LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO

19.a CONFERENZA

CONFERENZA DELL'ABATE GIOVANNI

SUL FINE DELLA VITA CENOBITICA ED EREMITICA


Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965


 

Indice dei capitoli

I. Il monastero dell’abate Paolo. Esempio di pazienza.

II. Umiltà dell’abate Giovanni e nostra domanda.

III. L’abate Giovanni spiega perché ha lasciato il deserto.

IV. Le virtù praticate dall’abate Giovanni durante la vita anacoretica.

V. Utilità della solitudine.

VI. Utilità della vita cenobitica.

VII. Domande sui frutti prodotti dalla vita comune e da quella solitaria.

VIII. Risposta alle domande.

IX. Della perfezione vera e completa.

X. Di coloro che vanno nel deserto prima di essere giunti alla perfezione.

XI. Domanda: quali rimedi si devono applicare a coloro che hanno lasciato troppo presto i monasteri dei cenobiti.

XII. Risposta sul modo in cui il solitario può conoscere i suoi vizi.

XIII. Domanda: come potrà guarire colui che è entrato nella vita eremitica prima di essersi purificato dai vizi.

XIV. Risposta sul tema proposto.

XV. Domanda: se la castità debba essere messa alla prova al pari delle altre virtù.

XVI. Risposta: da quali segni si può riconoscere la castità.

 

I. Il monastero dell’abate Paolo. Esempio di pazienza.

Dopo pochissimi giorni, divorati dal desiderio di imparare, tornammo con grande alacrità al monastero dell’abate Paolo.

Quel monastero accoglieva di solito più di duecento monaci, ma allora — per una solennità che vi si celebrava — ne aveva richiamati moltissimi anche da altri monasteri.

La solennità a cui ho fatto cenno era l’anniversario della sepoltura dell’ultimo abate che aveva retto quel monastero.

Ho voluto far menzione di questa circostanza perché vorrei raccontare l’esempio di pazienza dato da un fratello in presenza di tutti quei monaci.

Lo so che questo episodio è fuori del mio tema. Io ho promesso di riferire gli insegnamenti dell’abate Giovanni, il quale aveva abbandonato la sua cella d’eremita per andare a vivere in quel monastero, sotto la disciplina cenobitica.

Penso tuttavia di non fare cosa fuori proposito se molto brevemente riferisco un fatto capace di edificare grandemente chiunque possiede un amore sincero della virtù. Ecco il fatto.

La turba dei monaci si era assisa per terra in gruppi di dodici, dentro un atrio immenso e senza tetto. I presenti stavano consumando il loro pasto, ma uno dei fratelli incaricati di servire i commensali arrivò con ritardo a portare il piatto. L’abate Paolo, che andava tra la schiera degli inservienti ad osservare e ad aiutare, allungò la mano e, alla presenza di tutti, lasciò andare al nostro monaco uno schiaffo così sonoro che ne sentirono il suono anche quelli che voltavano le spalle, o stavano molto distanti.

Nonostante ciò, quel giovane monaco, degno davvero di essere ricordato, accettò la prova con tanta dolcezza che nessuna parola gli uscì di bocca, né gli si mossero le labbra ad un lamento, sia pure impercettibile. Anzi, il suo aspetto modesto e sereno, il colore del volto, non subirono alcun mutamento.

Il fatto fu motivo di meraviglia a tutti, non solo per noi, che eravamo appena arrivati dal nostro monastero di Siria e non avevamo ancora imparato a conoscere, attraverso esempi così luminosi, la qualità di questa pazienza. Si meravigliarono molto anche coloro che erano abituati a simili esempi: perfino i monaci più provetti trovarono qualche cosa da imparare. Passi che la pazienza del monaco non si fosse lasciata turbare dalla correzione dell’abate, ma quel che veramente stupisce è che la vista di tutta quella moltitudine non imporporasse di vergogna le guance del poveretto.

 

II. - Umiltà dell’abate Giovanni e nostra domanda

Torniamo al nostro tema. In quel cenobio trovammo un vecchio, carico d’anni, che si chiamava Giovanni e si sollevava al disopra di tutti per la sapienza delle parole e per gli esempi di umiltà. Non è possibile tacere di lui.

Egli eccelleva nell’umiltà, che è la madre di tutte le virtù e il fondamento di tutto l’edificio spirituale. Questa virtù, ahimè, è come esiliata dai nostri monasteri, e ciò spiega perché non riusciamo a sollevarci alle altezze di perfezione cui giungevano quei santi uomini.

Non dirò che noi — a differenza dell’abate Giovanni — siamo incapaci di rimanere per tutta la vita nella disciplina cenobitica; ma quando abbiamo portato per un paio d’anni il giogo di quella disciplina, subito prendiamo il via per correre verso una libertà presuntuosa e pericolosa. E fosse poi vero che nel breve intervallo della nostra esperienza cenobitica, ci sottomettiamo ad una vera obbedienza e non riprendiamo la nostra libertà sotto uno o altro pretesto!

Quando noi vedemmo quel santo vecchio, là nel monastero dell’abate Paolo, prima di tutto ammirammo l’età e la grazia che lo circondava, poi, inchinandoci fino a terra, lo supplicammo di volerci spiegare le ragioni per le quali aveva rinunciato al deserto, alla libertà, alla professione sublime in cui si era tanto distinto, a una fama universale, per tornare al giogo della vita cenobitica.

Egli rispose che la pratica eremitica era troppo alta per lui e che si sentiva indegno di una perfezione così elevata. Per questo era ritornato alla scuola in cui si formano i novizi, e si sentiva molto felice di poterne seguire le pratiche in modo confacente all’eccellenza di questo genere di vita. L’umiltà di questa risposta ci chiamò sulle labbra molte obiezioni. Allora il vecchio monaco prese a dire così.

 

III. L'abate Giovanni spiega perché ha lasciato il deserto.

Quella vita eremitica che io con vostra grande meraviglia ho lasciato, non la respingo, né la condanno; anzi la rispetto e la stimo molto.

Dopo aver passato trent'anni in un certo cenobio, io sono stato vent’anni eremita e mi rallegro di non essere mai stato accusato di poco impegno da coloro che in quella forma di vita erano maestri. Tuttavia, dopo aver goduto le gioie dell’eremo, a poco a poco le sentii diminuire soprattutto per il sopraggiungere delle necessità corporali che mi distraevano. Allora mi sembrò conveniente ritornare ad un monastero di cenobiti, per raggiungervi meglio il fine del mio proposito e per evitare il pericolo che presenta all’umiltà una professione troppo sublime. Preferisco il fervore in una forma di vita più bassa, alla tiepidezza in una forma di vita più sublime. Perciò, se mi ascolterete dire qualche parola un po' troppo forte, o addirittura troppo libera, non vogliate pensare che provenga dal vizio della superbia, ma dal desiderio di farvi del bene. Se infatti mi tengo in dovere di nulla nascondere a uomini come voi, che sinceramente cercano la verità, è segno che non sono mosso da orgoglio ma da carità.

Io credo che potrò in qualche modo istruirvi se metterò un po' da parte l’umiltà e vi manifesterò semplicemente e sinceramente quello che fu il mio proposito. E confido che la mia sincerità non mi farà credere ammalato di vanità, mentre per altro lato, eviterò, di fronte alla mia coscienza, il rimprovero di aver mentito, o almeno di aver manipolato la verità.

 

IV. - Le virtù praticate dall’abate Giovanni durante la vita anacoretica

Se ci fu mai un monaco che si rallegrò nel segreto della solitudine e dimenticò completamente i rapporti col mondo, fino a poter dire col profeta Geremia: «ho desiderato il giorno dell’uomo» (Ger 17,16), quel monaco sono io. Sperai anche che il Signore mi facesse la grazia di rimanere sempre in questa disposizione. Mi ricordo di essere stato, per un dono della divina misericordia, rapito in estasi così sublimi da dimenticare completamente il peso di questo fragile corpo. La mia anima si liberava improvvisamente dal corpo e se ne andava così lontano dal mondo materiale che né gli occhi né le orecchie compivano più i loro normali uffici.

Lo spirito era talmente ripieno di pensieri divini e di contemplazioni celesti, che spesso non ricordavo, giunto a sera, se in quel giorno avevo toccato cibo, e il giorno seguente non sapevo decidere se il giorno prima avessi o no rotto il digiuno. Per questo motivo si suol mettere al sabato, in un prochirio, che è una piccola sporta a mano, il cibo dell’intera settimana, cioè quattordici pagnotte. In tal modo, se l’eremita si è dimenticato di mangiare può accorgersene guardando la quantità della provvista.

Ma questo uso ha un altro scopo, quello di far da calendario. Quando il pane è finito è segno che la settimana è trascorsa ed è giunta la domenica. Così l’eremita è avvertito di recarsi all’assemblea dei fratelli per celebrare la divina liturgia. Se poi l’intensità dell’estasi rende vano questo metodo di calcolo, il lavoro quotidiano offre un altro mezzo per contare i giorni ed evitare ogni errore.

Passerò sotto silenzio gli altri pregi della vita eremitica, dato che il nostro scopo non è quello di considerare gl’innumerevoli pregi del deserto, ma quello di conoscere il fine del cenobio e della solitudine. Vi spiegherò tuttavia le ragioni per cui lasciai l’eremo (voi infatti mi avete interrogato al riguardo) e dirò pure in poche parole quali più alti meriti io abbia preferito a quei frutti del deserto, di cui ho parlato prima.

 

V. - Utilità della solitudine

Finché il piccolo stuolo di coloro che abitavano nel deserto ci lasciò liberi di vagare per immense solitudini; finché, immersi in vasto segreto, ci fu facile essere spesso rapiti in estasi; finché la frequenza delle visite non venne ad apportarci preoccupazioni e noie senza numero, con l’obbligo di soddisfare ai doveri dell’ospitalità, io abbracciai con tutto l’ardore dell’anima i segreti della tranquilla solitudine, che è vita somigliante alla beatitudine degli angeli. Ma venne un tempo nel quale — come ho detto — molti monaci si trasferirono nel deserto e le solitudini, che prima erano tanto vaste, diventarono all’improvviso strette. Per questo motivo, non solo si illanguidì il fuoco della divina contemplazione, ma le preoccupazioni della vita presente ci legarono con molteplici lacci. Fu così che io preferii seguire nel miglior modo possibile la vita cenobitica, invece che snervarmi in quella professione sublime, sotto gli assalti continui delle necessità della carne. È vero che così facendo non avrei più goduto la libertà e le estasi di un tempo, ma avrei avuto la consolazione di adempiere quel comando del Signore che dice di non darsi premura per il domani. La perdita di una contemplazione tanto elevata avrebbe avuto il suo compenso nell’umiltà dell’obbedienza. A me pare una cosa inammissibile fare professione di un’arte o di una disciplina senza rendersi perfetti in essa.

 

VI. - Utilità della vita cenobitica

Ora vi dirò brevemente quanti vantaggi io trovi nella vita cenobitica. Voi stessi, a narrazione finita, giudicherete se le bellezze della vita cenobitica valgano a compensare le meraviglie già dette, a proposito della solitudine. Dalle mie parole potrete anche intendere se è stato il disgusto o il disprezzo della solitudine a persuadermi di chiudermi nell’angustia di questo cenobio.

Qui nella vita cenobitica, non c’è alcun bisogno di misurare il lavoro quotidiano, non ci son le noie del vendere e del comprare, non c’è il pensiero di procurarsi il pane per tutto l’anno, non esiste l’ansia delle cose temporali, per provvedere alle necessità proprie e a quelle dei visitatori che possono arrivare; finalmente qui non c’è alcuna ricerca di quella gloria umana che davanti a Dio è più sconveniente di tutto il resto, e talvolta rende vane tutte le grandi fatiche che si sopportano nel deserto.

Ma lasciamo da parte le tempeste di superbia e i pericoli di vana gloria che tanta parte hanno nella vita eremitica: torniamo al peso comune a tutti, che è quello di provvedere il vitto quotidiano. In questo campo, non dirò che sono stati varcati i confini dell’antica disciplina, alla quale era ignoto l’uso dell’olio, ma non si è più contenti neppur della misura introdotta in tempi di recente rilassamento. Fin qui un orciolo d’olio e uno staio di lenticchie bastavano un anno intero per far onore agli ospiti; ora si è passati ad una misura doppia e tripla, e molti si lamentano perché trovano che la misura è scarsa. Alcuni poi sono andati molto al di là di questa funesta delicatezza. Ora non si accontentano più di quella goccia d’olio che i nostri antichi (tanto superiori a noi nel rigore dell’astinenza) mescolavano con l’aceto nella salsa, allo scopo unico di evitare la vanagloria. Ecco che per soddisfare la gola, ora si spezza in due parti la forma di cacio egiziano e ci si versa olio più del necessario. Così, due cibi, fra loro diversi e che potrebbero in due tempi soddisfare delicatamente la ghiottoneria del monaco, si uniscono in una volta a soddisfare la gola.

Questa yliké ktésis, cioè questa caccia alle cose temporali, è cresciuta a tal segno che gli eremiti (lo dico arrossendo di vergogna) con la scusa dell’ospitalità e dell’accoglienza da fare ai visitatori, hanno incominciato a possedere nelle loro celle un abito di ricambio. Passerò sotto silenzio molte altre cose che son particolarmente nocive ad un’anima tutta attenta e intenta alla contemplazione spirituale: visite frequenti da parte dei confratelli, i doveri di accoglienza e di compagnia, la restituzione delle visite, il cicaleccio delle conversazioni, e il disbrigo di affari che, anche quando sono giunti a termine, continuano a distrarre l’anima con le preoccupazioni che vi lasciano. Avviene così che la libertà del deserto viene come imprigionata da queste catene. Il cuore non si innalza mai a quella gioia che abbiamo descritta, e non arriva più a godere il frutto della professione eremitica. Se quel frutto ora non è più concesso a me, che vivo in una comunità cenobitica, in mezzo ad una folla di confratelli, non mi mancano tuttavia la pace del cuore e la tranquillità di un’anima libera da qualsivoglia preoccupazione. Quelli che ora godo sono doni così preziosi che devono possederli anche coloro che vivono nel deserto; se non li avessero, praticherebbero la vita eremitica e tutti i suoi rigori, senza ricavarne alcun frutto. La solitudine giova solo quando sia accompagnata da una quiete imperturbabile dello spirito. Infine dirò che, sebbene nella vita del cenobio mi sia tolto qualcosa della purezza di cuore goduta nel deserto, trovo un compenso soddisfacente nella pratica dell’abbandono in Dio, che è grande comando del Vangelo. Tutti i vantaggi della solitudine non superano certamente quello di non aver preoccupazioni per il domani, e l’altro di potersi sottomettere continuamente alla guida di un abate, per imitare in qualche modo Colui del quale è scritto: «Si è umiliato e si è fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Posso inoltre ripetere, nella mia umiltà, le parole stesse del Signore: «Non son venuto a fare la mia volontà, ma quella del Padre che mi ha mandato» (Gv 6,38).

 

VII. - Domande sui frutti prodotti dalla vita comune e da quella solitaria

Germano. È chiaro che tu, venerabile Giovanni, non hai soltanto sperimentato gli inizi di queste due forme di vita monastica, (cosa che fanno molti) ma hai raggiunto le vette, percorrendo ambedue le vie. Vorremmo ora che tu ci spiegassi qual è il fine del cenobita, quale quello dell’eremita. Nessuno certo è più indicato, per trattare in maniera chiara e completa questo tema, di colui che una lunga pratica e gli insegnamenti dell’esperienza hanno reso perfetto nell’una e nell’altra professione. Costui può insegnare con dottrina vera e sincera il merito e il fine delle due forme di vita.

 

VIII. - Risposta alle domande

Giovanni. Sarei tentato di affermare che una stessa persona non può essere perfetta nell’una e nell’altra professione, se non ci fossero alcuni esempi — anche se molto rari — ad impedirmelo. È già cosa meravigliosa trovare uno che sia perfetto nell’una o nell’altra forma di vita; quanto più sarà difficile — se non proprio impossibile — trovare chi sia eccellente nelle due forme allo stesso tempo! Quando poi il fatto si avvera, non se ne può subito trarre una regola generale. Una qualsiasi regola generale non si fonda sull’osservazione di pochi casi, né sull’esame di alcuni fatti; si fonda invece su ciò che è possibile a molti, o, meglio ancora, a tutti. Se certi risultati sono ottenuti molto raramente e da pochissimi, se superano le possibilità comuni e sembrano concessi come doni superiori alla natura e alla fragilità umana, questi risultati non possono essere imposti come comandi generali: vanno citati più come miracolo che come esempio. Per questo io risponderò brevemente, e secondo la mia debole capacità, alla domanda che mi avete rivolto.

Il fine della vita cenobitica è quello di mortificare e crocifiggere la propria volontà; ciò senza preoccuparsi minimamente del domani, secondo il comando salutare della perfezione evangelica. Una tale perfezione non può essere raggiunta da alcuno che non sia un cenobita.

Di questo monaco il profeta Isaia tesse il seguente elogio: «Se ti asterrai dal profanare il sabato e dal trattare i tuoi interessi in quel giorno santo, se chiamerai tua delizia il sabato, e venerabili le cose del Signore; se tu lo santificherai senza seguire le tue vie, i tuoi affari preferiti e i tuoi interessi, allora potrai riporre le tue delizie nel Signore e io ti condurrò trionfante fin sulle vette del paese, ti farò godere dell’eredità di tuo padre Giacobbe. Così ha parlato la bocca del Signore» (Is 58, 13-14).

La perfezione dell’eremita, invece, consiste nell’avere l’anima sgombra da tutte le cose terresti e nell’unirsi a Cristo nella più alta misura concessa all’umana debolezza. Dell’eremita così parla il profeta Geremia: «È bene per l’uomo che porti il suo giogo fin dalla giovinezza, se ne stia solitario, in silenzio, quando il Signore lo porrà su di lui» (Lam 3, 27-28). E il salmista aggiunge: «Somiglio a un pellicano del deserto, son pari a un gufo in mezzo alle macerie. Io veglio insonne, divenuto eguale a un passero solitario sopra il tetto» (Sal 102 (101), 7-8).

Se cenobita ed eremita non giungono al fine della loro professione, secondo i caratteri da noi descritti, invano hanno rispettivamente abbracciato la disciplina cenobitica e la vita solitaria. Né l’uno né l’altro adempierà in pieno la bellezza della sua vocazione.

 

IX. - Della perfezione vera e completa

Ma quella descritta finora è una perfezione meriké, cioè non intera e non consumata: è una parte della perfezione.

È dunque vero che la perfezione totale è rara e son pochissimi quelli ai quali, Dio la concede per suo dono gratuito. È veramente e integralmente perfetto colui che sa sopportare con eguale magnanimità l’orrore della solitudine nel deserto e le debolezze dei confratelli in un monastero. Ma quanto è difficile trovare uno che sia perfettamente consumato nell’una e nell’altra professione! L’eremita, di solito, non raggiunge la perfetta actemosìne, cioè il completo disprezzo, il vero spogliamento delle cose materiali; il cenobita non raggiunge la purezza della contemplazione. Io so però che gli abati Mosè, Pafnuzio e i due Macari (d'Egitto e d'Alessandria), hanno avuto in grado perfetto l’una e l’altra virtù. Essi erano perfetti nelle due professioni. Più di tutti gli altri abitanti del deserto stavano ritirati, e si pascevano insaziabilmente del segreto della solitudine; per quanto dipendeva da loro non cercavano mai contatti col resto degli uomini. Ma nello stesso tempo sopportavano mirabilmente la presenza e la debolezza di coloro che li andavano a cercare da ogni parte, fosse per una semplice visita, fosse per essere aiutati a progredire spiritualmente. Sopportavano il continuo incomodo di queste innumerevoli visite con pazienza inalterabile, cosicché si sarebbe detto che in tutta la loro vita non avevano imparato o esercitato altro ufficio all’infuori di quello di accogliere ospiti e fare ad essi gli onori consueti. A tutti era difficile stabilire in quale professione rifulgesse meglio il loro zelo, o se la loro grandezza d’animo si adattasse di più con la purità eremitica o con la vita cenobitica.

 

X. - Di coloro che vanno nel deserto prima d’esser giunti alla perfezione

Alcuni, dopo esser vissuti a lungo nel silenzio della solitudine, diventano talmente selvatici che hanno in orrore il consorzio umano. Quando, per la visita di qualche confratello, sono staccati momentaneamente al loro abituale silenzio, ne mostrano una contrarietà evidente e danno prova sicura di pusillanimità. E questo effetto capita soprattutto in coloro che passarono troppo presto alla vita eremitica, senza essersi prima ben formati nei monasteri dei cenobiti, e senza essersi liberati dai loro antichi vizi. Costoro rimangono imperfetti nell’uno e nell’altro stato: sempre fragili, sempre pronti a cadere là dove li spinge il soffio della commozione. Quando sono nel cenobio, la compagnia e la conversazione dei confratelli li fanno ribollire di impazienza; nella solitudine, invece, non sanno sopportare l’immensità del silenzio che prima desideravano. C’è di più: essi non sanno neppure per quale scopo la solitudine dev’essere desiderata e cercata. Credono che la virtù eremitica, il colmo di questa professione, consista unicamente nell’evitare la compagnia dei confratelli, nel detestare la vista degli uomini.

 

XI. - Domanda: quali rimedi si devono applicare a coloro che hanno lasciato troppo presto i monasteri dei cenobiti

Germano. Quale rimedio potresti consigliare a noi (e ad altri deboli e sventurati come noi) che abbiamo preso la via del deserto con una formazione cenobitica insufficiente, prima d’aver estirpato tutti i nostri vizi? Come potremo imparare la costanza imperturbabile della mente, la fermezza immobile della pazienza; noi che abbiamo troppo presto abbandonato i monasteri, i quali sono scuole e palestre di tali virtù? Era là — lo comprendiamo — che dovevamo incominciare e portare a termine la nostra prima educazione. Ma ora che siamo eremiti, in qual modo possiamo raggiungere la perfezione della longanimità e della pazienza? Come può fare la coscienza che esplora i movimenti interiori, a scoprire se noi possediamo o no queste virtù? Non c’è da temere che, per essere separati dal consorzio umano e per non aver mai da sopportare qualche molestia da parte degli uomini, finiamo col persuaderci e col credere scioccamente di esser arrivati ad una irremovibile tranquillità di spirito?

 

XII. - Risposta sul modo in cui il solitario può conoscere i suoi vizi

Giovanni. A coloro che cercano sinceramente la guarigione, non possono mancare i rimedi e le cure del vero Medico delle anime. Soprattutto non possono mancare i rimedi a coloro che non disprezzano i loro mali per scoraggiamento o negligenza, che non nascondono il pericolo delle loro ferite, che non disprezzano superbamente il medicamento della penitenza, ma ricorrono con cuore umile e vigilante al Medico divino, per curare i mali che hanno contratto per ignoranza, per errore, o per necessità. Dobbiamo tuttavia ben ricordare che se ci ritiriamo nel nostro deserto, o in altri luoghi segreti, prima d’avere estirpato i nostri vizi, riusciremo ad impedire gli effetti dei vizi stessi, ma non avremo estinto la passione da cui nascono. La radice dei peccati rimane nascosta dentro di noi, anzi va crescendo continuamente, finché non l’avremo completamente estirpata. E questi sono i segni da cui si potrà giudicare che quella radice non è morta. Ecco qualche esempio. Noi stiamo nel deserto e viene un fratello che si trattiene un poco. Se non siamo capaci di sopportarlo senza un certo nervosismo, è segno che c’è ancora in noi un focolaio assai pericoloso d’impazienza.

Se invece attendiamo la visita di un confratello, e quello per un motivo qualunque ritarda, supposto che uno sdegno represso ci fomenti nel cuore, che tra noi condanniamo quel ritardo, che l’anima nostra si turbi per l’attesa non gradita: un attento esame di coscienza dovrà convincerci che le radici dell’ira e della tristezza rimangono ancora in noi. Un altro caso: un fratello ci chiede un libro per leggerlo, o qualche altra cosa per adoperarla; supposto che la sua domanda ci rattristi, o che neghiamo quanto ci è domandato, non c’è alcun dubbio che siamo legati dai lacci dell’avarizia. E ancora: un pensiero che ci sorge improvviso durante la lettura sacra porta alla memoria l’immagine di una donna; se noi proviamo qualche turbamento carnale, è segno che il fuoco della lussuria non è ancora spento nelle nostre carni. Se confrontiamo la nostra austerità con la vita facile degli altri, e un moto appena percettibile di compiacenza ci sorge nel cuore, è segno certo che siamo infetti dalla peste nefasta della superbia.

Quando scopriamo nei nostri cuori i segni di questi vizi, dobbiamo ammettere che siamo immuni dall’effetto del peccato, non già dall’affetto al peccato. E queste passioni, se ci mescoliamo un poco alla vita degli altri uomini, improvvisamente erompono dalla caverna del nostro cuore. Ecco la prova che esse non nascono nel momento in cui erompono dal nostro cuore; no: esse si manifestano in quel momento, ma dopo essere rimaste lungamente allo stato latente. In tal modo ogni eremita può scoprire, per segni sicuri, se la radice di questo o di quel vizio esiste in fondo al suo cuore. Basta che egli non ostenti la sua purezza, davanti agli uomini, ma si studi di presentarla inviolata agli occhi di Colui che vede anche i segreti più riposti del cuore.

 

XIII. - Domanda: Come potrà guarire colui che è entrato nella vita eremitica prima di essersi purificato dai vizi.

Germano. I segni dai quali si possono indovinare le nostre infermità; i metodi per discernere le nostre malattie, in parole più chiare: i modi per scoprire i vizi nascosti nel nostro intimo, li conosciamo chiaramente e facilmente. L’esperienza quotidiana, i moti che sorgono ad ogni istante nell’anima nostra, ci fanno concludere che le cose stanno proprio come tu dici. Ora rimane, venerabile Giovanni, che dopo averci scoperto in modo così chiaro la causa dei nostri mali e il mezzo per riconoscerli, tu ci mostri anche il rimedio per guarirli. Nessuno dubita che il più indicato a parlare del rimedio dei mali è colui che prima ha scoperto le loro cause e le loro fonti, e le ha scoperte in modo così chiaro da convincere della sua diagnosi gli stessi ammalati.

Il fatto che la tua beatitudine abbia scoperto le nostre più segrete magagne, ci lascia sperare che tu vorrai darci anche l’indicazione dei rimedi. Una diagnosi così chiara del male, fa sperare il suggerimento di un efficace rimedio. Tuttavia, siccome l’opera della nostra salute incomincia nella vita comune del cenobio — come hai detto prima — e le anime restano sane nel deserto, solo se la disciplina cenobitica le ha precedentemente sanate, noi siamo mortalmente feriti da un pensiero. Potremo noi, che siamo usciti dal cenobio ancora imperfetti, raggiungere la perfezione nel deserto?

 

XIV. - Risposta sul tema proposto

Giovanni. A chi desidera guarire dai suoi mali i rimedi non potranno mai mancare. Ecco: con lo stesso metodo col quale si scoprono i segni del vizio, si scoprono anche i rimedi da apportare.

Abbiamo detto che gli eremiti non sono immuni dai vizi che colpiscono la vita ordinaria degli uomini; ora dobbiamo dire che anche per coloro che vivono segregati dal consorzio umano, non mancano i mezzi per esercitarsi nella virtù e per giungere alla sanità dello spirito.

Appena un solitario, per i segni che abbiamo descritto qui sopra, si accorge di essere scosso dai fremiti dell’impazienza e dell’ira, prontamente si eserciti nei pensieri contrari. S’immagini di essere fatto bersaglio ad ogni genere d’ingiurie e di provocazioni, si abitui a sopportare con perfetta umiltà tutto ciò che l’umana malizia potrà escogitare contro di lui.

Si ponga spesso dinanzi agli occhi le prove più crudeli e insopportabili; poi — tutto pervaso da pensieri di profonda contrizione — si metta a meditare quale grande dolcezza abbia il dovere di praticare la pazienza in simile circostanza. Col pensiero rivolto ai dolori tollerati dai santi e a quelli del Signor nostro Gesù Cristo, quel monaco riconoscerà che le offese e i castighi di ogni genere sono inferiori a ciò che meriterebbe. In tal modo si preparerà a sopportare qualsiasi prova.

Supponiamo che il nostro eremita venga invitato un giorno ad un convegno di confratelli, la qual cosa, prima o poi, capita anche agli eremiti più rigorosi. Se l’invitato si accorge che il suo spirito si è turbato per questo avvenimento, (e si sarebbe evidentemente turbato per cause futili), diventi subito giudice severissimo dei suoi movimenti interiori. Si richiami immediatamente alla memoria le durissime ingiurie con la meditazione delle quali, nei giorni precedenti, si esercitava alla pazienza; condanni se stesso e, parlando a se medesimo in tono di rimprovero, dica così: sei tu quel brav’uomo che, mentre si esercitava nel deserto, s’illudeva di vincere tutti i mali con la sua costanza? Sei tu quel tale che poco fa, mentre andava immaginandosi tutte le più crudeli offese e persino i supplizi più atroci, si riteneva così forte da restare immobile tra le più furiose tempeste? Come va che la tua pazienza incrollabile ha tremato dalle fondamenta per il suono di una semplice parola? Come ha fatto un piccolo soffio di vento a far tremare la tua casa? Eppure tu eri convinto di averla costruita sopra una pietra solidissima, e di averla elevata in una mole ragguardevole. Dov’è andato quel coraggio che ti faceva desiderare il combattimento mentre eri in pace, e ti faceva dire con falsa sicurezza: «Sono pronto e non ho paura»? (Sal 119 (118), 60) Tu dicevi pure le parole del profeta: «Mettimi a prova, o Dio, fa esperimento su me, scruta al crogiuolo le mie reni e il cuore» (Sal 26 (25), 2). Oppure «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, fa di me prova e sappi quel che io sento. Vedi se io vado per la strada del male, guidami tu nella via degli antichi» (Sal 139 (138), 23-24).

Com’è che questo immenso schieramento di forze ha tremato davanti all’ombra di un nemico?

Mentre condanna se stesso con questi rimproveri improntati al pentimento, il solitario non lascia impunito il moto di passione che l’ha sorpreso. Ma c’è di più: costui castigherà duramente la sua carne con le veglie e coi digiuni, farà penitenza, nell’austerità del digiuno, per la colpa derivata dalla sua debolezza. In tal modo, quel che avrebbe dovuto pienamente sradicare nella vita cenobitica, lo consumerà nella solitudine: col fuoco di questi esercizi.

Una cosa è fuori dubbio: chi vuol giungere ad una pazienza continua e ferma, deve tenere questo principio inconcusso: noi, per legge del Signore, non solo non abbiamo il diritto di vendicare le offese ricevute, ma non abbiamo neppure il diritto di ricordarle. A noi è proibito adirarci, qualunque sia il danno o la provocazione che ci coglie. Quale danno ci potrebbe capitare, che superi quello di essere privati (per l’accecamento in cui ci precipita l’ira) dell’illuminazione della luce vera ed eterna, e della contemplazione di Colui che è «dolce ed umile di cuore»? (Mt 11,29).

Vorrei domandarvi: che cosa c’è di più dannoso e di più turpe che vedere un uomo perdere il senso della dignità, la regola e la disciplina della discrezione, per fare, da sano e mentre è in senno, ciò che neppure in stato di ubriachezza potrebbe permettersi?

Se uno ben considera questi ed altri danni del genere, non solo sopporterà tutte le offese, ma anche le ingiurie e le pene d’ogni sorta, siano pure le più crudeli, che potranno venirgli da parte degli uomini. E la ragione è che l’uomo riflessivo vedrà come niente è più dannoso dell’ira, niente è più prezioso della tranquillità dell’anima e della purità del cuore. Per una tale perla, meritano d’essere disprezzati, non solo i beni carnali, ma anche quelli che sembrano spirituali: supposto che non si possano acquistare e conservare senza mettere in pericolo la tranquillità del cuore.

 

XV. - Domanda: se la castità debba esser messa alla prova al pari delle altre virtù

Germano. Ci hai insegnato fin qui a combattere molte passioni, come l’ira, la tristezza, l’impazienza; ci hai anche suggerito i rimedi atti a guarire quei vizi. Ma noi vorremmo ora che tu c’istruissi anche sul genere di cura da applicare contro lo spirito di fornicazione. Ecco la nostra domanda: il fuoco della concupiscenza carnale, si può spegnere usando a modo di rimedio la considerazione dei suoi eccessi, come si è fatto per gli altri vizi? Questa tattica, a nostro avviso, sarebbe molto contraria alla virtù della castità; non solo quando potenziasse in noi gli ardori della libidine, ma anche quando ci facesse leggermente fermare su immaginazioni di questo genere.

 

XVI. - Risposta: da quali segni si può riconoscere la castità

Giovanni. La vostra intelligente domanda ha proposto un argomento al quale il nostro discorso già tendeva per sua natura: io ne avrei parlato anche se voi non me l’aveste chiesto. Ora son certo che voi comprenderete perfettamente tutta la questione che tratteremo: me ne assicura il fatto che l’acutezza del vostro ingegno ha preceduto la mia proposta. Non si prova fatica ad illustrare la oscurità di un problema quando l’interrogante anticipa la soluzione, e va spontaneamente verso quel punto al quale dovrebbe essere guidato.

Per emendare i vizi dei quali abbiamo parlato, la vicinanza degli uomini non è affatto nociva; può al contrario offrire dei grandi vantaggi. Nel contatto col prossimo si manifesta più spesso il vizio dell’impazienza; ma se aumentano le esplosioni di quella passione, aumentano anche gli atti di dolore e di penitenza. Così la guarigione del male diventa più sollecita. Questa è la ragione per cui noi abitatori del deserto — che non troviamo negli uomini occasioni e provocazioni a perder la pazienza — dobbiamo a bella posta procurarci degli stimoli irritanti, per affrettare la nostra completa guarigione attraverso un combattimento ininterrotto.

Quando però si tratta dello spirito di fornicazione, la tattica da seguire è diversa, come diversa è la fonte da cui quella passione scaturisce. Infatti, come è opportuno sottrarre al corpo ogni atto libidinoso e ogni vicinanza carnale, così è necessario sottrarre all’anima perfino il più piccolo ricordo di queste brutture. Sarebbe cosa davvero pericolosa, per anime deboli e malate, accettare anche la più piccola idea riguardante questa passione. Il pericolo è talmente grave che qualche volta il semplice ricordo di sante donne, o qualche passo della sacra Scrittura, possono bastare ad eccitare lo stimolo del piacere peccaminoso. Per questo motivo i nostri anziani son soliti sorvolare su certi passi del Libro Sacro, quando son presenti dei giovani. Quelli poi che son perfetti, e già consumati nell’amore della castità, troveranno prove sufficienti per mettersi alla prova ed esaminarsi. Essi potranno in tal modo rendersi conto dell’integrità del loro cuore, attraverso la testimonianza incorruttibile della coscienza.

Concludiamo dunque che soltanto il solitario giunto ormai alla perfezione — soltanto lui — potrà mettersi alla prova riguardo a questo vizio con la stessa tattica che si usa per gli altri. Costui, dopo essersi convinto di aver estirpato fino in fondo le radici di questo male, potrà concepire nella mente qualche immaginazione scabrosa, allo scopo di mettere alla prova la sua castità. Ma questa prova non può assolutamente essere tentata da parte di coloro che sono ancora deboli. Non debbono costoro pensare a contatti muliebri, a carezze tenere e voluttuose: ciò sarebbe più nocivo che utile. Quando un solitario perfettamente fondato nella virtù non proverà alcun turbamento dell’anima, alcun pericolo di consenso, alcuna ribellione della carne, al pensiero di atti e gesti lubrici, avrà la prova certa della sua purezza. Esercitandosi allora in questa solida castità, non soltanto possederà il tesoro della purezza e della incorruttibilità nell’intimo dell’anima sua, ma, se la necessità stessa lo obbligherà ad avere contatto con qualche donna, ne proverà orrore.

A questo punto l’abate Giovanni, essendosi accorto che era ormai vicina l’ora nona, cioè l’ora del pasto, pose fine alla sua conferenza.


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19 aprile 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net