LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO

17.a CONFERENZA

SECONDA CONFERENZA DELL'ABATE GIUSEPPE

LE DECISIONI IRREVOCABILI


Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965


Indice dei capitoli

I. Una notte senza sonno.

II. Ansietà di Germano al ricordo della nostra promessa.

III. La soluzione da me proposta.

IV. Domanda dell’abate Giuseppe sulla causa delle nostre ansietà.

V. Germano espone le ragioni che c’invitano a rimanere in Egitto e quelle che ci esortano a tornare in Siria.

VI. Domanda dell’abate Giuseppe: se l’Egitto gioverà più della Siria al nostro progresso.

VII. Risposta sulla diversa formazione che si dà nell’una e nell’altra provincia.

VIII. Che gli uomini perfetti non debbano decidere nulla in forma assoluta; e se possano, senza peccato, mancare agli impegni assunti.

IX. Talvolta è meglio rompere i propri impegni che osservarli.

X. Domanda sul timore che nasceva in noi per il giuramento pronunciato in Siria.

XI. Risposta: bisogna considerare l’intenzione di colui che agisce, non l’effetto della sua azione.

XII. I buoni effetti di azioni cattive non giovano a chi le compie; ai buoni non nuoce il male che può derivare dai loro atti.

XIII. Le ragioni del nostro giuramento.

XIV. Il vecchio spiega che si può, senza peccare, dare un nuovo ordine alla propria vita, purché si faccia per un alto fine.

XV. Domanda: se possa essere senza peccato lo scandalo che i pusilli potranno prendere dalla nostra condotta.

XVI. Risposta: lo scandalo dei pusilli non può cambiare la verità delle Scritture.

XVII. I santi si son serviti della menzogna come di una medicina. -

XVIII. Obiezione: soltanto i santi dell’Antico Testamento hanno usato impunemente della menzogna.

XIX. Risposta: la facoltà di mentire non era concessa neppure nell’A. Testamento; tuttavia molti se la son presa e meritano di essere approvati.

XX. Anche gli Apostoli hanno pensato che talvolta la menzogna è utile e la verità nociva.

XXI. Se uno ci interroga sulla nostra astinenza, rimasta fino a quel momento segreta, è bene manifestarla per evitare la menzogna? È bene, accettare ciò che si era prima rifiutato?

XXII. Obiezione: bisogna nascondere l’astinenza, ma non si deve accettare ciò che si era rifiutato.

XXIII. Risposta: è irragionevole ostinarci in impegni di questo genere.

XXIV. Come l’abate Piamo volle nascondere la sua astinenza.

XXV. Testimonianza della sacra Scrittura sulle risoluzioni cambiate.

XXVI. I santi non possono essere né ostinati né duri.

XXVII. Domanda: la parola del Salmo: «Ho giurato e stabilito», è contraria alla sentenza riferita sopra?

XXVIII. Risposta: ci son casi nei quali è necessario conservare immutata la decisione presa; ce ne sono altri nei quali conviene rinunciarci, se c’è necessità di farlo.

XXIX. Come si devono rivelare i segreti.

XXX. Non bisogna per nulla impegnarci su ciò che riguarda l’uso ordinario della vita.

 

I - Una notte senza sonno

La conferenza era finita ed era sopraggiunta l’ora del silenzio notturno. L’abate Giuseppe ci condusse in una cella appartata, perché prendessimo un po’ di riposo. Ma la fiamma che la sua conferenza aveva acceso nei nostri cuori non ci permise di dormire.

Uscimmo dunque dalla cella e, allontanandoci un centinaio di passi, ci mettemmo a sedere in un luogo più ritirato. Le tenebre della notte, aggiunte alla solitudine, favorivano un colloquio segreto e intimo. Appena ci fummo seduti, l’abate Germano incominciò a sospirare.

 

II - Ansietà di Germano al ricordo della nostra promessa

Fra i sospiri così mi parlò: «Che cosa facciamo? Noi siamo attorniati da immensi pericoli, e la nostra condizione è miserrima. Il colloquio di questi santi uomini e l’esempio della loro vita è l’insegnamento più utile per il progresso nostro nella via dello spirito, ma la parola data ai nostri superiori ci obbliga a ritornare in Siria e non ci lascia liberi di scegliere quello che è più vantaggioso per noi. Con gli esempi di questi grandi uomini noi potremmo formarci ad una vita elettissima e ad un alto metodo di perfezione, se l’impegno che abbiamo preso non ci obbligasse a tornare subito al nostro monastero. E dopo il nostro ritorno — si può prevederlo — non ci sarà concesso il permesso di ritornare qui. Se invece preferiremo accontentare i nostri desideri e resteremo qui, dove andrà a finire l’osservanza del nostro giuramento? Non possiamo infatti dimenticare che, per ottenere il permesso di visitare rapidamente i santi uomini e i monasteri di questa provincia, noi giurammo ai nostri superiori che saremmo tornati presto.

Abbandonati al nostro dolore, incapaci di trovare una soluzione che provvedesse al nostro bene, manifestavamo col pianto la dura condizione in cui stavamo dibattendoci. Accusavamo la nostra naturale debolezza; era proprio per debolezza giovanile che non avevamo saputo resistere alle preghiere dei monaci di Siria e avevamo promesso di tornare presto, nonostante che il nostro ritorno fosse contrario al nostro bene. Intanto piangevamo su noi stessi, perché eravamo stati vittime di quel vizio di cui parla la sacra Scrittura: «C’è una timidezza che è motivo di peccato» (Pr 26,11: LXX).

 

III - La soluzione da me proposta

Allora io dissi: sia un consiglio del vecchio abate, anzi, sia la sua autorità a portare rimedio alle nostre ansietà. Presentiamo a lui il nostro problema e qualunque cosa egli decida, la sua parola porrà fine alle nostre angustie, come se fosse un oracolo divino piovuto dal cielo. Una risposta ricevuta dalla bocca di questo sant’uomo dobbiamo credere che ci viene come dono di Dio, sia per il merito del santo abate, sia per la sincerità della nostra fede.

Per la bontà del Signore è avvenuto più volte che uomini di gran fede ottenessero un consiglio salutare da uomini indegni, e che uomini senza fede ottenessero ugual consiglio da uomini santi. Dio infatti tenne conto, ora del merito di chi dava il consiglio, ora della fede di chi lo sollecitava.

Il santo abate Germano accettò questa proposta come se io non l’avessi pronunciata per mia iniziativa, ma per ispirazione del cielo.

Attendemmo un poco l’arrivo del vecchio all’ora della sinassi notturna, che era ormai vicina; quando venne, lo ricevemmo col saluto d’uso.

Dopo aver recitato il numero prescritto di preghiere e di salmi, ci sedemmo, secondo il costume, sulle stesse stuoie sulle quali ci eravamo distesi per dormire.

 

IV - Domanda dell’abate Giuseppe sulla causa delle nostre ansietà

Il venerabile Giuseppe ci vide molto abbattuti; e, pensando che ciò avesse le sue ragioni, si rivolse a noi con queste parole del patriarca Giuseppe: «Perché la vostra faccia è oggi così triste?» (Gen 40,7). Gli rispondemmo: Non è che noi abbiamo avuto un sogno (come il ministro imprigionato dal re egiziano), e ora ci manchi chi ce lo spieghi. Noi abbiamo passato tutta la notte senza dormire e non c’è chi possa liberarci dal peso dei nostri dubbi, eccetto che il Signore non voglia farlo per mezzo della tua prudenza.

Allora il buon vecchio, che rammentava nel nome e nella virtù l’antico patriarca ebreo, disse: «La virtù del Signore sa apprestare una medicina a tutti i pensieri dell’uomo. Esponete i vostri pensieri e in premio della vostra fede, la divina clemenza si degnerà di concedervi il rimedio, per mezzo dei miei consigli».

 

V - Germano espone le ragioni che c’invitano a rimanere in Egitto e quelle che ci esortano a tornare in Siria

Disse allora Germano: Noi credevamo che saremmo potuti tornare al nostro monastero ricolmi di gioia e di frutti spirituali, dopo l’incontro con te e altri maestri della vita monastica; pensavamo che dopo il nostro ritorno ci sarebbe stato possibile imitare — almeno modestamente — quanto avremmo potuto apprendere alla vostra scuola.

Questa è anche la promessa che ci lasciammo strappare dall’affetto dei nostri superiori, quando pensavamo che anche nel nostro primo monastero avremmo potuto imitare qualche aspetto della vostra vita e della vostra dottrina.

Ma questi pensieri che una volta ci davano tanta gioia, ora ci danno un dolore insopportabile, perché ci accorgiamo che non è possibile ottenere quel che tanto desideravamo.

Per questo ci sentiamo angustiati su due fronti. Noi, in presenza di tutti i fratelli, nella grotta santificata dalla nascita luminosa di nostro Signore dal seno della Vergine, abbiamo promesso con giuramento che saremmo presto tornati. Ma se vogliamo mantenere la promessa ci procuriamo un grave danno spirituale. Se invece, trascurando l’impegno preso, mettiamo il bene del nostro spirito al disopra del giuramento e rimaniamo in questa terra, temiamo di cadere nella colpa della menzogna e dello spergiuro.

Non possiamo neppur pensare di liberarci dalla nostra inquietudine con un espediente, per esempio quello di mantenere la promessa tornando al nostro monastero per poi ripartire subito e venire qui tra voi. È certo che un ritardo anche leggero nel mantenere la promessa è dannoso a coloro che tendono al progresso spirituale e all’acquisto delle virtù, ma come fare a mantenere la nostra promessa? Noi sappiamo che l’affetto dei nostri superiori, unito con la loro autorità, ci legherà con vincoli indissolubili e mai ci sarà dato il permesso di tornare in questa regione.

 

VI - Domanda dell’abate Giuseppe: se l’Egitto gioverà più della Siria al nostro progresso

A queste parole l’abate Giuseppe rimase silenzioso qualche istante, poi domandò: siete proprio sicuri di trovare in questi luoghi un grande aiuto al vostro spirituale progresso?

 

VII - Risposta sulla diversa formazione che si da nell’una e nell’altra provincia

Germano. Noi dobbiamo essere molto riconoscenti a coloro che ci hanno insegnato, fin dalla nostra età più fresca, a fare grandi propositi, ed hanno acceso nei nostri cuori una sete inestinguibile di perfezione, facendoci gustare la bontà che era in loro. Tuttavia, se la nostra parola merita fede, non c’è neppure da fare un confronto fra gl’insegnamenti che abbiamo ricevuto qui e quelli che ricevemmo là. Taccio della immutabile purezza della vostra vita, che noi non pensiamo soltanto frutto del vostro ideale e del sistema austero della vostra vita, ma anche beneficio speciale di questi luoghi. Noi dunque siamo certi che per riprodurre lo splendore magnifico della vostra perfezione non basta ascoltare di sfuggita i vostri insegnamenti, ma c’è bisogno dell’aiuto che può dare un soggiorno continuo qui, affinché una scuola quotidiana e molto prolungata negli anni, allontani in qualche modo la tiepidezza dai nostri cuori.

 

VIII - Che gli uomini perfetti non debbano decidere nulla in forma assoluta; e se possano senza peccato, mancare agli impegni assunti

Giuseppe. È ragionevole, è perfetto, è consentaneo con la nostra professione l’uso di mantenere ciò che abbiamo promesso. Per questo un monaco non dovrebbe mai prendere degli impegni assoluti; perché i casi sono due: o sarà costretto a mantenere la promessa fatta imprudentemente, oppure, se non la manterrà, in vista di uno scopo più alto, diventerà inadempiente alle sue promesse. Ma noi in questo momento non dobbiamo giudicare se è stato bene o no fare quella promessa; dobbiamo invece cercare la cura per uno stato di malattia. Cioè, non è tempo di stabilire quel che sarebbe stato bene fare nel primo caso, ma cercare qualche mezzo salutare per salvarvi dal naufragio e dallo scoglio che vi minaccia.

Quando non ci sono legami a costringerci, o condizioni a legarci, noi possiamo scegliere quel che più ci conviene dopo un esame attento delle varie possibilità che abbiamo. Ma quando è necessario affrontare una situazione sfavorevole in ogni senso, noi ci orienteremo in quella parte dove il danno è minore.

Ora, secondo quel che ho potuto capire dal vostro racconto, la vostra promessa vi mette in una situazione tale che dall’una e dall’altra parte dovete subire un danno rilevante. La vostra scelta perciò dovrà rivolgersi a quella parte che chiede un danno minore, o presenta un più facile modo di riparare.

Se siete convinti che la vostra vita spirituale si avvantaggerà maggiormente restando qui, che non ritornando al vostro monastero; se pensate di non poter mantenere la vostra promessa senza perdere dei grandi vantaggi, è meglio sopportare la vergogna di una menzogna, o di una promessa non mantenuta. Questo male, passato che sia, non tornerà più; non sarà per se stesso una fonte di altri peccati. Invece il ritorno ad una vita tiepida — come voi avete già fatto intendere — sarebbe causa di un danno quotidiano e senza fine [1]. È da perdonare, anzi è da lodare chi cambia una risoluzione presa con leggerezza, per abbracciare un proposito migliore. In questo caso non si manca di costanza, ma si corregge un atto sconsiderato, si rimedia a una decisione sbagliata.

Tutto quel che sono venuto esponendo si può provare con testimonianze della sacra Scrittura, la quale ci ricorda come a molti il voler mantenere le loro promesse ha prodotto la morte, a molti invece fu salutare non averle mantenute.

 

IX - Talvolta è meglio rompere i propri impegni che osservarli

Delle due verità dette qui sopra, abbiamo una riprova evidente negli esempi che ci offrono san Pietro ed Erode. L’Apostolo rinuncia a un proposito che aveva confermato con una specie di giuramento: «Tu non mi laverai i piedi in eterno» (Gv 13,8). Ma proprio per aver rinunciato al suo proposito, san Pietro merita di aver parte con Cristo nell’eternità; mentre possiamo essere certi che sarebbe stato privato della grazia della beatitudine eterna se si fosse ostinato a mantenere la sua parola.

Erode, per mantenere fede a un giuramento senza giudizio, diventò il carnefice del Precursore; il vano timore di divenire spergiuro, lo precipitò nella dannazione e nei supplizi eterni.

In ogni cosa bisogna considerare il fine e orientare a quello il nostro cammino. Se ci accorgiamo che i nostri propositi ci diventano dannosi perché ci è sopravvenuto un giudizio più illuminato, è meglio rinunciare ad un proposito dannoso e passare ad uno migliore, piuttosto che macchiarsi di peccati più gravi per volersi ostinatamente attenere a quanto avevamo deciso prima.

 

X - Domanda sul timore che nasceva in noi per il giuramento pronunciato in Siria

Germano. Se guardiamo soltanto al nostro desiderio e al progresso spirituale di cui siamo desiderosi, noi vogliamo rimanere per sempre ad edificarci in vostra compagnia. Se torneremo al nostro monastero, siamo sicuri che cadremo da un ideale così alto e la mediocrità della vita che là si conduce ci recherà anche altri danni. Però ci atterrisce anche il comando del Vangelo che dice: «Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no. Ciò che si dice in più viene dal maligno» (Mt 5,37).

Crediamo che non ci sia alcuna cosa capace di rimediare la trasgressione di un precetto così grave. Non c’è infatti possibilità che finisca bene ciò che è incominciato male.

 

XI - Risposta: bisogna considerare l'intenzione di colui che agisce, non l'effetto della sua azione

Giuseppe. In tutto — come ho già detto — non si deve considerare il risultato dell’azione, ma l’intenzione di colui che agisce. Non dobbiamo domandarci che cosa uno abbia fatto, ma con quale intenzione abbia agito. Si trovano uomini che sono stati condannati per azioni dalle quali è derivato un bene; altri invece sono arrivati alla più alta giustizia dopo essere partiti da inizi condannabili. Ai primi non ha giovato nulla la buona piega che le cose hanno preso. Animati da intenzione cattiva nel momento in cui cominciavano l’azione, a loro non si può imputare il bene che è venuto dopo, ma solo il male che intendevano produrre. Invece gli inizi condannabili non hanno nociuto ai secondi, perché essi non avevano né il disprezzo di Dio, né la volontà di fare il male: accettarono la necessità di un inizio vituperevole in vista di un fine santo e necessario.

 

XII - I buoni effetti di azioni cattive non giovano a chi le compie; ai buoni non nuoce il male che può derivare dai loro atti

Posso chiarire questi principi con esempi presi dalla sacra Scrittura. Ci poteva essere una cosa più bella e più utile a tutto l’universo, della passione salutare del Signore? Eppure essa non ha giovato, anzi ha sommamente nociuto a quel traditore che mise in moto la macchina della passione. Di lui è scritto: «Meglio sarebbe se quell’uomo non fosse mai nato» (Mt 26,24). Il valore del gesto di Giuda non si giudica dall’effetto che ne è derivato, ma dall’intenzione che egli vi pose.

Che cosa c’è di più biasimevole dell’ipocrisia e della menzogna, non solo nei confronti di un fratello o di un padre, ma anche nei confronti di un estraneo? Eppure il patriarca Giacobbe (Gen cap. 27), con la sua menzogna, non si rese colpevole e degno di condanna; anzi fu per sempre arricchito dell’eredità e della benedizione riservata al primogenito; benedizione che aveva desiderata, non già per possedere i beni della terra, ma per la fiducia di poter essere così eternamente santificato. Giuda invece non s’era proposto affatto la salvezza degli uomini, ma aveva sacrificato all’idolo dell’avarizia, quando mandò a morte il nostro comune Redentore.

L’uno e l’altro raccolsero dal loro atto il frutto che era dovuto all’intenzione, o al proposito che aveva mosso la loro volontà. Giacobbe disse una menzogna, e il giustissimo giudice lo trovò scusabile, anzi encomiabile, per il fatto che non avrebbe potuto ottenere in altro modo la benedizione dei primogeniti. Non ci fu motivo per ascrivergli a colpa un atto che era nato unicamente dal desiderio di essere benedetto. Ma lo stesso patriarca, non solo sarebbe stato ingiusto verso il fratello, avrebbe altresì ingannato suo padre e commesso un sacrilegio, qualora avesse avuto un altro mezzo per ottenere la grazia desiderata e avesse scelto quello che sappiamo, così dannoso al fratello Esaù. Vedete dunque che Dio non guarda alle conseguenze dell’atto, ma al fine che nell’agire uno persegue.

Dopo aver posto questi principi, torniamo alla questione che ci siamo proposta e di cui quanto è stato detto fin qui costituisce la premessa.

Ditemi, per favore, perché vi siete legati con quella promessa?

 

XIII - Le ragioni del nostro giuramento

Germano. Una prima ragione l’ho già detta: noi temevamo — se non avessimo promesso — di dare un dispiacere ai nostri superiori e di disobbedire ai loro comandi. La seconda ragione è questa: noi credevamo, dopo il nostro ritorno al monastero d’origine, di poter là praticare le meraviglie udite e osservate presso di voi.

 

XIV - Il vecchio spiega che si può, senza peccare, dare un nuovo ordine alla propria vita, purché si faccia per un alto fine

Giuseppe. Ho già detto più volte che soltanto l’intenzione merita all’uomo premio o condanna, secondo quella parola dell’Apostolo: «I loro pensieri, da una parte e dall’altra, li condanneranno o li difenderanno nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini» (Rm 2,15-16). E c’è poi un’altra testimonianza della Scrittura che dice: «Ecco che io vengo a raccogliere le loro opere e i loro pensieri, con tutte le nazioni e tutte le lingue» (Is 66,18).

Vedo bene che è stato il desiderio della perfezione a legarvi con quel giuramento: voi pensavate di rendervi perfetti facendo quella promessa. Ora però voi potete giudicare meglio e vi accorgete che non è possibile mantenere la promessa e giungere alle sublimi altezze della perfezione.

Non c’è dunque alcun male nel fatto che veniate meno al primo proposito, perché non vi allontanate minimamente dal fine che vi eravate proposti quando formulaste la vostra promessa. Cambiare lo strumento di lavoro non è lo stesso che abbandonare l’opera: la scelta d’una via più breve e diritta, non fa concludere che il viandante è pigro.

Applichiamo ora al caso vostro. Se correggete un proposito imprudentemente formulato, non si potrà dire che avete mancato ad un voto. Quel che si fa in vista della divina carità e per amore della pietà, «la quale ha le promesse della vita presente e della futura» (1 Tm 4,8), anche se al suo inizio ha delle apparenze meno belle, non merita alcun rimprovero, merita al contrario molti elogi.

Non c’è dunque niente di male a rompere un impegno preso sconsideratamente, purché si resti fedeli a quei propositi di santità che si erano concepiti all’inizio. Noi infatti, in tutto quel che facciamo, abbiamo uno scopo solo: offrire a Dio un cuore puro. Se giudicate facile raggiungere il vostro scopo rimanendo in questa regione, liberarvi da una promessa che vi è stata come strappata, non potrà recarvi danno. Basta che, in tal modo, voi arriviate più presto allo scopo essenziale, cioè alla purezza del cuore, che fu il motivo della vostra promessa.

 

XV - Domanda: se possa essere senza peccato lo scandalo che i pusilli potranno prendere dalla nostra condotta

Germano. I tuoi discorsi hanno una grande forza di persuasione e sono pieni di prudenza; se guardiamo a quel che tu dici non è difficile liberarci dallo scrupolo che ci dà la nostra promessa. Ma c’è una cosa che ci atterrisce: il nostro esempio potrà fornire ai deboli il pretesto per mentire, quando sapranno che si può lecitamente venir meno alla parola giurata. Eppure, ci sono parole gravi e minacciose per proibire la menzogna: «Disperdi tutti quelli che pronunziano menzogne» (Sal 5,7); e ancora: «La bocca che mentisce dà morte all’anima» (Sap 1,11).

 

XVI - Risposta: lo scandalo dei pusilli non può cambiare la verità delle Scritture

Giuseppe. Le occasioni e i motivi di perdizione non mancano mai a coloro che debbono o desiderano perdersi. Non è il caso di abbandonare o di strappare dal contesto delle sacre Scritture quelle testimonianze che animano la pravità degli eretici, induriscono gli ebrei nella loro infedeltà, condannano la boria della sapienza pagana. È necessario che religiosamente crediamo quelle testimonianze, le riteniamo saldamente e le predichiamo secondo la verità del senso letterale. Noi non possiamo — con la scusa dell’incredulità di certuni — rinnegare le «economie» o modi di agire dei profeti e dei santi, raccontati dalle Scritture. Se tacessimo, sia pure per evitare di urtare la sensibilità dei deboli, ci renderemmo colpevoli di menzogna; anzi, di sacrilegio. Bisogna invece presentare quelle testimonianze tali e quali la sacra Scrittura ce le offre, e dimostrare come in esse non ci sia nulla di contrario alla pietà.

Peraltro non riusciremmo a impedire la via della menzogna agli uomini di cattiva volontà, qualora cercassimo di negare la verità dei fatti che stiamo per citare e di quelli già citati sopra; neppure si allontanerebbero i malintenzionati dalla menzogna, se degli stessi fatti dessimo una interpretazione allegorica. E come potrebbe nuocere l’autorità delle sacre Scritture a coloro che hanno già i più potenti stimoli a peccare nella loro volontà corrotta?

 

XVII - I santi si son serviti della menzogna come di una medicina

Bisogna giudicare e usare la menzogna come si giudica e usa l’elleboro. Questo è una medicina che, se presa come rimedio a una malattia mortale, porta salvezza, presa invece fuori di estremo pericolo, causa la morte immediata.

Uomini santi e carissimi a Dio si sono serviti utilmente della menzogna e facendo così, non solo non caddero in peccato, ma giunsero alla più alta giustizia. E se è vero che la menzogna dette loro gloria, non è giusto pensare che la verità avrebbe dato loro ignominia? Incominciamo col caso di Raab (Gs cap.2 e 6). La sacra Scrittura non le riconosce alcuna virtù, dice solo che era dedita al vizio impuro. Eppure, per la menzogna con la quale nascose (anziché consegnare) gli esploratori mandati da Giosuè, meritò di essere aggregata al popolo di Dio in una benedizione eterna. Supponiamo ora che essa avesse preferito dire la verità e provvedere alla salvezza dei suoi concittadini, nessuno dubita che sarebbe incorsa, con tutta la sua famiglia, nella morte che le stava sospesa sulla testa. Oltre a ciò non sarebbe entrata nella genealogia del Salvatore, non sarebbe entrata nel catalogo dei patriarchi, non avrebbe meritato di dare la vita — attraverso le generazioni derivate da lei — al Salvatore del mondo. Opponiamo a Raab, Dalila (Gdc 16,4-21). Essa prese su di sé la sorte dei suoi concittadini e rivelò la verità che era riuscita a conoscere; la sua sorte è di eterna rovina e non lascia altro ai posteri tranne il ricordo del suo delitto.

Quando c’è un grave pericolo a dire la verità, bisogna rassegnarsi a dire il falso, pur provando nell’intimo della coscienza un umile rimorso. Ma, a parte questo caso estremo, evitiamo le menzogne come un veleno mortale. L’abbiamo già detto con l’esempio dell’elleboro: ottimo rimedio quando si prende in pericolo di vita, mentre incenerisce tutte le energie vitali se la salute è integra e inalterata.

La verità di questo principio, l’abbiamo riscontrata nel caso di Raab e di Giacobbe. Quella non sarebbe sfuggita alla morte, questo non avrebbe ottenuto la benedizione del primogenito senza far ricorso ad una menzogna.

Dio non esamina e giudica soltanto le nostre parole e i nostri atti, ma considera anche la nostra volontà e le nostre intenzioni. Quando ci vede fare o promettere qualcosa in vista della nostra salvezza eterna — anche se la nostra condotta ha davanti agli uomini qualche aspetto di durezza e d’ingiustizia — guarda i sentimenti di religione che sono al fondo del nostro cuore; non ci giudica secondo il suono delle parole, ma secondo l’intenzione della volontà.

Il fine dell’atto e le disposizioni di chi lo compie sono gli elementi veramente importanti. Perciò, come abbiamo già detto prima, può avvenire che uno ottenga la grazia del Signore mentendo, mentre un altro può cadere nel peccato che lo porta alla dannazione eterna, dicendo la verità [2].

Il patriarca Giacobbe guardava al fine del suo atto, e per questo non aveva timore di simulare il corpo peloso di suo fratello rivestendosi con peli di agnello, né temeva di obbedire a sua madre che lo incoraggiava ad agire così. Egli pensava che in tal modo avrebbe guadagnato di più che se avesse rispettato scrupolosamente la verità. Questa colpa — egli ne era sicuro — sarebbe stata subito lavata dalla benedizione paterna e, a somiglianza di una nube leggera, sarebbe stata spazzata via dal soffio dello Spirito Santo. Insomma: egli pensò che da questa menzogna avrebbe potuto ritrarre più merito che dal suo amore riconfermato per la verità.

XVIII - Obiezione: soltanto i santi dell’Antico Testamento hanno usato impunemente la menzogna

Germano. Non fa meraviglia che nell’Antico Testamento ci sia stato chi ha mancato di sincerità e ha meritato di essere approvato; neppure meraviglia che, uomini arrivati alla santità, abbiano mentito e nonostante questo siano stati lodati, o almeno scusati. Quelli erano tempi d’ignoranza nei quali si ammettevano ben altre enormità. Porterò qualche esempio.

David fuggiva Saul, e al Sacerdote Abimelec che gli domandava: «Perché sei solo e nessuno è con te?», non rispondeva il vero, ma diceva: «Il re mi ha dato un comando e m’ha detto: che nessuno sappia la missione per la quale tu sei mandato. Io stesso ho assegnato ai miei uomini diversi luoghi di ritrovo». E ancora: «Non hai a disposizione una lancia o una spada? Io infatti non ho preso con me la spada e le armi, perché il comando del re era urgente» (1 Sam 21,1-8).

Lo stesso David fu poi condotto davanti ad Achis re di Geth e simulò di essere pazzo: «Contraffacendo il volto al cospetto di quelli, si abbandonava tra le loro mani, andava a battere contro i battenti delle porte, s’insudiciava di saliva la bocca» (1 Sam 21,13).

Agli uomini dell’Antico Testamento era anche lecito avere una folla di mogli e di concubine, senza che per questo fossero accusati del più piccolo peccato. Oltre a ciò, essi spargevano spesso, con le loro stesse mani, il sangue dei nemici e non si pensava che questa fosse azione abominevole; veniva anzi lodata. Ma queste azioni, alla luce del Vangelo, sono tutte proibite: sarebbe un delitto mostruoso compierne anche una sola.

Noi crediamo che anche per la menzogna valga la stessa regola. Qualunque coloritura di santità si voglia darle, chi dicesse una menzogna oggi non sarebbe da approvare né da scusare, dal momento che il Signore ha detto: «Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no. Ciò che si dice in più viene dal maligno» (Mt 5,37). E san Paolo fa eco: «Non ditevi bugie a vicenda» (Col 3,9).

 

XIX - Risposta: la facoltà di mentire non era concessa neppure nell’Antico Testamento, tuttavia molti se la son presa e meritano d’essere approvati.

La molteplicità delle mogli e delle concubine fu una eccezione permessa agli antichi, ma cessò di essere necessaria quando si avvicinò la fine dei tempi e la moltiplicazione del genere umano giunse al suo termine. Allora la perfezione evangelica la soppresse. Fino alla venuta di Cristo doveva continuare ad agire la virtù della prima benedizione: «Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra» (Gen 1,28). Era però giusto che dalla radice della fecondità, messa in grande onore sotto la sinagoga per un interesse generale, spuntassero nella Chiesa i fiori della verginità angelica e nascessero i frutti soavemente profumati della continenza.

Per quanto riguarda la menzogna, invece, anche i testi dell’Antico Testamento dimostrano che era proibita. Sta scritto: «Disperdi coloro che parlano la menzogna» (Sal 5,7); e ancora: «È gustoso all’uomo il pane della menzogna, ma dopo gli si empirà la bocca di sassi» (Pr 20.17). Anche Mosè dice nella Legge: «Fuggi la menzogna» (Es 23,7). Ma abbiamo già detto che ad essa si poteva lecitamente ricorrere nel caso di necessità, o per procurare un grande bene: queste circostanze la riscattavano allora dalla condanna.

È questo il caso da voi ricordato del re David, il quale, mentre fuggiva l’ingiusta persecuzione di Saul, disse ad Abimelec parole menzognere, ma non per interesse o per nuocere a qualcuno: solo per salvarsi da una persecuzione empia. Quelle erano parole di un uomo che non voleva macchiarsi nel sangue di un re suo nemico, che Dio stesso gli aveva più volte messo nelle mani. Ma David gridava: «Dio mi sia propizio affinché io non abbia a fare una simile cosa al mio signore; di alzar la mano contro di lui, perché è l’unto del Signore» (1 Sam 24,7).

Noi non possiamo condannare e scartare questi modi di agire che l’Antico Testamento ci mostra adottati — in caso di necessità — da uomini santi. Se agirono così fu perché Dio così volle, o allo scopo di prefigurare i misteri della nostra fede, o per salvare qualche vita in pericolo. C’è di più. Noi vediamo che gli stessi Apostoli non hanno sdegnato fare altrettanto quando si è presentata la necessità.

Ma io rimando a più tardi questo argomento degli Apostoli, per spiegare qui quanto ho da dire riguardo all’Antico Testamento. Il tema sarà più opportunamente ripreso dopo, perché così farò meglio vedere come i giusti e i santi di entrambi i testamenti sono andati pienamente d’accordo a questo riguardo.

Che dire poi di quella pietosa finzione di Chusi dinanzi ad Assalonne, allo scopo di salvare David? Era ispirata unicamente dal desiderio di ingannare e raggirare, era diretta contro l’interesse di colui che aveva domandato consiglio, pur tuttavia è approvata dalla testimonianza della divina Scrittura che dice: «Ad un cenno di Dio venne sventato il consiglio utile di Achitofel, perché il Signore facesse cadere la sciagura su Alsalom» (2 Sam 20,17). Né, invero, poteva essere condannato questo modo di agire, perché era stato ispirato da intenzione retta, da un giudizio pietoso, dall’interesse di una parte per la quale militava la giustizia. Lo aveva concepito una mente religiosa, alla quale premeva che avesse a vincere l’uomo la cui pietà piaceva a Dio.

E come giudicare il gesto di quella donna che nascose i messaggeri mandati dal già nominato Chusi al re David? Li fece scendere nel pozzo, ci tirò sopra un coperchio e su quello mise l’orzo a seccare. A chi le domandava notizie rispose: «Son passati, dopo aver bevuto un po’ d’acqua» (2 Sam 20,20) e con questa bugia li salvò dalle mani di quelli che li cercavano a morte.

Rispondete, vi prego, che cosa avreste fatto, in simile circostanza, voi che vivete sotto la legge evangelica? Avreste preferito nasconderli con una menzogna e avreste detto anche voi: «Son passati dopo aver bevuto un po’ d’acqua»? Avreste così obbedito al precetto: «Libera coloro che son condotti alla morte e non indugiare a salvare quelli che son trascinati al supplizio» (Pr 24,11). O forse avreste scelto di metterli in mano ai loro nemici dicendo la verità? E allora come spiegate la parola dell’Apostolo: «Nessuno cerchi il vantaggio proprio, ma l’altrui» (1 Cor 10,24)? E ancora: «La carità non guarda alle cose proprie, ma anche a quelle degli altri» (1 Cor 13,5 e Fil 2,4). Lo stesso Apostolo dice poi di se stesso: «Non cerco il mio vantaggio, ma quello di molti, affinché siano salvi» (1 Cor 10,33).

Se cerchiamo solo il nostro vantaggio e vogliamo ostinatamente ritenere quel che è utile per noi, anche in casi così gravi bisognerà dire la verità e farci responsabili della morte di altri. Se invece, in conformità al comando dell’Apostolo, preferiamo il bene degli altri alla nostra utilità personale, bisognerà senza dubbio dire qualche menzogna. Non avremo una carità perfetta, non cercheremo il bene degli altri — come l’Apostolo ci comanda di fare — se non allenteremo un poco le esigenze della nostra vita austera e del nostro ideale di perfezione, per accondiscendere con cuore sensibile al bene degli altri, per diventare — sull’esempio di san Paolo — deboli, allo scopo di guadagnarli a Cristo.

 

XX - Anche gli Apostoli hanno pensato che talvolta la menzogna è utile e la verità nociva

Istruiti dagli esempi che noi abbiamo richiamati, il beato apostolo Giacomo e gli altri capi della Chiesa primitiva, esortarono san Paolo a scendere fino alla finzione e alla simulazione, per non urtare la fragilità dei deboli. Lo obbligarono perfino a sottomettersi alle purificazioni legali, a radersi la testa, ad offrire voti [3].

Quei santi uomini non tennero alcun conto della sconvenienza di una tale finzione, guardarono soltanto ai vantaggi che sarebbero derivati dal suo lungo apostolato. Dal voler rimanere assolutamente fedele al principio, l’Apostolo avrebbe guadagnato soltanto morte per sé e danno per i pagani. Quel danno sarebbe ricaduto su tutta la Chiesa, qualora una finzione utile e salutare non avesse conservato l’Apostolo per la predicazione del Vangelo.

Si è dunque scusati se acconsentiamo ad una menzogna quando ci sia necessità di fare così; nell’occasione, per esempio, in cui la manifestazione della verità potrebbe arrecare un danno più grande: danno compensato dal bene che viene dalla finzione.

Lo stesso Apostolo fa notare di aver sempre osservato questa regola e di averla adottata dovunque; dice infatti: «Mi son fatto coi giudei giudeo, con quelli sottoposti alla Legge, come se fossi sotto la Legge, mentre non lo sono, e ciò per guadagnare tutti quelli che son sottoposti alla Legge. E con quelli senza Legge mi son fatto quasi senza Legge, non essendo affatto senza la Legge di Dio ed essendo anzi nella Legge di Cristo; e ciò per guadagnare quelli che sono senza Legge. Mi son fatto debole coi deboli, per guadagnare i deboli; mi faccio ogni cosa a tutti perché tutti io salvi» (1 Cor 9,20-22).

Che cosa vuol dimostrare se non questo: che egli si è sempre piegato verso la debolezza di coloro che doveva evangelizzare; che s’è portato alla loro misura, facendo piegare il rigore della perfezione? Invece di attenersi alle strette esigenze dell’ideale, ha fatto passare al primo posto le necessità delle anime deboli.

Ma guardiamo i fatti con più attenzione e consideriamo a una a una le forme della virtù dell’Apostolo. Qualcuno potrebbe domandare: come si dimostra che l’Apostolo ha saputo farsi tutto a tutti? Dov’è che si è fatto giudeo coi giudei? Questo avvenne il giorno in cui, pur tenendo in fondo al cuore quel principio enunciato nella lettera ai Galati, «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla» (Gal 5,2), tuttavia fece circoncidere Timoteo e accettò in qualche modo le forme della superstizione giudaica.

E quand’è che egli è vissuto con quelli che erano sotto la Legge, come se egli stesso fosse stato sotto la Legge? Quando Giacomo e gli anziani della Chiesa di Gerusalemme, per timore che la folla dei giudei, anzi dei cristiani giudaizzanti, si scagliasse contro di lui — dato che avevano abbracciato la fede di Cristo con la convinzione di rimanere ancora obbligati alle cerimonie legali — gli dissero, a modo di consiglio e allo scopo di evitargli un pericolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si son convertite alla fede: ma tutti sono zelanti della Legge. Or essi hanno udito che tu insegni a tutti i giudei che sono tra i gentili, a staccarsi da Mosè, dicendo di non circoncidere i figlioli, e di non vivere più secondo la consuetudine». E più avanti: «Fa’ dunque così come ti diciamo: son presso di noi quattro uomini che hanno fatto voto; prendili con te e purificati con essi, pagando per loro perché si radano il capo; così tutti sapranno che son false le cose udite intorno a te, e anche tu cammini nell’osservanza della Legge» (At 21,20-24). Così, per la salvezza di coloro che erano sotto la Legge, rinunciò per un istante a quel rigore che gli aveva fatto dire: «Io per la Legge sono morto alla Legge, per vivere a Dio» (Gal 2,19), e si persuase a radersi la testa, a subire le purificazioni legali, ad offrire voti nel tempio, secondo il rito prescritto da Mosè. Ma voi domanderete: quando è che l’Apostolo si è fatto come uno senza Legge, per salvare coloro che non possedevano la Legge divina? Leggete l’esordio del discorso da lui pronunciato ad Atene, dove regnava l’empietà pagana.

«Passando — egli dice — ho visto i vostri idoli e un altare con questa iscrizione: al Dio ignoto (At 17,23). Così prende lo spunto per evangelizzarli proprio dalla loro superstizione; come se anch’egli fosse senza Legge, e soggiunge: «Colui che voi adorate senza conoscerlo, io vengo ad annunziare» (At 17,3). Qualche momento dopo, come se ignorasse completamente la Legge divina, l’Apostolo giunge a citare il verso d’un poeta pagano, invece di richiamarsi alla parola di Mosè o a quella di Cristo. «Come hanno detto molti dei vostri poeti, noi siamo progenie di lui» (At 17,28). L’Apostolo riferisce queste testimonianze che i suoi uditori non possono rifiutare per poi provocarli dal falso al vero. Aggiunge infatti: «Essendo noi progenie di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile all’oro, all’argento, o alla pietra scolpita ad arte e con ingegno umano» (At 17,29).

Lo stesso Apostolo si fece poi debole coi deboli, quando, per condiscendenza, e non sotto forma di comando, concesse a coloro che non sapevano contenersi la facoltà di tornare alla vita coniugale; o quando ai Corinti dette a bere il latte e non osò dare un cibo solido; oppure quando affermò di essere stato tra loro nella più assoluta ansia, nel timore e nel tremore.

San Paolo si fa, inoltre, tutto a tutti, per tutti condurre a salvezza, quando dice: «Chi mangia non disprezzi colui che non mangia; e chi non mangia non voglia giudicare chi mangia» (Rm 14,3), e ancora: «Chi dà in sposa la sua figliola fa bene, e chi non la sposa farà ancor meglio» (1 Cor 7,38). Altrove dice: «Chi è infermo che anch’io non lo sia? Chi è scandalizzato senza che io non arda?» (2 Cor 11,29). Così egli mette in pratica quanto comandava ai Corinti: «Non siate d’inciampo né ai giudei, né ai gentili, né alla Chiesa di Dio. Nel modo che anch’io cerco di compiacere a tutti non cercando il mio vantaggio, ma quello di molti, affinché siano salvi» (1 Cor 10,32-33).

Certo sarebbe stato preferibile per lui non circoncidere Timoteo, non radersi la testa, non sottomettersi alle purificazioni giudaiche, non andare a piedi nudi, non offrire voti secondo la Legge. Tuttavia si assoggettò a tutto questo perché non cercava la sua personale utilità, ma quella dei molti. Ma benché abbia agito così per piacere al Signore, non si potrebbe affermare che la simulazione sia stata aliena alla sua condotta. Colui che era morto alla Legge mosaica, dopo aver accettato la Legge di Cristo, come poteva sottomettersi con cuore sincero alle prescrizioni della Legge? Non era suo il proposito di voler vivere unito a quel Dio che giudicava un pregiudizio la giustizia legale praticata fino ad allora irreprensibilmente? Non era lui che stimava immondezza la giustizia legale, pur di guadagnare Cristo? Non si può pensare che colui il quale aveva detto: «Se le cose che ho distrutto di nuovo le edifico, mi fo da me stesso prevaricatore» (Gal 2,18), sia caduto proprio nella colpa condannato.

L’affermazione secondo la quale non vale l’azione in se stessa, ma valgono le disposizioni di colui che la compie, è tanto vera che si trovano casi in cui la verità ha recato danno e la menzogna ha recato vantaggi. Eccone qualche esempio: il re Saul si lamentava davanti ai suoi servi che David fosse riuscito a fuggire: «Darà a voi tutti, il figlio di Isai, campi e vigne e vi costituirà tutti tribuni e centurioni? Vedo che tutti avete congiurato contro di me e non v’è nessuno che mi avverta» (1 Sam 22,7-9).

Doeg l’idumeo, che altro rispose al re se non la verità? «Ho visto il figlio di Isai in Nobe presso il sacerdote Abimelech figlio di Achitol. Questi consultò per lui il Signore, lo fornì di cibi e gli consegnò anche la spada di Golia il filisteo» (1 Sam 22,9-10). Per questa verità Doeg si meritò di essere sradicato dalla terra dei viventi, e di lui il profeta ha detto: «Dio ti abbatterà per sempre: ti strapperà via, ti scaccerà dalla tua tenda, ti sradicherà dalla terra dei viventi» (Sal 52 (51), 7). Ecco che Doeg, per aver detto la verità, è sradicato da quella terra in cui Raab, la peccatrice, s’è vista trapiantata con tutta la sua famiglia, per aver detto una bugia [4]. Ricordiamo anche che Sansone rivelò con suo grande danno la verità all’empia moglie, quella stessa verità che prima le aveva tenuta nascosta con la menzogna. Per avere imprudentemente detto il vero fu preso al laccio. Aveva infatti dimenticato l’ammonimento del profeta: «Con colei che dorme sul tuo seno, guarda bene di non aprir la bocca» (Mi 7,5).

 

XXI - Se uno c’interroga sulla nostra astinenza, rimasta fino a quel momento segreta, è bene manifestarla per evitare la menzogna? È bene accettare ciò che si era prima rifiutato?

Ecco qualche altro esempio preso dalle inevitabili difficoltà in cui ci troviamo ogni giorno. Per quanto siamo attenti, è impossibile prevedere questi casi difficili in modo tale da poterli evitare completamente.

Supponiamo di aver stabilito di rimandare al giorno seguente la nostra refezione: ecco che verso sera arriva un fratello e ci domanda se abbiamo preso il consueto cibo. Come rispondere? Io lo domando a voi. Dovremo tacere il nostro digiuno e nascondere la nostra astinenza, oppure dovremo rivelare l’astinenza e dire la verità? Se noi nascondiamo la mortificazione, allo scopo di obbedire al comando del Signore che dice: «Non sia manifesto agli occhi degli uomini che voi digiunate, ma solo agli occhi del Padre vostro che vede nel segreto» (Mt 6,18); oppure: «La tua mano sinistra non sappia quello che fa la destra» (Mt 6,3), noi ci rendiamo colpevoli di menzogna. Se, al contrario, manifestiamo il nostro digiuno, incontriamo giustamente la condanna della sentenza evangelica: «In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro mercede» (Mt 6,2).

Supponiamo ancora che un fratello, tutto lieto per il nostro arrivo ci offre da bere e ci preghi di accettarlo. È lecito ricusarlo perché ci siamo proposti di non bere alcunché? E se il fratello s’inginocchia davanti a noi e ci scongiura perché è convinto di soddisfare così ai suoi doveri di carità, che cosa è meglio fare? Cedere alle pressioni affettuose, o rimanere inflessibili nel proposito e tener fede a quanto si era stabilito?

 

XXII - Obiezione: bisogna nascondere l’astinenza, ma non si deve accettare ciò che si era rifiutato

Germano. Nel primo esempio addotto ci pare fuor di dubbio che sia meglio nascondere la propria astinenza piuttosto che rivelarla a chi c’interroga, e in casi come questo conveniamo che è inevitabile dire una menzogna. Ma nel secondo degli esempi addotti, non vediamo alcuna necessità di mentire. Prima di tutto possiamo ricusare quello che il fratello offre senza esserci legati con un vincolo di promessa, secondariamente, dopo aver rifiutato la prima offerta, possiamo rimanere immobili nella nostra sentenza.

 

XXIII - Risposta: è irragionevole ostinarci in impegni di questo genere

Giuseppe. Ma promesse di questo genere sono in uso presso quei monasteri nei quali voi dite d’aver fatto le prime esperienze di vita religiosa. Coloro che là son maestri hanno per consuetudine di preferire la loro volontà al bene spirituale dei fratelli. Quello che uno ha stabilito, lo esegue con una ostinazione irremovibile. Presso i nostri anziani le cose andavano diversamente. Quegli uomini che ebbero tanta fede da ottenere miracoli come quelli degli Apostoli, si comportavano in tutto con giudizio e discernimento, piuttosto che con ostinazione. Ai loro occhi, chi accondiscendeva alle debolezze degli altri, otteneva più gran merito di chi si ostinasse nella sua risoluzione. Essi dissero che era segno di più alta virtù nascondere la propria astinenza con una umile menzogna, che non manifestarla con una orgogliosa verità.

 

XXIV - Come l’abate Piamo volle nascondere la sua astinenza

Un fratello offri una volta un grappolo d’uva e un po’ di vino all’abate Piamo, il quale da venticinque anni non aveva assaggiato simili cose. Anziché lasciar conoscere una astinenza che nessuno sapeva, l’abate accettò senza esitazione e subito si mise a gustar ciò che gli era stato offerto.

Ecco un’altra cosa che io ho visto fare con la massima naturalezza ai nostri Anziani. Era necessario, per l’istruzione dei giovani monaci, parlare pubblicamente delle meraviglie da loro operate e riferire le loro personali azioni, ma essi si difendevano nella loro virtù narrando tutto sotto diverso nome. Come si fa a non vedere in questo modo di agire una menzogna manifesta? Tuttavia, se per grazia del Signore ci fosse nella mia vita qualche fatto che meritasse di essere proposto ai giovani come mezzo atto ad eccitare la loro fede, io non avrei scrupolo a seguire l’esempio degli Anziani. È meglio far ricorso a questo artificio del linguaggio e dire una menzogna, che tacere qualcosa che potrebbe edificare il prossimo, oppure cadere in una vana e fatale superbia, col pretesto di restar fedeli alla verità, anche quando ciò sia irragionevole.

L’autorità dell’Apostolo delle genti c’insegna chiaramente a seguire questa via; infatti, dovendo parlare della grandezza delle sue rivelazioni, ha scelto di farlo sotto altro nome: «Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa — o sia corporalmente non lo so, o sia senza corpo non lo so, lo sa Dio — un uomo siffatto fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo fu rapito in paradiso e udì parole ineffabili che non è lecito ad uomo di proferire» [5].

 

XXV - Testimonianza della sacra Scrittura sulle risoluzioni cambiate

Non è possibile riportare tutti gli esempi che fanno al caso nostro, neppure trattandone brevemente. Chi potrebbe enumerare i patriarchi (quasi tutti da mettere nella lista) e gli innumerevoli santi, i quali, o per salvare la loro vita, o per il desiderio d’ottenere una benedizione, o per un sentimento di misericordia, o per tener nascosto qualche segreto, chi per sentimento di zelo verso Dio, chi per il desiderio di scoprire la verità, hanno preso — se così posso dire — il patrocinio della menzogna? Ma se è impossibile enumerare tutti quei fatti, non si possono neppure passar tutti sotto silenzio.

L’affetto fraterno spinse il patriarca Giuseppe ad imputare ai suoi fratelli un delitto inesistente, giurando anche per la vita del re: «Voi siete spie e siete venuti per vedere i punti meno difesi della regione» (Gen 42,9). E più avanti: «Mandate uno di voi che conduca qui il fratello minore; voi intanto rimarrete prigionieri fintantoché non si accerti se è vero o no quel che avete detto; se no, per la salute del faraone, voi siete davvero spie» (Gen 42,16). Se Giuseppe non avesse atterrito i fratelli con questa menzogna pietosa, non avrebbe potuto rivedere suo padre e il suo giovane fratello, né nutrirli nelle angustie di quella terribile carestia; né avrebbe potuto purificare la coscienza dei fratelli dalla colpa di averlo venduto. Perciò egli non è da condannare per aver ispirato timore ai fratelli per mezzo di una menzogna, ma è piuttosto da lodare e proclamare santo per aver condotto a un pentimento salutare — proprio con l’aiuto di queste finte minacce — coloro che un tempo erano stati i suoi nemici e l’avevano venduto.

Guardate i fratelli di Giuseppe sotto l’accusa che li ha colpiti: ciò che li tormenta non è la colpa falsamente imputata, ma il rimorso di un’altra grave colpa che hanno commesso veramente. «È giusto — si dicevano l’uno con l’altro — che ora soffriamo; perché peccammo contro il nostro fratello, quando egli si raccomandava a noi, e noi, vedendo l’angoscia dell’anima sua, non gli demmo ascolto; per questo ci è ora venuta addosso questa tribolazione» (Gen 42,21). E questa confessione, con la sua umiltà, espiò non soltanto il grande peccato commesso nei confronti del fratello trattato da loro con crudeltà disumana, ma espiò anche il peccato davanti a Dio.

È necessario ricordare Salomone? Egli, fin dal primo giudizio, manifestò il dono della sapienza ricevuta da Dio, per mezzo di una menzogna. Per far uscire la verità dalla menzogna di una donna, ricorse anche lui, molto astutamente, all’aiuto della menzogna: «Portatemi una spada — disse — e dividete il fanciullo in due parti; poi datene metà a una e metà all’altra delle due madri» (1 Re 3,24-25). Questa finta crudeltà commosse le viscere della madre vera, mentre la madre falsa applaudiva; e questo fu il segno atteso dalla mente saggia del re per conoscere la verità. Allora quello pronunciò la sentenza che tutti credono ispirata da Dio: «Date a costei il bambino vivo e non si uccida, poiché costei è la vera madre» (1 Re 3,27).

Andiamo avanti. Noi non abbiamo né il dovere, né la possibilità di compiere tutto ciò che decidiamo, sia che la nostra decisione sia stata presa in un momento di collera, sia in un momento di commozione. Tutto questo ci è insegnato dalla sacra Scrittura con testimonianze molto abbondanti. Spesso infatti leggiamo che i santi, o gli angeli, o l’Onnipotente in persona, hanno cambiato una decisione precedentemente presa.

Il beato David prende una decisione e s’impegna a mantenerla col giuramento: «Che Iddio faccia questo e peggio ai nemici di David, se di tutto quel che appartiene a Nabal lascerò fino a domani mattina, sia pure uno solo di sesso maschile» (1 Sam 25,22). Ma poi, per intercessione di Abigail, moglie di Nabal, David preferì apparire trasgressore dei suoi propositi piuttosto che mantenersi fedele al giuramento con un atto di crudeltà. «Sia ringraziato il Signore d’Israele — egli disse — se tu non fossi venuta così presto incontro a me, prima di domani a Nabal non sarebbe rimasto neppure uno di discendenza maschile» (1 Sam 25,34).

Noi pensiamo che David non è da imitare nella facilità a fare giuramenti temerari in stato di turbamento mentale, ma siamo invece convinti che è bene seguirlo quando egli stabilisce di rivedere e correggere il primo proposito.

Paolo, il vaso d’elezione, scrive ai Corinti e promette senza condizione che tornerà tra loro: «Io verrò tra voi quando avrò attraversato la Macedonia: perché traverserò la Macedonia, e da voi forse rimarrò e anche svernerò, affinché mi accompagniate dovunque avrò da andare. Non voglio vedervi solo di passaggio; spero anzi di passare qualche tempo con voi se il Signore me lo permette» (2 Cor 16, 5-7). Di questo suo viaggio l’Apostolo parla anche nella seconda lettera: «In questa fiducia volevo prima venir da voi, affinché aveste una seconda grazia: e attraverso il vostro paese poi passar nella Macedonia, e di nuovo di là tornar da voi, per far coi vostri auguri il viaggio verso la Giudea» (2 Cor 1,15-16).

Ma poi sopravvenne un altro miglior consiglio e l’Apostolo non stette a discutere ciò che aveva promesso come egli stesso confessa nella maniera più chiara: «Avendo questa intenzione, ho forse agito con leggerezza? Forse che ciò che voglio lo voglio secondo la carne, in modo che sia in me il ”sì” e il ”no”»?

Infine dichiara con giuramento perché ha preferito mancare alla parola piuttosto che esser causa di dolore con la sua visita: «Io chiamo Dio a testimone dell’anima mia che al fine di risparmiarvi non sono più venuto a Corinto. Ho deciso con me stesso di non venire di nuovo da voi in tristezza» (2 Cor 1,23; 2,1).

Gli angeli rifiutarono di entrare in casa di Lot a Sodoma e dissero: «Non entreremo, ma passeremo la notte in piazza» (Gen 19,2). Ma subito, vinti dalle sue insistenze, cambiano parere; la sacra Scrittura aggiunge: «Egli li obbligò ad entrare in città prendendo stanza da lui» (Gen 19,3).

Ora io osservo: o quei due angeli sapevano che avrebbero alloggiato presso Lot, e allora il rifiuto opposto all’invito era una finzione, oppure rifiutarono sinceramente; nel qual caso bisogna ammettere che mutarono parere.

Secondo me lo Spirito Santo, inserendo questi versetti nei libri sacri, non ha avuto altro scopo che quello di istruirci, per mezzo di questi esempi, a non essere ostinati nelle nostre decisioni, ma a tenerle sotto il dominio della nostra libertà. Così il nostro giudizio, libero e sciolto da ogni obbligo, sarà ognora pronto a seguire quel partito che si manifesterà migliore, e ciò senza resistenza e senza timori. Sarà facile orientarsi in quella parte che il giudizio avrà riconosciuto come la migliore.

E ora cerchiamo più in alto i nostri esempi. Il re Ezechia giace in letto gravemente ammalato. Il profeta Isaia gli si presenta nel nome del Signore e dice: «Ecco quel che dice il Signore: Metti ordine alle cose della tua casa, poiché tu morrai e non vivrai. Ezechia, rivolta la faccia verso la parete, pregò il Signore dicendo: ti supplico o Signore, ricordati come io ho camminato al tuo cospetto nella verità e con cuore perfetto, e ho sempre fatto ciò che è bene dinanzi a te. Poi Ezechia pianse dirottamente» (2 Re 20,1-3). Dopo ciò, dice il Signore allo stesso profeta: «Torna indietro e dì ad Ezechia capo del mio popolo: il Signore Dio di David tuo padre dice queste cose: ho udita la tua preghiera e ho viste le tue lacrime; ed ecco che ti ho guarito e fra tre giorni salirai alla casa del Signore. Prolungherò la tua vita di quindici anni; di più libererò te e questa città dalle mani del re d’Assiria, e proteggerò questa città per amor mio e per amor di David mio servo» (2 Re 20,5-6).

Quale testimonianza potrebbe essere più eloquente di questa? col suo sguardo di misericordia e di bontà, il Signore sceglie di render vana la sua parola, di prolungare per quindici anni al di là del termine stabilito la vita di colui che lo prega, piuttosto che esser ritenuto inesorabile nel mantenere immutato il suo decreto.

Anche contro Ninive risuona la minaccia della condanna divina: «Ancora tre giorni, e poi Ninive sarà distrutta!» (Gn 3,4). Ma poi la penitenza e il digiuno dei niniviti piegano una sentenza così dura e assoluta e il Signore s’inchina verso la misericordia e il perdono. Si potrà obiettare: il Signore prevedendo la conversione dei niniviti, e proprio per condurli a penitenza minacciò di rovina la loro città. Da questo seguirebbe che i superiori possono minacciare ai loro sudditi — quando ve ne sia il bisogno — pene più gravi di quelle che sarebbero intenzionati d’infliggere, e questo senza cadere nella colpa di menzogna. Se invece si dirà che Dio ha revocato questa severa condanna in considerazione della loro penitenza, secondo quelle parole d’Ezechiele: «Se avessi detto all’empio: ”tu morrai”; se poi si pentisse del suo peccato e praticasse i suoi doveri e la giustizia e restituisse il mal tolto, e si diportasse secondo i comandamenti di vita e niente sperasse di men che giusto, certo vivrà e non morrà» (Ez 33,14-15), anche in questo caso saremmo ammaestrati a non ostinarci nelle decisioni prese, ma a far succedere misericordia e clemenza alle minacce che ci aveva suggerito la necessità. Affinché non si creda che questa grazia è stata concessa ai niniviti per un privilegio particolare, il Signore protesta, per bocca di Isaia che agirà allo stesso modo sempre e con tutti; promette insomma di cambiare senza indugio la sua sentenza, tutte le volte che i nostri meriti lo richiederanno: «Io posso a un tratto dire una parola contro una nazione o contro un regno per sradicarlo, rovesciarlo e disperderlo. Ma se quella nazione si sarà pentita del suo malfatto, per cui ho pronunciato la mia parola contro di essa, anch’io mi pentirò del male che avevo deciso di farle. E posso ad un tratto dire una parola sopra una nazione e sopra un regno per edificarlo e stabilirlo. Ma se quella nazione avrà fatto ciò che è male agli occhi miei, non volendo ascoltare la mia voce, io mi pentirò del bene che avevo detto di farle» (Ger 18,7-10). E al profeta Ezechiele [6] così parla il Signore: «Non tacere alcuna parola. Potrebbe darsi che ascoltassero e si convertisse ciascuno dalla sua mala via, e che io mi penta del male che penso di far loro per la malvagità dei loro intendimenti» (Ger 26,2-3).

Questi testi sacri dicono chiaramente che non bisogna fissarsi ostinatamente sulle risoluzioni prese, ma bisogna sottometterle al governo della ragione e del giudizio, per cercare continuamente quel che è meglio e passare senza esitazione dalla parte giudicata più utile.

I giudizi di Dio, che stanno al disopra di ogni cosa, c’insegnano che la Provvidenza divina, pur prevedendo la fine di tutte le cose fin dalla loro origine, si conforma tuttavia all’ordine e alla ragione comune e in certo modo ai sentimenti umani. Perciò Dio non si fa guidare dalla sua onnipotenza o dalle idee ineffabili della sua prescienza quando giudica su tutte le cose, quando allontana o attira qualcuno, quando dona o ritrae la sua grazia; no: egli giudica secondo le azioni presenti degli uomini.

L’elezione di Saul è la riprova di quanto abbiamo detto. Dio, che per la sua prescienza non poteva ignorare la sua fine deplorevole, lo scelse fra tante migliaia d’israeliti e gli dette l’unzione regale; ricompensò i meriti della sua vita presente, senza guardare al demerito della sua prevaricazione futura. Dopo che Saul ebbe peccato, quasi si pentisse di averlo scelto, Dio si lamentò di lui con parole e sentimenti alla maniera umana: «Io mi pento di aver costituito re Saul, perché mi ha abbandonato e non ha eseguito i miei ordini» (1 Sam 15,11). E ancora: «Samuele piangeva per Saul, perché il Signore s’era pentito d’averlo costituito re sopra Israele» (1 Sam 15,35).

La condotta tenuta con Saul, Dio protesta per bocca del profeta Ezechiele, di volerla tenere con tutti gli uomini e in ogni giorno: «Quand’anche avessi detto al giusto che viva, ed egli fidandosi nella sua giustizia commettesse l’iniquità, tutte le sue opere di giustizia saranno messe in dimenticanza, e nell’iniquità che ha commesso, in essa morrà. E se avessi detto all’empio: tu morrai; se poi si pentisse del suo peccato e praticasse i suoi doveri e la giustizia e restituisse, quell’empio, il pegno e il mal tolto, e si diportasse secondo i comandamenti di vita, e niente operasse di men che giusto, certo vivrà e non morrà. Tutti i peccati che avrà commesso non gli saranno imputati» (Ez 33,13-16).

Ancora un esempio. Il Signore ritrae il suo sguardo da quel popolo che ha fatto suo fra tutte le nazioni; se n’è allontanato a causa di una improvvisa prevaricazione. Ma in favore del popolo interviene Mosè e grida: «Ti supplico: questo popolo ha commesso un peccato enorme, facendosi degli Dei d’oro; o perdona loro questo peccato, o, se non vuoi farlo, cancella me dal libro da te scritto. Rispose Dio: Io cancellerò dal mio libro chi avrà peccato contro di me» (Es 32,31-33).

Anche David, parlando in spirito profetico, chiede che Giuda e i persecutori di Cristo siano cancellati dal libro dei viventi (Sal 69 (68), 29). In Giuda, poi, la maledizione profetica si compì; infatti, dopo aver commesso il delitto del tradimento, s’impiccò, affinché non gli fosse possibile — dopo che ne era stato cancellato per la sua colpa — esser nuovamente scritto in cielo, nel numero dei giusti. Non è infatti da mettere in dubbio che al momento in cui fu chiamato da Cristo e ricevette l’onore dell’apostolato, anche il nome di Giuda era scritto in cielo; non si può neppure negare che anche a lui, come agli altri apostoli, erano indirizzate le parole di Cristo: «Non vi rallegrate perché vi stanno soggetti gli spiriti; ma rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20). Ma la peste dell’avarizia lo corruppe, e dal cielo — dove era scritto — lo precipitò a terra. Giustamente il profeta dice di lui e dei suoi simili: «Tutti quelli che ti abbandonano saranno confusi, coloro che si ritirano da te saranno scritti sulla terra, perché hanno abbandonato la vena delle vive sorgenti, il Signore» (Ger 17,13). E ancora: «Nell’adunanza del popolo mio non compariranno e nell’albo della casa d’Israele non saranno scritti, e non entreranno nella terra d’Israele» (Ez 13,9).

 

XXVI - I santi non possono essere né ostinati né duri

Non dobbiamo neppur tacere un comando assai utile, che è questo: allorché, sotto lo stimolo dell’ira o di qualche altra passione, ci siamo legati con qualche giuramento — la qual cosa non dovrebbe mai capitare ad un monaco — bisogna considerare con giudizio spassionato le due possibilità che ci stanno dinanzi: paragonare quel che abbiamo stabilito, con quel che le circostanze ci spingono a fare e poi fare quella scelta che un esame più conforme alla ragione illuminata ci avrà mostrato conveniente. È meglio mancare alle parole che perdere qualcosa di buono e di grandemente vantaggioso alla nostra salute spirituale. Per parte mia, io non ricordo alcuno dei nostri Padri, così prudenti e sperimentati, il quale si sia mostrato irremovibile in questa sorta d’impegni. Come la cera si ammorbidisce al fuoco, così quelli cedevano alla ragione, e quando si apriva una via più salutare davanti a loro, la imboccavano senza timore.

Quanto poi a coloro che vediamo ostinarsi nelle loro decisioni, abbiamo sempre visto che scarseggiavano di giudizio e di discrezione.

 

XXVII - Domanda: la parola del Salmo: "Ho giurato e stabilito", è contraria alla sentenza riferita sopra?

Germano — Se si accetta la dottrina da te esposta con tanta chiarezza ed eloquenza, il monaco non deve mai impegnarsi in nulla per non correre pericolo di esser giudicato infedele o cocciuto. E allora che ne faremo di quel versetto del Salmo che dice: «Ho giurato ed ho stabilito di osservare i giudizi della tua giustizia?» (Sal 119 (118), 106). Che cos’altro significa questo «giurare» e «stabilire», se non la volontà di rimanere irremovibili nei propri impegni?

 

XXVIII - Risposta: ci son casi nei quali è necessario conservare immutata la decisione presa; ce ne sono altri nei quali conviene rinunciarci, se c’è necessità di farlo

Giuseppe — Io non intendo parlare dei comandamenti principali, senza i quali è impossibile la salvezza eterna; mi riferisco a quelle situazioni che noi possiamo scegliere o lasciare senza pericolo per il nostro stato. Si tratta — per fare qualche esempio — del rigore ininterrotto del digiuno, dell’astinenza perpetua dal vino e dall’olio, del proposito di non uscir mai dalla cella, della lettura e della meditazione incessante. Tutti questi sono esercizi che un monaco può osservare a suo piacimento o anche tralasciare, senza che ne soffrano la nostra professione e il nostro ideale di vita.

Per quanto riguarda l’osservanza dei comandamenti principali è necessaria una fedeltà a tutta prova, quando ciò fosse necessario: a proposito di tali comandamenti è giusto dire: «ho giurato e ho stabilito». Tale è il nostro dovere quando si tratta di conservare la carità. Per essa dobbiamo esser pronti a disprezzare qualsiasi cosa, affinché rimanga intatta nella sua tranquillità e nella sua perfezione. Allo stesso modo è utile giurare per mantenere illibata la castità; non altrimenti conviene fare per la fede, per la sobrietà, per la giustizia. Queste virtù debbono esser conservate con una perseveranza che non viene mai meno. Allontanarsene, anche se per poco, è dannoso. Ma per quanto riguarda gli esercizi corporali, dei quali è detto che sono utili fino a un certo punto (Cfr. 1 Tm 4,8), il nostro impegno non deve essere assoluto. Se sopraggiunge un’occasione la quale dimostri che a lasciarli c’è un frutto di maggior pietà, non dobbiamo ritenerci obbligati a seguirli, ma dobbiamo lasciarli tranquillamente, per rivolgerci a cose di maggior profitto. Lasciare quegli esercizi per qualche tempo non importa alcun pericolo, mentre invece è colpa mortale allontanarsi dai comandamenti più gravi, anche per un solo momento.

 

XXIX - Come si devono rivelare i segreti

C’è un’altra cosa dalla quale bisogna stare in guardia con molta cautela. Facciamo il caso che vi sfugga una parola che desiderate tener nascosta: non inquietate colui che l’ha udita con tante raccomandazioni di tacere. Il segreto sarà custodito meglio se andrete avanti con semplicità senza dare molta importanza. Il fratello stimerà che quella cosa sia di poco conto, una parola buttata là a caso durante la conversazione, e tanto meno degna di considerazione per il fatto che colui il quale l’ha pronunciata non s’è preso la briga di raccomandare il silenzio. Così l’ascoltatore non sarà tentato di parlarne con altri. Se invece voi vi farete promettere il silenzio con giuramento, potete esser sicuri che il vostro ascoltatore sarà più che mai pronto a parlare. Il demonio si scatenerà contro di lui con più grande violenza, allo scopo di rattristare e spogliare voi, allo scopo di indurre lui a mancare al giuramento.

 

XXX - Non bisogna per nulla impegnarci su ciò che riguarda l’uso ordinario della vita

Il monaco dunque non deve prendere impegni assoluti per ciò che riguarda gli esercizi corporali, ciò per non eccitare il nemico ad attaccarlo su quel punto del quale si sarà fatto come una legge, e per non esser così indotto a cadere più presto. Colui che, trovandosi a vivere nel clima di libertà instaurato dalla grazia, si dà da se stesso una legge, si mette nelle catene di una schiavitù pericolosa. Ciò che avrebbe potuto prendere lecitamente e con azioni di grazie, anzi ciò che avrebbe potuto permettersi onoratamente, gli diventa proibito, e se la necessità l’obbligherà a prendere, non potrà farlo senza mostrarsi trasgressore e senza cadere in peccato, «poiché dove non è legge non vi è neppure trasgressione» (Rm 4,15).

I consigli e la dottrina del beato Giuseppe ci parvero un oracolo di Dio e noi, rassicurati dalle sue parole, decidemmo di rimanere in Egitto. Ma benché la nostra promessa non ci desse più scrupolo non mancammo di mantenerla sette anni dopo. Facemmo allora un rapido ritorno al nostro monastero, perché avevamo la persuasione di ottenere il permesso per tornare nel deserto. Questa visita ci consentì di rendere ai nostri superiori l’onore ad essi dovuto. In più c’è da dire che l’affetto dei nostri superiori per noi era tanto ardente da non poter esser colmato dalle molte lettere di scusa che noi mandammo. Col ritorno facemmo completamente rifiorire l’antica carità. Finalmente, liberati in pieno dallo scrupolo che ci aveva lasciato l’impegno preso e non mantenuto, riprendemmo la via verso il deserto di Scito e i nostri stessi superiori ci furono di guida in questo secondo viaggio.

Eccovi qui, o santi fratelli  [7], la scienza e la dottrina di quei Padri illustri, così come la mia ignoranza è riuscita a presentarvela. Se il mio rozzo modo d’esprimermi ci ha messo più confusione che chiarezza, vi chiedo che il mio malgarbo non diminuisca la lode dovuta ad uomini così insigni. Davanti a Dio nostro giudice io ho ritenuto più opportuno divulgare la loro dottrina — anche se con questa lingua molto pedestre — anziché tacerla. Voglio sperare che il lettore, se guarderà alla sublimità dei pensieri, non sarà ritardato dal progresso spirituale, nonostante che quei pensieri siano espressi in una forma inelegante. Quanto a me dirò che desidero più di essere utile che di esser lodato.

Avverto tutti coloro che prenderanno tra le mani questi miei opuscoli di volersi ricordare che quanto in essi si trova di piacevole appartiene ai Padri, quanto vi si trova di spiacevole appartiene a me.

 



[1] L’opinione dell’abate Giuseppe può esser sostenuta se si ammette che i due monaci, al momento in cui fecero la promessa, ignoravano una condizione essenziale; perché è noto a tutti che una tale ignoranza rende invalide le promesse. È la difesa che fa di questo capitolo della Conferenza L. Cristiani in « Cassien », Editions de Fontanelle, 1946, t. 2°, pp. 289 e ss.

Noi però notiamo che tutti i ragionamenti del nostro Autore, per ammettere la liceità di qualche menzogna, sono impacciati e inaccettabili. A proposito di tale questione rimandiamo a sant’Agostino « De mendacio » e san Tommaso 2a ae q. 11 a. 3.

[2] II nostro bravo monaco si è imbarcato in una impresa sproporzionata alle sue forze. Invece di darci una pagina di teologia, ci ha dato un monumento d’ipocrisia.

Noi rimandiamo ancora una volta a sant’Agostino e a san Tommaso per la delicata questione qui... mal trattata. Facciamo poi notare che Raab non fu giustificata per la sua menzogna, ma per la sua fede (Eb 11,31) e per l’ospitalità data agli esploratori (Gc. 2,25). Dalila non si dannò perché disse la verità, ma perché tradì suo marito e lo consegnò ai Filistei.

[3] Quanto vien detto sulle finzioni di san Paolo risponde alla tesi di Cassiano, non corrisponde però alla storia. Le lettere dell’Apostolo e il libro degli Atti dimostrano che san Paolo voleva soltanto che fosse affermata la non obbligatorietà delle prescrizioni giudaiche per i convertiti dal paganesimo. Quand’ebbe ottenuto questo risultato, non trovò difficile giudaizzare coi giudaizzanti; questo anzi apparteneva al suo programma: farsi tutto a tutti; giudeo con i giudei e gentile coi gentili, quando fossero salvi i principi della fede.

[4] Per il caso di Raab abbiamo già parlato sopra; quanto a Doeg, non è condannato per aver detto la verità, ma perché perseguitava l'innocente.

[5] 2 Cor 12,2-4 – L'esempio è scelto male, in quanto dal contesto della lettera si intende perfettamente che l'uomo di cui parla è l'Apostolo e non può essere altri che lui.

[6] Non Ezechiele, come dice erroneamente Cassiano, ma Geremia.

[7] Sono Onorato ed Eusebio, ai quali, come sappiamo dalla prefazione, è dedicata la seconda raccolta delle Conferenze.

 


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1 marzo 2020                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net