LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
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JOANNIS CASSIANI ABBATIS MASSILIENSIS
DE COENOBIORUM INSTITUTIS LIBRI DUODECIM
LIBER
NONUS.
DE SPIRITU TRISTITIAE. estratto da "Patrologia Latina Database"
di J. P. Migne |
LIBRO NONO LO SPIRITO DELLA TRISTEZZA Estratto da “La melanconia” di Roberto Gigliucci – Ed. BUR Rizzoli e integrato con “Giovanni Cassiano - Le istituzioni cenobitiche" - a cura di Lorenzo Dattrino - Ed. Scritti Monastici - Abbazia di Praglia |
CAPUT PRIMUM. Quinto nobis certamine edacis tristitiae stimuli
retundendi sunt. Quae si passim per singulos incursus et incertos ac
varios casus obtinendi animum nostrum habuerit facultatem, ab omni nos
per momenta singula separat divinae contemplationis intuitu, ipsamque
mentem ab universo puritatis statu dejectam funditus labefactat ac
deprimit. Non orationes eam explere cum solita cordis alacritate
permittit, non sacrarum lectionum sinit remediis incubare, tranquillum
quoque ac mitem fratribus esse non patitur, et ad cuncta operationum vel
religionis officia impatientem et asperum reddit; omnique perdito
salubri consilio, et cordis constantia perturbata, velut amentem facit
et ebrium sensum frangitque et obruit desperatione poenali. |
1. I DANNI DELLA TRISTEZZA La nostra quinta lotta consiste nel reprimere gli impulsi della tristezza, una passione divoratrice, che se in qualche modo, con i suoi continui assalti e a seguito delle varie vicende della vita, riesce a impadronirsi della nostra anima, a poco a poco ci separa da ogni contemplazione divina e, dopo aver fatto cadere la stessa mente dall'intero suo stato di purezza, la scuote nel profondo e la deprime: non le permette di continuare a dedicarsi alla preghiera con lo stesso fervore del cuore e nemmeno di rimediare al proprio male applicandosi alla lettura dei testi sacri. Questo vizio, poi, non tollera che il monaco sia pacifico e mite con i propri fratelli, ma lo rende insofferente e scontroso nell'assolvere a tutti i suoi doveri, sia di lavoro che religiosi, e, dopo averlo privato della capacità di prendere una qualunque decisione salutare e averne turbato la saldezza del cuore, lo rende come un folle e un ubriaco, e quindi lo abbatte e lo sommerge sotto il peso di una penosa disperazione. |
CAPUT II. Qua cautione morbus tristitiae sit curandus.Quamobrem non
minore prospectu, si spiritalis agonis certamina legitime cupimus
desudare, hic quoque nobis curandus est morbus. Sicut enim tinea
vestimento et vermis ligno, ita tristitia viri nocet cordi. Satis
evidenter ac proprie vim noxii hujus ac perniciosissimi vitii, Spiritus
divinus expressit (Proverb. XXV). |
2. OCCORRE GUARIRE L'ANIMO DALLA TRISTEZZA
Se dunque noi aspiriamo ad affrontare decisamente e secondo le regole la lotta
spirituale con impegno non minore delle battaglie precedenti, è necessario, da
parte nostra, aver cura anche di questo male. Infatti, «come la tignola
danneggia i vestiti e come il verme danneggia il legno, cosi la tristezza
dell'uomo nuoce al suo cuore» (Pr 25, 20). Lo Spirito divino ha dunque espresso
con sufficiente evidenza e proprietà la virulenza di questo vizio dannoso e
pernicioso. |
CAPUT III. Quam comparationem habeat anima quae tristitiae morsibus
devoratur.Vestimentum namque tinearum esu attactum, nullius pretii vel
honesti usus poterit ulterius habere commercium; itidemque lignum
vermibus exaratum, non jam ad ornatum vel mediocris aedificii, sed ad
combustionem ignis merebitur deputari.
Ita igitur et anima quae edacissimis tristitiae morsibus devoratur,
inutilis erit vel vestimento illi pontificali, quod unguentum Spiritus
sancti de coelo descendens, prius in barbam Aaron, deinde in oram suam
solere suscipere, sancti David vaticinio perhibetur, secundum illud:
Sicut unguentum in capite, quod descendit in barbam Aaron, quod
descendit in oram vestimenti ejus (Psalm.
CXXXII); sed nec ad structuram templi illius spiritalis atque ornatum
poterit pertinere, cujus Paulus architectus sapiens posuit fundamenta,
dicens: Vos estis templum Dei, et spiritus Dei habitat in vobis (I Cor.
III); cujus qualia sint ligna, sponsa describit in Cantico canticorum:
Trabes, inquiens, nostrae cupressus, tigna domorum nostrarum
cedri (Cant. I). Et idcirco hujuscemodi ad templum Dei lignorum genera
eliguntur, quae sunt et bonae fragrantiae, et imputribilia, quaeque nec
corruptelae vetustatis nec esui vermium valeant subjacere. |
3. GLI INSEGNAMENTI DELLA SCRITTURA
l. E di fatto un vestito roso dalla tignola non avrà più alcun prezzo e non
potrà servire ad alcun uso; così pure un legno, corroso dai vermi, non potrà
essere destinato a ornare una casa anche modesta, ma soltanto a essere bruciato.
Tale si rende anche l'anima corrosa dai morsi della tristezza: ella non è più
adatta a indossare la veste pontificale che secondo il vaticinio del santo
profeta Davide riceve abitualmente l'unguento dello Spirito Santo che discende
dal cielo, prima sulla barba di Aronne e poi sulle frange del suo vestito. t
scritto infatti: «Come l'unguento sul capo che scende sulla barba di Aronne e
poi sul lembo del suo vestito» (Sal 132 [133], 2).
2. Ma quest'anima non potrà neppure prendere parte all'edificazione e
all'ornamento di quel tempio spirituale, del quale Paolo, sapiente architetto,
pose le fondamenta, dicendo: «Voi siete il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio
abita in voi» (1 Cor 3, 16). E nel Cantico dei Cantici la sposa indica di quale
legno quel tempio deve essere costruito: «Le travi sono i cipressi, e le pareti
delle nostre case sono i cedri» (Ct 1, 16; LXX). Per questo vengono scelti, per
l'edificazione del tempio di Dio, quelle specie di tronchi d'albero che emettono
buoni odori e non sono soggetti alla putrefazione, e non subiscono né la
corrosione dei tempo né l'opera roditrice dei vermi.
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CAPUT IV. Unde vel quibus modis tristitia gignatur. Nonnumquam tamen
irae praecedentis vitio subsequi, seu concupiscentiae lucrive cujusdam
minus indepti generari solet, cum se harum rerum quadam spe mente
concepta quis viderit excidisse. Interdum vero etiam nullis existentibus
causis, quibus ad hanc labem corruere provocemur, inimici subtilis
instinctu, tanto repente moerore deprimimur, ut ne charorum quidem ac
necessariorum nostrorum adventum solita suscipere affabilitate possimus,
et quidquid ab eis competenti fuerit confabulatione prolatum, importunum
nobis ac superfluum judicetur, nullaque a nobis reddatur eis grata
responsio, universos cordis nostri recessus felle amaritudinis
occupante. |
4. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA A volte la tristezza è conseguenza dell’ira che l'ha preceduta, oppure è generata da un desiderio frustrato o da qualche guadagno mancato - quando cioè uno si vede svanire la speranza che nutriva per questa o quella cosa. Altre volte, poi, anche senza alcun motivo apparente che ci spinga a cadere in questo precipizio, ma solo perché pungolati dal nostro astuto Nemico, ci sentiamo improvvisamente oppressi da una così grande afflizione, che non riusciamo ad accogliere con la consueta affabilità neppure le persone che ci sono care e a cui siamo più legati; e qualunque cosa ci dicano, per quanto adeguata alla circostanza, ci sembra inopportuna e superflua, e rispondiamo loro in modo del tutto scortese, perché il fiele dell’amarezza invade ormai tutte le profondità del nostro cuore. |
CAPUT V. Quod non aliorum, sed nostro, vitio commotiones excitentur in
nobis. Unde manifestissime comprobatur, non semper nobis aliorum vitio
commotionum stimulos excitari; sed potius nostro, qui reconditas in
nobismetipsis habemus offensionum causas ac seminaria vitiorum; quae,
cum mentem nostram tentationum imber alluerit, in germina confestim
fructusque prorumpunt. |
5. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA DERIVANO SOLTANTO DA NOI Da quanto si è detto risulta chiarissimamente che non è sempre colpa degli altri se in noi si accendono gli stimoli passionali, ma è piuttosto colpa nostra, perché siamo noi stessi a custodire nel segreto del nostro intimo le cause d’inciampo e i semi dei vizi, che poi, non appena la pioggia delle tentazioni bagna la nostra mente, subito germogliano e danno frutto. |
CAPUT VI. Quod nullus repentino lapsu corruat, sed paulatim, per longam
injuriam recidens, pereat. Numquam enim quis alterius vitio lacessitus
peccare compellitur, si repositam materiem delictorum in suo corde non
habeat. Nec tunc subito quispiam deceptus esse credendus est, cum
conspecta mulieris forma in barathrum concupiscentiae turpis inciderit,
sed potius occultos ac latentes medullitus morbos occasione visus in
superficiem tunc fuisse productos. |
6. LE CADUTE SONO LA CONSEGUENZA DI LUNGA NEGLIGENZA Nessuno, infatti, per quanto provocato dal vizio di un'altra persona, può essere indotto a peccare, se non ha già nel proprio cuore la radice del peccato; e quando qualcuno precipita nell'abisso di una vergognosa concupiscenza per aver contemplato la bellezza di una donna, non bisogna credere che sia stato sedotto al l'improvviso in quel momento, ma piuttosto che quella vista sia stata solo l'occasione che ha fatto emergere in superficie una malattia nascosta che egli covava già nel profondo. |
CAPUT VII. Quod non sint fratrum deserenda consortia, ut perfectio
conquiratur, sed patientia jugiter excolenda.Ideoque creator omnium Deus
opificii sui curationem prae omnibus noscens, et quia non in aliis, sed
in nobismetipsis offensionum radices causaeque consisterent, non
deserenda praecepit fratrum consortia, nec vitari eos quos laesos a
nobis, vel a quibus nos arbitramur offensos, sed deliniri jubet, sciens
perfectionem cordis non tam separatione hominum quam patientiae virtute
conquiri. Quae firme possessa, sicut potest nos etiam cum his qui
oderunt pacem, pacificos conservare; ita si parata non fuerit, ab his
quoque qui perfecti ac meliores nobis sunt, facit jugiter dissidere;
occasiones enim commotionum, ob quas eos quibus jungimur deserere
festinamus, in conversatione humana deesse non poterunt, et idcirco
tristitiae causas, ob quas a prioribus separamur, non evadimus, sed
mutamus. |
7. LA CONVIVENZA CON GLI ALTRI CI RENDE PIU’ PAZIENTI
Iddio perciò, creatore dell'universo, ben sapendo più d'ogni altro il segreto
di curare le sue creature e conoscendo che non negli altri, ma in noi stessi
s'affondano le radici e le cause delle nostre colpe, non ci domanda di
abbandonare la convivenza con i nostri fratelli e di evitare coloro che
riteniamo siano stati da noi offesi oppure abbiano essi stessi disgustato noi;
al contrario, Egli vuole che cerchiamo di cattivarceli, ben sapendo che la
perfezione dell'anima non si acquista tanto col separarci dagli uomini, quanto
piuttosto con l'esercizio della pazienza. Ed è vero che la pazienza saldamente
posseduta, come può, da una parte, mantenerci sereni perfino con quelli che
ricusano la pace (cf. Sal 119 [120], 7), cosi pure, se essa non è stata
assicurata, potrà, al contrario, provocare continuamente la discordia anche con
quelli che sono già perfetti e migliori di noi. In realtà non potranno mancare
nella vita comune occasioni di turbamento, al punto da farci perfino proporre di
abbandonare coloro, con i quali abbiamo a convivere, ma con questo non eviteremo
le vere cause della tristezza che ci avranno indotto a separarci dai primi
compagni; semplicemente, le muteremo! |
CAPUT VIII.
Quod si mores nostros emendatos habuerimus, possit nobis cum omnibus
convenire.Procurandum itaque nobis est, ut nostra potius emendare vitia
et mores corrigere festinemus. Quae proculdubio si fuerint emendata, non
dicam cum hominibus, sed etiam cum feris et belluis facillime nobis
conveniet, secundum illud quod in libro beati Job dicitur: Bestiae enim
terrae pacatae erunt tibi (Job. V): extrinsecus quippe venientia non
verebimur offendicula, nec ulla poterunt scandala nobis deforis inferri,
si in nobismetipsis intus radices eorum receptae insertaeque non fuerint:
Pax enim multa diligentibus legem tuam, Domine, et non est illis
scandalum (Psal. CXVIII). |
8. LA PAZIENZA RENDE FACILE LA VITA IN COMUNE
Pertanto dobbiamo procurare di emendare sollecitamente i nostri difetti e di
correggere le nostre abitudini. E allora, se i nostri vizi saranno corretti, la
nostra vita s'accorderà in maniera molto facile non soltanto con gli uomini, ma
anche con gli animali e con le bestie selvatiche, secondo quanto risulta dal
libro di Giobbe: «Le bestie selvatiche saranno in pace con te» (Gb 5, 23; LXX).
Non avremo più da temere motivi d'offesa provenienti dal di fuori, e non
potranno sorprenderci provocazioni dall'ambiente esterno, se in noi stessi non
saranno accolte e innestate le loro radici. Infatti esiste «una grande pace per
quelli che amano il tuo nome; non c'è per loro occasione d'inciampo» (Sal 118
[119], 165). |
CAPUT IX. De alio genere tristitiae, quod desperationem salutis
importat.Est etiam aliud detestabilius tristitiae genus, quod non
correctionem vitae, nec emendationem vitiorum, sed perniciosissimam
desperationem animae injicit delinquenti. Quod nec Cain fecit post
fratricidium poenitere, nec Judam post traditionem ad satisfactionis
remedia festinare, sed ad suspendium laquei sua desperatione pertraxit. |
9. LA TRISTEZZA DI CAINO E DI GIUDA Esiste anche un altro genere di tristezza, ancor più detestabile, che induce il peccatore non a correggere la propria condotta dì vita e a purificarsi dai vizi, ma a disperare in modo pericolosissimo della propria salvezza: fu questa tristezza a impedire a Caino di pentirsi dopo l'uccisione del fratello (cf. Gen 4, 9-16) e a spingere Giuda, dopo il tradimento, non a cercare di riparare la sua colpa, ma a impiccarsi per la disperazione (cf. Mt 27, 5). |
CAPUT X. In quo tantummodo sit nobis tristitia utilis.Ideoque utilis
nobis una re tantum tristitia judicanda est, cum hanc vel poenitudine
delictorum, vel desiderio perfectionis accensi, vel futurae beatitudinis
contemplatione concipimus. De qua et beatus Apostolus: Quae secundum
Deum est, inquit, tristitia, poenitentiam ad salutem stabilem operatur;
saeculi autem tristitia mortem operatur (II Cor.
VII). |
10. UNA SOLA E' LA TRISTEZZA UTILE In un solo caso, dunque, dobbiamo ritenere utile la tristezza: se nasce in noi mentre siamo infiammati dal rimpianto dei peccati, dal desiderio della perfezione o dalla contemplazione della beatitudine futura. Di essa il beato Apostolo dice: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (cf. 2 Cor 7, 10). |
CAPUT XI. Quemadmodum discernatur quae sit utilis ac secundum Deum
tristitia, et quae diabolica atque mortifera.Sed illa tristitia quae
poenitentiam ad salutem stabilem operatur, obediens est, affabilis,
humilis, mansueta, suavis, ac patiens, utpote ex Dei charitate
descendens, et ad omnem dolorem corporis ac spiritus contritionem
infatigabiliter semetipsam desiderio perfectionis extendens, et
quodammodo laeta ac spe profectus sui vegetata, cunctam affabilitatis et
longanimitatis retinet suavitatem, habens in semetipsa omnes fructus
Spiritus sancti, quos enumerat idem Apostolus: Fructus autem Spiritus
est charitas, gaudium, pax, longanimitas, bonitas, benignitas, fides,
mansuetudo, continentia (Galat.
VII). Haec vero asperrima, impatiens, dura, plena rancore et moerore
infructuoso, ac desperatione poenali, eum quem complexa fuerit ab
industria ac salutari dolore frangens ac revocans, utpote irrationabilis
et intercipiens non solum orationum efficaciam, verum etiam universos,
quos praediximus, fructus spiritales evacuans, quos novit illa conferre. |
11. COME DISTINGUERE LA TRISTEZZA UTILE DA QUELLA DANNOSA La tristezza «che produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza» (cf. 2 Cor 7, 10) è ubbidiente, affabile, umile, mansueta, dolce e paziente, perché deriva dall'amore di Dio: mentre si sottopone infaticabilmente a ogni tipo di sofferenza fisica e di contrizione spirituale per desiderio della perfezione, resta però in qualche modo gioiosa e, fortificata dalla speranza del proprio progresso, custodisce la dolcezza dell'affabilità e della pazienza, avendo in se stessa tutti i frutti dello Spirito Santo enumerati dallo stesso Apostolo, che dice: «Il frutto dello Spirito è carità, gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé» (cf. Gal 5, 22-23). L'altra tristezza, invece, è quanto mai amara, insofferente, dura, piena di rancore, di sterile avvilimento e di penosa disperazione. Impedisce ogni attività a chi ne rimane vittima e lo distoglie dall'afflizione che lo porta alla salvezza, poiché è irrazionale e non solo distrugge l'efficacia della preghiera, ma elimina tutti i frutti spirituali che abbiamo appena enumerato e che la prima tristezza è in grado di procurarci. |
CAPUT XII. Quod absque illa salutari tristitia, quae tribus modis
generatur, omnis tristitia tamquam noxia repellenda sit.Quapropter
absque illa quae vel pro salutari poenitentia, vel pro studio
perfectionis, vel pro desiderio suscipitur futurorum, omnis tristitia
tamquam saeculi, et quae mortem inferat, aequaliter repellenda est, ac
sicut fornicationis spiritus, vel philargyriae, vel irae, de nostris
cordibus penitus extrudenda. |
12. OGNI TRISTEZZA E' NOCIVA, SE NON PROVIENE DA DIO
Per queste ragioni ogni tristezza, se si eccettua quella che viene accolta per
una salutare penitenza o per l'impegno della perfezione o per il desiderio dei
beni futuri deve essere repressa, perché tutta propria del mondo e perché
provocatrice di morte. Perciò è necessario estirparla radicalmente dal nostro
cuore al modo stesso della fornicazione, dell'avarizia e della collera. |
CAPUT XIII. Remedia quibus tristitiam de cordibus nostris exterminare
possimus.Hanc ergo perniciosissimam passionem ita de nobis expellere
poterimus, ut mentem nostram spiritali meditatione jugiter occupatam
futura spe et contemplatione repromissae beatitudinis erigamus. Hoc enim
modo universa tristitiarum genera, sive, quae ex praecedenti ira
descendunt, sive quae amissione lucri, vel detrimenti illatione nobis
adveniunt, sive de irrogata generantur injuria, sive quae de
irrationabili mentis confusione procedunt, seu quae lethalem
desperationem nobis inducunt, valebimus superare, cum aeternarum rerum
ac futurarum intuitu semper laeti, atque immobiles perdurantes, nec
casibus dejecti praesentibus, nec prosperis fuerimus elati, utraque
velut caduca et mox transeuntia contemplantes. |
13. I RIMEDI PER VINCERE LA TRISTEZZA
Noi pertanto riusciremo a espellere da noi questa passione così dannosa solo se
saremo in grado di sollevare il nostro spirito e mantenerlo continuamente
occupato nella meditazione spirituale in previsione della speranza futura e
della promessa beatitudine. In questo modo infatti saremo in grado di superare
ogni genere di tristezza, quella che deriva in noi da un precedente atto di
collera o per la perdita di un guadagno o per un danno a noi inferto; e cosi
pure la tristezza generata in noi da un'ingiuria subita, oppure nata dentro di
noi per qualche turbamento della mente sorto senza fondato motivo, o anche
creatosi in noi per effetto d'una mortifera disperazione. Cosi, perseverando
sereni e sicuri nella previsione dei beni futuri, senza lasciarci vincere dalle
vicende del mondo presente quando esse ci sono avverse, e senza lasciarci
lusingare quando esse tornano a nostro favore, potremo considerare le une e le
altre come passeggere e destinate a cadere ben presto.
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7 aprile 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net