Regola di S. Benedetto

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: 50 Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale.... 55 Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio, 56 dedicarsi con frequenza alla preghiera; 57 in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate 58 e cercare di emendarsene per l'avvenire.

Capitolo VII - L'umiltà: 44 Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto, 45 secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui"... 48 Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore" e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".

Capitolo XLVI - La riparazione per le altre mancanze: 3 Se non si presenta subito all'abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa, 4 sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri. 5 Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della coscienza, lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano, 6 che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

 


 

 

IL DONO DELLA CONFESSIONE

Papa Francesco

Estratto da “Il nome di Dio è misericordia” – Una conversazione con Andrea Tornielli

PIEMME 2016

 

Perché è importante confessarsi? Lei è stato il primo Papa a farlo pubblicamente, durante le liturgie penitenziali nel tempo di Quaresima, in San Pietro… Ma non basterebbe, in fondo, pentirsi e chiedere perdono da soli, vedersela da soli con Dio?

 

È Gesù ad aver detto ai suoi apostoli: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Vangelo di Giovanni 20, 23). Dunque, gli apostoli e i loro successori – i vescovi e i sacerdoti loro collaboratori – diventano strumenti della misericordia di Dio. Agiscono in persona Christi. È molto bello questo. Ha un profondo significato, perché noi siamo esseri sociali. Se tu non sei capace di parlare dei tuoi sbagli con il fratello, sta’ sicuro che non sei capace di parlarne neanche con Dio e così finisci per confessarti con lo specchio, davanti a te stesso. Siamo esseri sociali e il perdono ha anche un risvolto sociale, perché anche l’umanità, i miei fratelli e sorelle, la società, vengono ferite dal mio peccato. Confessarsi davanti a un sacerdote è un modo per mettere la mia vita nelle mani e nel cuore di un altro, che in quel momento agisce in nome e per conto di Gesù. È un modo per essere concreti e autentici: stare di fronte alla realtà guardando un’altra persona e non se stessi riflessi in uno specchio. Sant’Ignazio, prima di cambiar vita e di comprendere che doveva fare il soldato di Cristo, aveva combattuto nella battaglia di Pamplona. Militava nell’esercito del re di Spagna, Carlo V d’Asburgo, e fronteggiava l’esercito francese. Venne ferito gravemente, credeva di morire. Non c’era un prete in quel momento nel campo di battaglia. E allora lui chiamò un suo commilitone, si confessò con lui, disse a lui i suoi peccati. Il compagno non poteva assolverlo, era un laico, ma l’esigenza di essere di fronte a un altro, al momento della confessione, era così sentita che decise di fare in quel modo. È una bella lezione. È vero che io posso parlare con il Signore, chiedere subito perdono a Lui, implorarlo. E il Signore perdona, subito. Ma è importante che io vada al confessionale, che metta me stesso di fronte a un sacerdote che impersona Gesù, che mi inginocchi di fronte alla Madre Chiesa chiamata a dispensare la misericordia di Dio. C’è un’oggettività in questo gesto, nel mio genuflettermi di fronte al prete, che in quel momento è il tramite della grazia che mi raggiunge e mi guarisce. Mi ha sempre commosso quel gesto della tradizione delle Chiese orientali, quando il confessore accoglie il penitente mettendogli la stola sulla testa e un braccio intorno alla spalla, come in un abbraccio. È una rappresentazione plastica dell’accoglienza e della misericordia. Ricordiamo che non siamo lì anzitutto per essere giudicati. È vero che c’è un giudizio nella confessione, ma c’è qualcosa di più grande del giudizio che entra in gioco. È lo stare di fronte a un altro che agisce in persona Christi per accoglierti e perdonarti. È l’incontro con la misericordia.

 

Che cosa può dire della sua esperienza di confessore? Glielo chiedo perché sembra un’esperienza che ha segnato profondamente la sua vita. Nella prima messa celebrata con i fedeli dopo l’elezione, nella parrocchia di Sant’Anna, il 17 marzo 2013, lei ha parlato di quell’uomo che diceva: «Eh, padre, io ne ho combinate di grosse…». E al quale lei aveva risposto: «Vai da Gesù, lui perdona e dimentica tutto». In quella stessa omelia ricordava che Dio mai si stanca di perdonare. Poco dopo, all’Angelus, ricordò un altro episodio, quello della vecchietta che le aveva detto confessandosi: senza la misericordia di Dio il mondo non esisterebbe.

 

Ricordo molto bene questo episodio rimasto impresso nella mia memoria. Mi pare di vederla ancora adesso. Era una donna anziana, piccolina, minuta, vestita tutta di nero, come si vede in alcuni paesi del Sud Italia, in Galizia, in Portogallo. Ero da poco diventato vescovo ausiliare di Buenos Aires e si stava svolgendo una grande messa per gli ammalati, in presenza della statua della Madonna di Fatima. Ero lì per confessare. Verso la fine della messa mi sono alzato perché dovevo andare via, avevo una cresima da amministrare. In quel momento è arrivata quella donna, anziana e umile. Mi sono rivolto a lei chiamandola abuela, cioè nonna, come si usa da noi in Argentina. «Nonna, lei vuole confessarsi?» «Sì», mi ha risposto. E io, che stavo per andarmene le ho detto: «Ma se lei non ha peccato…». Pronta e puntuale la sua risposta: «Tutti abbiamo peccati». «Ma forse il Signore non li perdona…» ho replicato io. E lei: «Il Signore perdona tutto». «Ma come lo sa, lei?» «Se il Signore non perdonasse tutto» è stata la sua risposta «il mondo non esisterebbe.»

Un esempio della fede dei semplici, che hanno la scienza infusa, anche se non hanno mai studiato teologia. Durante quel primo Angelus, dissi, per farmi capire, che la mia risposta era stata: «Ma lei ha studiato alla Gregoriana!». In realtà, la vera risposta fu: «Ma lei ha studiato con Royo Marín!». Un riferimento al padre domenicano Antonio Royo Marín, autore di un famoso volume di teologia morale. Rimasi impressionato dalle parole di quella donna: senza la misericordia, senza il perdono di Dio, il mondo non esisterebbe, non potrebbe esistere. Come confessore, anche quando mi sono trovato davanti a una porta chiusa, ho sempre cercato una fessura, uno spiraglio, per schiudere quella porta e poter donare il perdono, la misericordia.

 

Lei una volta ha affermato che il confessionale non deve essere una “tintoria”. Che cosa significa? Che cosa intendeva dire?

 

Era un esempio, un’immagine per far capire l’ipocrisia di quanti credono che il peccato sia una macchia, soltanto una macchia, che basta andare in tintoria perché te la lavino a secco e tutto torni come prima. Come si porta a smacchiare una giacca o un vestito: si mette in lavatrice e via. Ma il peccato è più di una macchia. Il peccato è una ferita, va curata, medicata. Per questo ho usato quell’espressione: cercavo di far presente che andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria. Cito un altro suo esempio. Che cosa significa che il confessionale non deve essere nemmeno una “sala di tortura”? Quelle erano parole indirizzate piuttosto ai sacerdoti, ai confessori. E si riferiva al fatto che talvolta ci può essere in qualcuno un eccesso di curiosità, una curiosità un po’ malata. Una volta ho sentito di una donna, sposata da anni, che non si confessava più perché quando era una ragazza di 13 o 14 anni il confessore le aveva domandato dove metteva le mani quando dormiva. Ci può essere un eccesso di curiosità, in materia sessuale, soprattutto. Oppure un’insistenza nel far esplicitare particolari che non sono necessari. Colui che si confessa è bene che si vergogni del peccato: la vergogna è una grazia da chiedere, è un fattore buono, positivo, perché ci fa umili. Ma nel dialogo con il confessore bisogna poter essere ascoltati, non essere interrogati. Poi il confessore dice quello che ha da dire consigliando con delicatezza. Questo intendevo dire parlando di confessionali che non devono mai essere stanze di tortura. Jorge Mario Bergoglio è stato un confessore severo o indulgente? Ho sempre cercato di dedicare del tempo alle confessioni, anche da vescovo e da cardinale. Ora confesso di meno, ma mi capita di farlo ancora. A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale. Dunque, per rispondere alla domanda: io, quando ho confessato, ho sempre pensato a me stesso, ai miei peccati, al mio bisogno di misericordia e dunque ho cercato di perdonare molto.

 


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8 ottobre 2025               a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net