LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO


 Cassianus Ioannes - Collationes

 

COLLATIO QUARTA,

QUAE EST ABBATIS DANIELIS.

DE CONCUPISCENTIA CARNIS ET SPIRITUS.

 

Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne

 

4.a CONFERENZA

CONFERENZA DELL'ABATE DANIELE

LA CONCUPISCENZA CARNALE E SPIRITUALE

 

Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965

CAPUT PRIMUM
CAPUT II. Quaerit unde oriatur repentina commutatio mentium ab ineffabili laetitia in moestissimam animi dejectionem.
CAPUT III. Responsio super proposita quaestione.
CAPUT IV. Quod dispensationis ac probationis Dei duplex causa sit.
CAPUT V. Quod studium et industria nostra nihil sine adjutorio Dei praevaleat.
CAPUT VI. Quod utile nobis sit interdum a Domino derelinqui.
CAPUT VII. De utilitate ejus pugnae quam Apostolus ponit in colluctatione carnis et spiritus.
CAPUT VIII. Interrogatio quid sit quod in capitulo Apostoli post adversantes sibi concupiscentias carnis et spiritus, tertia adjiciatur voluntas.
CAPUT IX. Responsio de intellectu recte interrogantis.
CAPUT X. Quod vocabulum carnis non in una significatione ponatur.
CAPUT XI. Quid in hoc loco caro ab Apostolo nominetur, et quid sit concupiscentia carnis.
CAPUT XII. Quae sit voluntas nostra, quae inter concupiscentiam carnis et spiritus ponitur.
CAPUT XIII. De utilitate cunctationis quae ex colluctatione oritur carnis et spiritus.
CAPUT XIV. De inemendabili malitia spiritalium nequitiarum.
CAPUT XV. Quid nobis prosit carnis adversus spiritum concupiscentia.
CAPUT XVI. De incentivis carnis, quibus, nisi humiliaremur, gravius rueremus.
CAPUT XVII. De eunuchorum tepore
CAPUT XVIII. Interrogatio quid intersit inter carnalem et animalem.
CAPUT XIX. De triplici animarum statu.
CAPUT XX. De male abrenuntiantibus.
CAPUT XXI. De his qui, contemptis magnis, occupantur in parvis.

Indice dei Capitoli

I - Vita dell’abate Daniele; -
II - Domanda: come avviene l’improvviso passaggio da una gioia ineffabile a una nera tristezza?; 
III - Risposta alla domanda precedente; 
IV - Doppia spiegazione della condotta di Dio in questa prova; 
V - Il nostro impegno e la nostra industria non possono nulla senza l’aiuto di Dio; 
VI - È utile per noi essere qualche volta abbandonati da Dio; 
VII - Utilità di quel combattimento che l’Apostolo chiama « lotta tra carne e spirito »; 
VIII - Domanda: perché l’Apostolo, nel testo citato, dopo aver presentato la carne e lo spirito in lotta tra loro, parla in terzo luogo della libertà?; 
IX - Risposta: saper interrogare è segno d’intelligenza; 
X - La parola « carne » non è usata univocamente; 
XI - Che cosa significa « carne » per san Paolo, e che cosa sia la concupiscenza della carne; 
XII - Che cosa sia la volontà che vien situata tra la concupiscenza della carne e quella dello spirito; 
XIII - Utilità della lentezza che nasce dalla lotta tra carne e spirito; 
XIV - Malizia incorreggibile degli spiriti malvagi; 
XV - In che cosa ci giova la concupiscenza della carne contro lo spirito; 
XVI - Le nostre cadute sarebbero più miserevoli se gli impulsi della carne non fossero tanto umilianti; 
XVII - Tiepidezza di coloro che son casti per difetto naturale; 
XVIII - Domanda: quale differenza passa tra un uomo carnale e uno spirituale?; 
XIX - Risposta sul triplice stato delle anime; 
XX - Coloro che hanno mal rinunciato al mondo; 
XXI - Coloro che, dopo aver lasciato le cose grandi, si fanno dominare da quelle piccole.

 

CAPUT PRIMUM.

Inter caeteros Christianae philosophiae viros, abbatem quoque vidimus Danielem, aequalem quidem in omni virtutum genere his qui in eremo Scythi commanebant, sed peculiarius gratia humilitatis ornatum, qui merito puritatis ac mansuetudinis suae a beato Paphnutio solitudinis ejusdem presbytero, et quidem cum multis junior esset aetate, ad diaconii est praelatus officium. In tantum enim beatus Paphnutius virtutibus ipsius adgaudebat, ut quem vitae meritis sibi et gratia parem noverat, coaequare sibi etiam sacerdotii ordine festinaret; siquidem nequaquam ferens in inferiore eum ministerio diutius immorari, optansque sibimet successorem dignissimum providere, superstes eum presbyterii honore provexit. Qui tamen prioris humilitatis consuetudinem non omittens, nihil umquam sibi illo praesente de sublimioris ordinis adjectione donavit, sed semper abbate Paphnutio spiritales hostias offerente, hic velut diaconus in prioris ministerii permansit officio. In quo tamen beatum Paphnutium, cum talis vir esset ac tantus, ut in multis etiam praescientiae gratiam possideret, haec spes substitutionis et electio frustrata est. Nam non multo post tempore hunc quem sibi paraverat successorem, praemisit ad Deum.

 

I - Vita dell’abate Daniele

Tra gli eroi della filosofia cristiana, da noi visitati nel deserto, ci fu anche l’abate Daniele. In nessuna virtù egli era inferiore agli altri santi uomini che abitavano l’eremo di Scito, però si distingueva fra tutti per la grazia dell’umiltà.

Una particolare nota di purezza e di mansuetudine gli aveva meritato che l’abate Panuzio, unico prete di quella solitudine, lo eleggesse all’ufficio di diacono, preferendolo in ciò a molti altri più anziani di lui.

Il vecchio Panuzio si rallegrava tanto della virtù di Daniele che, vedendolo pari a sé nei meriti e nel metodo di vita, desiderava farlo pari a sé anche nella dignità del sacerdozio. Perciò, mal sopportando di vederlo rimanere troppo a lungo in un grado inferiore, e desideroso com’era di provvedersi in lui un successore degnissimo, lo promosse al grado sacerdotale. Daniele però, senza nulla perdere della sua abituale umiltà, finché visse Panuzio mai esercitò l’ordine sacerdotale al quale era stato elevato: continuò a fare il suo ufficio di diacono, mentre il suo maestro offriva le ostie spirituali. L’abate Panuzio, quantunque fosse un uomo tanto santo da meritare talvolta la grazia di conoscere il futuro, in questo caso vide riuscir vana la sua elezione e la sua speranza. Non molto tempo più tardi, infatti, colui che s’era scelto come successore morì e se ne andò a Dio prima del vecchio maestro.

 

CAPUT II. Quaerit unde oriatur repentina commutatio mentium ab ineffabili laetitia in moestissimam animi dejectionem.

Hic igitur beatus Daniel, inquirentibus nobis, cur interdum residentes in cellula tanta alacritate cordis, cum ineffabili quodam gaudio et exuberantia secretissimorum sensuum repleremur, ut eam non dicam sermo subsequi, sed ne ipse quidem sensus occurreret; oratio quoque pura ac prompta, et mens plena spiritalibus fructibus preces suas efficaces ac leves etiam per soporem supplicans ad Deum pervenire sentiret: ac rursum nullis existentibus causis tanta subito anxietate repleremur, et irrationabili quodam moerore premeremur, ut non solum nosmetipsos hujusmodi sensibus arescere sentiremus, verum etiam horreret cella, sorderet lectio, ipsa quoque instabilis ac nutabunda, et quodammodo ebria emitteretur oratio, ita ut ingemiscentibus et conantibus nobis, ad directionem pristinam reduci mens nostra non posset, quantoque intentius ad Dei reduceretur intuitum, tanto vehementius ad discursus instabiles lubrico raperetur excessu, et ita omni spiritali fructu redderetur effeta, ut nec desiderio regni coelorum, nec metu gehennae proposito ab hoc lethali quodam somno valeret suscitari; ita respondit:

 

II - Domanda: come avviene l’improvviso passaggio da una gioia ineffabile a una nera tristezza?

Al beato Daniele noi domandammo come mai qualche volta, mentre ce ne stiamo ritirati nella nostra celletta, sentiamo il nostro cuore riempirsi di un piacere ineffabile e di sentimenti elevati che traboccano da ogni parte, tanto che non si trovano parole per dire un tale stato, e la mente stessa è incapace a capirlo. La preghiera in quei momenti è pura e facile, l’anima abbonda di frutti spirituali, sente che le sue preghiere (continuate anche nello stato di dormiveglia) giungono lievi ed accette fino a Dio.

Poi, all’improvviso e senza motivo alcuno, accade che ci sentiamo pieni d’angoscia e di una tristezza della quale non si sa dare spiegazione. La sorgente delle esperienze spirituali s’inaridisce, la cella ci diventa insopportabile, la lettura divina produce nausea, la preghiera si fa instabile e vacillante come se fosse ubriaca.

Piombati in questa condizione, noi gemiamo e ci sforziamo di condurre l’anima nostra alla sua prima direzione, ma tutti gli sforzi son vani. Quanto più ci studiamo di ritornare alla contemplazione divina, tanto più la mente si smarrisce nei suoi vagabondaggi. Siamo caduti nella sterilità: né il desiderio del cielo, né il timore dell’inferno possono svegliarci da questo sonno di morte.

Il venerabile Daniele ci rispose.

 

CAPUT III. Responsio super proposita quaestione.

Tripartita nobis a majoribus super hac, quam dicitis, sterilitate mentis tradita ratio est. Aut enim de negligentia nostra, aut de impugnatione diaboli, aut de dispensatione Domini ac probatione descendit. Et de negligentia quidem, cum nostro vitio tepore praecedente incircumspecte nosmetipsos et remissius exhibentes, et per ignaviam et desidiam noxiis cogitationibus pasti, terram cordis nostri spinas et tribulos facimus germinare, quibus in ea pullulantibus consequenter efficimur steriles, atque ab omni reddimur spiritali fructu et contemplatione jejuni. De impugnatione vero diaboli, cum etiam bonis nonnumquam studiis dediti, callida subtilitate mentem nostram adversario penetrante, vel ignorantes ab optimis intentionibus abstrahimur vel inviti.

 

III - Risposta dia domanda precedente

I nostri Padri hanno indicato tre ragioni per spiegare la sterilità della quale voi state trattando: essa può derivare dalla nostra negligenza, da una tentazione del demonio, da una prova mandataci da Dio.

L’aridità può venire dalla negligenza. Per nostra colpa noi, in passato, abbiamo agito senza vigilanza e senza impegno, per una malaugurata pigrizia ci siamo nutriti di cattivi pensieri, facendo così germogliare nel campo del nostro cuore triboli e spine. In conseguenza di ciò siamo diventati sterili, completamente privi di frutti spirituali e di contemplazione.

La sterilità può venire anche da tentazione del demonio. Talvolta, mentre siamo tutti occupati in santi desideri, il nostro scaltro nemico s’insinua nell’anima e, senza che noi lo sappiamo e lo vogliamo, ci distrae dai pensieri più nobili e alti.

 

CAPUT IV. Quod dispensationis ac probationis Dei duplex causa sit.

Dispensationis autem, vel probationis Domini duplex causa est: prima, ut paulisper ab ipso derelicti, et mentis nostrae humiliter intuentes infirmitatem, et nequaquam super praecedente puritate cordis, quae nobis illius est visitatione donata, nullatenus extollamur, probantesque nos ab eodem derelictos, gemitibus nostris et industria illum laetitiae ac puritatis statum recuperare non posse intelligamus, et praeteritam cordis alacritatem non nostro studio, sed illius dignatione nobis fuisse collatam, et praesentem de ipsius rursum gratia et illuminatione esse poscendam. Secunda vero probationis est causa, ut perseverantia nostra, vel mentis constantia et desiderium comprobetur, quaque intentione cordis et orationum instantia deserentem nos visitationem sancti Spiritus requiramus, manifestetur in nobis; ac pariter agnoscentes quanto labore amissum istud spiritale gaudium et puritatis laetitia conquiratur, sollicitius inventam custodire, ac tenere intentius studeamus. Quodammodo enim negligentius custodiri solet, quidquid creditur facile posse reparari.

 

IV - Doppia spiegazione della condotta di Dio in questa prova

La prova ci viene talvolta da Dio, il quale agisce così per due ragioni. Ecco la prima. Trovandoci abbandonati dal Signore per un certo tempo e considerando umilmente la nostra fragilità, non ci insuperbiremo della purezza di cuore con la quale Dio ci aveva ornati durante la sua visita precedente. Accorgendoci inoltre, mentre stiamo in questo abbandono, che i gemiti e gli sforzi non bastano a farci riconquistare il nostro primo stato di gioia e di purezza, comprenderemo che la nostra contentezza passata non era frutto del nostro zelo, ma dono della divina misericordia. Ci convinceremo infine che quel dono dobbiamo chiederlo a Dio, fonte di grazia e di luce.

L’altro motivo per cui Dio manda l’aridità di spirito è che egli vuol mettere alla prova la perseveranza, la costanza, il desiderio dell’anima nostra: vuol farci capire con quale ardore e con quale perseveranza nella preghiera dobbiamo chiedergli il ritorno dello Spirito Santo, dopo che si è partito da noi. Vuole insomma - col farci sperimentare quanto costa riacquistare la gioia spirituale e 1’allegrezza della purità - insegnarci a difendere quei tesori con cura più attenta, prima di farceli strappare; vuole anche insegnarci a conservarli con maggior studio, dopo che li avremo ritrovati. Noi infatti siamo portati a custodire con minor diligenza ciò che pensiamo di poter riavere con maggior facilità.

 

CAPUT V. Quod studium et industria nostra nihil sine adjutorio Dei praevaleat.

Per quae evidenter probatur, gratiam Dei ac misericordiam semper operari in nobis ea quae bona sunt. Qua deserente, nihil valere studium laborantis, et quantumlibet animi nitentis industriam sine ipsius iterum adjutorio statum pristinum recuperare non posse, illudque jugiter in nobis impleri, non volentis, neque currentis, sed miserentis est Dei (Rom. IX). Quae gratia nonnumquam econtrario negligentes ac resolutos inspiratione hac, qua dicitis, sancta, et abundantia spiritalium cogitationum visitare non renuit, sed inspirat indignos, exsuscitat dormientes, et illuminat obsessos ignorantiae caecitate, clementerque nos arguit atque castigat, infundens se cordibus nostris, ut vel sic de inertiae somno compunctione ipsius instigati consurgere provocemur. Denique frequenter etiam odoribus ultra omnem suavitatem compositionis humanae, in his ipsis subito visitationibus adimplemur, ita ut mens hac oblectatione resoluta in quemdam spiritus rapiatur excessum, seque commorari obliviscatur in carne.

 

V - Il nostro impegno e la nostra industria non possono nulla senza l’aiuto di Dio

Tutto quel che abbiamo detto prova con evidenza che sono la grazia e la misericordia di Dio ad operare in noi ogni bene. Se Dio ci abbandona, a nulla valgono le nostre fatiche e i nostri sforzi. Per quanti sforzi facciamo, non potremo riprodurre lo stato antecedente finché Dio non ci doni di nuovo il suo aiuto. Così vediamo avverarsi in noi le parole di s. Paolo che dice: « Non è di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso » (Rm 9,16).

Ma talvolta avviene che la grazia ci visiti con le sue sante ispirazioni e susciti in noi abbondanza di pensieri spirituali, proprio mentre viviamo sprofondati nella negligenza e nel rilassamento. Allora la grazia ci ispira, anche se siamo indegni, ci sveglia dal sonno, ci illumina nell’accecamento della nostra ignoranza, ci rimprovera e ci castiga con clemenza, si effonde nei nostri cuori, affinché, penetrati dalla compunzione, siamo sollecitati a svegliarci dal torpore della nostra inerzia. Spesso anche accade che in occasione di queste visite della grazia, ci sentiamo improvvisamente inondati da certi profumi che superano in soavità ogni arte umana, cosicché l’anima nostra, come sopraffatta dal piacere, è rapita e trasportata fuori di sé e dimentica di essere ancora unita alla carne.

 

CAPUT VI. Quod utile nobis sit interdum a Domino derelinqui.

In tantum vero illum, quem diximus, abscessum, et, ut ita loquar, desertionem Dei, beatus David utilem esse cognovit, ut nequaquam maluerit orare ne a Deo penitus in nullo relinqueretur. Hoc enim sciebat incongruum esse vel sibi, vel humanae naturae ad quamlibet pervenienti perfectionem; sed temperari eam potius deprecatus sit, dicens: Non me derelinquas usquequaque (Psal. CXVIII). Ac si diceret aliis verbis: Scio quod derelinquere soleas utiliter tuos sanctos, ut eos probes. Aliter enim ab adversario tentari non possunt, nisi a te paulisper fuerint derelicti; et ideo non rogo ut numquam me derelinquas, quia non expedit mihi, ut non vel meam infirmitatem sentiens dicam: Bonum mihi quia humiliasti me (Psal. CXVIII); vel exercitium non habeam praeliandi, quod sine dubio habere non potero, si mihi semper et indisrupte cohaeserit protectio divina. Suffultum namque me tua defensione tentare diabolus non audebit, illud objiciens et exprobrans, vel mihi, vel tibi, quod adversus athletas tuos solet calumniosa voce proferre. Numquid gratis Job colit Deum: Nonne tu vallasti eum ac domum ejus, universamque substantiam ejus per circuitum (Job. I)? Sed magis peto ne me usquequaque deseras, quod Graece dicitur μεχρὶ πρὸς ἀγαντεῖον, id est, usque ad nimietatem. Quantum enim mihi utile est si me paululum subrelinquas, ut desiderii mei constantia comprobetur, tantum noxium est si pro meritis ac delictis meis nimium me deseri patiaris; quia nulla virtus humana, si diutius in tentatione tuo deseratur auxilio, sua poterit constantia perdurare, et non protinus adversarii vel potentia vel factione succumbere, nisi tu ipse, qui es humanarum virium conscius, ac luctaminum moderator, non permiseris tentari nos super id quod possumus, sed feceris cum tentatione etiam exitum, ut sustinere possimus (I Cor. X). Tale quid et in Judicum libro, cap. III, super exterminatione gentium spiritalium, quae adversantur Israeli, mystice legimus designatum: Hae sunt gentes quas Dominus dereliquit, ut erudiret in eis Israelem, et haberent consuetudinem cum hostibus praeliandi. Et iterum post pauca: Dimisitque eos Deus, ut in ipsis experiretur Israelem, utrum audirent mandata Domini, quae praeceperat patribus eorum per manum Moysis, an non. Quam utique pugnam non invidens Deus quieti Israelis, nec male eidem consulens, sed sciens esse utilissimam, reservavit, ut dum gentium semper istarum impugnatione deprimeretur, numquam se sentiret auxilio Domini non egere, et ob id semper in ejus meditatione et invocatione persistens, nec inertia solveretur, nec bellandi usum et exercitia virtutis amitteret. Frequenter enim quos superare non potuerunt adversa, securitas et prosperitas dejecerunt.

 

VI - È utile per noi essere qualche volta abbandonati da Dio

Il santo profeta David conobbe così bene l’utilità di questo allontanamento o abbandono da parte di Dio, che nelle sue preghiere non volle mai domandare di esserne completamente liberato: egli sapeva che tale liberazione non sarebbe stata conveniente alla nostra natura, qualunque grado di perfezione essa possa avere raggiunto. Perciò David si limitava a chiedere che Dio mitigasse la sua assenza, e diceva: « Non mi abbandonare interamente » (Sal 118,8). Era come se dicesse: « So che per il bene dei tuoi servi sei solito abbandonarli qualche volta e metterli, così, alla prova; altrimenti, se non fossero da te per un poco abbandonati, il nemico non potrebbe tentarli. Perciò io non ti chiedo di non essere mai abbandonato, che non sarebbe bene per me non poter mai dire, convinto della mia debolezza: buon per me che mi hai umiliato (Sal 118,71), e neppure sarebbe bene che io rimanessi privo di occasioni per esercitarmi nel combattimento. Ed è certo che quella occasione mi mancherebbe se la tua protezione, o Signore, non mi abbandonasse neppure un istante.

« Finché mi vede protetto dalla tua difesa, il demonio non ardirà di tentarmi e ripeterà come un rimprovero, a te e a me, le parole provocatorie che è solito dire contro i tuoi atleti: « Giobbe teme forse Dio senza guadagno? Non hai tu forse recinto tutto intorno con un riparo lui e la sua famiglia e le sue possessioni? » (Gb 1,9-10). Io ti domando, o Signore, di non abbandonarmi completamente, o come dice il testo greco eos sfòdra, che significa: fino all’eccesso. Come infatti è utile che ti allontani per qualche tempo, affinché io possa sperimentare la costanza dei miei desideri, così, sarebbe sommamente dannoso che il tuo abbandono fosse eccessivo e sproporzionato alla gravità dei miei peccati. Nessuna virtù umana, se nella prova resta priva del tuo aiuto, potrà mantenersi costante; dovrà necessariamente soccombere alla forza e all’astuzia del demonio se tu, o Signore, che conosci la debolezza dell’uomo e moderi il combattimento, non impedisci che l’uomo sia tentato al di là delle sue forze e non dai, con la tentazione, anche la via d’uscita, affinché possa sopportarla » (1 Cor 10,13).

Qualche cosa di simile è detto misticamente anche nel libro dei Giudici, a proposito dello sterminio dei popoli che si opponevano ad Israele: quei popoli - ricordiamolo - erano figura dei nostri spirituali nemici: « Sono queste le nazioni che Dio lasciò sopravvivere per mettere alla prova Israele e tutti coloro che non avevan conosciuto le guerre dei Cananei, affinché i figli loro imparassero poi a combattere coi nemici e si abituassero alla guerra » (Gdc 3,1-2). Poco dopo, lo stesso libro aggiunge : « Il Signore li lasciò sopravvivere per mettere alla prova, per loro mezzo, Israele, e per vedere se ascoltasse o no i comandamenti che il Signore aveva dato ai Padri per mezzo di Mosè » (Gdc 3,4).

Dio procurò queste lotte al suo popolo, non già perché avesse invidia della sua pace, o perché gli volesse arrecare dei mali, ma perché sapeva che gli sarebbero tornate utili. Umiliato dai continui attacchi di quei popoli, Israele avrebbe capito di non poter fare a meno dell’aiuto di Dio; anzi, proprio per causa di quegli attacchi sarebbe rimasto costantemente occupato nel pensiero e nell’invocazione di Dio, senza lasciarsi infiacchire dall’ozio, senza dimenticare l’arte della guerra e l’esercizio delle virtù. Spesso infatti quelli che non furono vinti dalle avversità, furono vinti dalla pace e dalla prosperità.

 

CAPUT VII. De utilitate ejus pugnae quam Apostolus ponit in colluctatione carnis et spiritus.

Hanc pugnam utiliter nostris quoque membris insertam, etiam in Apostolo ita legimus (ad Gal. V). Caro enim concupiscit adversus spiritum, spiritus autem adversus carnem. Haec autem invicem adversantur sibi, ut non quaecumque vultis, illa faciatis. Habes et hic pugnam invisceratam quodammodo corpori nostro, dispensatione Domini procurante. Quidquid enim generaliter et sine alicujus exceptione omnibus inest, quid aliud judicari potest, nisi ipsi humanae substantiae post ruinam primi hominis, velut naturaliter attributum, et quod universis congenitum concretumque deprehenditur, quomodo non credendum sit arbitrio Domini non nocentis, sed consulentis insertum? Causam vero hujus belli, id est, carnis et spiritus, hanc esse describit: Ut non, inquit, quaecumque vultis, illa faciatis. Ergo id quod procuravit Deus, ut non posset a nobis impleri, id est, ut non quaecumque volumus, faciamus, quid aliud si impleatur credi potest esse quam noxium? Et est quodammodo utilis haec pugna dispensatione Dei nobis inserta, et ad meliorem nos statum provocans atque compellens, qua sublata proculdubio pax econtrario perniciosa succedet.

 

VII - Utilità di quel combattimento che l’Apostolo chiama: « lotta tra carne e spirito ».

S. Paolo ci avverte che la battaglia di cui parliamo si combatte - per nostra utilità - nelle stesse membra del nostro corpo: « La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne; sono cose opposte fra loro, sicché voi non dovete fare tutto quel che vorreste » (Gal 5,17).

Ecco una guerra penetrata nelle membra del nostro corpo e voluta dalla provvidenza divina. Quando una cosa si ritrova in tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, come fare a non giudicarla un attributo divenuto comune a tutta l’umanità dopo la caduta? E come spiegare ciò che si trova innato in tutti, se non ammettendo che lo ha messo in noi il Signore, il quale era mosso nel far ciò dalla volontà di giovarci e non di nuocerci?

La causa di questa guerra fra la carne e lo spirito è spiegata da s. Paolo con queste parole: « affinché non facciate tutto quel che vorreste ». A questo punto io domando: se si avverasse nei fatti quel che Dio ha cercato d’impedire: il fare cioè quel che ci talenta, non è vero che ciò sarebbe un male? E allora in qualche modo è utile questa guerra che per disposizione di Dio sta accesa nel nostro corpo: essa ci sospinge e ci sforza a diventare migliori: se per caso si spegnesse ne seguirebbe certamente una pace dannosa.

 

CAPUT VIII. Interrogatio quid sit quod in capitulo Apostoli post adversantes sibi concupiscentias carnis et spiritus, tertia adjiciatur voluntas.

Germanus: Licet nobis quidam intellectus in ea praelucere videatur, tamen quia necdum possumus Apostoli sententiam ad liquidum pervidere, volumus haec nobis apertius explanari. Tres enim res hic indicari videntur: prima carnis adversus spiritum pugna; secunda spiritus adversus carnem concupiscentia; tertia voluntas nostra, quae velut media ponitur, de qua dicitur, ut non quaecumque vultis, illa faciatis. Super qua re licet, ut dixi, suspiciones quasdam, ex his quae posita sunt, intelligentiae colligamus; volumus tamen, quia se hujus Collationis occasio obtulit, aliquid nobis lucidius disputari.

 

VIII - Domanda: perché l’Apostolo, nel testo citato, dopo aver presentato la carne e lo spirito in lotta tra loro, parla in terzo luogo della libertà?

Germano - Da quanto è stato detto ci appare già qualche potente sprazzo del pensiero di san Paolo, ma quel pensiero non si mostra ancora in tutta la sua luce: vorremmo perciò che ci fosse dilucidato più a fondo.

Nel passo riferito pare si affermino tre cose: al primo posto la lotta della carne contro lo spirito, al secondo posto la concupiscenza dello spirito contro la carne, al terzo posto è la nostra volontà, che tiene per così dire una posizione intermedia; dì essa si dice: « affinché non facciate tutto quel che vorreste ».

Su questo punto, nonostante ciò che è stato detto, noi conserviamo ancora qualche incertezza, perciò vorremmo - dato che questa conferenza ce ne offre l’occasione - essere illuminati maggiormente.

 

CAPUT IX. Responsio de intellectu recte interrogantis.

Daniel: Discernere divisiones et lineas quaestionum portio intellectus est, et maxima pars intelligentiae scire quid nescias. Propter quod dicitur (Proverb. XVII): Insipienti interroganti sapientia reputabitur, quia licet is qui interrogat, vim propositae quaestionis ignoret, tamen quia prudenter inquirit, et intelligit quod non intelligat, hoc ipsum illi reputatur ad sapientiam; eo quod quid nesciret, prudenter agnoverit. Secundum divisionem itaque vestram tres hoc loco res ab Apostolo nominari videntur, concupiscentia carnis adversus spiritum, et spiritus adversus carnem, quarum adversus se invicem pugna hanc videtur habere causam atque rationem, ut ea quae volumus, inquit, facere nequeamus. Quarta igitur superest causa, quam minime vidistis vos, ut illud scilicet quod nolumus, faciamus. Nunc ergo opus est nobis ut prius duarum concupiscentiarum vim, id est, carnis et spiritus agnoscamus, et ita demum quae voluntas sit nostra, quae inter utramque posita est, discutere valeamus; deinde quid possit voluntatis nostrae non esse, similiter discernamus.

 

IX - Risposta: saper interrogare è segno d’intelligenza

Daniele - È compito dell’intelligenza conoscere gli aspetti e le grandi linee di ogni questione; è compito della scienza far conoscere quel che prima non si conosceva. Per questo è detto nella sacra Scrittura: « Lo stolto che interroga sarà reputato saggio » (Pr 17,28). È chiaro infatti che colui il quale interroga ignora la sostanza della questione, ma poiché interroga, dimostra di capire che non ha capito; proprio questo in lui sarà stimato sapienza: aver riconosciuto prudentemente quel che non sapeva.

Secondo la vostra divisione sembra che l’Apostolo nomini tre cose: la concupiscenza della carne contro lo spirito, la concupiscenza dello spirito contro la carne, la causa di questo combattimento che consiste - per usare le parole stesse dell’Apostolo - nell’impedirci di fare quel che vorremmo. Ma c’è un quarto elemento che a voi è sfuggito, ed è che noi, da questa lotta, siamo spinti a fare ciò che non vorremmo.

Ecco dunque il nostro compito. Dobbiamo innanzi tutto imparare a conoscere queste due concupiscenze: quella della carne e quella dello spirito; poi esamineremo che cosa sia questa volontà che sta di mezzo fra le due concupiscenze; infine esamineremo quel che non è in potere della nostra volontà.

 

CAPUT X. Quod vocabulum carnis non in una significatione ponatur.

Vocabulum carnis in Scripturis sanctis multifarie legimus nominari: nam nonnumquam significat hominem integrum, id est, qui ex corpore constat et anima; ut ubi (Joan. I): Et verbum caro factum est; et (Isaiae XL et Lucae III): Videbit omnis caro salutare Dei nostri. Nonnumquam homines peccatores atque carnales; ut ibi (Genes. VI): Non permanebit spiritus meus in hominibus istis, eo quod sint caro. Interdum pro ipsis peccatis ponitur; ut ibi (Rom. VIII): Vos autem non estis in carne, sed in spiritu. Et iterum (I Cor. XV): Caro et sanguis regnum Dei non possidebunt. Denique sequitur: Neque corruptio incorruptelam possidebit. Nonnumquam pro cognatione et propinquitate; ut ibi (II Reg. V): Ecce nos os tuum, et caro tua sumus. Et Apostolus (Rom. XI): Si quomodo in aemulationem inducam carnem meam, et salvos faciam aliquos ex illis. Quaerendum ergo nobis est, secundum quam significationem ex his quatuor, carnem hic debeamus accipere. Manifestum namque est secundum illud quod positum est, Et verbum caro factum est; vel illud, Et videbit omnis caro salutare Dei, penitus stare non posse; sed neque secundum illud quod dicitur, Non permanebit spiritus meus in hominibus istis, eo quod sunt caro; quia non, sicut ibi abrupte de homine peccatore, ita et hic ponitur caro, cum dicitur (Gal. IV): Caro concupiscit adversus spiritum, et spiritus adversus carnem. Neque enim de rebus substantialibus loquitur, sed actualibus, quae in uno eodemque homine vel pariter vel sigillatim cum quadam temporis vicissitudine et mutatione luctantur.

 

X - La parola "carne” non è usata univocamente

La parola « carne », nella sacra Scrittura, è usata in molti significati. Talvolta indica l’uomo nella sua completezza, come composto d’anima e di corpo, così si dice: « Il Verbo s’è fatto carne » (Gv 1,14), oppure: « Ogni carne vedrà la salute di Dio » (Lc 3,6). Altre volte significa gli uomini peccatori carnali: « Il mio spirito non abiterà nell’uomo sempre, perché egli è carne » (Gen 6,3). Altre volte ancora, « carne » è sinonimo di peccato, come quando si dice: « Voi non siete nella carne, ma nello spirito » (Rm 8,9), oppure: « La carne e il sangue non possederanno il regno di Dio » (1 Cor 15,50), a cui si aggiunge immediatamente: « Né la corruzione può ereditare l’incorruttibilità ». In certi casi la parola « carne » indica discendenza da uno stesso stipite, parentela, come quando è detto: « Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne » (2 Sam (2 Re; Vulg.), 5,1). Anche l’Apostolo usa il termine in questo senso: « Se mi avverrà di suscitare l’emulazione della mia carne (=la gente della sua stirpe) e di poterne salvare qualcuno » (Rm 11,14).

Ora bisogna scoprire in quale di questi quattro significati è usato il termine « carne » nel testo che c’interessa.

È chiaro che il primo significato, quello riscontrato nelle parole: « Il Verbo s’è fatto carne » e « Ogni carne vedrà la salvezza di Dio », non può fare al caso nostro. Neppure il secondo significato, quello che sottostà alle parole: « Il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne », va bene per noi. Nel testo di san Paolo: « La carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito ha desideri contro la carne », non s’intende parlare semplicemente ed esclusivamente dell’uomo peccatore, come invece intende il Genesi quando dice: « il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne ». Inoltre l’Apostolo non parla di una sostanza ma di due attività che si affrontano in uno stesso uomo, sia che vi si trovino contemporaneamente, sia che si succedano col variare dei tempi.

 

CAPUT XI. Quid in hoc loco caro ab Apostolo nominetur, et quid sit concupiscentia carnis.

Quamobrem in hoc loco carnem non hominem, id est, hominis substantiam, sed voluntatem carnis et desideria debemus pessima accipere: sicut nec spiritum quidem aliquam rem substantialem, sed animae desideria bona et spiritalia designare. Quem sensum idem beatus Apostolus superius evidenter expressit, ita dicens: Dico autem, spiritu ambulate, et desideria carnis non perficietis. Caro enim concupiscit adversus spiritum, spiritus vero adversus carnem. Haec autem invicem adversantur sibi, ut non quaecumque vultis, illa faciatis (Gal. V). Quae cum utraque desideria, id est, carnis et spiritus in uno eodemque sint homine, intestinum quotidie intra nos geritur bellum, dum concupiscentia carnis quae praecipitanter fertur ad vitia, his quae ad praesentem requiem pertinent, deliciis gaudet. Quibus econtra concupiscentia spiritus adversata, ita desiderat tota spiritalibus studiis inhaerere, ut etiam necessarios carnis usus optet excludere, sic illis jugiter occupari cupiens, ut nullam penitus fragilitati ejus curam cupiat impartiri. Caro luxuriis ac libidine delectatur, spiritus ne ipsis quidem naturalibus desideriis acquiescit. Illa concupiscit satiari somno, repleri cibo; hic vigiliis et jejuniis ita saginatur, ut ne ad ipsum quidem necessarium vitae usum somnum cibumque velit admittere. Illa cupit exuberare copiis universis, hic ne ipsius quidem exigui panis quotidianam substantiam habere contentus est. Lavacris illa nitescere et quotidianis adulantium cuneis appetit constipari, hic squalore sordium et inaccessibilis eremi vastitate congaudet, cunctorumque mortalium praesentiam perhorrescit. Honoribus illa et laudibus hominum confovetur, hic irrogatis sibi persecutionibus injuriisque laetatur.

 

XI - Che cosa significa "carne" per san Paolo e che cosa sia la concupiscenza della carne

Quando san Paolo dice « carne », non si deve intendere l’uomo, cioè la sostanza dell’uomo; si deve intendere invece la volontà della carne o i cattivi desideri. Allo stesso modo, quando l’Apostolo dice « spirito », non intende qualcosa di sostanziale, ma indica le aspirazioni buone e spirituali. Questo senso si ritrova chiarissimo nel passo già tante volte citato, purché lo si legga per intero. Eccolo ora fin dal suo inizio: « Io dico: conducetevi secondo lo spirito e non soddisfate i desideri della carne. La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne; son cose opposte fra loro, sicché voi non dovete fate tutto quel che vorreste » (Gal 5,16-17).

Siccome questi contrastanti desideri - quelli della carne e quelli dello spirito - coabitano in un solo uomo, ne nasce una guerra intestina che non ha mai tregua.

La concupiscenza della carne si precipita al vizio e si diletta di tutti quei piaceri che riguardano la tranquillità terrestre; la concupiscenza dello spirito si oppone a quei piaceri e tanto desidera dedicarsi ai pensieri delle cose celesti, che vorrebbe liberarsi anche dalle più elementari necessità della carne. Tanto vorrebbe unirsi a Dio da rifiutare al corpo persino quelle cure che la nostra fragilità esige assolutamente. La carne si pasce di lussuria e di libidine, lo spirito non vuole ascoltare neppure i desideri conformi alla natura. Quella ama saziarsi di sonno e riempirsi di cibo, questo vuole tanto impinguarsi di veglie e di digiuni che si mostra insofferente del sonno e del cibo anche nella misura richiesta dalle necessità del vivere. Ad una piace abbondare in tutto, all’altro sembra anche troppo avere ogni giorno una modesta razione di pane. Quella si diletta ad abbellirsi con bagni quotidiani, e desidera essere attorniata da turbe di adulatori; questo gode di un corpo squallido e mal vestito e della sconfinata vastità del deserto, dove può evitare la presenza degli uomini. Quella si pasce con gli onori e le lodi degli uomini, questo si vanta delle ingiurie e delle persecuzioni che gli possono capitare.

 

CAPUT XII. Quae sit voluntas nostra, quae inter concupiscentiam carnis et spiritus ponitur.

Inter has igitur utrasque concupiscentias, animae voluntas in meditullio quodam vituperabiliore consistens, nec vitiorum flagitiis oblectatur, nec virtutum doloribus acquiescit, sic quaerens a passionibus carnalibus temperari, ut nequaquam velit dolores necessarios sustinere, sine quibus desideria spiritus nequeunt possideri, absque castigatione carnis castimoniam cupiens corporis obtinere, sine vigiliarum labore cordis acquirere puritatem, cum requie carnis spiritalibus virtutibus exuberare, absque ullius exasperatione convicii patientiae gratiam possidere, humilitatem Christi sine honoris mundani exercere jactura, religionis simplicitatem cum saeculi ambitione sectari, Christo cum hominum laude ac favore servire, districtionem veritatis sine cujuspiam vel tenui offensione proferre. Postremo sic vult futura consequi bona, ut praesentia non amittat. Quae voluntas numquam nos ad perfectionem veram faceret pervenire, sed in tepore quodam teterrimo collocaret, talesque faceret quales illi sunt qui in Apocalypsi increpatione Domini castigantur: Scio opera tua, quia neque calidus es, neque frigidus; utinam frigidus esses aut calidus: nunc autem quia tepidus es, incipiam te evomere de ore meo (Apoc. III); nisi hunc tepidissimum statum altrinsecus haec insurgentia bella disruperint. Nam cum famulantes huic voluntati nostrae ad hanc remissionem voluerimus nosmetipsos paululum relaxare, confestim aculei carnis insurgunt, suisque nos vitiis et passionibus sauciantes, nequaquam in illa, qua delectamur, puritatis qualitate stare permittunt, atque ad illam quam horremus frigidam voluptatem, plenamque sentibus pertrabunt viam. Rursus si spiritus fervore succensi, opera carnis volentes exstinguere, sine ullo respectu fragilitatis humanae, totos nosmetipsos tentaverimus ad immoderata virtutum studia cordis elatione conferre, interpellans imbecillitas carnis ab illa reprehensibili nimietate spiritus revocat ac retardat; et ita fit ut, utraque concupiscentia tali colluctatione alterna sibimet repugnante, animae voluntas, quae nec totam se carnalibus desideriis dedere, nec virtutum vult laboribus desudare, quodammodo justo moderamine temperetur, dum haec inter utraque contentio, illam perniciosiorem excludens animae voluntatem, ut quamdam aequitatis libram in statera nostri corporis collocat, quae spiritus carnisque confinia justo discernit examine, nec a dextris mentem spiritus ardore succensam, nec a laeva carnem vitiorum aculeis praeponderare permittit. Dum haec pugna quotidianis diebus utiliter exagitatur in nobis, ad illud quartum quod nolumus salubriter venire compellimur, ut puritatem cordis non otio nec securitate, sed jugi sudore et contritione spiritus acquiramus, castitatemque carnis districtis jejuniis, fame, siti ac vigilantia retineamus; directionem etiam cordis, lectione, vigiliis, oratione continua, et solitudinis squalore capiamus; patientiam tribulationum exercitiis retentemus, cum blasphemiis et opprobriorum saturitate nostro serviamus Auctori; veritatem cum invidia mundi istius et inimicitiis, si necesse fuerit, exsequamur; et tali colluctatione in nostro corpore militante, protractis nobis ab hac ignava securitate, atque ad istum quem volumus laborem ac virtutum studia provocatis, aequitas optime media retineatur, et tepidum nostrae voluntatis arbitrium, hinc spiritus fervor, illinc carnis gelidissimus rigor moderatissimo calore contemperent, ac neque ad effrenata vitia mentem pertrahi concupiscentia spiritus sinat, nec rursum ad virtutum irrationabiles appetitus fragilitas carnis spiritum patiatur extolli; ne vel inde omnigenum pullulent fomites vitiorum, vel hinc elatio morbi principalis emergens, telo nos superbiae graviore confodiat: sed pugnae horum justa aequilibratio succedens sanam et moderatam inter utramque virtutem reservet viam, itinere regio docens militem Christi semper incedere. Atque ita fit, ut cum pro tepore hujus, quam diximus, ignavissimae voluntatis propensius mens ad desideria carnis fuerit devoluta, spiritus concupiscentia refrenetur, nequaquam eo vitiis acquiescente terrenis; rursumque si immoderato fervore per excessum cordis ad impossibilia fuerit spiritus noster et inconsiderata praereptus, infirmitate carnis ad justum retrahatur examen, et transcendens voluntatis nostrae tepidissimum statum commodissima temperie planoque tramite cum sudoris industria viam perfectionis incedat. Simile quid etiam in illius turris exstructione legimus a Domino dispensatum in libro Geneseos, ubi linguarum oborta repente confusio sacrilegos ausus hominum nefandosque compescuit (Genes. XI). Permansisset enim etiam ibi adversus Deum, immo adversus eos qui divinam ejus attentare coeperant majestatem, consensus noxius, nisi eos dispensatione Dei repugnans inter se diversitas linguae per dissonantiam vocis in meliorem statum proficere compulisset, et quos ad excidium sui animaverat perniciosa consensio, ad salutem revocasset bona utilisque discordia, incipientes scilicet humanam fragilitatem intercedente divisione sentire, quam per noxiam conspirationem elati antea nesciebant.

 

XII - Che cosa sia la volontà che viene situata tra la concupiscenza della carne e quella dello spirito

Tra le due concupiscenze che la sollecitano, la nostra volontà sceglie e mantiene una vituperevole via di mezzo: non si diletta delle brutture del vizio, ma neppure acconsente ai sacrifici della virtù. Cerca di star lontana dalle passioni della carne, ma non vuol sostenere quelle prove dolorose senza le quali non si possono compiere i desideri dello spirito. Vuol possedere la castità del corpo senza castigare la carne; acquistare la purezza del cuore, senza la pratica delle veglie; essere ricca di virtù, senza rinunziare al piacere della quiete; possedere la grazia della pazienza, senza essere colpita dalla rudezza delle ingiurie; praticare l’umiltà di Cristo, senza patire la perdita degli onori mondani. Vorrebbe, sì, abbracciare la semplicità della religione, ma non perdere per questo gli applausi e le approvazioni degli uomini; vorrebbe professare integralmente la verità, ma senza dispiacere minimamente ad alcuno; in una parola: pretenderebbe assicurarsi i beni eterni, senza rinunciare a quelli presenti.

Una simile volontà non ci acconsentirà mai di raggiungere la vera perfezione; ci indurrà piuttosto in uno stato deplorevole di tiepidezza: ci farà somiglianti a colui che il Signore colpisce col suo rimprovero nell'Apocalisse: ”Io so le tue opere, che non sei né freddo né fervente. Fossi tu freddo oppure fervente! Ma poiché sei tiepido, e non fervente né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca » (Ap 3,15-16).

Rallegriamoci dunque che le guerre insorgenti da ogni parte, tra la carne e lo spirito, rompano il grigiore della nostra tiepidezza! Se, per compiacere alla nostra volontà, ci lasciamo andare un poco verso il rilassamento, subito il pungiglione della carne insorge e ci percuote: i vizi e le passioni non ci permettono di rimanere in quello stato di purezza che tanto ci diletta, ma ci trascinano, per ima via spinosa, verso quella fredda voluttà che ci fa orrore. Se invece, accesi di fervore spirituale e decisi a sopprimere le opere della carne, pensiamo di consacrarci completamente alla pratica della virtù, e ciò senza tener conto della fragilità umana, ecco che la debolezza della carne ci frena e ci richiama dalla nostra dannosa esagerazione.

Nel contrasto tra le due opposte concupiscenze, la volontà dell’anima, che trova ripugnanza ad abbandonarsi completamente ai desideri della carne, ma trova altresì difficile faticare e sudare per osservare la virtù, viene a stabilirsi in un certo stato di equilibrio. Il contrasto tra le due forze opposte allontana l’inclinazione più dannosa e pone in noi una specie di facoltà regolatrice che segna con giusta distinzione i confini tra ciò che è spirituale e ciò che è carnale, senza permettere che l’anima nostra inclini di più a destra, sollecitata dagli ardori eccessivi dello spirito, o a sinistra, incitata dall’aculeo del vizio.

Questa guerra intestina di cui ciascuno di noi è ogni giorno campo di battaglia, ha, come buon risultato, quello di condurci a quel « quarto effetto » di cui sopra parlavamo, a fare cioè anche le cose che non vorremmo, quando siano giovevoli all’anima. E di che si tratta più esplicitamente? Di acquistare la purezza del cuore, non già attraverso l’ozio e la tranquillità ma con la fatica continua e la contrizione dello spirito; di conservare la castità con digiuni severi, nella fame, nella sete, nella vigilanza; di dare al nostro cuore l’orientamento verso Dio per mezzo della lettura divina, le veglie, la preghiera continua, la nuda solitudine del deserto; di conservare la pazienza con la sopportazione delle avversità; di servire il nostro Creatore tra le offese e gli obbrobri; di dir la verità anche a costo di attirarci - se necessario - l’abbandono e l’inimicizia del mondo.

Finché dura nel nostro corpo questa lotta, noi siamo strappati alla pigra sicurezza ed eccitati all’amore della virtù: è così che si stabilisce in noi un giusto equilibrio. La tiepidezza della nostra libera volontà viene ad essere corretta: il suo correttivo è, da una parte, l’ardore dello spirito che la stimola, dall’altra parte, il freddo rigore della carne che fa da contrappeso all’ardore dello spirito. La concupiscenza dello spirito non permette che l’anima sia trascinata verso i vizi sfrenati, la fragilità della carne - a sua volta - non permette che lo spirito si spinga fino ad un desiderio irragionevole della virtù. In tal modo resta impossibile ai vizi d’ogni sorta di pullulare; resta impossibile anche alla nostra malattia capitale, che è la superbia, di manifestarsi e produrre in noi ferite più gravi.

Dalla lotta fra gli opposti nasce l’equilibrio. Si apre così, fra i due eccessi, la via della virtù, saggia e moderata: quella è la via che guida i passi del soldato di Cristo. Se la debolezza della nostra volontà tanto accidiosa, porta l’anima troppo violentemente verso i piaceri della carne, la concupiscenza dello spirito pone un freno, perché lo spirito non sa adattarsi ai vizi del mondo. Ma se il fervore eccessivo d’un cuore esaltato trasporta lo spirito a pratiche impossibili e inopportune, la infermità della carne lo ricondurrà al giusto grado d’intensità. Lo spirito perciò, dopo aver superato lo stato di torpore della volontà, ed aver raggiunto una buona moderazione nel fervore, avanzerà con slancio e con fatica, per la via della perfezione, fattasi ormai sicura e piana.

Qualcosa che fa al caso nostro si legge nel Genesi, là dove è narrata la costruzione della torre di Babele, quando la improvvisa confusione delle lingue pose fine alle bravate sacrileghe ed empie degli uomini. La tremenda concordia della ribellione a Dio, (meglio sarebbe dire la concordia nel danneggiare se stessi con l’attentato alla divina maestà) sarebbe durata chissà quanto se Dio non avesse chiamato gli uomini a miglior consiglio con la confusione delle lingue e il contrasto delle parole. Fu quel benefico disaccordo a rimettere sulla via della salvezza coloro che da una detestabile concordia erano condotti verso la perdizione. La divisione che entrò fra loro li condusse a riconoscere quella fragilità umana che prima, nell’orgoglio della colpevole concordia avevano ignorato.

 

CAPUT XIII. De utilitate cunctationis quae ex colluctatione oritur carnis et spiritus.

In tantum vero utilis nobis ex hujus pugnae diversitate cunctatio nascitur, et salutaris ex hac concertatione dilatio, ut, resistente soliditate corporea, dum ab eorum effectu quae nequiter mente concipimus retrahimur, nonnumquam in meliorem statum, seu poenitudine subsequente, seu emendatione quadam, quae solet procrastinatione operis et recogitatione interveniente descendere, corrigamur. Denique hos quos intelligimus ad voluntatum suarum desideria perficienda nullo carnis obstaculo retardari, daemones scilicet ac spiritales nequitias, et quidem cum sint de eminentiore angelorum ordine devoluti, detestabiliores esse hominibus contemplamur, eo quod, possibilitate eorum desideriis adjacente, id quod nequiter semel conceperint irrevocabili malo perficere non morentur: quia sicut est animus eorum velox ad excogitandum, sic ad perficiendum pernix et absoluta substantia; et dum suppeditat eis prona facilitas ea quae voluerint peragendi, conceptum malum nulla intercedens deliberatio salutaris emendat.

 

XIII - Utilità della lentezza che nasce dalla lotta tra carne e spirito

Da questo scontro di forze contrarie nasce una lentezza per noi vantaggiosa, un indugio salutare. Mentre la pesantezza del corpo ci ritarda dal compiere quei cattivi pensieri che la mente concepì, accade talvolta che ci assalga il rimorso o si produca in noi un certo miglioramento, per lo più effetto di riflessione e di indugio ad agire. In tal modo avviene che noi ci correggiamo e veniamo a sentimenti migliori per le resistenze che la carne ci ha opposto.

Vediamo invece che coloro i quali non sono ritardati dall’ostacolo della carne nel mandare ad effetto i desideri della volontà - intendo dire i demoni e gli spiriti del male - son decaduti dall’ordine eccelso degli angeli e diventati peggiori degli uomini. In loro, desiderio e possibilità di tradurlo in pratica, stanno ad immediato contatto, e perché l’esecuzione dei malvagi propositi non può subire alcun ritardo, il male che fanno è irrevocabile. Quanto è pronto il loro spirito a pensare il male, altrettanto è pronta la loro natura a farlo; ma la facilità di cui essi godono nel fare tutto quello che vogliono, toglie alla facoltà deliberativa l’occasione d’intervenire per correggere - col suo salutare intervento - il male che era nel pensiero.

 

CAPUT XIV. De inemendabili malitia spiritalium nequitiarum.

Spiritalis namque substantia, nec ulla carnis soliditate devincta, ut excusationem exortae in se pravae non recipit voluntatis, ita veniam malignitatis excludit, quia nulla quemadmodum nos ad peccandum impugnatione carnis extrinsecus lacessita est, sed vitio solius malae voluntatis accensa, et ob hoc sine venia peccatum et languor sine remedio est. Sicut enim nulla sollicitante terrena materia corruit, ita nec indulgentiam quidem aut locum poenitudinis obtinere potest. Quibus ex rebus evidenter colligitur quod non solum noxia non sit haec quae contra se invicem suscitatur in nobis carnis spiritusque contentio, verum etiam multam nobis conferat utilitatem.

 

XIV - Malizia incorreggibile degli spiriti malvagi

La sostanza spirituale, per non essere gravata dalla pesantezza della carne, non ha alcuna scusa da addurre contro i cattivi propositi che nascono in essa. Per questo non le può essere perdonata la sua malignità. Nelle sostanze spirituali il male non è sollecitato - come in noi - dagli assalti della carne, ma è acceso unicamente dalla malizia della volontà perversa. Il loro peccato è quindi senza perdono, il loro male senza rimedio. Siccome la caduta non è stata provocata in loro da una natura terrestre, così non possono ottenere indulgenza o tempo di pentirsi.

Da ciò si deduce chiaramente che la guerra combattuta in ciascuno di noi tra la carne e lo spirito, non solo non è fonte di danno, ma è, al contrario, fonte di non piccola utilità.

 

CAPUT XV. Quid nobis prosit carnis adversus spiritum concupiscentia.

Primo quod desidias ac negligentias nostras statim arguit, et, ut quidam diligentissimus paedagogus, a districtionis et disciplinae linea numquam nos deviare concedens, si paululum quid securitas nostra mensuram congruae severitatis excesserit, flagellis incentivorum stimulat confestim et increpat, atque ad competentem revocat parcitatem. Secundo quod pro castimoniae ac puritatis integritate, cum Dei gratia concedente, ita nos longo tempore a genitali pollutione viderimus immunes, ut ne ipsa quidem simplici commotione carnis ulterius nos inquietandos esse credamus, et per hoc, velut qui non gestemus corruptelam carnis, in secretis conscientiae nostrae fuerimus elati, suo nos rursum, quamvis quieto ac simplici, visitans fluxu humiliat ac retundit, nosque homines esse stimulis suis admonet. Quodammodo enim cum in caeteris generibus vitiorum et quidem gravioribus magisque noxiis indifferentius soleamus incurrere, nec tam facile in eorum compungamur admissu, in hoc peculiarius humiliatur conscientia nostra, perque hanc illusionem neglectarum quoque passionum recordatione mordetur, evidenter intelligens immundam se factam naturalibus incentivis, quae cum esset immundior spiritalibus vitiis, ignorabat; et recurrens protinus ad emendationem anterioris ignaviae, commonetur nec super successibus praeteritae puritatis debere confidere, quam se perspicit pusillum quid declinantem a Domino perdidisse, nec posse hujus purificationis donum nisi per solius Dei gratiam possideri, docentibus nos quodammodo ipsius rei experimentis, ut si integritatem cordis perpetuo consequi delectamur, humilitatis studeamus virtutem jugiter obtinere.

 

XV - In che cosa ci giova la concupiscenza della carne contro lo spirito

Il primo vantaggio di questa lotta è che ci convince della nostra pigrizia e della nostra negligenza. A somiglianza di un espertissimo pedagogo, non permette che noi abbiamo mai ad allontanarci dalla via della stretta osservanza e della regolarità. Se per caso la nostra spensieratezza oltrepassa i limiti di serietà prescritta alla nostra condotta, il flagello della tentazione subito ci stimola e d richiama, rimproverandoci, all’austerità che dobbiamo osservare.

Vediamo ora il secondo vantaggio. Il favore della grazia divina ha voluto che la nostra castità rimanesse lungo tempo immune dagli assalti e dagli appetiti della carne. Noi abbiamo incominciato a credere per questo di essere ormai liberati anche dai più innocenti movimenti carnali: ci siamo inorgogliti nel segreto della nostra coscienza, come se non avessimo più da portare il peso di questo corpo corruttibile. Ma ecco che all’improvviso siamo sorpresi da qualche moto carnale, sia pure involontario e non colpevole, che ci abbatte, ci umilia e ci ricorda che siamo dei poveri uomini sottoposti agli stimoli della carne.

Di solito noi ci disinteressiamo, senza neppur provare pentimento, di certi difetti che sono assai più gravi e dannosi di quei fenomeni spontanei che si producono nella sfera sessuale del nostro organismo: ciò perché il vizio della carne ha questo di particolare: ci umilia di più.

Oltre a ciò un esperimento triste di genere carnale risveglia in noi il rimorso anche per altre passioni, delle quali non ci diamo alcun pensiero. L’anima non fa gran caso ai vizi dello spirito, quantunque contragga da quelli le sue vergogne più gravi, ma nel vizio della carne si rende conto con cruda chiarezza che la concupiscenza la macchia d’impurità. Allora si dà premura di correggere la sua negligenza anteriore e si mette in guardia dalla eccessiva fiducia nella castità già per lungo tempo conservata: è bastato infatti che si allontanasse un istante dal Signore, perché tutta la sua castità andasse perduta. In tal modo si convince che non potrà godere il dono della castità senza una grazia particolare di Dio.

Questo è l’insegnamento che ci dà l’esperienza, affinché, se ci preme vivere in una costante integrità di cuore, ci sforziamo senza posa di acquistare la virtù dell’umiltà.

 

CAPUT XVI. De incentivis carnis, quibus, nisi humiliaremur, gravius rueremus.

Hujus igitur puritatis elationem perniciosiorem futuram cunctis sceleribus atque flagitiis, et ob hanc nihil nos emolumenti consecuturos pro qualibet castitatis integritate, testantur illae virtutes quarum superius fecimus mentionem, quae cum nullas hujusmodi titillationes carnis habuisse credantur, ob solam cordis elationem perpetua ruina de sublimi coelestique statione dejectae sunt. Essemus itaque penitus absque remedio tepidi, utpote non habentes indicem negligentiae nostrae, vel in corpore nostro aut in conscientiis propriis insidentem, nec studeremus ad perfectionis umquam pervenire fervorem; sed nec frugalitatis quidem districtionem vel continentiae teneremus, nisi nos haec titillatio carnis increscens humiliaret atque retunderet, et adversus spiritalium quoque vitiorum purgationem sollicitos redderet et intentos.

 

XVI - Le nostre cadute sarebbero più miserevoli se gli impulsi della carne non fossero tanto umilianti

L’orgoglio concepito da noi, a causa della castità posseduta, sarebbe il più funesto fra tutti i delitti. Qualunque possa essere la perfezione della nostra castità, se l’accompagneremo con l’orgoglio, non potremo averne alcun giovamento. Ci fanno fede di ciò le potenze del male, delle quali abbiamo fatto menzione più sopra: ad esse le tentazioni della carne erano assolutamente sconosciute, ma la superbia del cuore bastò a precipitarle nel baratro eterno, da quello stato sublime di gloria che occupavano in cielo.

Se la tentazione della carne non venisse ad incuorarci profonda umiltà, ad umiliarci salutarmente, a renderci attenti e ferventi nel purificare anche i vizi dello spirito, noi saremmo irrimediabilmente condannati alla tiepidezza. Privi nel corpo e nello spirito di un indice rivelatore della nostra accidia, non ci daremmo premura di raggiungere il fervore della perfezione, non saremmo neppur fedeli all’esatta osservanza della sobrietà e dell’astinenza.

 

CAPUT XVII. De eunuchorum tepore

Denique in his qui spadones sunt corpore, idcirco hunc animi teporem plerumque inesse deprehendimus, quia velut soluti ab hac necessitate carnali, nec labore continentiae corporalis, nec contritione cordis se aestimant indigere; et hac securitate resoluti, numquam perfectionem cordis, sed nec spiritalium quidem vitiorum purgationem vel quaerere in veritate, vel possidere festinant. Qui status, a carnali qualitate descendens, efficitur animalis, qui est proculdubio deterior gradus; ipse est enim qui, de frigido ad tepidum transiens, detestabilior Domini voce signatur.

 

XVII - Tiepidezza di coloro che sono casti per difetto naturale

Coloro che son privi dell’integrità fisica, gli eunuchi, li abbiam visti quasi sempre adagiati nella tiepidezza. Liberi come sono dagli assalti della carne, credono di poter fare a meno della mortificazione corporale e della contrizione del cuore. Infiacchiti da questa sicurezza, non si curano di cercare e di acquistare la purezza del cuore e la liberazione dai vizi dello spirito. Il loro stato, che si distingue da quello carnale, diventa facilmente uno stato animale. Si tratta certamente di un passaggio verso il peggio, perché è un andare dalla freddezza alla tiepidezza, la qual tiepidezza, secondo la parola del Signore nell’Apocalisse, è la cosa più abominevole che esista.

 

CAPUT XVIII. Interrogatio quid intersit inter carnalem et animalem.

Germanus: De utilitate colluctationis quae inter carnem et spiritum suscitatur, quantum videtur nobis evidenter expressum est, ita ut eam ipsis quodammodo manibus nostris palpabilem factam esse credamus. Et idcirco hanc quoque rationem nobis similiter cupimus aperiri, quid intersit inter carnalem et animalem virum, vel quemadmodum animalis carnali possit esse deterior.

 

XVIII - Domanda: quale differenza passa tra un uomo carnale e uno spirituale?

Germano - Con quel che siete andato dicendo, voi ci avete resa evidente l’utilità del combattimento fra la carne e lo spirito: l’evidenza è tanto grande che quasi ci sembra di toccarla con mano. Ora vi preghiamo di sviluppare l’ultimo vostro accenno e di spiegarci la differenza fra uomo carnale e uomo animale, e la ragione per cui l’uomo animale è peggiore dell’uomo carnale.

 

CAPUT XIX. De triplici animarum statu.

Daniel: Secundum definitionem Scripturae tres sunt animarum status. Primus carnalis, secundus animalis, tertius spiritalis (Vide Augustinum lib. LXXXIII, quaest. 4, 67). Quos in Apostolo ita legimus designari. Nam de carnali dicitur: Lac vobis potum dedi, non escam, necdum enim poteratis; sed nec adhuc quidem potestis, adhuc enim estis carnales (I Cor. III). Et iterum: Ubi enim est inter vos zelus et contentio, nonne carnales estis (Ibid.)? De animali quoque taliter commemoratur: Animalis autem homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei: stultitia enim est illi (I Cor. II). De spiritali vero: Spiritalis autem examinat omnia; ipse autem a nemine judicatur (Ibid.). Et iterum: Vos qui spiritales estis, instruite eos qui ejusmodi sunt, in spiritu lenitatis (Galat. VI). Itaque festinandum est nobis, ut cum renuntiantes desierimus esse carnales, id est, a saecularium coeperimus conversatione sejungi, et ab illa manifesta carnis pollutione cessare, spiritalem statum protinus apprehendere tota virtute nitamur, ne forte blandientes nobis quod videmur secundum exteriorem hominem huic renuntiasse mundo, vel carnalium fornicationum deseruisse contagia, tamquam qui summam perfectionis per hoc apprehenderimus, remissiores deinceps erga emundationem caeterarum passionum lentioresque reddamur, et inter utraque detenti gradum spiritalis profectus assequi nequeamus, existimantes ad perfectionem nobis abunde sufficere quod exteriore homine videamur de conversatione mundi hujus ac voluptatibus segregari, vel quod immunes simus a corruptela et commixtione carnali, et ita inventi in illo tepido statu, qui deterrimus judicatur, evomendos nos ex ore Domini secundum ejus sententiam noverimus, ita dicentis: Utinam calidus esses aut frigidus; nunc autem tepidus es, incipiam te evomere ex ore meo (Apoc. III). Nec immerito eos Dominus quos jam in visceribus receperat charitatis, noxie tepefactos, cum quadam convulsione pectoris sui evomendos esse pronuntiat; qui cum salutarem quodammodo ei potuissent praebere substantiam, avelli ab ejus visceribus maluerunt, tanto deteriores effecti illis qui numquam ori Dominico illati sunt cibis, quanto id quod nausea compellente projicimus, odibilius detestamur. Quidquid enim frigidum est, etiam ore nostro susceptum vertitur in calorem, et salutifera suavitate percipitur; quod autem semel vitio perniciosi teporis abjectum est, non dicam labiis admovere, sed etiam eminus intueri sine ingenti horrore non possumus. Rectissime ergo pronuntiatur esse deterior, quia facilius ad salutarem conversationem ac perfectionis fastigium carnalis quis, id est, saecularis vel gentilis, accedit, quam is qui professus monachum, nec tamen viam perfectionis arripiens secundum regulam disciplinae, ab illo semel spiritalis fervoris igne discessit. Ille namque corporalibus saltem vitiis humiliatus, atque immundum se sentiens contagione carnali, ad fontem verae purificationis ac perfectionis culmen, quandoque compunctus, accurrit, et horrescens illum, in quo est, infidelitatis gelidissimum statum, spiritus ardore succensus, ad perfectionem facilius convolabit. Nam qui semel, ut diximus, tepido exorsus initio monachi coepit abuti vocabulo, nec tamen humilitate ac fervore quo debuit iter hujus professionis arripuit, infectus semel hac miserabili lue, et in ea quodammodo resolutus, nec ex se ulterius perfecta sapere, nec alterius poterit monitis erudiri. Dicit enim in corde suo, secundum illam Domini sententiam, quia dives sum et locuples, et nullius egeo. Cui illud quoque quod subsequitur, consequenter aptabitur: Tu autem es miser et miserabilis, et pauper et caecus et nudus (Apoc. III): in eo factus etiam saeculari deterior, quod nec miserum se nec caecum ac nudum aut emendatione dignum, vel egere monitis alicujus aut institutione, cognoscit, et ob hoc nec exhortationem quidem ullam verbi salutaris admittit, non intelligens ipso monachi se nomine praegravari ac deprimi opinione cunctorum, qua dum creditur ab omnibus sanctus, et velut Dei famulus colitur, necesse est ut in futuro vehementiori judicio poenaeque subdatur. Postremo quid diutius immoramur in his quae nobis experimento satis comperta sunt ac probata? Frequenter enim vidimus de frigidis atque carnalibus, id est, de saecularibus ac paganis, ad spiritalem pervenisse fervorem, de tepidis atque animalibus omnino non vidimus. Quos etiam per prophetam ita legimus Dominum detestari, ut spiritalibus viris atque doctoribus praecipiatur, ut ab eis monendis docendisque discedant, et nequaquam velut in sterili atque infructuosa terra noxiisque sentibus occupata semen verbi salutaris expendant; sed ut contemnentes eam, novam potius excolant terram, id est, erga paganos ac saeculares omnem doctrinae culturam ac verbi transferant salutaris instantiam, quod ita legitur: Haec dicit Dominus viro Juda et habitatoribus Jerusalem: Novate vobis novale, et nolite serere super spinas (Jerem. IV).

 

XIX - Risposta sul triplice stato delle anime

Daniele - Tre sono, secondo la Scrittura, gli stati dell’anima: il primo è lo stato carnale, il secondo animale, il terzo spirituale. Di tutti e tre questi stati parla s. Paolo. Ecco che cosa dice degli uomini carnali: « Vi ho dato del latte a bere, non del cibo solido, perché non eravate ancora in grado di tollerarlo. Ma neanche ora siete in grado, perché siete ancora carnali » (1 Cor 3,2). E aggiunge: « Dal momento che vi sono in voi gelosie e contese, non è egli vero che siete carnali? » (1 Cor 3,3).

Dell’uomo animale l’Apostolo parla in questi termini: « L’uomo animale non capisce le cose dello spirito di Dio: per lui sono stoltezze » (1 Cor 2,14).

E dell’uomo spirituale parla così: « L’uomo spirituale giudica tutto, ed egli non è giudicato da alcuno » (1 Cor 2,15). Ancora: « Voi siete spirituali, correggete questi tali con spirito di mitezza ».

Per mezzo della rinuncia noi abbiamo cessato di essere uomini carnali, ci siamo cioè separati dalla vita secolaresca e abbiamo rotto i rapporti con i disordini della carne. Ora però, animati da santa premura, dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze per passare immediatamente allo stato spirituale, onde non avvenga che, sopravvalutando la rinuncia al mondo e alle opere della carne, ci persuadiamo falsamente di aver raggiunto in un momento la più alta perfezione, facendoci così più fiacchi e più lenti a purificarci dalle altre passioni. Se cadessimo in questa illusione non ci fermeremmo certamente a mezza strada fra lo stato carnale e quello spirituale. Non andremmo verso lo stato più alto, perché convinti che per essere perfetti è sufficiente la separazione esteriore dal mondo e dai suoi piaceri, la liberazione dalle corruttele e dalle imprese della carne; ma neppure rimarremmo fissi in una posizione intermedia. È fuori dubbio che non potremmo evitare di cadere nello stato più temibile in cui possa trovarsi un’anima. Noi cadremmo inevitabilmente nello stato di tiepidezza che è il peggiore di tutti; così non ci resterebbe altro che essere vomitati dalla bocca del Signore, secondo quanto dice egli stesso nell’Apocalisse: « Fossi tu almeno freddo o caldo! Ma sei tiepido, e io sto per vomitarti dalla mia bocca » (Ap 3,15-16).

A buon diritto il Signore dice di voler rigettare con un movimento di ripulsa coloro che, dopo essere stati ricevuti nelle viscere della sua carità, hanno contratto una dannosa tiepidezza. Costoro potevano essere - ci si perdoni l’immagine - un sano nutrimento per il Signore, hanno invece preferito essere violentemente espulsi dal suo cuore. Son divenuti somiglianti al cibo detestabile che lo stomaco rifiuta sotto gli stimoli della nausea: questo cibo è assai peggiore di quello che mai si accostò alle labbra divine.

Il cibo freddo si fa caldo quando penetra nella nostra bocca: noi ce ne nutriamo con piacere e giovamento, ma il cibo rigettato per la sua insopportabile tiepidezza, non possiamo più portarlo alle labbra, anzi non possiamo neppur guardarlo di lontano senza provare un senso di repulsione.

È giusto dunque che l’anima tiepida sia proclamata la peggiore di tutte. L’uomo carnale, vale a dire il mondano o il pagano, per giungere alla vera conversione e per salire alla più alta santità, si troverà sommamente avvantaggiato su colui che ha fatto professione di vita monastica ma non ha abbracciato risolutamente la via della perfezione, né si è conformato alle leggi della disciplina monastica, facendo perciò raffreddare il fuoco del fervore iniziale.

L’uomo carnale sarà salutarmente umiliato dai vizi della carne, si riconoscerà immondo: forse un giorno correrà pentito alla fonte della vera purificazione e salirà poi al culmine della vita perfetta: il disgusto che proverà per lo sta- sto d’infedeltà e freddezza in cui si trova, lo riempirà di santo ardore e gli darà ali per volare più facilmente alla perfezione. Ma colui che fin da principio ha disonorato con la sua tiepidezza il nome di monaco; che ha portato nella sua professione né umiltà né zelo, una volta colpito dal cancro della tiepidezza, sarà da quello corroso; né per volontà propria, né per richiamo fraterno di altri, sarà capace di gustare la perfezione. Egli infatti dice in cuor suo, come ci assicura il Signore: « Sono ricco, sono nell’abbondanza, non ho bisogno di nulla » (Ap 3,17). A lui però vanno anche applicate le parole che seguono: « Tu sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo » (Ap 3,17). Egli è peggiore di un uomo mondano perché non ha coscienza della sua miseria, del suo accecamento, della sua nudità: in lui non c’è nulla da correggere; egli non ha bisogno né delle ammonizioni né delle correzioni dei fratelli, perciò non accetta neppure una di quelle parole che potrebbero salvarlo. Non si accorge che il titolo di monaco è per lui un peso che lo schiaccia: la pubblica opinione lo crede santo, gli rende onore come a un servo di Dio: per questo il giudizio e la condanna saranno per lui più gravi.

Ma perché dilungarci su cose che l’esperienza ci ha fin troppo comprovate? Noi abbiamo visto spesso uomini freddi, carnali, cioè mondani o pagani, diventare ferventi e spirituali, mai abbiamo visto verificarsi qualcosa di simile in uomini tiepidi e animali. Leggiamo anzi che il Signore, rappresentato dal suo profeta, tanto detesta i tiepidi da comandare agli uomini spirituali e ai suoi dottori di astenersi dal- l’istruirli e dall’ammonirli. Spargerebbero infatti il seme della parola di vita in terreno sterile e incolto, tutto coperto di acute spine; perciò è meglio allontanarsi da loro e andare a spargere il seme in una terra nuova. In altre parole; è meglio trasferire ai pagani e ai mondani l’insegnamento della dottrina e la seminagione della parola che salva.

« Così dice il Signore agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme: dissodatevi un campo novale e non seminate sopra le spine » (Ger 4,3).

 

CAPUT XX. De male abrenuntiantibus.

Denique, quod pudet dicere, ita plerosque abrenuntiasse conspicimus, ut nihil amplius immutasse de anterioribus vitiis ac moribus comprobentur, nisi ordinem tantummodo atque habitum saecularem (Vide collat. 3, cap. 3, 6 et seq.). Nam et acquirere pecunias gestiunt, quas nec ante possederunt; vel certe, quas habuerant, retinere non desinunt; aut, quod est lugubrius, etiam amplificare desiderant, sub hoc praetextu quod vel famulos suos semper exinde vel fratres alere se debere justum esse contendunt, vel certe sub obtentu congregandi coetus reservant, quem velut abbates, instituere se posse praesumunt. Qui si in veritate viam perfectionis inquirerent, hoc potius tota virtute perficere niterentur, ut scilicet exuti non solum pecuniis, sed etiam affectionibus pristinis et distentionibus universis, semetipsos singulares ac nudos ita sub seniorum imperio collocarent, ut curam non modo aliorum nullam, sed ne sui quidem gererent. Econtrario autem evenit ut dum fratribus praeesse festinant, numquam senioribus ipsi subjiciantur, et a superbia inchoantes, dum alios instituere cupiunt, nec discere ipsi, nec agere ea quae sunt Deo agenda mereantur. Quibus necesse est ut, secundum Salvatoris sententiam, caeci duces caecorum effecti, pariter in foveam cadant (Matth. XV). Cujus superbiae licet unum sit genus, duplex tamen ejus est species: una quae serietatem gravitatemque [ Lips. in marg. severitatem, serenitatem, vel veritatem] jugiter ementitur; alia quae effrenata libertate in cachinnos fatuos risusque dissolvitur. Et illa quidem taciturnitate congaudet, haec vero dedignatur silentio coarctari; nec confunditur passim proloqui, etiam res incongruas et ineptas, dum erubescit vel inferior caeteris vel indoctior judicari. Alia ob elationem, clericatus ambit officium, altera despicit, utpote judicans illud aut dignitati pristinae, aut vitae ac natalium suorum meritis incongruum vel indignum. Quarum quae deterior pronuntianda sit, uniuscujusque discutiat ac perpendat examen. Unum sane atque idem inobedientiae genus est, vel propter operationis instantiam, vel propter otii desiderium, senioris violare mandatum, tamque dispendiosum est pro somno quam pro vigilantia monasterii statuta convellere. Tantum denique est abbatis transire praeceptum ut legas, quantum si contemnas, ut dormias; nec alius superbiae fomes est pro jejunio fratrem quam pro refectione contemnere, nisi quod perniciosiora et a remediis longinquiora sunt vitia quae sub specie virtutum et imagine spiritalium rerum videntur emergere, quam illa quae ex aperto pro carnali voluptate [ Lips. in marg. voluntate] gignuntur. Haec enim velut palam expositi ac manifesti languores [ Lips. in marg. languoris], et arguuntur cominus, et sanantur; illa vero, dum praetextu virtutum teguntur, incurata perdurant, et deceptos quosque periculosius faciunt ac desperatius aegrotare.

 

XX - Coloro che hanno mal rinunciato al mondo

Mi vergogno a dirlo, ma tutti vediamo che la più gran parte dei monaci ha rinunciato al mondo in modo tale da far chiaramente conoscere che, dei vizi e della vita passata, ha lasciato soltanto l’apparenza e l’abito esteriore. I nostri monaci si struggono di acquistare ricchezze che prima non avevano, oppure continuano a possedere quelle che prima avevano. Talvolta - e questo è più triste - si dànno pensiero di aumentare le loro ricchezze col pretesto che con quelle hanno da mantenere i loro servi e fratelli [1]. Altra volta si tengono le ricchezze, con la scusa che hanno da fondare una comunità di cenobiti con annesso monastero: perché - non dimentichiamolo! - sono anche così umili da stimarsi predestinati alla carica di abati.

Tutti costoro, se cercassero davvero la via della perfezione, impegnerebbero ogni forza, non solo a liberarsi dalle ricchezze, ma anche a liberarsi dalle vecchie passioni e a sbarazzarsi da ogni preoccupazione mondana. Poi si metterebbero - soli e privi di tutto - sotto la guida degli anziani, senza pretendere di governare gli altri e neppure se stessi. Invece accade esattamente il contrario. Desiderosi come sono di comandare, non si sottomettono mai agli anziani: essi incominciano a edificare la loro vita spirituale sul fondamento della superbia, e mentre vogliono formare i loro confratelli, né imparano né fanno essi stessi quello che pretendono d’insegnare agli altri. È quindi inevitabile che questi ciechi, fatti guide di altri ciechi, vadano insieme a cader nella fossa (Mt 15,14).

L’orgoglio di cui parliamo, nonostante la sua fondamentale unità, ha due specie diverse. La prima mostra al di fuori serietà e gravità, la seconda - nella sua libertà sfrenata - s’abbandona a risa sgangherate e sciocche. La prima specie si diletta del silenzio, l’altra invece mal sopporta il silenzio e non si perita di parlare spesso anche di cose stupide e sconvenienti; ha timore di una cosa sola: di non essere tenuta in gran conto, di non essere stimata dotta. I monaci della prima specie aspirano al sacerdozio per elevarsi, quelli della seconda specie disprezzano il sacerdozio come troppo meschino, in proporzione ai meriti della loro vita e del loro casato.

Di queste due specie d’orgoglio, quale è la peggiore? Ciascuno giudichi a suo piacere. Essenzialmente è un medesimo atto d’insubordinazione quello di chi si dà a un lavoro non concesso e quello di chi si dà all’ozio; è ugualmente riprovevole chi contravviene alle regole del monastero, sia che questo avvenga per vegliare, sia che avvenga per dormire; è ugualmente grave venir meno al comando dell’abate per darsi al sonno o per darsi alla lettura; è atto che parte dalla stessa radice della superbia disprezzare un fratello: sia che lo si disprezzi perché digiuna, sia perché mangia.

C’è semmai da notare che i vizi ammantati con le apparenze della virtù e avvolti in paludamenti spirituali, son più dannosi e più difficili a guarirsi di quelli che hanno come loro evidente origine il piacere della carne. Questi ultimi, somiglianti a malattia che tutti vedono, si manifestano spontaneamente, perciò possono essere facilmente sanati. Invece quei vizi che si nascondono sotto le apparenze della virtù, non sono curati e si radicano più profondamente. Per questo fanno ammalare sempre più gravemente coloro che ne sono colpiti.

 

CAPUT XXI. De his qui, contemptis magnis, occupantur in parvis.

Jam illud ridiculum qualiter exprimatur, quod nonnullos post illum primae renuntiationis ardorem, quo vel res familiares vel opes plurimas ac militiam saeculi relinquentes, semetipsos ad monasteria contulerunt, tanto cernimus studio in his quae penitus abscindi non possunt, et quae nequeunt in hoc ordine non haberi, quamvis parva viliaque sint, esse devinctos, ut horum cura pristinarum omnium facultatum superet passionem (Collat. 3 cap. 3). Quibus profecto non magni proderit majores opes ac substantias contempsisse, quia affectus earum, ob quos illae contemnendae sunt, in res parvas atque exiguas transtulerunt. Nam vitium cupiditatis et avaritiae quod erga species pretiosas exercere non possunt, circa viliores materias retinentes, non abscidisse, sed commutasse se probant pristinam passionem. Nam nimia devincti diligentia erga curam psiathii, sportellae, saccelli, codicis, mattae, aliarumque similium rerum, quamvis vilissimarum, eadem tamen qua antea libidine detinentur. Quae etiam tanta aemulatione custodiunt atque defendunt, ut pro ipsis adversus fratrem commoveri eos, et, quod est turpius etiam, litigare non pudeat. In quibus adhuc aegritudine cupiditatis pristinae laborantes, haec eadem quae usus corporis possidere monachum vel necessitas cogit, secundum numerum mensuramque communem non sunt habere contenti, in hoc quoque sui cordis avaritiam designantes, cum vel ea quibus uti necesse est, propensius student habere quam caeteri, vel excedentes diligentiae modum, peculiarius ea attentiusque custodiunt, et ab aliorum contrectatione defendunt, quae universis fratribus debent esse communia. Quasi vero differentia tantummodo metallorum, et non ipsa passio cupiditatis habeatur innoxia, et cum pro rebus quidem magnis irasci non liceat, pro vilioribus vero hoc ipsum fecisse sine culpa sit; et non idcirco pretiosiores abjecerimus materias, ut facilius disceremus viliora contemnere. Quid enim differt, utrum quis perturbationem cupiditatis erga opes amplas atque magnificas, an erga viliores exerceat species? nisi quod in eo reprehensibilior judicandus est, quod qui maxima spreverit, minimis obligetur. Ideoque perfectionem cordis abrenuntiatio ista non obtinet; quia cum censum habeat pauperis, non abjicit divitis voluntatem.

 

XXI - Coloro che dopo aver lasciato le cose grandi, sì fanno dominare da quelle piccole

Io non saprei come spiegare questo fatto ridicolo: molti hanno lasciato patrimoni e ricchezze ingenti, hanno abbandonato la vita del secolo, si sono ritirati nei monasteri, ma poi, dopo aver perduto l’ardore della prima rinuncia, si sono attaccati fortissimamente a quelle cose insignificanti alle quali non si può rinunciare del tutto, e che si trovano anche presso noi monaci.

L’attaccamento a queste cose da nulla supera la passione che ebbero un tempo per le grandi ricchezze. A costoro non gioverà nulla aver lasciato patrimoni ingenti perché hanno riversato su cose umili e spregevoli quell’affetto al quale intendevano rinunziare quando disprezzarono le prime ricchezze.

Non potendo più esercitare la loro cupidigia e la loro avarizia su cose preziose, la trasferiscono su cose da nulla: e questo dimostra che la loro vecchia passione non è morta: ha solo cambiato oggetto. Presi da esagerata premura per una stuoia, per una sporta, per una bisaccia, per un manoscritto e altre cose simili e di nessun valore, lasciano capire che sono ancora in preda alla vecchia libidine di possesso. Custodiscono e difendono queste inezie con tanto accanimento che per esse non si vergognano d’inquietarsi e perfino di litigare con qualche fratello. Costoro, per essere ancora affetti dalla febbre dell’antica cupidigia, non si accontentano di avere, nello stesso numero e nella stessa misura dei loro fratelli, quegli oggetti che le necessità del corpo rendono necessari anche ai monaci. Dimostrano l’avarizia del loro cuore anche in altro modo: o perché vogliono avere più abbondantemente degli altri gli oggetti necessari, o perché custodiscono quegli stessi oggetti con una diligenza smoderata, con spirito di avidità e di possesso, fino al punto di non permettere che altri tocchino quello che è affidato a loro ma appartiene a tutti. Mostrano di credere che la colpa dell’avarizia risiede tutta e soltanto nella preziosità dei metalli, non nello spirito di cupidigia.

Se non è permesso andare in collera per cose di gran conto, sarà permesso per le cose da nulla? Noi abbiamo lasciato le cose preziose per imparare a disprezzare più facilmente quelle vili. Che un uomo si turbi a causa di cose preziose e belle, o a causa di cose spregevoli, che differenza c’è? Certamente questa: è più degno di biasimo chi si fa schiavo di cose da nulla, dopo aver disprezzato quelle grandi.

La forma di rinuncia da noi lamentata non può ottenere la perfezione del cuore, perché sebbene iscriva il monaco nel catalogo dei poveri, non gli fa perdere la volontà del ricco.

 


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24 maggio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net