L’OPERA SOCIALE DEL PATRIARCA CASSINESE

Di Ildefonso Card. Schuster O.S.B.

Estratto da “Storia di san Benedetto e dei suoi tempi*, Abbazia di Viboldone 19634

 

I manuali scolastici salutano generalmente san Benedetto come il salvatore ed il tutore dell’antica civiltà romana che egli, per mezzo del monachesimo da lui spiritualmente formato, trasmise ai secoli di mezzo (o Medioevo).

Molti storici si sono particolarmente occupati dell’opera monastica di bonifica delle nostre campagne; così che una delle principali fonti di ricchezza nazionale in Italia, in Francia ed in Germania in ultima analisi deriverebbe dal lavoro dei Benedettini.

Tra noi, vari scrittori di monografie si sono specializzati sulle origini monastiche di molte località italiane, dimostrandone gli esordi in conseguenza dell’azione colonizzatrice di qualche vicina abbazia.

Esistono tra noi delle buone storie di alcuni famosi monasteri; ma un’opera generale su tutta quest’attività sociale del Monachesimo italiano non esiste ancora e, forse per vari motivi, è assai difficile il comporla.

Sorge però subito una questione che dirò pregiudiziale. Tutta questa attività esterna del Monachesimo antico, rappresenta veramente il genuino pensiero di san Benedetto? In quale misura fa capo al Patriarca?

È precisamente il problema che intendo, non già sciogliere, perché è troppo vasto, ma almeno semplicemente illustrare.

* * *

Che san Benedetto abbia compiuto una vera missione religiosa e sociale nell’ambiente latino che lo circondava non può essere messo in dubbio, mentre è Gregorio Magno stesso che ci conferma tale missione.

Cum vero iam Deus... vellet... Benedicti vitam in exemplum hominibus demonstrare, ut posita super candelabrum lucerna claresceret, quatenus omnibus qui in domo Dei sunt luceret.

(Dio però,... volle che la vita di Benedetto diventasse luminoso modello agli uomini: questa splendente lucerna, posta sopra il candelabro, doveva ormai irradiare la sua luce a tutti quelli che sono nella casa di Dio.) (Gregorio Magno, II Libro dei Dialoghi, cap. 1)

Quest’opera esterna comincia a Subiaco col catechizzare i pastori: si sviluppa con la scuola istituita in S. Clemente per i nobili giovanetti romani avviati allo stato religioso; culmina finalmente sull’acropoli di Casinum (Ndr.: ovvero sulla parte più alta dell’attuale città di Cassino, chiamata Montecassino), con la costituzione di quella novella cristianità in una vecchia diocesi, all’epoca mezzo inselvatichita e rimasta da qualche decennio senza pastore e vescovo.

Ho già detto dell’opera missionaria del Patriarca quando predicatione continua... ad fidem vocabat (Con assidua predicazione … andava invitando alla fede) (Gregorio Magno, II Libro dei Dialoghi, cap. 8); quando in quei villaggi presso Cassino inviava periodicamente i suoi discepoli a tener conferenze spirituali; quando infine con mano soave e ferma teneva il governo delle chiese di quei nuovi convertiti, provvedendo altresì alle loro necessità economiche durante gli anni di carestia che allora desolarono l’Italia. Fu lui che dispose la colonia monastica in Luterano.

Se la divina Provvidenza pose san Benedetto in relazione, oltre che con Papi e con vescovi, anche con personaggi del Governo e collo stesso re Totila, egli se ne valse per il bene delle popolazioni. Se nel dicembre 546 Roma non fu addirittura distrutta dal Conquistatore, il merito in gran parte risale a san Benedetto che, rimproverandogli il male compiuto e profetizzando la sua morte [1], aveva implorato pietà per la misera capitale dell’Orbe romano. Roma a Gentibus non exterminabitur (Roma non verrà distrutta dai barbari) (Gregorio Magno, II Libro dei Dialoghi, cap. 15).

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Tutto questo è noto e lo si deduce chiaramente dal testo di Gregorio Magno.

La mia questione invece è un po’ diversa. La concezione teocratica della Theopolis attuata nelle grandi abbazie italiane nel Medio Evo, attorno alle quali si svilupparono poi dei veri piccoli stati, con un proprio esercito, con l’abate che insieme fa da sovrano e da vescovo per il popolo a lui soggetto, in che misura risale a san Benedetto?

Bisogna distinguere: è vero, è verissimo che dei fattori esterni nel primo Medio Evo (V-VII secolo) contribuirono a creare gli stati ecclesiastici, tra i quali quelli dei monasteri. Però questi fattori politici trovarono nelle abbazie benedettine il clima idoneo per svilupparsi, oltre al fatto che lì c’erano anche le condizioni migliori per poter tutelare le povere popolazioni abbandonate dal Governo alla propria sorte di fronte alle invasioni straniere.

Quando nel primo Medio Evo in Italia il Governo praticamente non c’era più, perché risiedeva solo idealmente sulle rive del Bosforo (Ndr.: A Costantinopoli, nominata da Costantino nel 330 d.C. capitale dell'Impero Romano d'Oriente); quando i Longobardi desolavano le nostre campagne col ferro e col fuoco, distruggendo città e chiese, devastando province e diroccando edifici pubblici ed acquedotti, la divina Provvidenza dispose che i barbari, pur non temendo né san Pietro né i successori suoi in Laterano, venerassero tuttavia e temessero san Benedetto, conferendo largo sviluppo alle sue istituzioni sociali.

Già lo storico Ferdinand Gregorovius (1821-1891) ci ha descritto la potenza dell’abate di Monte Cassino, paragonandolo ad un piccolo Giove tonante, che dall’Olimpo dove abitava incuteva timore ai Longobardi coi fulmini dei suoi anatemi.

Dell’abate di Subiaco [2] si legge il medesimo: nel secolo XI i suoi sudditi si lamentavano della sua enorme potenza, descrivendolo come una specie di Padre Eterno: ipse solvit, ipse ligat; ipse salvat, ipse damnat! Gli stessi papi ed imperatori si mettevano in armi, facendo guerre e ponendo assedi per conto del monastero.

 

Questo sviluppo storico del Monachesimo italiano è effetto, indubbiamente, e conseguenza dei diversi fattori dell’alto Medio Evo; ma i principi risalgono nondimeno al Patriarca san Benedetto.

 

Lo Stato abbaziale è lo sviluppo storico della cittadella monastica, organizzata da san Benedetto nella Regula Monasteriorum.

Quasi divinando i posteriori tempi del Medio Evo, quando l’Impero bizantino avrebbe abbandonato l’Italia alla sua sorte, il Patriarca a Monte Cassino concepì il suo ministero a guisa di città autarchica, pienamente sufficiente a se stessa:

Monasterium autem, si possit fieri, ita debet constitui, ut omnia necessaria, idest, aqua, molendinum, hortus, vel artes diversae intra monasterium exerceantur (Il monastero, poi, dev'essere possibilmente organizzato in modo che al suo interno si trovi tutto l'occorrente, ossia l'acqua, il mulino, l'orto ed i vari laboratori). (Regola di san Benedetto, cap. LXVI).

Marco poeta a sua volta ci descrive i grandi lavori di bonifica intrapresi dal Santo sull’acropoli: l'antica strada sannita lungo i fianchi della montagna modificata, addolcita e resa meno faticosa per i viandanti; l’acqua fatta sgorgare prodigiosamente; gli orti coltivati ed irrigati, gli alberi da frutta piantati tra quegli scogli (Ndr.: Si veda la pagina dedicata a Marco poeta https://ora-et-labora.net/marcopoetapaolodiacono.html).

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In conseguenza di questo piano d’autarchia sul quale il Santo fondò il governo della sua cittadella monastica, egli dovette facilmente permettere che il suo patrimonio terriero divenisse vasto, ossia proporzionato all’entità dei molteplici bisogni dei suoi abitatori.

San Gregorio fa menzione del converso Teoprobo che curava gli affari del cenobio nella città di Cassino, mentre gli altri monaci risiedevano nella campagna di Capua pro necessitate monasterii, a sorvegliare probabilmente l’amministrazione agraria di quei fondi o domus cultae, come si chiamavano.

La situazione allora era assolutamente normale. Quasi tutte le grandi chiese episcopali avevano la propria dotazione immobiliare, e consisteva in numerose fattorie agricole in Italia, in Sicilia, in Africa e perfino in Oriente, con una sufficiente famiglia di schiavi addetti ai lavori campestri. Familiam rusticam la chiama il Liber Pontificalis [3].

Cassiodoro [4], per esempio, aveva conferito in donazione al suo monastero di Vivario l’intero castrum Scyllacium; motivo questo per il quale gli abitanti erano tutti enfiteuti [5] della badia, a cui soddisfacevano un annuo canone.

 

Siamo ancora nel secolo di san Benedetto, ed il Medio Evo è appena alle porte.

Nella Regola vi è solo un accenno alla famiglia laica del monastero, alla quale vengono assegnati quei lavori campestri più gravi, per i quali l’orario diurno dei cenobiti meno si sarebbe adattato (cap. XLVIII). Si autem necessitas loci aut paupertas exigerit, ut ad fruges recolligendas per se occupentur, non contristentur (Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino).

Dunque, in via ordinaria, erano altri che compivano tali lavori, e più precisamente i servi. Ogni monastero, anche i più piccoli, aveva i suoi. L’epistolario di san Gregorio ci conserva l'inventario d’un piccolo monastero di vergini che avrebbe dovuto sorgere in quel di Luni (Prov. La Spezia). I letti per le monache sono appena dieci, ma nel documento, oltre alle terre, si elencano esplicitamente: cum servis duobus, idest, Mauro et Johanne, et boum paria duo tantum! (con due servi, cioè Mauro e Giovanni, e soltanto due paia di buoi) (Gregorio Magno, Epistolae, Lib. VIII, Epistola n. IV Ad Venantium Episcopum. Ut monasterium consecret concedit.).

I monasteri non avrebbero potuto estraniarsi da queste tradizionali forme economiche della società romana. Infatti, i regesti delle diverse badie italiane ci dimostrano che in pieno secolo XI era tuttavia in vigore l’antico istituto della schiavitù, mitigato, s’intende, secondo lo spirito del Vangelo ed i dettami della Regola.

Assai opportunamente san Benedetto aveva ricordato ai suoi che: sive servus, sive liber, omnes in Christo unum sumus, et sub uno Domino aequalem servitutis militiam baiulamus (sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio). (cap. II).

* * *

Venticinque anni fa, ho consegnato il risultato di questi miei studi sulle condizioni patrimoniali dei monasteri dell’evo longobardo ad una speciale pubblicazione intitolata alla celebre abbazia di Farfa Sabina (Ndr.: L'Imperiale Abbazia di Farfa. Ildefonso Schuster. Tip. poliglotta vaticana, 1921).

Ivi ho descritto come quel patrimonio monastico, un po’ per volta e sotto l’incalzare degli avvenimenti politici, abbia finito per divenire addirittura un importante Stato-cuscinetto tra il ducato romano ed il regno longobardo. Papi e sovrani erano interessati a mantenerlo e proteggerlo.

Lo Stato abbaziale cominciava quasi alle porte di Roma e si estendeva sino a Fano ed alla Marca d’Ancona, mentre le navi privilegiate del monastero solcavano indisturbate i litorali Tirreno ed Adriatico, commerciando, importando ed esportando derrate, olio, frumento e vino.

L’abate estendeva allora il suo scettro su varie centinaia di chiese e di paesi; aveva i propri governatori, arruolava l’esercito, ed in mezzo a quella baraonda che era la vita politica italiana dei primi secoli del Medio Evo, assicurava ai suoi soggetti almeno un po’ di tranquillità e di approvvigionamento.

Che l’abate di Farfa, — e come lui, molti altri prelati benedettini — con una mano reggessero il pastorale e con l’altra impugnassero lo scettro, fu necessità politica e non già volontà di dominio. Lo si vede bene quando, per esempio, nel secolo IX i Saraceni giunsero sino ad occupare Roma ed a saccheggiare le basiliche dei due Principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Allora, (anno 891), Pietro I, abbate di Farfa, a capo del suo esercito per ben sette anni tenne fronte ai barbari che volevano penetrare in Sabina; e quando finalmente comprese che il cerchio dei nemici intorno a lui si rendeva sempre più stretto, con un’abile ritirata strategica riuscì a sottrarre ai Saraceni lo stuolo dei monaci, i suoi militi, il tesoro e l’archivio stesso del monastero [6].

Degno di nota questo particolare: tra le cose più preziose che bisognò salvare, perché non cadessero in mano dei nemici, furono i papiri e le pergamene del cenobio!

Nel secolo X il monaco Gregorio da Catino (1060-1133 circa) raccolse il Registrum (o Regestum Farfense) della vasta amministrazione di tutto codesto Stato farfense [7], che però prendeva nome dalla santa Vergine di cui si considerava proprietà. Questo nome è significativo.

A capo di ciascun distretto c’era la prepositura col preposto che sopraintendeva alla retta amministrazione sia religiosa che economica della zona, mantenendo dei frequenti contatti col governo centrale.

Questo era assai facilitato grazie ad un sistema assai bene organizzato di posta, ossia di corrieri e staffette, che a cavallo si trasmettevano l’un l’altro la corrispondenza abbaziale.

Ai lavori agricoli erano addetti dei veri battaglioni di lavoratori. Molti erano liberi cittadini; molti invece erano schiavi, ossia servi sanctae Mariae.

Questa servitù tuttavia non veniva affatto considerata cosa umiliante e dura; tanto che nel regesto di Farfa durante i secoli VIII e IX troviamo diversi liberi cittadini che spontaneamente si donano per schiavi al monastero: eo quod non possunt vivere (perché non hanno di che vivere). La libertà non è cosa mangereccia, — essi pensavano — con la quale si sostenta la vita!

Tra i servi sanctae Mariae troviamo persino dei presbyteri, ossia dei preti, figli di schiavi del monastero, ai quali l’abate aveva assicurato dapprima un’educazione scientifica; quindi, dopo averli fatti consacrare preti, ha loro conferito l’amministrazione di qualche chiesa farfense con annessa cura d’anime.

Nei monasteri, il concetto romano del servitium si era talmente spiritualizzato e diluito, che i servi sanctae Mariae, fossero essi preti o laici, più che schiavi, venivano considerati come una specie di oblati, consacrati al servizio perpetuo della santa Vergine nella sua metropoli farfense.

Il popolo generalmente preferiva il pastorale dell’abbate al duro giogo dei nobili feudatari: seniores tollunt omnia, et vos modicum tenetis (i signori prendono tutto ed a voi rimane poco), scriveva un giorno all’abbate Berardo I un gruppo di Marchigiani, che si offrivano alla badia di Farfa per ottenere a loro volta tutela e protezione.

Non è da lasciarsi illudere da tutto quel gran numero di donazioni terriere fatte alle maggiori badie italiane nella prima metà del Medio Evo. Rappresentavano una specie di partita di giro.

Siccome lo Stato non sapeva più tutelare il cittadino, questi per assicurarsi donava il suo patrimonio al monastero, perché così divenisse cosa sacra ed intangibile di fronte a chicchessia. Era inteso però, che l’abbate gliene retrocedesse il godimento a titolo enfiteutico. L’usufruttuario corrispondeva al monastero un lieve censo: una libbra di cera per la festa dell’Assunta ed un paio di polli per carnevale. Ecco tutto! Egli e la sua famiglia erano al sicuro sotto il palladio della religione.

* * *

San Benedetto aveva attribuito una grande importanza all’ospizio annesso ad ogni monastero, dove ogni giorno affluivano poveri, infermi, vecchi, viandanti d’ogni qualità.

Il Patriarca già prevedeva che in quei secoli di turbamento politico si sarebbe rivolta al monastero gente d’ogni condizione, ricchi, poveri, ecclesiastici, laici, sovrani esautorati, come re Arduino, e Papi senza più un palmo di terra, come Ildebrando e Vittore III a Monte Cassino [8].

Ordina perciò la Sancta Regula, che ad ogni grado sociale debba corrispondere un ricevimento onorifico ed adeguato: omnibus congruus honor exhibeatur... nam divitum terror ipse sibi exigit honorem (a tutti si renda il debito onore... d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. (Regola, cap. LIII).

Questi ospizi rimangono alla dipendenza del cellerario e sotto la speciale cura dell’abbate, il quale quotidianamente vi dovrà prendere i suoi pasti insieme con gli ospiti.

La cucina dei forestieri è distinta da quella della comunità, con un personale di servizio speciale e ben addestrato.

Gli ospiti vengono accolti sotto il sacro tetto dell’abbazia con cerimonie liturgiche derivate in parte dall’Oriente. Agli ospiti si muove incontro in processione. Si conducono dapprima nell’oratorio per la preghiera; quindi si lavano loro i piedi, e mentre lo stomaco si ristora dalle fatiche del viaggio, l’anima viene nutrita con la lettura della Sacra Scrittura.

Nel secolo VIII, codesto flusso e riflusso di ospiti a Farfa, a Monte Cassino, a S. Vincenzo al Volturno ed in qualche altro dei maggiori monasteri italiani divenne così eccessivo, che per non disturbare più oltre i monaci e per non distoglierli dal raccoglimento spirituale della vita monastica, i grandi abbati dell’evo longobardo a fianco dei cenobiti, ma separati da loro, istituirono una speciale categoria di chierici od oblati, con il titolo di canonici.

Avevano una residenza loro particolare presso l’hospitium; recitavano notte e giorno l’Ufficio divino nella chiesa della foresteria, e prestavano il loro servizio nell’accoglienza degli ospiti alle dipendenze dell’abbate. Finirono per diventare i conversi, ossia i fratelli laici degli ordini più recenti. In Palestina si trasformarono in milizie ospitaliere o cavalleresche, come i Templari.

* * *

Attesa la particolar concezione benedettina del monastero-cittadella su piano autarchico, con l’annessa famiglia di coloni, di schiavi e di semplici operai addetti ai vari mestieri, era inevitabile che, sfasciata ormai la vecchia polis romana, questa si ricostituisse attorno alle abbazie di san Benedetto. Non è interamente esatto l’asserire che i sistemi di governo di ispirazione cristiana in Italia abbia tratto esclusiva origine dai comuni dell’evo francescano.

No; assai prima dei secoli XII-XIII il proletariato cristiano, gli operai, i contadini dispersi dalle guerre e privati di tutto, vennero ricomposti e raccolti in vici o loci dall’attività dei figli e successori di san Benedetto. Ci avanza tutta una collezione di statuti abbaziali di antichi paesi, dove sin dal secolo XI si percepisce già il vagito delle successive libertà comunali.

Non è difficile dimostrare documentariamente che quasi tutti i paesi degli antichi Stati abbaziali di Farfa, di Monte Cassino, di S. Vincenzo al Volturno, di Casauria, di Subiaco, ecc., traggono origine da opere di colonizzazione monastica in territori sui quali si erano già accumulate le secolari rovine delle guerre.

Nell’antico Stato farfense, rimangono ancor oggi i nomi di: Castelnuovo di Farfa, Monte S. Maria, Castel S. Pietro, Montopoli (Mons Operis), S. Donato, S. Vittoria, ecc.

Il vasto Stato campano, sul quale durante il primo Medio Evo l’abate di Monte Cassino esercitava la sua piena giurisdizione, aveva un nome assai significativo, perché si chiamava: Terra Sancti Benedicti.

Quel titolo tuttavia potrebbe estendersi a tutta la vasta possidenza medievale dei monasteri perché fu in nome del santo Patriarca e secondo i dettami stabiliti nel suo codice spirituale che i suoi figli e successori la possederono e la governarono.

San Benedetto aveva conferito a Monte Cassino una forma amministrativa di cittadella o Stato autarchico, con un governo monarchico affiancato da una doppia Camera di consiglieri (Regola, Capp. II-III).

Attorno all’acropoli c’era poi il territorio dell’antica diocesi di Cassino, con il popolo dei vecchi pagani da lui convertiti alla fede. Su codesta regione il Patriarca esercitava giurisdizione pastorale, quasi una specie di corepiscopus.

Trasportiamo ora questo sistema teocratico di governo autarchico ed allarghiamolo su cento, mille e più migliaia di monasteri medievali sparsi, non solo in Italia, ma in tutta Europa, ed allora si vedrà quale influenza decisiva abbia esercitato san Benedetto su tutta intera la vita della Chiesa e dell’Europa.

 


* Nota del redattore del sito: Oltre ad aver inserito alcune note esplicative, ho anche modificato il lessico originale in alcuni punti rendendolo più attuale.

 

[1] Così disse san Benedetto a Totila: “Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai” (Gregorio Magno, II Libro dei Dialoghi, cap. 15)

[2] Ndr.: Probabilmente Simone Borrelli dei Conti di Sangrio, abate di Subiaco dal 1149 al 1184 e poi cardinale. (Fonti: libro "Atti e memorie della Società tiburtina di storia e d'arte, vol. XXXV, 1962" - Arti grafiche Aldo Chicca - Tivoli 1963 e sito abbaziaterritorialesubiaco.it)

[3] L’amministrazione patrimoniale dei monasteri comportava anche allora pratiche ministeriali, accessi al Governo, litigi con gli avvocati e con i giudici. Spesso le persone religiose o si dimostravano incapaci di trattare tali negozi, o ne soffrivano un danno spirituale di dissipazione di spirito.

Nell’epistolario gregoriano c’è una lettera a Pietro suddiacono e rettore del patrimonio papale di Sicilia, perché un tal Fausto, già cancelliere di Romano ex pretore, venga investito di general procura a trattare gli affari del cenobio siracusano di S. Lucia, assegnandogli l'annuo stipendio: « constituto salario » (Gregorio Magno, Epistolae, Lib. I, Epistola n. LXIX Ad Petrum Subdiaconum siciliae)..

(Ndr.: Il Liber Pontificalis (in italiano Libro dei Papi) è una memoria ufficiale dei vescovi di Roma. Consiste in una raccolta di biografie dei pontefici, presentate in serie cronologica a partire da San Pietro, e compilate in vari tempi e da vari autori).

[4] Ndr.: Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (485 circa - 580 circa), senatore a Roma durante il regno ostrogoto, ministro a Ravenna e ambasciatore a Costantinopoli, biblista, storico, fondatore di monasteri e scriptoria (in particolare il cenobio di Vivarium, che sorgeva vicino all’attuale Squillace, in Calabria, fu una sorta di università cristiana ante litteram). Luoghi che, in un’epoca segnata dallo smarrimento, dalla violenza e dal caos, hanno traghettato verso il futuro capolavori di valore inestimabile. (Fonte: "Osservatore Romano" del 7 luglio 2020).

[5] Ndr.: L'enfitèusi è un diritto reale di godimento su un fondo di proprietà altrui, generalmente agricolo; secondo il quale, il possessore ha la facoltà di godimento pieno sul fondo stesso, ma per contro deve migliorare il fondo stesso e pagare inoltre al proprietario un canone annuo in denaro o in derrate (Fonte Wikipedia).

[6] Ndr.: Nell' 891, all'epoca dell'abate Pietro I, l'Abbazia di Farfa fu assaltata dai Saraceni, che la assediarono per ben sette anni. Farfa cadde e i monaci superstiti fuggirono dividendosi in tre gruppi: il primo, sotto la guida diretta dell'Abate Pietro I, si rifugiò presso il monastero di S. Ippolito e S. Giovanni in Silva, a S. Vittoria in Matenano, nell'attuale provincia di Fermo. Il secondo gruppo andò verso Rieti, ove fu trucidato. Il terzo gruppo si rifugiò a Roma. Trascorsi diversi anni, non appena i Saraceni abbandonarono Farfa, il terzo gruppo di monaci transfughi ritornò all'Abbazia, trovandola purtroppo in completa rovina. Ecco però che il monaco Ratfredo (898-936), divenuto Abate, dette inizio alla sua ricostruzione. Nel 913 la chiesa fu di nuovo consacrata e Farfa risorse per la seconda volta. (Fonte: Sito "borgodifarfa.it")

[7] Ndr.: I possedimenti abbaziali (di Farfa) di questo periodo sono enormi, tanto che in un diploma del 1118, l'imperatore Enrico V di Franconia (1081 - 1125) riconferma pertinenti al cenobio le zone di S. Eustachio e Palazzo Madama in Roma, Viterbo, Tarquinia, Orte, Narni, Terni, Spoleto, Assisi, Perugia, Todi, Pisa, Siena, Camerino, Fermo, Ascoli, Senigallia, Osimo, Chieti, Tivoli, il territorio aquilano, il Molise, il porto e metà della città di Civitavecchia. (Fonte: “Wikipedia”)

[8] Ndr.: - Arduino d'Ivrea (955 ca. - 1015). Dopo aver sconfitto e ucciso Pietro vescovo di Vercelli, ed essere per questo stato scomunicato e dichiarato decaduto, nel 1002 riuscì a farsi incoronare re d'Italia a Pavia. In seguito alla discesa in Italia del 1014 di Enrico II, però, fu costretto a deporre le insegne regali ed a farsi monaco nell'abbazia benedettina di Fruttuaria a San Benigno Canavese (Torino). (Fonte “Enciclopedia Treccani”)

- Ildebrando di Soana (1015 ca. - 1085), eletto papa col nome di Gregorio VII nel 1073. Durante il suo pontificato si spese energicamente nell'affermare il primato papale sul potere laico. Nel 1080 fu costretto dal re (e futuro imperatore) Enrico IV di Franconia, desideroso di ripristinare l'autorità imperiale, a fuggire da Roma ed a mettersi in salvo a Salerno.

- L'abate Desiderio da Montecassino (1027-1087), eletto papa col nome di Vittore III nel 1086. A Roma comandava l'antipapa Clemente III (Guiberto di Ravenna), sostenuto dalle milizie imperiali. Desiderio si recò a Roma, scortato dai normanni, per essere consacrato papa nel 1087.Durante il sinodo di Benevento del 1087, Vittore, molto ammalato, si ritirò a Montecassino, dove morì il 16 settembre 1087. Il suo pontificato complessivo durò sedici mesi, ma quello effettivo fu di appena quattro mesi. Ildebrando di Soana (1015 ca. - 1085), eletto papa Gregorio VII nel 1073. Durante il suo pontificato si spese energicamente nell'affermare il primato papale sul potere laico. Nel 1080 fu costretto dal re (e futuro imperatore) Enrico IV di Franconia, desideroso di ripristinare l'autorità imperiale, a fuggire da Roma ed a mettersi in salvo a Salerno. (Fonte “Wikipedia”)


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8 novembre 2022                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net