Aelredo di Rievaulx – Vita e opere

Domenico Pezzini

Estratto da “Aelredo di Rievaulx - L'amicizia spirituale, Paoline 2004

Il testo originale è completo di numerose note esplicative.


 

I. Vita e personalità

«Una dolcezza gentile, una radiosa affettuosità, e una vasta capacità di simpatia non sono le qualità che vengono abitualmente associate ai primi cistercensi, e però sono esattamente queste le caratteristiche prominenti di Aelredo di Rievaulx» . Per ricostruire la biografia di questa figura così affascinante, e per disegnare il profilo di questo monaco riconosciuto come « uno degli umanisti più delicati del suo secolo», disponiamo in sostanza di tre tipi di fonti: la Vita scritta dal suo discepolo Walter Daniel  alcune testimonianze di contemporanei, e infine quanto lui stesso ci ha raccontato nei suoi scritti .

Si deve probabilmente al genere del materiale appena evocato se conosciamo molto più del solito dal punto di vista della biografia interiore, e discretamente meno rispetto alla vita pubblica di Aelredo . La cosa non ha per la verità una grande rilevanza nel caso specifico. In effetti, per capire e apprezzare quanto Aelredo ha scritto, che è quanto dire ciò che lo rende tuttora vivo, risulta decisiva, più che la sequenza degli eventi esterni, la conoscenza della sua storia personale. Questo vale per la connessione prevedibile e naturale che si può stabilire tra l’esperienza di una persona e la sua riflessione, ma vale in modo del tutto particolare per Aelredo, autore « esperienziale » come pochi del suo tempo. Per l’attenzione costante e il peso determinante che egli dà alla propria vita nell’elaborare il proprio pensiero, Aelredo occupa un posto non secondario in quel movimento di progressiva scoperta del valore della « coscienza individuale» che costituisce una delle dominanti del tempo in cui ha vissuto, il secolo XII .

La famiglia, la scuola, la vita alla corte di Scozia

Aelredo  nasce nel 1110 nella città di Hexham, all’estremo nord dell’Inghilterra, in quella che è oggi la contea del Northumberland, nel cui nome si conserva il ricordo dell'antico e molto più vasto regno sassone della Northumbria. Il padre, Eilaf, è un prete, così come lo erano stati il nonno e il bisnonno. La famiglia era proprietaria di terre, e forse anche della chiesa di Hexham, di cui aveva la cura pastorale: il sacerdozio sembra si sia trasmesso, insieme ai beni, come un’eredità.

Nella cristianità anglosassone del tempo l’esistenza di un clero sposato non solo non faceva problema, ma non impediva neppure l’accesso a cariche di responsabilità. Il bisnonno di Aelredo, Alfredo, era stato tesoriere della cattedrale di Durham e custode delle preziose e venerate reliquie di san Cutberto: al clero della cattedrale appartengono anche il nonno e il padre di Aelredo. In questa famiglia Aelredo assorbe il senso della tradizione nel culto dei grandi santi del nord, Cutberto, Wilfredo e Beda, in cui si era come concentrata la memoria, per non dire il rimpianto, della stagione più gloriosa per il regno della Northumbria.

Quando, a seguito della battaglia di Hastings del 1066, il duca di Normandia, Guglielmo, diventa re d’Inghilterra, tra le novità che introduce c’c anche una decisa politica ecclesiastica di allineamento a Roma, e quindi di sostegno vigoroso alla riforma gregoriana. Sotto la guida intelligente e illuminata di Lanfranco di Pavia, chiamato nel 1170 dall’abbazia francese di Bec a reggere la sede primaziale di Canterbury, si procede a tutta una serie di riforme miranti a incrementare in Inghilterra la vita monastica e a portare il clero sotto la disciplina del celibato. Lanfranco si muove con moderazione e saggia elasticità: il sinodo di Winchester del 1076 permette ai preti che hanno famiglia di rimanere nel loro incarico.

Ma era chiaro che con vescovi più decisamente interventisti la sorte di preti come Eilaf era segnata. Nel 1083 il vescovo di Durham, William di St. Carilef, cui si deve la costruzione della splendida cattedrale normanna che tuttora troneggia in cima alla città, sostituisce il capitolo dei canonici con una comunità monastica: ai preti della cattedrale resta la scelta di farsi monaci o di partire. Eilaf si ritira a Hexham, dove gli viene affidata la chiesa di S. Wilfredo, ma nel 1113 deve abbandonare anche questo posto, sostituito da un gruppo di canonici agostiniani: gli rimane la cura della parrocchia e un piccolo introito per venire incontro alle sue necessità. Nel 1138, nella nuova cattedrale di Durham, Eilaf, davanti ai tre figli Samuele, Ethelwold e Aelredo, rimette alla fine nelle mani del priore di Hexham gli interessi della sua famiglia e, dopo una qualche esitazione, sul letto di morte fa la sua professione di monaco.

Se si è indugiato su qualche dettaglio di questa storia è per dire come Aelredo si sia venuto a trovare in un momento cruciale della storia della Chiesa d’Inghilterra: ha vissuto nella sua stessa famiglia il passaggio, non certo indolore, dalla Chiesa anglosassone a quella normanna. Del passato conserverà la memoria dei grandi santi del Nord, austeri, radicali e insieme affabili; il nuovo lo incanterà in quella sintesi straordinaria di rigore e di amicalità che verrà dalla Francia sull’onda della riforma monastica dei cistercensi.

Il nonno di Aelredo, Eilaf, era chiamato « Larwa », un termine sassone che significa « insegnante »: non è escluso che tale fosse anche il padre. Lo zio Aldred si era fatto una qualche fama a Durham come esperto nella Scrittura. È del tutto naturale pensare che Aelredo abbia ricevuto la sua prima istruzione in famiglia, a Hexham, e l’abbia poi continuata nelle scuole di Durham, che ricorda all’inizio dell'Amicizia spirituale .

Che la famiglia di Aelredo godesse di buona fama, di un più che discreto introito, e di eccellenti rapporti con l’aristocrazia laica ed ecclesiastica della Northumbria, è provato anche dal fatto che, giunto all’età dell’adolescenza, Aelredo è inviato alla corte del re Davide I di Scozia per continuare la sua formazione. L’educazione a corte dei figli di famiglie di un certo rilievo sociale rispondeva a una duplice finalità: oltre a fornire ai ragazzi una formazione all’altezza del loro stato sociale, si otteneva l’effetto secondo, ma non secondario, di stabilire tra loro vincoli di conoscenza e di amicizia che erano della massima importanza in una società, come quella feudale, in cui l’esercizio del potere e della responsabilità civile ed ecclesiastica era nelle mani di un piccolo gruppo.

A corte, dove arriva a quattordici anni, Aelredo cresce insieme al figlio del re, Enrico, che sembra conoscesse già dall’infanzia, e ai due figliastri Simone e Waldef. I forti vincoli di affetto che legavano questa piccola comunità di amici sono probabilmente l’esperienza che ha lasciato il segno più profondo in anni decisivi per la sua vita. Nei dieci anni passati con la famiglia del re è facile supporre che Aelredo abbia continuato una qualche formazione intellettuale: è in quel periodo che legge il Lelio, il dialogo di Cicerone sull’amicizia, e se, come si pensa, è lui che si nasconde sotto il novizio di cui si parla nello Specchio della carità (2,51), ha anche modo di conoscere la recentissima letteratura dei romanzi arturiani.

Ciò però che rimane come ricordo documentato della sua vita a corte è l’incarico, ricevuto probabilmente attorno al 1132, di economo e dispensiere: si occupa delle « cucine » e sorveglia la distribuzione dei cibi alla mensa. Aelredo farà appello a questo suo lavoro per schermirsi come incapace quando sarà invitato a scrivere, ma altrove sembra intendere la medesima incombenza come un presagio e una lontana preparazione al suo ministero di abate. Più realisticamente è probabile che in questa funzione Aelredo abbia avuto modo di mostrare e di far crescere «quel tatto e quella delicatezza nel promuovere il benessere degli altri che si nota in lui fin dalla giovinezza ». Della sua meravigliosa pazienza e amabilità, che lo rendeva affascinante e gli procurava un successo straordinario nell’ambiente di corte, ci parla anche Walter Daniel, aggiungendo che « mentre la sua naturale gentilezza soggiogava e disarmava l’ingratitudine di chi non gli era amico, negli spiriti malevoli la serenità del suo animo scatenava l’irritazione» (Vita 5). Una grande remissività ha spesso il potere di far infuriare i temperamenti sanguigni: Aelredo farà le spese di questa sua dolcezza sconfinata anche in monastero.

Sul successo di Aelredo a corte non c’è alcun dubbio: il biografo ricorda che il re lo amava a tal punto da tenere in serbo per lui una carica importante, forse l’episcopato nella sede primaziale di St. Andrews, il che conferma, oltre tutto, quanto si è appena detto sul senso ultimo di questo servizio a corte. Ma di successo, di quanto fosse amato e più o meno santamente invidiato da molti a corte, ci parla anche lo stesso Aelredo in un passo autobiografico della sua prima opera, lo Specchio della carità, solo però per dirci che dentro il suo cuore si agitava un tumulto che era in netta contraddizione con quanto appariva, un’angoscia che gli procurava abissi di disperazione, al punto da fargli pensare addirittura al suicidio. All'origine della crisi un’amicizia, da cui si sentiva fortemente legato, ma che gli procurava anche sofferenze insopportabili.

Negli squarci che Aelredo apre sulla sua vita più intima il motivo che ritorna è sempre quello: la difficoltà a governare una sessualità prorompente, e ancor più le tensioni suscitate da una affettività esuberante che lo trascinava in svariate direzioni, e gli agitava il cuore in una inquietudine irrisolta, tra entusiasmo e paura, tra felicità e depressione. Non è possibile sorvolare su tale testimonianza, né pensare che si tratti di un artificio letterario solo perché, nel descriversi, Aelredo si serve abbondantemente di testi agostiniani. Su questo aspetto della sua vita sembra abbia provato a sorvolare lo stesso biografo, ma avendo affermato che a corte Aelredo aveva vissuto da «monaco» (Vita 4), è costretto a difendersi dalla protesta di due prelati e a precisare che usando quella figura non intendeva riferirsi alla castità di Aelredo, ma alla sua umiltà. Sembra più sensato riconoscere che quello del governo della sessualità e della sua integrazione con l’affettività è rimasto a lungo un problema molto acuto nella vita di Aelredo, al quale troverà una soluzione nella scelta monastica e nel modo di viverla. Non è certo un caso se la sua prima opera è un’indagine sull’amore e l’ultima da lui completata riguarda l’amicizia: senza la premessa biografica appena evocata non si comprenderebbe né il vero perché di queste scelte, né ancor meno il modo con cui Aelredo tratta questi temi.

La vocazione monastica

Chi legge la Vita scritta da Walter Daniel non può non notare una vistosa cesura, per non dire una contraddizione radicale, tra la sconfinata pacatezza di Aelredo dimostrata nel suo servizio a corte e l’irruenza impetuosa che caratterizza invece il suo incontro con la piccola comunità cistercense di Rievaulx, seguita dalla decisione pressoché immediata di non tornare a casa e di rimanere invece in quel monastero. Ma la contraddizione è solo apparente. Aelredo è una personalità fatta di forti passioni, e la serenità per cui è stato ed è spesso lodato non deve ingannare: è una virtù faticosamente conquistata e che rimane in un equilibrio difficile e precario, una via per impedire che energie in conflitto producano un effetto disintegrante. Non ci spiegheremmo altrimenti perché Aelredo continui a sognare e ad esaltare come ideale il « riposo» del sabato, e perché l’amicizia abbia per lui un ruolo così decisivo nel raggiungimento di questa quiete del cuore.

I cistercensi erano arrivati in Inghilterra nel 1128, dove avevano stabilito una prima fondazione a Waverley, nel Surrey. Ma il vero punto di partenza di una espansione che diventerà travolgente sarà proprio Rievaulx, fondata da Walter Espec, signore di Helmsley, nel 1132. L’artefice dell’operazione, san Bernardo, aveva sicuramente mire molto alte: vi manda infatti, come abate fondatore, un inglese, il suo segretario Guglielmo, con altri monaci provenienti da quella stessa contea dello Yorkshire in cui doveva sorgere la nuova abbazia. La fondazione avrà anche un effetto dirompente: spaccherà le comunità benedettine di Durham e di York, e dall'abbazia di St. Mary di questa città il gruppo di quelli che vogliono seguire il nuovo stile dovrà andarsene, e finirà col costituire il nucleo su cui crescerà l’abbazia di Fountains.

Quando Aelredo, nel corso di una missione per conto del re presso l’arcivescovo Thurstan di York, viene a contatto con la comunità, non ci sono che poche capanne in fondo alla valle del Fiume Rye. Ma, dentro una povertà materiale che doveva far paura, risplende la luce di una comunità di fratelli che irradia sullo stesso paesaggio, se si deve credere ai toni estasiati con cui Walter Daniel descrive come un nuovo Eden la gloria della natura che circonda il piccolo monastero, quasi fosse un quadro di Constable ante litteram.

11 biografo ci dice che a svegliare l’interesse di Aelredo per la comunità giunta da poco da oltre la Manica fu un amico carissimo. Powicke ipotizza che si tratti di Waldef, uno dei due figliastri di re Davide, che nel 1130 si era fatto canonico agostiniano a Nostall, divenendo poco dopo priore di Kirkham, una fondazione non lontana da Rievaulx. Niente potrebbe rispondere meglio all'ideale di amicizia esaltato da Aelredo che questo aiutarsi a crescere nella virtù e nella santità. A parte questo incontro ipotetico, altri ce ne saranno che riveleranno un benefico influsso tra i due vecchi amici della corte di Scozia: Waldef, dopo alterne vicende, finirà tra i cistercensi, e concluderà la sua vita come abate di Melrose, la seconda « figlia » di Rievaulx.

Considerato quanto si è detto, è probabile che tra i vari elogi che appaiono nella descrizione della vita dei monaci di Rievaulx, quelli che possono aver colpito maggiormente Aelredo furono la radicalità della disciplina e l’assoluta fraternità che travolgeva ogni possibile distinzione: una cittadella dell’amicizia, un «luogo celeste popolato di angeli » ( Vita 13). Nel modo con cui il biografo racconta la vocazione di Aelredo traspare un ritmo concitato, del tutto in linea con quella passionalità di cui si è detto, quasi che Aelredo fosse lacerato insieme dalla voglia e dalla paura di dare una svolta radicale alla sua vita. Parlando con i monaci si commuove fino alle lacrime, e « il suo cuore si accende sempre più di una gioia inesprimibile» (Vita 13-14). Dopo due giorni agitati e irrequieti, decide di non ritornare a corte e di rimanere a Rievaulx. «Come mi disse in seguito », scrive il biografo, « i quattro giorni passati nella foresteria furono per lui come mille anni, tanto grande era il suo desiderio di entrare nella cella dei novizi » ( Vita 16). Quando, nello Specchio della carità, annoterà con un tocco di benevolenza e un invito a una più meditata saggezza i «sacri entusiasmi» di un giovane che ha appena scoperto il fervore esaltante della vita monastica, viene da chiedersi se Aelredo stia solo parlando a un novizio, reale o ipotetico che sia, o se non stia anche rivedendo se stesso nello specchio della memoria.

Aelredo monaco e abate

Sui primi anni passati a Rievaulx scende il silenzio. Walter Daniel ci fornisce alcune annotazioni, abbastanza generiche, che riguardano la sua preghiera intensa, la sua meditazione prolungata, il fervore con cui, nonostante avesse un corpo gracile e mani delicate, attendeva al lavoro manuale. Aelredo ci dice che in quegli anni si diede con entusiasmo allo studio della Scrittura, e si avventò con ferocia sulla sua carne, mortificandola con bagni gelati e punture di ortiche per calmarne i bollori.

Quando riemerge da questa sorta di deserto, il ritmo si fa di nuovo vivace. E aggregato al consiglio dell’abate Guglielmo, e nel 1141 è mandato a Roma con una delegazione per trattare col papa la questione del nuovo arcivescovo di York: è durante questo viaggio che incontra per la prima volta san Bernardo, da cui riceverà l’«ordine» di scrivere lo Specchio della carità. Al ritorno, nel 1142, è nominato maestro dei novizi, e l’anno successivo è mandato come abate nella nuova fondazione di S. Lorenzo di Revesby, nella diocesi di Lincoln. Quattro anni dopo, nel 1147, sarà richiamato a Rievaulx per succedere come abate al dimissionario Maurizio, che due anni prima aveva preso il posto di Guglielmo. Qui passerà i restanti venti anni della sua vita, e qui morirà il 12 gennaio del 1167.

A questo punto la narrazione non ha più molto da aggiungere. Diventa più significativo tracciare un profilo della sua personalità di abate, facendo attenzione al fatto che in tale ritratto la dimensione pedagogica, più che non quella amministrativa o di personaggio pubblico, peraltro rilevanti, è in definitiva quella che in questa sede interessa di più.

La strada migliore e più sicura per conoscere il cuore di Aelredo è, oggi, la lettura dei suoi scritti, anche perché essi sono risposte a richieste concrete di persone concrete, e la fonte da cui egli attinge ciò che espone è la «biblioteca del suo cuore». Poi ce la commossa testimonianza di Walter Daniel nella Vita, anche se la sua dichiarata ammirazione per Aelredo potrebbe lasciare qualche sospetto di enfasi agiografica non controllata che potrebbe rendere meno affidabili le sue affermazioni.

In realtà, quanto afferma il biografo trova un supporto inconfutabile in alcune testimonianze di contemporanei che tracciano un ritratto di Aelredo dai tratti inconfondibili. Jocelin, abate di Furness, descrive Aelredo come « faceto, facondo, socievole e allegro, generoso e discreto », aggiungendo che « superava tutti i prelati e i superiori suoi coetanei per la mitezza e la pazienza, ed era capace di una grande compassione per le infermità fisiche e spirituali degli altri ». Gilberto di Hoyland scrive di lui: « Si presentava modesto nel volto, irradiava tranquillità da tutto il corpo, esprimeva con serenità i sentimenti del suo animo. Aveva una sensibilità perspicace, nel parlare non era precipitoso. Con calma domandava, rispondeva con calma, sopportava le persone fastidiose, non dava fastidio a nessuno: acuto nel comprendere, lento nel replicare, restava paziente e tranquillo». Sembrerebbe che l’irruenza giovanile si sia come raffinata e raccolta nella perspicacia e nell’intuito. Ma è lo stesso Gilberto a ricordare che « il suo parlare, largo e pastoso come il latte, aveva come effetto di trascinare furtivamente l'animo di chi lo ascoltava in una sorta di ebbrezza... Per edificare si serviva di argomenti facili, ma nelle parole si sentiva la foga ardente di una grazia inebriante. Aveva una intelligenza dolce e affabile, ma il sentimento era veemente». Si direbbe una sintesi dell’impossibile, ma una delle cose in cui Aelredo si rivela maestro è proprio nella soluzione dei conflitti, suoi e degli altri: la sua è una spiritualità di riconciliazione, nel senso più ampio del termine.

In effetti, se si guarda al versante pubblico della sua vita, che deve essere stato intenso, le sue « uscite» più frequenti sono dovute alla necessità di arbitrare un qualche conflitto: nel 1147 lo troviamo a Durham per risolvere una disputa riguardante il priore di quella comunità, nel 1154-1155 sistema il contenzioso tra le abbazie di Furness e Savigny per il controllo dell'abbazia di Byland, nel 1159 compone una disputa tra York e Durham, a Westminster nel 1163 è testimone di un accordo tra Roberto II, vescovo di Lincoln, e Roberto, abate di St. Albans, a Kirkstead nel 1164 sigla un accordo tra cistercensi e gilbertini.

Stranamente il nome di Aelredo non compare in quella che fu la controversia più celebre divampata in Inghilterra negli ultimi anni della vita di Aelredo, quella tra Enrico II e Thomas Becket. Poiché sappiamo che Aelredo fu consigliere ascoltato di Enrico II, e del potente conte di Leicester, suo « ministro della giustizia », che era il mediatore del re sulla questione, non è da escludere che l’abate di Rievaulx, anche solo in grazia della sua posizione, sia stato consultato sulla materia. Purtroppo la perdita del suo epistolario non permette di sapere quale fosse la sua opinione nella contesa, anche se il suo carattere pacifico da una parte, e la sua nota amicizia col vescovo di Londra, Gilbert Foliot, grande antagonista di Becket, dall’altra, inducono a ritenere che difficilmente egli avrebbe appoggiato quel modo testardo di condurre la contesa che portò all’assassinio dell’arcivescovo la sera del 29 dicembre 1170, una conclusione tragica che egli comunque non ebbe tempo di vedere.

Sotto l’abbaziato di Aelredo Rievaulx visse un momento di grande espansione: la comunità comprendeva 140 monaci e circa 500 fratelli laici e conversi, il doppio di quando lui era maestro dei novizi. Walter Daniel ci dice che nei giorni di festa la grande chiesa sembrava un alveare ronzante, e si dilunga soprattutto a elencare le ragioni di tanto successo: non c’era nessuno che fosse disprezzato e rifiutato, debole e fragile nel corpo o nel carattere che non trovasse a Rievaulx accoglienza e sostegno; c’erano anche monaci che giungevano dall’estero in cerca di « misericordia e di compassione fraterna », e c’era chi, dopo aver vagato senza trovare accesso in nessuna casa religiosa, si vedeva aprire le porte di Rievaulx, la cui «gloria suprema e singolare era la sua capacità, sopra ogni altra cosa, di tollerare i deboli e mostrare compassione a chi era nel bisogno» (Vita 37).

Non deve essere stato facile controllare una comunità così numerosa, e insieme occuparsi di tutti i risvolti burocratici e amministrativi che la cura delle terre e delle grange che dipendevano dall'abbazia comportava. L’abate doveva inoltre fare regolarmente visita alle abbazie figlie: Wardon, Melrose, Revesby, e Dundrennan nel Galloway, e partecipare ogni anno, almeno fino al 1157, al capitolo generale di Citeaux. Forse è anche per la fatica che gli derivava da una situazione da lui stesso definita «infelice» (ASp, Prol. 8) che Aelredo si sente in pace solo quando è a casa: lo si avverte nel tono di vero e proprio lirismo con cui si descrive in mezzo ai fratelli come in un vero e proprio paradiso d’amore (Amicizia 3,82). Walter Daniel, che pure tende a idealizzare, è molto meno romantico, e riferisce di episodi e situazioni in cui Aelredo ebbe a soffrire per la stupidità o l’invidia dei suoi confratelli (Vita 33-35): fu perfino insultato pubblicamente da uno dei suoi abati, probabilmente Filippo di Revesby (Vita 44-45), ma quella volta Aelredo reagì, e gli profetizzò una rapida fine: la profezia si avverò.

Gli scritti

Una vita non priva di affanni, e negli ultimi dieci anni segnata da fastidiose e dolorose malattie, non gli impedì di produrre una serie di scritti di vario genere, spesso su ordinazione, che formano un corpus consistente. Se pur non si considerano come particolarmente importanti le opere di carattere storico e agiografico, si deve riconoscere che le sue opere ascetiche e i sermoni contribuirono in modo determinante a dare all’incipiente monachesimo cistercense una base solida e caratteristica di dottrina spirituale: a dirne la rilevanza sta il fatto che Aelredo è considerato, insieme a san Bernardo, Gugliemo di St. Thierry e Guerrico di Igny, uno dei «quattro evangelisti di Citeaux».

Si è già accennato allo Specchio della carità, composto tra il 1142 e il 1143. Nel 1152-1153 scrive per Enrico II, a quel tempo ancora solo duca di Normandia, la Genealogia dei re d'Inghilterra. Più o meno allo stesso periodo è ascrivibile il trattato su Gesù dodicenne, chiestogli da e dedicato a Ivo di Wardon. Nel 1155, in occasione della traslazione delle loro reliquie, scrive un’opera sui Santi della Chiesa di Hexham. Tra il 1154 e il 1160 scrive la Vita di san Miniano e l ’opuscolo sulla Battaglia dello Stendardo. Sempre tra il 1158 e il 1163 produce tre opere importanti: i Sermoni su Isaia (De oneribus), il dialogo sull'Amicizia spirituale, e la Regola delle recluse, un direttorio di vita spirituale composto per la sorella. Lavori minori sono la Leggenda della monaca di Watton, e la riscrittura di una Vita di sant'Edoardo il Confessore. Gli ultimi anni della sua vita lo vedono impegnato nella stesura di un trattato Sull'Anima che sembra abbia concepito come introduzione allo Specchio della carità e che, al dire di Walter Daniel, lasciò incompiuto. A tutto questo sono da aggiungere i numerosi Sermoni, sia diretti ai monaci sia pronunciati in occasioni pubbliche come sinodi e celebrazioni. Si devono infine registrare le circa 300 Lettere che purtroppo sono andate perdute. Erano indirizzate, al dire del biografo, ai re di Francia, di Scozia e d’Inghilterra, agli arcivescovi di Canterbury e di York e pressoché a tutti i vescovi inglesi, a illustrissimi notabili del regno, soprattutto al conte di Leicester (Vita 42): il semplice elenco dei destinatari mostra quanto e a quale livello Aelredo fosse coinvolto nella vita pubblica del suo paese.

La malattia e la morte

Come un uomo insieme così mite di carattere e così oberato di lavoro potesse sopportare i mali fisici che ne minarono resistenza, resta un mistero. Soffrì a lungo di calcoli dolorosissimi, per alleviare i quali ebbe dispense dal capitolo generale (Vita 34). Negli ultimi dieci anni fu colpito da una forma di artrite che a volte gli strappava grida di dolore: il movimento gli risultava talmente difficile che a volte dove essere trasportato in una coperta tenuta per i quattro capi (Vita 39). Non cessò per questo le penitenze, che lo ridussero a pelle e ossa (Vita 49), né i faticosi viaggi, come quello che lo condusse fino a Galloway, nel 1166, in una ennesima missione di pace (Vita 45-46). Proprio queste sue infermità, che gli impedivano spesso di partecipare ai normali uffici del coro, lo portarono a costruirsi vicino all’infermeria un suo « mausoleo », che comprendeva anche un piccolo oratorio, dove spesso i suoi monaci si affollavano in modo un po' disordinato, e non certo conforme alla disciplina del chiostro, per godere della sua compagnia, « parlando e chiacchierando con lui come un bambino fa con la mamma» (Vita 40). Nell’ultimo anno della sua vita fu afflitto da una tosse secca e insistente che gli squassava il petto e lo debilitava a tal punto che a volte, « tornando dopo la messa nella sua cella, rimaneva fino a un’ora come morto sul pagliericcio, senza poter né parlare né muoversi » ( Vita 54).

La lunga agonia comincia la vigilia di Natale del 1166. Il 3 gennaio 1167 Aelredo rivolge per l’ultima volta la parola ai suoi monaci: « Dio mi è testimone », dice, «che da quando ho vestito l'abito religioso, la cattiveria, la calunnia, o la voglia di litigare di qualcuno non hanno mai suscitato in me una reazione così forte da durare più di un giorno. Ho sempre amato la pace, la salvezza dei fratelli, e la tranquillità del cuore» (Vita 58). Poi mostra ai monaci le cose che ha conservato nel suo piccolo oratorio: Il Salterio glossato, Le Confessioni di sant’Agostino, Il Vangelo di Giovanni, le reliquie di alcuni santi, e una piccola croce che era appartenuta a Henry Murdac, l’arcivescovo cistercense di York. Parole e «cose» in cui Aelredo riassume tutto il senso profondo della sua esistenza.

La difficoltà a parlare gli lascia solo lo spazio per una sorta di giaculatoria che ripete incessantemente, forse rivolto agli angeli, come suggerisce Walter Daniel: «Festinate, for Crist luve! » (Affrettatevi, per amore di Cristo) ( Vita 60). Un altro particolare nel racconto dell’agonia risulta prezioso e significativo. Mentre gli viene letta la storia della passione, Aelredo, non potendo più parlare, manifesta con l’espressione del volto e il movimento delle mani e delle labbra le emozioni che il racconto gli suscita: di gioia davanti all'umiltà di Gesù e alla costanza dei discepoli, di tristezza davanti al rinnegamento di Pietro o al comportamento dei giudei e di Pilato. La partecipazione emotiva alla vicenda evangelica, la meditazione affettiva della Scrittura, che hanno in Aelredo un maestro sommo, trovano in lui pure la più commovente illustrazione. Ed è davanti a un’immagine del crocifisso che riesce a dire in forma compiuta la sua ultima preghiera, secondo la testimonianza dello stesso biografo: «Signore mio e Dio mio, mio salvatore e mio rifugio, mia gloria e mia speranza per l’eternità: alle tue mani affido il mio spirito» (Vita 61).

Assistito dalla sua numerosissima comunità e da quattro abati, tra cui Ruggero di Byland, che gli ha dato l’estrema unzione, e Riccardo di Fountains, Aelredo si spegne il 12 gennaio 1167, a cinquantasette anni. Viene sepolto nella sala capitolare, accanto al corpo dell’abate Gugliemo che lo aveva accolto a Rievaulx. Non fu mai canonizzato ufficialmente, anche se pare che il papa Celestino III lo abbia beatificato nel 1191. In ogni caso il capitolo generale dei cistercensi del 1476 autorizzò Rievaulx a celebrare la festa del suo abate più famoso, il che suppone un culto antico e ininterrotto. Il suo ufficio si trova oggi nel Breviario Monastico al 12 gennaio, giorno anniversario della sua morte.

La splendida chiesa gotica, che era stata innalzata sopra la precedente nel corso del Duecento, fu distrutta il 3 dicembre 1538 sotto Enrico VIII. La furia iconoclasta, unita all’avidità di denaro, fece sparire anche il sepolcro di Aelredo, che qualche anno prima John Leland aveva visto «ornato d’oro e d’argento». L’epitaffio recitava: « Et cito quam legitur, tam cito relegitur»: appena lo si è letto si ha voglia di rileggerlo. I suoi scritti restano, in fondo, la sua eredità più preziosa. Così certo pensava Walter Daniel che, nel comporre il cadavere di Aelredo, unse il pollice, l’indice e il dito medio della sua mano destra, « perché con quelle dita aveva scritto molte cose su Dio» (Vita 63). L’abbazia di Rievaulx è oggi una gloriosa e stupenda rovina, che serba ancora larghe tracce dell’antica maestà. Ma se il suo nome continua a diffondersi per il mondo è probabilmente grazie a un piccolo abate, gracile e mite, che nel turbolento secolo XII ha lanciato un messaggio ricco di una forza incontenibile: l’amore e l’amicizia sono la gioia più grande della vita, sono il segno più evidente della presenza di Dio in questo mondo, sono la sostanza stessa del mondo che verrà.

 


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18 novembre 2021                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net