.

E’ qui che S. Benedetto può cominciare a somigliare, per certi aspetti, a Dante;  o, meglio, è qui che Dante dice di S. Benedetto ciò che è tanto caro anche al suo cuore ed è per questo che i versi possono essere così luminosi e commossi.

Anche Dante, prima ancora che gli uomini a forza lo staccassero dal mondo che gli era caro, aveva sentito a tal punto la dolcezza del sapere « che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero »; e più dopo, quando la patria terrena gli fu negata, aspirò a pregustare l’aspetto della patria celeste e la contemplazione di quel vero in che si quota ogni intelletto.

Anche Dante è un solitario, se non volontario, costretto dalla sorte, che contempla la verità delle cose, oltre la apparenza e la effimera illusione di esse ed oltre lo stesso suo dolore; ma, come già nel Convivio, e ora nella Comedia, soffre l’impazienza di svelare ciò che egli vede con la mente e ciò che sente nel cuore;  e più è lontano dal mondo e da questo incompreso ed inascoltato, e più vorrebbe che il mondo riudisse la sua voce ed ascoltasse la sua parola e riconoscesse la grandezza e la bellezza ed anche l'utilità di ciò che crede e che spera e che ama, per sé e per gli altri.

Anche Dante sale, per dir così, solitario per il monte di un nuovo paganesimo e di molti nuovi dei falsi e bugiardi, e la verità che egli ardisce contro tutti annunciare diventa la sua poesia, perché diventa la sua vita, e la ragione della sua vita, bella per sé e bella per ciò che promette: il ritorno tra i suoi, il riconoscimento del suo valore, o almeno, se tutto deve essere quaggiù negato, la gioia dell'evadere per virtù del proprio genio.

Ma torniamo a S. Benedetto che, dopo aver detto di sé, presenta altri contemplanti, come Macario, un monaco discepolo di S. Antonio [7], o Romoaldo [8], fondatore del monastero e dell'ordine dei Camaldolesi, o i frati suoi che dentro ai chiostri fermar li piedi « non vagando ad aliena loca, vel apostatando » e tennero il cor saldo « perseverando in proposito sanctae contemplationis, propter quod sunt exaltati ad istam altitudinem beatitudinis » (Benvenuto) tutti accesi, come furono, di quel caldo che ha la virtù di far pascere i fiori dei santi pensieri e i frutti delle opere buone.

Tre terzine per dire di sé, due terzine per dire degli altri;  ma anche queste sono tutte piene del suo sentimento;  per quel caldo da cui è investita l'uomo di Dio; per la convinzione con cui esalta una disciplina di vita che porta ad un più alto bene dell'anima; e per la gioia di tenervi fede, perché è troppo bella e preziosa per sé.

Come non intenderla, nella sua bellezza?

Come non praticarla, nella sua interezza?

E come, invece, arrivare fino al punto di tradirla?

Ciò che S. Benedetto dice di aver fatto insieme con gli altri contiene implicitamente la contrapposizione tra chi rimase fedele e chi tradì, e prepara da lontano la condanna di chi tradì e l’annuncio della redenzione che ne seguirà per mano di quel Dio, che tutto può.

 

22. 52       E io a lui: «L'affetto che dimostri

       53           meco parlando, e la buona sembianza

       54           ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

       55       così m'ha dilatata mia fidanza,

       56           come 'l sol fa la rosa, quando aperta

       57           tanto divien quant'ell'ha di possanza.

       58       Però ti priego, e tu, padre, m'accerta

       59           s'io posso prender tanta grazia, ch'io

       60           ti veggia con immagine scoverta».

52. Ed io a lui: «L’affetto che dimostri parlando con me e l’espressione di carità che io vedo e noto in tutti i vostri globi fiammeggianti,

55. ha dilatato la mia fiducia [in voi] così come il sole fa con la rosa, che diviene tanto aperta quanto è capace di aprirsi.

58. Perciò ti prego, e tu, o padre, fammi certo se io posso ricevere tanta grazia da vederti con l’aspetto che avevi sulla terra».

 

Ora, Dante parla; conquiso dall’affetto che il Santo gli dimostra e dalla concorde benevolenza di tutti gli ardori che a lui fanno corona.

Dice qui ardori per indicare questi beati; come disopra aveva detto che la carità arde tra loro e, nel canto precedente, fiammeggia; a confermare il grado altissimo della carità e ad indicare che, oltre le parole amorevoli e l’amorevole sollecitudine, c’è anche l’aspetto sensibile della luce con cui si accompagna e che ne è l’espressione, come un sorriso che accompagni un dono e che lo renda per ciò stesso più grato e più caro.

Ardono questi spiriti di interiore carità e di fuor risplendono, come di sua virtù vivificatrice arde e splende il sole;  e l’anima di Dante si apre e si abbandona alla fiducia di quegli ardori, così come la rosa si apre e si abbandona tutta al sole, per quanto può di suo ardore e finché può per la forza che ardendo la consuma [9].

Per questo dilatarsi della fidanza Dante osa chiedere di poter avere tanta grazia da vedere Benedetto con imagine scoverta, cioè con l'aspetto della sua umana figura, e non più tutta fasciata e nascosta entro il bagliore di luce.

È il pretesto perché, per mezzo del Santo, Dante abbia da addottrinare il lettore. Ma, come al solito, il pretesto dell'addottrinamento sorge con tutta naturalezza dalla logica stessa dell'episodio. Perché Dante vuol vedere S. Benedetto? Perché più forte del solito è stato l'effetto di tanta carità su l'anima sua; sì da desiderare come un contatto più vicino e più diretto con chi è stato tanto caritatevole; vedendolo, cioè, e arrivando a conoscerlo così come egli fu ed è.

Pur teme, e lo dice, di osar troppo; ed anche questo è un altro modo per significare l'intensità di quel desiderio, per ripetere che un tal desiderio è suscitato dalla intensità dell'affettuoso ardore e, insieme, per dare sempre più e sempre meglio l’idea di questo Paradiso senza confini di amore e in particolare di questo cielo in cui si celebra, più che nei precedenti, la legge del Paradiso.

 

22. 61       Ond'elli: «Frate, il tuo alto disio

       62           s'adempierà in su l'ultima spera,

       63           ove s'adempion tutti li altri e 'l mio.

       64       Ivi è perfetta, matura ed intera

       65           ciascuna disianza; in quella sola

       66           è ogni parte là ove sempr'era, 

       67       perché non è in loco e non s'impola;

       68           e nostra scala infino ad essa varca,

       69           onde così dal viso ti s'invola. 

       70       Infin là su la vide il patriarca

       71           Iacob porger la superna parte,

       72           quando li apparve d'angeli sì carca.

61. Ed egli: «O fratello, il tuo desiderio di [vedere] cose elevate si adempierà nell’ultima sfera (=l’empìreo), dove si adempiono tutti gli altri e il mio.

64. Ivi ciascun desiderio è portato alla perfezione, reso maturo e privato dei difetti; solamente in quella sfera ogni parte si trova dov’è sempre stata (=è immobile),

67. perché essa non è in alcun luogo (=non è nello spazio) e non ha poli [intorno a cui ruotare]; e la scala di questo cielo sale fino ad essa, perciò si sottrae ai tuoi occhi.

70. Fin lassù il patriarca Giacobbe vide [in sogno] che protendeva la parte superiore, quando gli apparve così carica di angeli.

 

Padre aveva detto Dante, per riverenza, ed era giusto;  frate, dice S. Benedetto, per carità, ed è pure giusto. Dante sente la distanza tra sé e il Santo;  il Santo l’accorcia, e si mette al suo fianco.

Tutto ciò risponde ad una logica convenienza di situazione apparsa anche in altri luoghi; ma, ci si potrebbe giurare, è anche riflesso della lettera e dello spirito della Regola benedettina [10], da una pagina all’altra dei suoi settantatré capitoli tutta calda di sollecitudine vigile comprensiva soccorrevole del superiore verso l’inferiore, e tutta premurosa di riverenza piena fiduciosa grata dell’inferiore verso il superiore. «Pertanto — vi si legge tra l’altro — i più giovani onorino i loro priori;  i priori amino i più giovani. Nel chiamarsi, a niuno sia lecito usare il nudo nome: ma i priori chiamino i più giovani col nome di fratelli, i più giovani chiamino nonni i loro priori; il che s’intende per riverenza paterna ».

E così quel padre e quel frate dei versi di Dante a noi suonano come nitida eco delle parole che son tutte proprie della Regola famosa.

Così Dante crea e fonde insieme gli elementi logici del suo racconto e le forme e gli spiriti propri dei suoi personaggi.

Frate — dice dunque S. Benedetto — il tuo desiderio così vivo sarà soddisfatto, non qui, ma nell’Empireo, che è il luogo dove ogni disio, e tuo e mio e di ogni altro ancora, è soddisfatto.

Si noti la differenza di tempo nel verbo: s’adempirà quel disio da Dante espresso or ora in un luogo dove non può essere adempiuto;  ma s’adempirà nell'Empireo, dove s’adempiono tutti;  e il presente ne dice la durata, ab aeterno, in aeternum.

Lì, infatti, e solo lì ogni disianza (e la parola, piò che disio, par che esprima l’empito di quel tendere verso l'appagamento) si fa perfetta perché ha per oggetto Dio, che è perfezione;  si fa matura, perché solo allora si offrono tutte le occasioni per meritare l'appagamento;  e si fa intera, perché può esser soddisfatta in ogni sua parte [11].

Lì, infatti, e solo lì è quiete perfetta perché ogni parte è dove da sempre era e dove per sempre ha da essere;  perché vi è movimento finché v’è « manchevolezza che susciti bisogni e desideri, i quali si risolvono in movimento verso ciò che non si ha », ed ogni cosa va, spinta da naturale istinto, per lo gran mar dell’essere al principio suo ed ha pace solo quando è tornata a quel principio.

L’Empireo non è collocato in alcun luogo e da alcun luogo non è compreso, e tutto il mondo inchiude e al di fuori di ciò che inchiude e di ciò che è, nulla è. E si ha così l’ampiezza di questo regno e la grandezza, quindi, della sua beatitudine.

L’Empireo non s’impola, non ha poli sopra i quali giri e debba girare, come girano e debbono girare le sfere celesti. E si ha così il senso della sovrana indipendenza di questo da ogni altro luogo, la cui immobilità non par difetto, ma eccellenza, perché non viene da mancamento, ma da completezza piena e perfetta.

L’Empireo è il luogo a cui tende l’aerea scala dei contemplanti, che arriva proprio fin lassù, invisibile perciò nel suo fine all’occhio ancora imperfetto di Dante. E si ha così indicata la estensione nello spazio che intercorre dall’Empireo a quel settimo cielo, che pur si mostra elevato tanto da perdersi negli abissi interminati degli spazi eterni; e si ha anche l’altezza del volo a cui arriva la meraviglia e la grazia del contemplare.

Quella che Dante vede è la scala che già vide in sogno Giacobbe, poggiata su la terra e spinta con la sua parte superna fino a toccare il cielo, ad additare la mèta a cui Dio sospingere la scala già apparve così carca di angeli di Dio « ascendentes et descendentes per eam », ad additare la eccellenza del gaudio che prometteva [12].

La spiegazione del lettore ha di necessità diviso e distinto; ma il discorso di Benedetto è come un inno continuato, senza pause ed indugi, in cui l’idea astratta dell’Empireo si anima della concreta ebbrezza del tendere ad esso e del possederlo, e termina con quel gran volo di angeli, che è la forma più eterea con cui possa a noi concretamente manifestarsi l'ineffabile inconcepibilità del Paradiso.

Ed ecco, stridentissimo, un contrasto.

 

22. 73       Ma, per salirla, mo nessun diparte

       74           da terra i piedi, e la regola mia

       75           rimasta è per danno delle carte. 

       76       Le mura che solieno esser badia

       77           fatte sono spelonche, e le cocolle

       78           sacca son piene di farina ria. 

       79       Ma grave usura tanto non si tolle

       80           contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto

       81           che fa il cor de' monaci sì folle; 

       82       ché quantunque la Chiesa guarda, tutto

       83           è de la gente che per Dio dimanda;

       84           non di parenti né d'altro più brutto. 

       85       La carne de' mortali è tanto blanda,

       86           che giù non basta buon cominciamento

       87           dal nascer de la quercia al far la ghianda. 

       88       Pier cominciò sanz'oro e sanz'argento,

       89           e io con orazione e con digiuno,

       90           e Francesco umilmente il suo convento; 

       91       e se guardi il principio di ciascuno,

       92           poscia riguardi là dov'è trascorso,

       93           tu vederai del bianco fatto bruno. 

       94       Veramente Iordan volto retrorso

       95           più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse,

       96           mirabile a veder, che qui 'l soccorso».

73. Ma, per salirla, ora nessuno stacca i piedi da terra, e la mia regola è rimasta [soltanto] per rovinare le carte [dov’è scritta].

76. Le mura [dei monasteri] che solevano esser badia (=luoghi di santa vita) sono divenute spelonche [di ladroni] e le vesti monacali son sacchi pieni di farina guasta.

79. Ma l’usura [più] grave non si alza tanto contro la volontà di Dio, quanto quel frutto (=le rendite dei monasteri) che fa il cuore dei monaci così folle [di cupidigia],

82. perché ciò, che la Chiesa custodisce, appartiene tutto alla gente (=i poveri) che domanda in nome di Dio; non [appartiene] ai parenti [degli ecclesiastici] né ad altri più indegni (=le concubine e i figli naturali).

85. La carne dei mortali (=la natura umana) è tanto soggetta alle blandizie, che giù (=sulla terra) il buon inizio non dura [il tempo che va] dalla nascita della quercia al momento in cui produce la prima ghianda (=20 anni; cioè dura poco).

88. Pietro riunì i primi cristiani senz’oro e senz’argento, io riunii i miei seguaci con la preghiera e con il digiuno, Francesco [riunì] i suoi frati con l’umiltà.

91. E, se guardi il principio di ciascuna [famiglia] e poi guardi là dove si è spostata, vedrai la virtù divenuta vizio.

94. Tuttavia le acque del fiume Giordano fatte ritornare indietro e quelle del mar Rosso messe in fuga [davanti agli ebrei], quando Dio volle [intervenire], furono un fatto mirabile a vedere più di quello che qui sarà il soccorso [divino contro questi mali]».

 

La perfezione dell'Empireo suggerisce il ricordo di ciò che fu la sua nostalgia già su la terra per S. Benedetto e, per contrasto, richiama il pensiero dei troppi che per troppo tempo non hanno ascoltato il dolcissimo invito del Cielo. Ma intanto le parole del Santo aggiungono, ora, qualche particolare di più alle parche notizie biografiche dette di sopra, qualche particolare della intima religiosità che ispirò e accompagnò le opere del Santo. Nei versi precedenti era dato più risalto alle opere e indirettamente alla bellezza della idea che le ispirò e le illuminò; qui è per sommi capi esposto tutto il complesso del programma pensato e vissuto e attuato con tanta convinzione, con tanto ardore, con tanto intimo gaudio.

Ma nessuno — dice il Santo — ora più guarda alla scala di Giacobbe; nessuno ora più si sente invogliato a salirla;  e, per salirla verso il cielo, si dispone a dipartire i piedi dalla terra. Tutti invece stanno attaccati alla terra, come se questa durasse e non quello;  come se questa avesse in sé il vero bene e non quello, lo avesse, anzi lo fosse. Ora la Regola serve soltanto a recar danno alla carta, scrivendoci su, giacché nessuno più la legge o, se la legge, non la pratica, che è anche peggio.

Le badie che solevano essere i luoghi dell’orazione e della invocazione a Dio e della preparazione più adatta alla degnità del Suo regno, son ridotte ora a spelonche di ladroni [13].

Le vesti monacali che solevano essere il segno esteriore di una rinuncia e di una consacrazione sono ridotte ora ad accogliere ogni bruttura, come sacca piene di guasta farina.

Ma nessun peccato di usura appare tanto in contrasto col volere di Dio quando il peccato che procede da un desiderio così smodato delle rendite ecclesiastiche che fa addirittura folle il cuore dei monaci.

Eppure quelle rendite non sono di loro, e nemmeno dei loro parenti, e tanto meno di altra gente indegna e infamante come le male femmine « che è più brutto » ancora (Lana);  ma sono dei poverelli che domandano carità in nome d’iddio.

La carne dei mortali è troppo incline alle blandizie che seducono e corrompono e deviano, sì che, anche se il cominciamento fu buono, quella bontà dura appena il tempo che passa

 

22. 87.      dal nascer della quercia a far la ghianda.

 

Senz’oro e senza argento cominciò la sua alta missione l’apostolo Pietro, cioè, senz’altro tesoro possedendo e senz’altro tesoro promettendo se non quello della parola di Dio; e lui, Benedetto, pregando e digiunando, cioè rinunziando alle blandizie del mondo ed elevandosi a ciò che sta al di sopra del mondo; e Francesco avviò la sua cara famiglia con l’umiltà, cioè con quel parer dispetto a meraviglia, che era l’espressione più alta della rinunzia ai beni della terra per l’acquisto di un bene ad ogni altro superiore.

Giusto, santo, perfetto, quel principio da cui ciascun dei tre si è mosso;  ma quando si confronti quel principio con lo stato attuale delle cose, è come se il bianco si fosse fatto bruno, e ormai solo Iddio può far sì che il bruno ridiventi bianco. E lo può, e lo farà, quando e come vorrà, perché miracoli più grandi di questo ora necessario Egli ha potuto compiere sia quando deviò dal suo corso naturale il Giordano [14] sia quando fece ritrarre il Mar Rosso [15], l'una volta e l’altra perché il popolo eletto vi passasse come su terra asciutta.

La grandiosità degli eventi e delle cose e degli spazi in cui si manifestarono, celebrano l'onnipotenza d’Iddio e convincono della certezza e della facilità con cui Dio potrà aver ragione della nuova superbia degli uomini.

Oh pazienza che tanto sostieni! — aveva gridata S. Pier Damiani: e, a lui facendo eco, tutti gli altri beati avevano invocato e predetto la condanna e la espiazione.

Dio riuscirà a rimetter le cose a posto, con estrema facilità, e al di là di ogni vista e di ogni forza umana — dice S. Benedetto; e dicendo così, par che voglia guardare più al miracolo della benigna redenzione che a quello della giusta espiazione.

Pare, cioè che ancora una volta Dante si sia ricordato dello spirito di carità che investe la Regola dettata dal Santo e nella quale il Santo invoca trepidamente dal « Signore che può tutto » «la salute del fratello infermo»; o consiglia la misericordia più che la giustizia per meritar misericordia; o, tenendo « sempre dinanzi agli occhi la sua propria fragilità », ricorda « che la canna già avariata non è da rompere »; o raccomanda «il rigore del maestro insieme al pietoso affetto del padre » perché « per voler troppo radere la ruggine, non si rompa il vaso » [16].

Ma del resto tutto il discorso di S. Benedetto è intonato alla carità; come è vero - e s’è detto - che anche in tutto il Paradiso continua l’arte individualizzante del Poeta. Avrete notato quel senso di accorato affetto con cui il Santo rammenta la regola sua non più osservata e che richiama il gaudioso affetto col quale egli aveva ricordato, più su, i frati suoi che l’osservarono. Più giù la riprensione per il bene tolto a chi per Dio domanda esprime il dolore nel vedere infranto il legame di mutua assistenza che deve unire tutti gli uomini degni ugualmente di partecipare ai beni che Dio dispensa per tutti; ed è questo un altro dei punti su cui insiste la Regola [17]. Di seguito, la nota su la fragilità della carne umana, se non è quasi una traduzione di consimili espressioni della Regola, è certo la ripetizione di motivi che di frequente vi appaiono e tutti ispirati alla comprensione delle deboli forze umane e alla preoccupazione di trovare i mezzi più solleciti o più amorosamente suasivi per rimediare a queste debolezze, e di suggerire l’odio dei vizi, e tutto l’amore per i fratelli, ancorché proni ai vizi, anzi soprattutto quando siano in difetto, perché è allora che han più bisogno di soccorso.

Le accuse di S. Benedetto sono precise e la reprensione decisa, come di chi odia e condanna il male risolutamente; ma il rimprovero non sale all’invettiva, né scade al sarcasmo, ma si tiene nel tono di un rammarico, in cui, se è vibrato il disgusto, manifesto è anche il dolore di veder dispregiato ciò che egli ama e non desiderata la gioia che inonda le anime unite nell’ardore della stessa aspirazione e nel godimento poi della stessa ricompensa. Per questo il suo sguardo è tutto teso al giorno della redenzione che Dio compirà e non si posa su la espiazione che è pur necessaria; è tutto teso all’opera della misericordia e non a quella della giustizia, alla facilità del soccorso anziché alla gravità della vendetta.

 

E con questa nota di completo abbandono a Dio, S. Benedetto termina le parole, torna al suo collegio e il collegio si riunisce e si ricompone, dimostrando così questa volta la concordia del sentimento e della fiducia senza che alcun grido accompagni il desiderio del raccogliersi e il gaudio del consentire. Poi, come turbine roteando, si innalza e si perde luce nella luce dei cieli.

 

22. 97       Così mi disse, e indi si raccolse

       98           al suo collegio, e 'l collegio si strinse;

       99           poi, come turbo, in su tutto s'avvolse.

97. Così mi disse, poi si ricongiunse alla sua schiera e la sua schiera si strinse intorno a lui; quindi, come turbine, salì verso l’alto, roteando tutta.

 

Paurosamente solenne quel grido del canto XXI, ma anche più solenne il turbo di questo canto. Là, è un’espressione di potenza mirabile, inconcepibile da intelletto umano, e non si sa se più temere o ammirare; ma, comunque sia, è ammirazione che fa troppo sentire la pochezza delle nostre forze e perciò ogni gioia è repressa. Qua, lo sfavillio vorticoso di luci non dice soltanto la eccellenza di quella beatitudine e la sovrabbondanza di gaudio che ne deriva, ma è l’espressione dell’empito che stringe e sospinge quelle anime su a gran volo verso la mèta che pone in pace ogni disio. Là, è lo sgomento per una vendetta che verrà; qua, è la speranza per una redenzione che non mancherà.

 

Così le anime del settimo cielo s’involano al nostro sguardo, e finisce così l’esperienza di questo cielo; ci resta però negli occhi la visione sensibile di una gloria non ad altra paragonabile, e ci resta nel cuore il palpito di un’ebbrezza del divino oltre ogni dire ineffabile.

La scena ora è vuota. Dante è di nuovo solo con Beatrice, tra lo stupor delle cose viste, e l’incanto dorato di quel cielo.

Ma è appena un istante, perché Beatrice spinge anche il suo fedele su per quella scala, su dietro i contemplanti, su ancor più verso Dio.

 

22.100       La dolce donna dietro a lor mi pinse

      101           con un sol cenno su per quella scala,

      102           sì sua virtù la mia natura vinse;

      103       né mai qua giù dove si monta e cala

      104           naturalmente, fu sì ratto moto

      105           ch'agguagliar si potesse alla mia ala.

100. La mia dolce donna mi spinse dietro di loro con un solo cenno su per quella scala, tanto la sua virtù vinse il peso del mio corpo.

103. Né mai quaggiù, dove si sale e si scende con le forze della natura, fu un movimento così rapido che potesse uguagliare il mio volo.

 

Dante mette ora in rilievo la dolcezza della donna che con la leggerezza di un sol cenno vince la resistenza offerta dalla naturale gravità del corpo di Dante, e può addirittura pingerlo al salire, facilmente, rapidamente, come fosse senza peso, come fosse, quello, naturale andare.

E lo è, in effetto.

La dolcezza che Dante rileva in Beatrice è quasi l'espressione esterna di ciò che fiocca entro la sua anima; e ben si accorda questa nota con l’altra della levità del gesto e del volo: un volo così rapido da non potersi paragonare ad alcun altro moto di qua giù dove si monta e cala naturalmente; così rapido che ci vuole più tempo a mettere e a togliere, per non scottarsi, un dito nel fuoco di quel che non ci volle a salire dal settimo all’ottavo cielo, dal vederlo e dall’esserci.

Ma la similitudine, come già altra volta [18], con l’inversione dei tempi in che si compie l’azione — il levare del dito prima di metterlo — vuole esprimere l’inesprimibile di quella rapidità:

 

22.109       tu non avresti in tanto tratto e messo

      110           nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno

      111           che segue il Tauro e fui dentro da esso.

109. tu non avresti messo e tolto il dito dal fuoco in tanto [tempo], in quanto io vidi la costellazione [dei Gemelli] che segue quella del Toro e mi ritrovai dentro di essa.

 

cioè,  dentro alla costellazione dei Gemelli, che segue quella del Tauro.

La similitudine è preceduta da un sospiro di intensa nostalgia:

 

22.106       S'io torni mai, lettore, a quel divoto

      107           triunfo ....

106. O lettore, possa io tornare [dopo la morte] a quel devoto trionfo (=tra i beati),

 

e il sospiro è accompagnato dalla umiliazione delle colpe commesse e dalla dura fatica di espiarle per meritare quel triunfo per lo quale Dante piange spesso le sue peccata e ’l petto si percuote; ed è seguito da una invocazione:

 

22.112       O glorïose stelle, o lume pregno

      113           di gran virtù, dal quale io riconosco

      114           tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

      115       con voi nasceva e s'ascondeva vosco

      116           quelli ch'è padre d'ogni mortal vita,

      117           quand'io senti' di prima l'aere tosco;

      118       e poi, quando mi fu grazia largita

      119           d'entrar ne l'alta rota che vi gira,

      120           la vostra regïon mi fu sortita.

      121       A voi divotamente ora sospira

      122           l'anima mia, per acquistar virtute

      123           al passo forte che a sé la tira.

112. O stelle [dei Gemelli] che date la gloria, o luce piena d’influssi virtuosi, dalla quale io riconosco [che deriva] tutto il mio ingegno, quale che si sia,

115. con voi nasceva e con voi si nascondeva colui (=il sole) che è padre di ogni vita mortale, quando io respirai per la prima volta l’aria toscana.

118. E poi, quando mi fu elargita [da Dio] la grazia di entrare nella nobile sfera (=l’ottavo cielo) che vi fa girare [intorno alla terra], la vostra regione mi fu data in sorte.

121. A voi ora sospira devotamente la mia anima, per acquistare le capacità [che mi permettono di affrontare] la difficile prova che la attira a sé.

 

Dante vuol dire che una singolare, ma non fortuita, coincidenza fece sì che egli nascesse quando il sole volgeva il suo corso nel cielo unito a quella costellazione dei Gemelli; e che poi, fatto degno di salire al cielo ottavo, si soffermasse nello spazio di questo cielo in cui quella costellazione risplende. Vuol dire che, come riconosce dal benevolo influsso dei Gemelli, qualunque esso sia, tutto il suo ingegno, così invoca proficua assistenza dalle stesse stelle per ottenere la virtù necessaria nel momento del passo forte che a sé l'anima tira, nel momento, cioè, della morte. Vuol dire che l'inizio della sua vita sotto l'influenza dei Gemelli, ripieni di virtù grande « di scrittura e di scienza e di conoscibilità », fu il segno di una gloriosa predestinazione;  e che il ritrovarsi nel mezzo del cammin della sua vita a contemplar da vicino quelle stelle in condizione mai ad altro uomo concessa, era la conferma della predestinazione, che importava l'orgoglio di una missione mai ad altro uomo affidata.

Ma il sentimento di riconoscenza per la grazia ricevuta è forse soverchiato dal desiderio di non perder quella grazia; l’orgoglio soverchiato dal timore, la gioia dal sospiro.

Sembra che, più Dante sale in alto nel concepire e nel sentire, e più senta l’amarezza dell’incomprensione su la terra e più anelante la speranza di un’altra vita, ma sempre con tanta nostalgia anche per questa. E perciò più fitti e più ardenti gli salgono dal cuore i sospiri, che servono poi, anch’essi, al gioco dell’espresso e dell’inesprimibile col quale il poeta cerca di render concreto un inconcreto fantasma di poesia. Il timore di perdere quella grazia dice la grandezza del bene che essa apporta, la gloria di chi l’ha meritata; e nella compiacenza è il rammarico del mancato riconoscimento; e nel rammarico è la coscienza del proprio alto valore [19].

 

L’ascesa al Cielo delle stelle fisse segna intanto la fine di una parte della esperienza del Paradiso e ne comincia un’altra.

E’ opportuno allora uno sguardo di riepilogo.

 

22.124       «Tu se' sì presso a l'ultima salute»,

      125           cominciò Beatrice, «che tu dei

      126           aver le luci tue chiare e acute;

      127       e però, prima che tu più t'inlei,

      128           rimira in giù, e vedi quanto mondo

      129           sotto li piedi già esser ti fei;

      130       sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo

      131           s'appresenti alla turba triunfante

      132           che lieta vien per questo etera tondo».

124. «Tu sei così vicino alla beatitudine suprema (=Dio)» cominciò Beatrice, «che devi avere i tuoi occhi limpidi e penetranti.

127. Perciò, prima di addentrarti maggiormente in lei, guarda in basso e osserva quanta parte dell’universo ho già messo sotto i tuoi piedi (=ti ho fatto percorrere);

130. così che il tuo cuore, quanto più può, si presenti giocondo alla turba trionfante (=che celebra il trionfo di Cristo) che viene lieta per questo cielo concavo.»

 

Dante è così presso ormai all’ultima salute, a Dio, che deve avere l’occhio libero e limpido: ed acuto; deve vedere e saper-vedere. Prima allora che più si avvicini all'ultima salute e vi penetri ben addentro, volga uno sguardo verso il basso è veda quanto mondo è rimasto sotto i suoi piedi e che cosa voglia dire aver lasciato la terra, nella sua tristezza, ed aver meritato il cielo, nel suo splendore. Una tal vista non può non riempire di giubilo. Con questa pienezza di giubilo deve presentarsi alla giubilante e trionfante schiera di Cristo che sta venendo a lui per l’immensità dell’etera tondo.

 

22.133       Col viso ritornai per tutte quante

      134           le sette spere, e vidi questo globo

      135           tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;

      136       e quel consiglio per migliore approbo

      137           che l'ha per meno; e chi ad altro pensa

      138           chiamar si puote veramente probo.

      139       Vidi la figlia di Latona incensa

      140           sanza quell'ombra che mi fu cagione

      141           per che già la credetti rara e densa.

      142       L'aspetto del tuo nato, Iperïone,

      143           quivi sostenni, e vidi com si move

      144           circa e vicino a lui Maia e Dïone. 

      145       Quindi m'apparve il temperar di Giove

      146           tra 'l padre e 'l figlio: e quindi mi fu chiaro

      147           il varïar che fanno di lor dove; 

      148       e tutti e sette mi si dimostraro

      149           quanto son grandi e quanto son veloci

      150           e come sono in distante riparo. 

      151       L'aiuola che ci fa tanto feroci,

      152           volgendom'io con li etterni Gemelli,

      153           tutta m'apparve da' colli alle foci.

      154       Poscia rivolsi li occhi alli occhi belli.

133. Con gli occhi ripercorsi tutte le sette sfere e vidi questo globo tanto piccolo, che sorrisi per il suo vile aspetto.

136. Ed approvo come migliore quel giudizio che la considera meno [del cielo]. E chi pensa ad altre cose si può chiamare veramente forte d’animo.

139. Vidi la figlia di Latona (=la Luna) splendere senza quell’ombra (=le macchie) che fu la causa per la quale già la credetti [in parte] rara e [in parte] densa.

142. La vista di tuo figlio (=il sole), o Iperione, qui sostenni, e vidi come si muove intorno e vicino a lui [Mercurio, figlio di] Maia e [Venere, figlia di] Dione.

145. Di qui mi apparve Giove che contempera il freddo del padre Saturno e il caldo del figlio Marte. Di qui mi fu chiaro come [i due pianeti] spostano le loro posizioni [rispetto alle stelle fisse].

148. Tutti e sette [i pianeti] mi mostrarono quanto sono grandi e quanto sono veloci, e quanto sono distanti le loro sfere.

151. Mentre mi volgevo con la costellazione immortale dei Gemelli, la piccola aia, che ci fa tanto feroci, mi apparve tutta dalle catene montuose alle foci [dei fiumi] (=al mare).

154. Poi rivolsi gli occhi agli occhi belli [di Beatrice].

 

Dante ritorna con lo sguardo in giù e la sua vista, ora acutissima, può rivedere ad una ad una le sette sfere già conosciute d’ascesa in ascesa, e nel mezzo scorger questa nostra Terra, e in posizione tale da poterne misurar bene, al confronto con i cieli, le dimensioni e la natura, e da poter così sorridere del suo vile sembiante.

Ora sì che se ne può distaccare; ora sì che può conoscere come migliore il giudizio di chi meno l’apprezza;  e chi ad altra cosa, diversa dalla Terra, cioè al Cielo, pensa, quello veramente è probo, cioè virtuoso e animosamente prode.

Dalla Terra così dispregiata Dante ritorna allora su su verso il Cielo e rivede così la sfera di Diana, figlia di Latona, cioè la Luna, tutta illuminata e non più con le ombre che appaiono a vederla dalla Terra.

Dalla Luna lo sguardo senza rimanerne, ora, abbagliato passa al Sole, figlio di Iperione, e vede come Mercurio, figlio di Maia e Venere, figlia di Dione, si muovano vicini e circolarmente sotto il Sole.

E dal Sole a Giove, posto tra Marte, suo figlio, e Saturno, suo padre; e Dante ora vede come da Giove sia temperato il caldo del primo e il freddo del secondo e conosce perché e Giove e Marte e Saturno appaiano o più o meno vicini al Sole.

E poi di nuovo dalla Luna a Saturno lo sguardo può misurare la rispettiva grandezza dei cieli, la velocità che li muove, la distanza che li separa.

E di nuovo nella costellazione della sua nascita e della sua gloria, rivede tutta la Terra per quanto si distende dalle sue maggiori altezze, segnate dai monti, alle sue maggiori depressioni, là dove i fiumi discendono al mare.

Su la Terra posa il primo sguardo, e ne sorride e si volge superbo ai cieli; ma alla Terra ritorna dopo la contemplazione dei cieli per irresistibile richiamo, con tanto dolore per la ferocia che spinge gli uomini l’un contro l'altro, con tanta nostalgia per l'attaccamento alle cose e alle persone contro cui pur si accanisce la ferocia degli uomini.

L'aiuola, che ci fa tanto feroci è un grido di condanna, ma anche di più è grido di amoroso dolore e di contenuto e segreto e ardente desiderio di un ravvedimento, di un incontro, di un trionfo, anche su questa terra [20].

Ma per il momento non ha che da posare gli occhi negli occhi belli della sua Donna, e nel suo sogno di poeta placare l'ansia inappagata del suo sogno di uomo, grande e miserando della sua stessa grandezza.

 


[1] Letto nella chiesa di Orsanmichele (Firenze) il 18 maggio del 1947 e stampato l’anno successivo dall’editore Zanichelli di Bologna, e qui variamente riveduto.

[2] Nota del redattore del sito. Per una migliore comprensione ho aggiunto in parallelo il testo in italiano corrente a cura di Pietro Genesini, estratto dal sito www.letteratura-italiana.com. Inoltre ho riportato solo le note che ho ritenuto più significative.

[3] Così il Tommaso nel suo commento.

[4] Cosa che non mi pare da altri ben rilevata.

[5] Vedi Vita e miracoli di San Benedetto, dal libro secondo dei Dialoghi di S. GREGORIO MAGNO, da tutti i commentatori citato, che Dante sicuramente tenne presente e fedelmente seguì, e che io leggo qui per comodità nel libretto San Benedetto - Vita e regola, nuova versione italiana a cura di P. PLACIDO LUGANO, O. S. B. Abate di S. Maria Nova di Roma. Roma, Desclée e C., 1929.

[6] Dante aveva già detto nel Convivio (III, VII, 15) che la fede cristiana «più che tutte l’altre cose è utile a tutta l’umana generazione, sì come quella per la quale campiamo da etternale morte e acquistiamo etternale vita ».

[7] Può darsi che Dante non abbia distinto S. Macario il Grande, o l'egiziano, discepolo di S. Antonio, vissuto nei deserti della Libia e morto nel 391, da un altro S. Macario alessandrino, pure discepolo di S. Antonio, capo del monachesimo orientale, vissuto nei deserti che dal Nilo vanno al Mar Rosso, e morto nel 404. I più dei commentatori, se mai, propendono ad identificare con l'alessandrino il Macario dantesco.

[8] Degli Onesti, di Ravenna, dove nacque verso il 956 e morì nel 1027 presso Val di Castro, Camaldoli da Campus Maldoli da Maldolus il donatore del luogo dove Romualdo fondò il monastero.

[9] « Conviensi aprire l’uomo quasi com’una rosa che più chiusa stare non può, e l’odore, ch’è dentro generato, spandere » aveva già detto nel Convivio (IV, XXVII, 4).

[10] E questa è cosa non da alcuno citata, se non, e un po’ di sfuggita, dal COSMO, ma che a me pare, oltreché facilmente rilevabile, di prima necessità per capire l’episodio dantesco. È una riprova palmare della conoscenza che Dante ha delle fonti prime e autentiche, e dello stretto uso che ne fa; aderenza alla storia e insieme efficacia di poesia. Proprio alla mirabile unione dei due elementi appare meglio la veramente singolare grandezza di Dante. Ed è qui, mi pare, la novità del mio contributo.

[11] Cfr. FRA GIORDANO, citato dal Vandelli a questo luogo: «La gloria sarà perfetta e compiuta sanza nullo mancamento da niuna parte; però che da ogni lato sarà perfetta, intera e compiuta ».

[12] Cfr. Genesi, XXVIII, 12 e cfr. il cap. VII, “L’umiltà”, della Regola benedettina, pag. 112 dell’ediz. cit.: « Laonde, fratelli, se vogliamo toccare la più alta cima dell’umiltà, e se vogliamo velocemente giungere a quella celeste elevazione, a cui si ascende per mezzo dell’umiltà nella presente vita; dobbiamo con le nostre azioni purificate innalzare quella scala, che apparve in sonno a Giacobbe, per la quale gli apparvero angeli che scendevano e salivano. Quel discendere e salire, senza dubbio, non va inteso altrimenti, se non che si discende coll’esaltarsi e si sale su coll’umiliarsi. Poi la scala così ritta è la nostra vita nel mondo, la quale si drizza al cielo dal Signore per chi ha il cuore umiliato. Però i lati di questa scala diciamo essere il corpo e l’anima nostra, e tra questi lati la divina vocazione collocò diversi gradi da salire di ben regolata umiltà ».

[13] Cfr. Geremia, VII, 11: «Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome?» e Matteo, XXI, 13: «Sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri».

[14] Vedi Giosuè, III, 14-17.

[15] Vedi Esodo, XIV, 21-29.

[16] Cfr. la Regola, cap. II, “L’Abate”, cap. XXVIII, “La procedura nei confronti degli ostinati” ed in particolare il cap. LXIV, “L’elezione dell’Abate”, vv. 10-15: L’Abate « sempre la misericordia faccia prevalere sul giudizio, per meritare anch’egli misericordia. Odii i vizi, ami i fratelli. E nel correggere agisca con prudenza senza eccedere in nulla; ché, per voler troppo radere la ruggine, non si rompa il vaso: tenga sempre dinanzi agli occhi la sua propria fragilità e si ricordi che la canna, già avariata non è da rompere. Con ciò non diciamo che permetta l’alimentarsi dei vizi, ma che s’adopri a troncarli con prudenza e carità, in quel modo che gli sembrerà più espediente a ciascuno, come abbiamo già detto; e si studi d’esser più amato che temuto». Cfr. anche il Prologo e in particolare la parte finale.

[17] Cfr., per es., la Regola, cap. XXXIII, “Il vizio della proprietà”.

[18] Cfr. Paradiso, II, 23-24.

[19] Quei versi 106-123 richiamano da vicino il verso 88 del c. XXIII e i versi 1 e segg. del c. XXV della stessa cantica.

[20] Cfr. Paradiso, XXV, 1 segg.

 


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18 maggio 2021                a cura di Alberto "da Cormano"               alberto@ora-et-labora.net