I SALMI

Brevi commenti estratti da "I Salmi", commento di Gianfranco Ravasi e traduzione poetica di David Maria Turoldo.

Arnoldo Mondadori Editore 1994


Salmo 1
CANTO DELLE DUE VIE

Aperta nell'originale ebraico da una parola che inizia con la prima lettera dell'alfabeto, 'alef, questa composizione sapienziale è quasi la chiave di lettura di tutta la collezione dei Salmi. Due vie, due destini, due umanità si confrontano: il giusto che canta i Salmi è come un albero alto che non vede avvizzire le sue foglie, l'ingiusto è arido come pula dispersa dal vento. L'ultima lettera con cui si chiude la lirica è la tau, l'ultima dell'alfabeto ebraico: il salmo è, quindi, l'alfabeto della morale e delle scelte dell'uomo nella storia.

Salmo 2
BACIATEGLI I PIEDI CON CUORE TREMANTE

Ecco una delle pagine più celebri del Salterio: col Salmo 110 essa rappresenta la classica preghiera messianica del cristianesimo. In sé, però, il carme è un testo della solenne liturgia d'incoronazione del re di Giuda. In quel giorno, secondo una prassi orientale, egli veniva dichiarato essere divino: «Figlio mio tu sei: oggi io stesso ti ho generato» (v. 7). Se per Israele il sovrano resterà solo figlio adottivo e non naturale del Signore, nella rilettura cristiana il re-messia del salmo sarà il Cristo, il Figlio per eccellenza. Sullo sfondo si odono rumori di ribellioni, ma Dio si schiera dalla parte del «figlio» il cui scettro infrangerà ogni resistenza del male quasi fosse vaso di coccio. E tutti si prostreranno a lui «baciandogli i piedi con cuore tremante».

Salmo 3
A TESTA ALTA MI FA CAMMINARE

È una preghiera dell'aurora. Le prime ore si affacciano su una giornata tormentata, percorsa da incubi, popolata di oppressori, segnata dalla lotta e dalla caccia. La supplica del poeta conosce l'implorazione accorata ma anche l'imprecazione sanguigna nello stile della preghiera spontanea e totale propria della Bibbia. Conosce la paura ma soprattutto conosce la fiducia: «già al risveglio è lui che mi tiene per mano» (v. 6). Il testo originale ebraico è continuamente martellato dal suono -i- che, in ebraico, è il pronome di prima persona singolare: la preghiera è, quindi, molto personale, è la consegna di tutto l'«io» a Dio.

Salmo 4
COSÌ ATTENDO SERENO LA NOTTE

È una preghiera della sera tutta intrisa di fiducia in Dio. L 'oscurità della notte sarà squarciata dallo splendore del volto di Dio (v. 7); la prigione delle tenebre, simbolo di morte, sarà disserrata dal Signore che ci aprirà spazi infiniti di sogni (v. 2); il silenzio pauroso si trasforma in oasi di meditazione e di serenità (v. 5); il cuore agitato è avvolto di pace e di felicità come se fosse la festa della mietitura o quella della vendemmia (v. 8). Ma ormai «il sonno mi coglie e solo tu mi fai riposare tranquillo» (v. 9). Sulla filigrana di questo salmo è stata costruita una dolce preghiera della sera usata dalla sinagoga: «È un dono della tua santa volontà, o Signore, che io posso coricarmi in pace e svegliarmi sereno...».

Salmo 5
I TUOI AMANTI INVECE SIANO IN FESTA

Nuova preghiera dell'aurora. Una giornata che si affaccia sul pianeta delle ingiustizie quotidiane per cui le parole sono piene di tensione e si fanno supplica. La sostanza della lirica è, quindi, nella descrizione vivace dei mali della storia simbolicamente rappresentati nella bocca (v. 10): in una civiltà a matrice orale, com'è quella dell'Antico Oriente, la parola è spada, è tomba, è veleno. Ma su questo orizzonte di idolatri, di frodatori e di violenti (v. 7) che popolano le strade del giorno, si erge una presenza, quella di un Dio che non gode del male e non accetta alla sua mensa il corrotto (v. 5). Ed allora, anche davanti a un giorno di lotta, «i tuoi amanti siano in festa» (v. 12).

Salmo 6
INZUPPATO DI LACRIME È IL MIO GIACIGLIO

«Più non resisto!»: è questa la supplica drammatica di un malato che sente nello sfacelo fisico ramificarsi la forza gelida della Morte. E, nell'ancora nebulosa visione dell'oltrevita che Israele ha, il regno dei morti è un'area di silenzio da cui Dio è assente (v. 6). La domanda intensa della vita che il malato lancia a Dio è, quindi, qualcosa di più di una semplice richiesta di guarigione. E il desiderio di ritrovare la vita e l'intimità col Dio che ora sembra ostile: è per questo che la tradizione cristiana ha messo questo salmo in apertura ai Sette salmi penitenziali (Salmi 6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). Il dolore in questa luce è segno di ciò che non è Dio, cioè del peccato. Ma, come sempre nelle suppliche bibliche, l'ultima è sempre una parola di speranza e di vita: «Il Signore ha udito il mio pianto» (v. 9).

Salmo 7
È LA MIA INNOCENZA A DARMI RAGIONE

Un innocente perseguitato, abbandonato dalle magistrature terrene, si rivolge alla suprema cassazione divina con un giuramento d'innocenza (vv. 4-6). È una potente automaledizione che l'orante emette nella certezza che nelle sue mani non c'è traccia d'ingiustizia e che, quindi, Dio non può tollerare la sua condanna assurda. Col ritmo di una marcia militare, il poeta lancia l'arcaico grido della guerra santa «Sorgi, Signore... svegliati!», v. 7): il giusto giudice dei popoli non può restare indifferente di fronte al diritto violato. Deve accendersi d'ira, affilare la spada del suo giudizio, tendere il suo arco regale, puntarlo e far piombare nella fossa tutti i prepotenti e i perversi. Su tutta la lirica incombe questa monumentale figura del Dio giusto, guerriero implacabile nella difesa degli oppressi della terra.

Salmo 8
QUANDO IL CIELO CONTEMPLO E LA LUNA

Affidato alle sabbie lunari dagli astronauti N. Armstrong e E. Aldrin, questa straordinaria celebrazione dell'uomo nella trama grandiosa dell'universo sembra evocare certe battute del primo coro dell'Antigone di Sofocle: «Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell'uomo». Nel «silenzio eterno degli spazi infiniti», questa «canna pensante» - per usare le immagini di Pascal - è un granello microscopico. Ancor più insignificante è la sua realtà di fronte ad un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti. Eppure è proprio questo Dio che si china sull'uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell'orizzonte cosmico. Un canto dell'umanesimo, quindi; una preghiera pericolosa quando l'uomo diventa tiranno e umilia il mondo. È per questo che la Lettera agli Ebrei ha trasformato questo salmo notturno nel canto della notte di Natale e della nascita dell'uomo perfetto, il Cristo.

Salmo 9-10
EGLI NON DIMENTICA IL GRIDO DEI POVERI.

I (9)

II (10)

Spezzato in due testi dalla tradizione giudaica (è da qui che nasce la diversa numerazione del testo ebraico rispetto a quello della versione greca e latina), questo salmo è compatto attorno ad una figura, quella del «povero di JHWH». Con questa locuzione si definiscono nella Bibbia i perdenti della storia, la cui unica fiducia è in Dio, nella giustizia e nella verità. Il carme, pur nel suo movimento a spirale poetica, si fissa su un asse spirituale preciso: anche se apparentemente sconfitti, i poveri sfidano i secoli e le potenze perché Dio, l'eterno, è schierato dalla loro parte. Per tre volte nel salmo si implora e si loda l'irruzione del Signore giudice e salvatore nella storia (9,2-13; 9,14-21; 10). Le immagini si fanno in progressione sempre più appassionate e tenere sino al vertice di 10,14: «Ogni dolore e affanno tu vedi e li guardi e li prendi nelle tue mani».

Salmo 11 (10)
PIO ED EMPIO IL SIGNORE SCANDAGLIA

Una deliziosa, piccola lirica, colma di pace e di serenità, scandita dal nome sacro di Dio: JHWH risuona all'inizio (v. 1), tre volte al centro (w. 4-5) ed echeggia in finale (v. 7). In un dittico si fronteggiano due trionfi, quello del perverso (vv. 1-3) e quello del giusto (vv. 4- 7) ma l'accento è naturalmente tutto sul secondo. L 'empio è plasticamente rappresentato come un insaziabile arciere (v. 2). Ma il Giusto per eccellenza, Dio, non resta indifferente alla sua caccia sanguinaria; gli occhi di Dio non sono occhi ciechi ma penetranti; le sue mani preparano la coppa bruciante del destino che il malvagio dovrà subire. Scrive il libro dell’Apocalisse, quasi commentando il nostro salmo: «Chiunque adora la Bestia berrà il vino dell'ira di Dio e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello» (14,10).

Salmo 12 (11)
È AL COLMO LA FECCIA

Caleidoscopio di temi, di motivi, di qualità e tonalità letterarie, questo lamento prende corpo dal dramma sociale dei poveri oppressi e dalle labbra bugiarde ed arroganti degli oppressori. Di fronte alla sfida blasfema che gli empi gli lanciano «Con le nostre parole noi tutto possiamo», v. 5) Dio non resta indifferente ed interviene con un oracolo solenne: «Vengo a salvare...» (v. 6). Il giusto oppresso, armato solo di questa promessa, preziosa più del «puro argento», affronta la feccia dei più vili che sono sempre gli «emergenti» (v. 9) della storia. «Io ascolto il lamento dei poveri» parafrasava Paul Claudel -Questo mi fa male, dice Dio! Contate su di me, dice Dio!».

Salmo 13 (12)
FINO A QUANDO, SIGNORE?

Con la sua quadruplice martellata ripetizione del grido Fino a quando? il Salmo 13 è uno dei modelli emblematici delle lamentazioni bibliche. Questo interrogativo audace, diretto, categorico, divenuto anche musica in due famose composizioni di F. Liszt (1855) e di J. Brahms (1859), è il grido di un fedele che si sente abbandonato dal suo Signore divenuto indifferente ed ostile. Ma è anche quasi un'eco del respiro di dolore che sale continuamente dall'umanità ferita e impaurita. Ma se il primo movimento della supplica è segnato dall'appello e dalla protesta sincera, il secondo si pacifica già nella fiducia e nel canto gioioso. Il Nemico per eccellenza, la Morte, non griderà il suo epinicio: «L'ho vinto!» (v. 5); sarà, invece, l'orante che eleverà il suo inno di felicità all' Altissimo, fonte di ogni dono (v. 6).

Salmo 14 (13)
CANTO DELL'ATEO

Il «Requiem aeternam» per Dio pronunciato dal filosofo P. Nietzsche «Dio è morto! Dio è morto e noi l'abbiamo ucciso! » ha una sua prefigurazione nelle parole degli «stolti» di questo testo, riedito con alcune varianti nel Salmo 53. L'ateo della Bibbia non è, però, un negatore teorico e assoluto di Dio, non per nulla la sua dichiarazione suona così: «Qui Dio non c'è» (v. 1). Egli è, quindi, convinto che Dio sia come un imperatore impassibile, relegato nei suoi cieli dorati ed indifferente alle vicende della terra che restano, allora, il campo in cui si può imperversare senza nessuna morale se non quella della sopraffazione e della violenza. Ma Dio - afferma il nostro poeta - «si affaccia a vedere» coloro che divorano i poveri come se fossero un tozzo di pane ed interviene. Ed in quel giorno sarà festa per gli oppressi e gli umiliati. «Il Dio dei privi di Dio - scrive il teologo O. Ebeling - continua a disturbare, è il Dio che tutto rovescia, è il Dio della grande svolta».

Salmo 15 (14)
CHI POTRÀ VARCARE LA TUA SOGLIA

Tecnicamente definito «liturgia d'ingresso», questo salmo immagina che alla processione dei fedeli, giunti alle soglie del Tempio di Gerusalemme, i sacerdoti elenchino in undici commi le condizioni requisite per accedere al culto. Anche sui templi egiziani e babilonesi erano incise norme che regolavano l'accesso, ma si trattava sempre di prescrizioni rituali di purificazione e di abbigliamento. La Bibbia, invece, sulla scia della predicazione profetica, esige un severo esame di coscienza sugli impegni morali, sociali ed esistenziali, come è limpidamente affermato nella lista di richieste su cui si articola il nostro salmo. Le parole del profeta Michea (VIII sec. a.C.) sono il miglior commento al testo salmico: «Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,6-8).

Salmo 16 (15)
BENEDICO IL SIGNORE CHE LA MENTE M'ISPIRA

Stupenda composizione scritta forse da un sacerdote: il linguaggio dell'«eredità» divina presente nei vv. 5-7 è tipico della classe levitica che non possedeva un proprio territorio in Israele ma viveva attorno al Tempio. Il cuore poetico e religioso del salmo è, allora, nella professione di fede del v. 2: «Signore, tu sei il mio unico bene». Sembra di sentire già le parole di Teresa d' Avila: «Nulla manca a chi possiede Dio: Dio solo gli basta!». Animato da questa fiducia il poeta osa lanciare anche una sfida alla paura suprema dell'uomo, quella della morte. Da un lato egli vede il fluire inesorabile dei giorni verso la fossa, ma dall'altro egli intuisce che il Dio della vita non può permettere che il suo fedele piombi nel nulla o nel soggiorno spettrale di morti. Ai suoi occhi appare quasi un bagliore: è la via della vita e della gioia eterna davanti al volto di Dio. Pietro nel suo discorso di Pentecoste (Atti 2,22-36) e Paolo in quello di Antiochia di Pisidia (Atti 13,14-43) diranno le parole del Salmo 16 per il Cristo risorto.

Salmo 17 (16)
GRIDO DELL'INNOCENTE TORTURATO

Una protesta d'innocenza davanti al Giudice supremo (vv. 1-5) e un 'intensa supplica indirizzata al Salvatore (vv. 6-15): sono questi i due registri sui quali si svolge questo poemetto. Da un Iato emerge con forza la certezza che Dio difende i suoi fedeli, anzi li protegge come la pupilla dei suoi occhi e li avvolge all'ombra delle sue ali, simbolo dell'arca dell'alleanza con le ali dei cherubini, segno della vicinanza di JHWH al suo popolo (v. 8). D'altra parte, però, Dio si erge anche come l'alfiere della giustizia che ingaggia una violenta colluttazione coi perversi. Le scene finali, di stile barocco, dipingono la sua vittoria trionfale sul male che è colpito sin nelle sue più lontane propaggini, nei figli degli empi, secondo la visione antica della solidarietà familiare nel bene e nel male (v. 14).

Salmo 18 (17)
ODE DI LIBERAZIONE

Questa monumentale ode regale, che ci è giunta in ben tre edizioni (Salmo 18; 2Samuele 22; Salmo 144,1-11), è una specie di «Te Deum» arcaico, quasi certamente steso da Davide in tredici ottave pervase da tonalità, da simboli, da emozioni diverse. Indimenticabile è l'apparizione del grande Cavaliere divino avvolto nel mantello tenebroso delle nubi: cavalcando un cherubino, egli si curva sulle onde dell'oceano ove l'orante sta affogando, lo afferra con la sua mano potente e lo fa uscire al largo perché egli lo ama (vv.8-20).

Indimenticabile è anche la scena marziale di Dio che addestra il re (Davide) a tendere l'arco di bronzo (v. 45). Indimenticabile è la scena del campo di battaglia in cui i nemici sono dispersi come la polvere sollevata dalle folate di vento, sono calpestati come il fango della terra (v .43). Ma l'inno, in finale, lascia il passo ad un nuovo personaggio: è il re del futuro, il Messia, la cui vittoria sul male inaugurerà un orizzonte perfetto di luce e di pace.

Salmo 19 (18)
NARRANO I CIELI

 

Due soli, due luci, due parole divine: il sole, la luce e la parola del creato, voce segreta di Dio; il sole, la luce e la parola della Torah, cioè della Bibbia, voce esplicita di Dio. Un famoso commentatore ebreo medioevale scriveva: «Come il mondo non s'illumina e vive se non per opera del sole, così l'anima non raggiunge la sua pienezza di luce e di vita se non attraverso la Torah». II sole non è un dio come Ra o Aton, le divinità solari egiziane, è solo una splendida creatura che, come uno sposo o un corridore, esce dal talamo della notte per correre lungo l'orbita del cielo. E nel suo sfolgorare ha un messaggio superiore cifrato da svelare.

La Torah, la legge di Dio, è invece la parola pura, radiosa ed eterna di JHWH. Chi la accoglie con gioia è come se gustasse un miele dal gusto irraggiungibile, è come se avesse un tesoro ineguagliabile. «La mia Bibbia e la natura: questi sono i miei due libri di fede», esclamava il poeta francese Lamartine nello spirito del nostro cantico dei due dischi solari.

Salmo 20 (19) 
DISPIEGÀTI NEL SUO NOME I VESSILLI

Ecco un inno nazionale marziale dell'antico Israele: Dio salvi il re! (v. 10). È però un inno a più voci, cantato da un coretto, dall'assemblea e dal sacerdote che proclama, come solista, un oracolo di vittoria: «il Signore vuol che il suo Eletto riporti vittoria» (v. 7).

Intanto i vessilli del re davidico garriscono al vento (v. 6) e fanno balenare un'altra insegna, quella del Messia. È, infatti, con lo sguardo rivolto a questa insegna che il salmo veniva cantato anche quando il trono di Davide era stato spazzato via dalle armate babilonesi di Nabucodonosor nel 586 a.C. È con lo sguardo rivolto a Colui che solo nel nome di Dio ha la sua forza (v. 8) che l'inno è cantato nel mondo cristiano: «Siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (l Corinzi 15,57).

 Salmo 21 (20) 
TI CHIESE VITA E VITA GLI DESTI

«Di oro puro un diadema gli poni sul capo»: questa frase del v. 4 rivela la destinazione originaria di questo carme regale. Si tratta di un'ode per il rito dell'incoronazione del re di Gerusalemme. Il canto è ritmato sul contrappunto tra le acclamazioni dell' assemblea (vv. 2.8.14) e la voce del solista che implora la benedizione divina sul re e la maledizione sui suoi avversari (vv. 3- 7; 9-13). Il vertice del carme è nella colossale raffigurazione del re arciere (v. 13): essa evoca i bassorilievi dei «piloni» dei templi egiziani, ove il faraone è tratteggiato nell'atto di scoccare le sue frecce contro i nemici. Naturalmente il dono della vita, della vittoria e della felicità destinate al re si trasfigurano nell'uso liturgico posteriore: già il Talmud applicava questo corale al Messia e Agostino scriveva che esso «de Christo canitur», è ormai cantato per il Cristo, vincitore sulla morte, sul dolore, sul male.

Salmo 22 (21) 
GRIDO DI PASSIONE E DI GLORIA

Non c'è cristiano che non conosca la forza sconvolgente delle battute iniziali di questa celebre lamentazione, gridate da Gesù agonizzante (Matteo 27,46). Un testo di grande desolazione striato dal sangue e dalle lacrime, segnato da immagini «bestiali» di sapore prettamente orientale (tori, leoni, mastini, bufali), affidato in filigrana alla raffigurazione di un corpo dalle ossa slogate, dal cuore molle come cera, dalla gola simile a creta riarsa, dal respiro affannato, dalle mani e dai piedi feriti... Attorno, il silenzio di Dio e l'ostilità degli uomini che già si spartiscono l'eredità, convinti di essere di fronte a un maledetto (v. 19). Ed invece, all'improvviso, ecco la svolta: «Esaudito, esaudito mi hai!» (v. 22). E il lamento si trasforma in inno di ringraziamento festoso (vv. 23-27) e in cantico al Signore, re dell'universo (vv. 28-29). Dalla disperazione alla speranza, dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione: «Questo ha fatto il Signore!» (v. 32).

Salmo 23 (22) 
IL SIGNORE È IL MIO PASTORE

«Le centinaia di libri che ho letto non mi hanno procurato tanta luce e tanto conforto quanto questi versi del Salmo 23». Questa testimonianza del filosofo francese H. Bergson esprime limpidamente il fascino costante esercitato sui lettori da questa lirica studiata, amata e continuamente echeggiante nelle liturgie cristiane. Due sono le unità simboliche che reggono la poesia: la prima è quella pastorale, tanto cara alla tradizione biblica e orientale in genere (vedi Ezechiele 34 e Giovanni 10), la seconda è quella dell'ospitalità (la mensa, l'olio profumato, il calice colmo), segno di intimità. Il pastore non è solo la guida, è anche il compagno di viaggio per il quale le ore del gregge sono le sue ore, stessi i rischi, stessa la sete e la fame, identica la calura implacabile. Il pasto dell'ospitalità evoca, invece, il sacrificio di comunione nel Tempio che comprendeva un banchetto sacro con le carni della vittima immolata.

I due simboli parlano, quindi, di comunione e di intimità tra Dio e l'uomo: «sempre mi sei vicino» (v. 4) è, allora, la parola decisiva del salmo e la fiducia l'atteggiamento di fondo.

Salmo 24 (23) 
APPARTIENE AL SIGNORE LA TERRA

Nell'interno di questo salmo arcaico sono intrecciati in un'unica trama tre composizioni: un inno cosmico al Creatore (vv. 1-2), una «liturgia d'ingresso» simile a quella incontrata nel Salmo 15 (vv. 3-6) e una solenne epifania del Signore degli astri, il Dio degli eserciti celesti (vv. 7-10). Il carme ha il tono di una marcia che accompagna la processione sacra. Dopo aver celebrato la signoria suprema di JHWH sul creato, il corteo si arresta alle porte del Tempio ove i sacerdoti elencano le tre condizioni per accedere al culto (leggi il v. 4). A questo punto, in un crescendo di grande potenza sonora, le porte del Tempio sono invitate a spalancarsi, sollevando i loro frontoni e i loro archi per accogliere il Re della Gloria che entra nel suo Tempio. Forse il testo riflette la prassi liturgica della processione con l'Arca dell'alleanza. Plinio il Giovane in una lettera a Traiano (103 d.C.) ricorda che questo salmo era divenuto la preghiera della liturgia cristiana dell'aurora.

Salmo 25 (24) 
IL TUO AMORE RICORDA, SIGNORE

È questo il primo salmo rigorosamente alfabetico (lo era parzialmente anche il 9-10): ogni versetto si apre con una parola ebraica che inizia con la corrispondente lettera dell'alfabeto in successione. Nonostante questo artificio esteriore, destinato a favorire la memoria, aiutata anche dai quattordici imperativi che reggono il salmo, i sentimenti che affiorano sono vivi e calorosi. Pericoli esterni e nemici si affiancano al peccato interiore nel seminare paura nel cuore dell'orante. Ma egli è certo che l'amore di Dio sconfigge ogni incubo: «il tuo amore ricorda, Signore, ma le colpe dimentica, Dio!» (vv. 6.7). L'atteggiamento spirituale che il testo suppone è quello degli 'anawim, cioè dei «poveri di JHWH», coloro la cui ultima fiducia e speranza è solo in Dio, il Liberatore buono e giusto (v. 9). Ed allora, anche se il senso del peccato è lacerante, il cuore è pieno di pace.

Salmo 26 (25) 
IN ACQUE PURISSIME LAVO LE MANI

 Celebre nell'antico Messale latino per l'uso del v. 6 «Lavabo inter innocentes manus meas», questo salmo coniuga una dichiarazione di innocenza alla «liturgia d'ingresso» al Tempio nello stile dei Salmi 15 e 24,3-6. Il primo tema è solennemente affermato in apertura: «In piena innocenza cammino da sempre» (v. l).

Come in un crogiuolo, Dio può far passare al fuoco viscere, mente e cuore dell'orante e vedrà solo brillare l'oro dell'amore, della verità e della giustizia. Con questa limpidità di coscienza il salmista può entrare in quella «casa» che egli tanto ama, «la tenda della Presenza e della Gloria» divina, il Tempio (v. 8). Ancora una volta si ribadisce, nello spirito della predicazione profetica, che la preghiera senza la giustizia è farsa, che la liturgia senza l'esistenza giusta è magia (vedi Isaia 1 e Amos 5). Il simbolo della lavanda delle mani, classico in tutte le culture (si ricordi il gesto di Pilato), è quindi espressione di una purezza totale, interiore e sociale.

Salmo 27 (26) 
AVVOLTO NEL SEGRETO DELLA TENDA

Costruito su due tavole simmetriche (vv. 1-6 e 7-14), il salmo celebra una fiducia trionfale nell'azione di Dio c (vv. 1-6) e una fiducia supplice (vv. 7-14). Da un lato, infatti, il poeta vede scatenarsi l'assalto del male con tutta la sua mostruosa e famelica violenza (v. 2): ma Dio è come una rupe alta e imprendibile, il suo Tempio è rifugio inespugnabile anche nel giorno più nero. D'altra parte, invece, il poeta viene colto dalla paura, grida il suo terrore sentendo alle spalle l'ansimare bramoso delle gole dei mostri nemici. Egli è totalmente solo; come in un'antichissima supplica del re mesopotamico Gudea (XXII sec. a.C.), si vede abbandonato persino dal padre e dalla madre. Ma in questo vuoto, una certezza permane: «il Signore - lui solo - mi raccolse» (v. 10).
Ed il salmo si chiude, allora, col filo verde della speranza: «Nel Signore tu spera, e sii forte...».

Salmo 28 (27)
MUTO COME UNA LAPIDE

Nel silenzio di Dio muto come una lapide si leva il grido di un uomo circondato da perversi e da ingiusti. Eppure egli è certo che, nonostante l'indifferenza apparente di Dio e la situazione quasi mortale del giusto, uno sbocco ci sia: Dio «paga secondo le opere» (v. 4). È a questo punto che la scena muta con violenza: Dio parla ed interviene ed allora il grido del giusto si trasforma in benedizione e in lode (vv. 6-9). Il Salmo 28 è, quindi, un canto di attesa della Parola di Dio, l'unica parola risolutrice che squarcia la notte dell'anima e blocca la morte. «Ecco, vengono giorni in cui manderò la fame sul paese: non fame di pane ne sete d'acqua, ma di udire la parola del Signore», diceva il profeta Amos (8,11).

Salmo 29 (28)
LA VOCE DEL SIGNORE TUONA SULLE ACQUE

Secondo molti studiosi questo folgorante corale della tempesta sarebbe il salmo più antico: esso desume lessico, simboli, idee dal mondo indigeno preisraelitico, quello cananeo a noi noto soprattutto per le scoperte di Ugarit in Siria. L' ode, sorta forse nel XII sec. a.C., è scandita da una cupa onomatopea: per sette volte rimbomba la parola ebraica qol che significa sia «tuono» sia «voce». Nel cosmo scatenato il poeta intravede, quindi, un segno del Creatore. La tempesta in Canaan era vista come l'orgasmo di Baal, il dio fecondatore con la sua pioggia. Nel salmo, invece, è solo uno strumento con cui Dio svela la sua trascendenza: egli è sopra la bufera e in lui e con lui c'è solo pace (vv. 9-11). La tempesta è sceneggiata nel suo svolgimento: dal Mediterraneo alla catena del Libano (Sirion è il nome fenicio), sino alle steppe meridionali di Kades ove le cerve e le pecore incinte per il terrore dei lampi e dei tuoni abortiscono. Ma nel gorgo ciclonico della storia e della natura noi abbiamo un punto fermo in lui, il Signore che «benedice il suo popolo nella pace».

Salmo 30 (29)
MA IL MATTINO RIDONA LA GIOIA

Cinque strofe di ringraziamento tutte ritmate su una serie di contrasti, vita-morte (vv .2-4), pianto-gioia (vv. 5-6), stabilità-vacillare (vv. 7-9), vita-morte (vv. 10-11), pianto-gioia (vv. 12-13): è questa la struttura del Salmo 30, un canto di gioia dopo che si è provato il sapore amaro del dolore e della morte. Infatti, anche se la lirica sembra oscillare continuamente tra due estremi antitetici, l'accento finale è posto sulla vita, sulla gioia, sulla stabilità. E le ultime battute dimenticano le sere fatte di lacrime e si aprono ad un mattino di luce mentre sulle labbra del poeta affiora un inno entusiastico e «danzante» alla pace che Dio sostituisce all'amarezza nel cuore di chi spera. S. Agostino ha applicato il salmo al Cristo che dal «sacco di lutto della passione e della morte» (vedi il v. 12) è passato alle vesti splendenti della gioia pasquale. 

Salmo 31 (30) 
NELLE TUE MANI AFFIDO IL MIO SPIRITO

«Nelle tue mani affido il mio spirito»: queste parole del v. 6 diventano anche le ultime parole di Gesù in croce secondo Luca (23,46) e quelle di Stefano lapidato secondo gli Atti degli Apostoli (7,59). Anche S. Policarpo, S. Basilio, S. Bernardo, S. Luigi IX, S. Venceslao, il Savonarola, Lutero e altri useranno questo salmo come loro ultimo testamento spirituale. Il carme è una preghiera dei hasidim, letteralmente «i fedeli», «i pii» (v. 24), cioè coloro che rispondono alla fedeltà amorosa di Dio (in ebraico hesed) con la loro gioiosa fedeltà, mai incrinata dalle prove. Il movimento poetico del testo è appunto segnato da questo spirito: ad un canto della fiducia (vv. 2-9) si accosta un canto del dolore e della persecuzione (vv. 10-19) ma per sfociare in un canto di gioia e di speranza (vv. 20-25). E il testamento dei hasidim (nome che sarà ripreso da movimenti spirituali giudaici del Medioevo e del '700) è quello delle tre virtù fondamentali: stare saldi nella fede, sperare sempre, amare il Signore (vv. 24-25). 

Salmo 32 (31) 
BEATITUDINE DEL PERDONO

«Quanto è beato l'uomo cui sono perdonati i peccati!». È questa la sigla letteraria e teologica del Salmo 32, inserito già nel VI sec. dalla tradizione cristiana nei «Salmi penitenziali». Ma l'accento non è tanto su una penitenza aspra, su un Dio implacabile giudice quanto piuttosto sulla felicità liberatoria della confessione del peccato davanti ad un Dio il cui desiderio è quello di perdonare. Una volta purificato dal suo male, il salmi sta diventa un maestro di vita per gli altri: infatti la seconda parte del testo (vv. 8-11) è una vera e propria lezione sapienziale sulla via da seguire. L'appello si fa caloroso, venato persino di ironia con la vivace comparazione del mulo e del cavallo presente nel v. 9. Ma la certezza che pervade tutto il salmo è sempre una sola: la pace dell'essere perdonati. Paolo, nel suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, ha usato esplicitamente il nostro salmo per celebrare la grazia liberatrice di Cristo (4,6-8).

Salmo 33 (32) 
CANTATE, O SANTI, UN CANTICO NUOVO

L'uomo della Bibbia non vede mai l'universo come «natura» ma come «creato», in esso egli scopre il segno d'una parola suprema ed efficace, quella del Creatore. Il nostro salmo esprime liricamente questa tesi teologica attraverso un inno alla parola divina creatrice, all'azione nel cosmo, e alla parola divina provvidente, all'azione nella storia. Questa ovazione corale sale dalla terra come risposta riconoscente del fedele che contempla l'opera mirabile che Dio intesse nel caos della materia e del tempo. Il poema è retto dalla simbologia cosmologica classica: i cieli sono come una cupola metallica stesa da Dio, i mari sono raccolti in immensi contenitori così da non attentare allo splendore della terraferma, gli abissi con le loro acque sono racchiusi in un otre... Chi si appoggia al Creatore non deve temere il caos cosmico e le «armate invincibili» della storia: «solo in lui è il vero conforto, in lui solo la nostra fiducia» (v. 21).

Salmo 34 (33)
CANTO ALL'AMORE E ALLA GIUSTIZIA DI DIO

 Questa benedizione «alfabetica» (vedi il Salmo 25 per la tecnica stilistica dell'acrostico) appartiene alla spiritualità dei «poveri di JHWH», coloro che si rifugiano solo in Dio, sfidando le manovre degli ingiusti con la loro fede nuda. L 'abbandono in Dio -insegna il salmo -è sorgente di gioia e di pace e l'esperienza personale del poeta (vv. 5-11) viene versata nel canto comune dell'assemblea. Stupenda è l'immagine del v. 6: «A lui mirate e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri». Commentava Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati nella sua stessa immagine...» (3,18). Il povero, avvolto dalla luce di Dio e difeso dal suo angelo santo, sente di avere il Signore stesso nella sua tenda familiare: egli, infatti, «pianta la tenda sul campo dei giusti» (v. 8).

Salmo 35 (34) 
PERSECUZIONE DEL GIUSTO

«Tu hai visto, Signore, non startene muto, non fare l'assente, il lontano»: la protesta sincera, quasi provocatoria, di un perseguitato che si sente dimenticato da Dio e in balia di belve ruggenti è il tono fondamentale di questa supplica indirizzata al Dio guerriero armato di scudo, di corazza, di lancia e di scure (vv. 2-3).

Il lamento del poeta è simile ad una melopea orientale che, a ondate successive, ritorna sugli stessi temi accendendone la passione. Per tre volte, infatti, si lancia un appello a Dio, si impreca contro i persecutori crudeli, si dipinge l'amara vicenda personale, si approda alla certezza dell'esaudimento (vv. 1-10; 11-18; 19-28).

«Le porte del mondo in cui viviamo sembrano recare il blasone dei demoni. ..Dio stesso sembra dirigere la commedia o assistervi indifferente. Ma questo avviene perché Dio si nasconde e attende di essere scoperto e ammesso alla nostra vita» (J.A. Heschel). Se è cercato e ammesso, il Signore ribalta la storia e si svela come il Dio dei poveri e degli oppressi.

Salmo 36 (35) 
IN CAMMINO FRA I DUE ABISSI

Col passaggio attraverso tre registri letterari diversi, la riflessione sapienziale sul male (vv. 2-5), l'inno al bene (vv. 6-11) e la supplica al Dio liberatore (vv. 12-13), questa composizione disegna quell'impasto di corruzione e di innocenza, di bestemmia e di preghiera, di odio e di amore che è l'umanità. All'abisso del male, che emette i suoi oracoli sulle labbra degli ingiusti, si oppone l'abisso della bontà divina che si effondi de nei giusti quasi come «il fiume del sognato Eden» (v. 9). Tra questi due abissi cammina l'uomo. L'orante ha, però, già scelto in quale mare naufragare, in quello della luce di Dio. Lo straordinario v. 10, tanto caro a Rosmini, è la celebrazione di questa immersione nella vita e nell'infinito.

Salmo 37 (36)
I MITI POSSEDERANNO LA TERRA

Di questa nuova composizione alfabetica (vedi il Salmo 25) di stampo sapienziale possediamo uno dei più antichi commenti che mai siano stati fatti alla Bibbia: tra i manoscritti delle grotte di Qumran, sulle coste del mar Morto, è venuta alla luce una spiegazione del Salmo 37, versetto per versetto, di almeno duemila anni fa. Giusto e ingiusto sono messi a confronto alla luce delle scelte di Dio: il mite erediterà la terra (v. 11), il violento sarà come erba avvizzita (v. 2). Questa tesi ottimistica, nota come «teoria della retribuzione» e cara alla sapienza d'Israele, si trasforma in una chiave di lettura della storia ed in un principio morale fondamentale. Ma il salmista tende a trasformare questa legge del «delitto-castigo/giustizia-premio» non tanto in una speranza terrena e sociale quanto piuttosto in un esito della coscienza e del Regno di Dio. In questo senso egli si accosta allo spirito delle Beatitudini che hanno appunto ripreso il v. 11 del salmo (Matteo 5,4).

Salmo 38 (37)
PREGHIERA DELLA PIAGA PURULENTA

Già S. Gerolamo aveva identificato la piaga purulenta, la cancrena e le pustole descritte nel v. 6 con la lebbra: la supplica acquistava, così, una forza inedita perché il lebbroso era uno scomunicato dalla vita e dall'umanità. Ma questa lamentazione ha in se un tema più profondo, legato a quella «teoria della retribuzione» per la quale ogni malattia o dolore supponeva alla radice un peccato. La terribile lebbra rivela un terribile peccato ed è per questo che il salmo diventa un'intensa confessione della colpa. Il corpo striato da ogni forma di mali diventa una specie di geografia dell'anima solcata dal peccato e dalla miseria. Il pentimento è urlato (v.19), il grido ha il tono di un ultimatum (vv. 22-23), ma da ogni riga è assente la disperazione perché «in te solo confido, Signore» (v. 16). Scriveva Giovanni: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» (1 Giovanni 1,8-9).

 

Salmo 39 (38)
MISERIA DELL'ESISTERE

Questa straziante elegia autobiografica sul male di vivere sembra scritta da un fratello di Qohelet, il celebre sapiente pessimista della Bibbia. Infatti per tre volte echeggia in crescendo il termine hebel caro a quell'autore (vedi 1,2; 12,8): tradotto spesso con "vanità", esso in realtà dice soffio, alito di vento impalpabile, ombra inafferrabile, nube che si dissolve al primo apparire del sole. Così è la vita anche per il nostro poeta, una sequenza vuota di giorni, lunga solo come una spanna (v. 6), pervasa dalla mania di possedere ricchezze che sono poi corrose dai tarli. La preghiera nuda di questo grande poeta è una sola: egli grida a Dio di lasciargli solo un attimo di tregua, di lasciarlo respirare un ( solo istante, di lasciargli inghiottire la saliva -come dice la colorita locuzione originale del v. 14 ancora usata in arabo per indicare un momento di pace. E poi, nell'ancor oscura visione veterotestamentaria dell'aldilà, ci sarà solo il nulla dello sheol, gli inferi della Bibbia. I vv. 13-14 del Salmo 39 col successivo Salmo 40,1-2 costituiscono la base letteraria della famosa Sinfonia dei Salmi di I. Stravinskij (1930).

Salmo 40 (39)

NON TARDARE, MIO DIO

Incubo e gioia pervadono questa lirica che - come ha scritto un commentatore dell'800 - si apre in tono di «Magnificat» e finisce come un «De profundis». Le prime strofe raccolgono un «canto nuovo», cioè una celebrazione piena e perfetta della speranza, della fiducia in Dio che, come un padre, si china sulla sua creatura (v. 2) .Col v. 13 il tono muta, l'orizzonte diventa fosco, mali innumerevoli, «più dei capelli del capo», attanagliano l'orante. Il salmo diventa, allora, una supplica il cui testo (vv. 14-18) sarà riedito alla lettera nel Salmo 70. Ma anche nel lamento la fiducia non s'incrina perché Dio si cura di chi è povero e solo (v. 18). Un'osservazione a margine: i vv. 7-9, che nell'originale ebraico sono una dichiarazione sul vero culto fatto di obbedienza («orecchi») e giustizia «legge»), sono stati applicati dalla Lettera agli Ebrei, secondo l'antica versione greca dei Settanta, al Cristo che obbedisce al Padre venendo nel mondo per la salvezza dell'uomo (10,4-7). 

Salmo 41 (40)
PURE CHI RITENEVO UN AMICO...

«Contro di te ho peccato, risanami!»: questa supplica presente nel v. 5 rivela il senso ultimo del salmo, quello di essere la preghiera di un malato che vede nella sua sofferenza -secondo il ben noto binomio delitto- castigo -la pena per un peccato. Ma l'originalità del lamento è soprattutto nell'accesa evocazione della solitudine e dell'ostilità che l'infermo in modo palpabile avverte attorno al suo letto. Sembra quasi che un'accolta di corvi o un branco di sciacalli si sia dato appuntamento presso il salmi sta per piombare su di lui appena «la peste infernale» lo avrà liquidato. Ma, con amara sorpresa, tra quei volti ostili egli vede anche quello di un amico: «l'amico col quale dividevo il mio pane» ora leva aggressivamente il piede per schiacciarlo (v. 10). In quel volto Gesù, alle soglie della sua morte, vede Giuda, l'amico traditore: «Non parlo di tutti voi; conosco quelli che ho scelto. Ma si deve adempire la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno» (Giovanni 13,18). Un'osservazione a margine del testo: la benedizione del v. 14 è un'aggiunta giudaica posteriore per concludere il primo dei cinque libri in cui si era allora convenzionalmente diviso il Salterio.

Salmo 42 (41)
CANTO DELLA NOTTE OSCURA DELL'ANIMA LONTANA

Il Sicut cervus di Pierluigi da Palestrina, uno dei capolavori della musica rinascimentale, può fare da sfondo a questa stupenda lirica erroneamente divisa in due salmi, il 42 e il 43, in realtà unitaria, come è attestato dal ritornello antifonale di 42,6.12; 43,5. In tre atti si snoda in forma autobiografica la storia di un levita «scomunicato» da Gerusalemme e relegato a domicilio coatto in terra estranea, nell'alta Galilea, alle sorgenti del Giordano presso il monte Ermon e I'ignoto monte Misar. Pur circondato dalle chiare e fresche acque del fiume santo, egli ha sete di un'altra acqua, quella di Sion. Egli è come la cerva che, giunta ad un torrente secco, lancia al cielo il suo lamento: la gola del salmista ha 'sete del Dio vivente che in Sion si svela in tutto il suo splendore. La nostalgia della liturgia del Tempio (v. 5) è struggente, soprattutto ora che i nemici, i pagani, ironizzano sul giusto chiedendogli: «Ma dov'è mai il tuo Dio e Signore?» (v. Il). Indimenticabile è il soliloquio del poeta con la sua anima, presente nei vv. 6.12, un appello alla speranza perché Dio non tacerà sino alla fine.

Salmo 43 (42)
SALIRÒ ALL'ALTARE DI DIO

È questa la terza parte dell'unica lirica composta dai Salmi 42-43, erroneamente frazionati in due salmi. Il levita relegato nell'alta Galilea attende con fiducia l'intervento di Dio che invierà i suoi due messaggeri, la Verità e la Luce (v. 3). Essi prenderanno per mano l'orante esiliato e lo condurranno verso Sion, verso l'altare di Dio ove il fedele riprenderà il suo servizio liturgico nel canto e nella danza. In crescendo, risuona per l'ultima volta (v. 5) l'antifona che già era stata cantata due volte nel Salmo 42 (vv. 6.12): ora le sue parole stanno per attuarsi perche Dio, dopo la prova, si sta per mostrare come «salvezza del volto», cioè come gioia e come luce. Il brano del Salmo 43 è stato usato dalla tradizione cristiana come preghiera d'ingresso alla liturgia eucaristica: «Introibo ad altare Dei. ..Salirò all'altare di Dio». 

Salmo 44 (43)
PERCHÉ DORMI, SIGNORE?

Ecco la prima preghiera nazionale che incontriamo nel Salterio. Si tratta di una lamentazione che getta una luce torva sul presente tragico di Israele (vv. 10-23). La nazione santa è coperta di vergogna, le sue armate sono in rotta, il territorio è devastato, si succedono i massacri, si moltiplicano le umiliazioni e le deportazioni, il popolo è venduto come schiavo, si prepara il grande olocausto finale. Potente è l'immagine del v. 26: «Siamo costretti a morder la polvere, coi nostri ventri distesi a terra». Di fronte a questa tragedia si leva una duplice preghiera. Da un lato si evoca il passato glorioso (vv. 2-9): nel Credo Israele continua a professare le grandi azioni salvifiche, soprattutto la liberazione esodica dalla schiavitù faraonica. Questa fede nel Dio liberatore è speranza per il presente amaro. D'altro lato la preghiera si fa appello-ultimatum a Dio (vv. 24-27). Le parole sono quasi provocatorie, scagliate contro un Dio che sembra dormire, lontano dall'urlo disperato degli oppressi: «Perche dormi, o Dio e Signore? Destati e prendi ancora a vegliarci!» (v. 24).

Salmo 45 (44)
CARME NUZIALE

Questo raffinato carme nuziale, scritto forse per le nozze del re d'Israele Acab e di Gezabele, principessa fenicia di Tiro (vedi il v. 13), che tanti lutti porterà al popolo del regno settentrionale ebraico, è come un Cantico dei cantici in miniatura. Due meravigliosi cammei contengono il ritratto del giovane re appena consacrato e abbigliato in alta uniforme militare (vv. 4-10) e quello della regina che, nello splendore dei suoi broccati e avvolta in una nuvola di profumi, sta col corteo per giungere al palazzo reale. Il poeta di corte, autore del poema, dà voce a tutto Israele in una benedizione-augurio (vv. 17 -18) per un amore fecondo e felice. Questo canto della gioia, della bellezza e dell'amore, riletto già in chiave messianica (lo sposo è il Messia-Cristo e la sposa è Israele-Chiesa) dalla tradizione giudaica e cristiana, è stato applicato liberamente dalla liturgia cattolica a Maria. In realtà esso è soprattutto la celebrazione della bellezza suprema dell'amore che rende re e regina ogni sposo e ogni sposa, come insegna il Cantico dei cantici.

Salmo 46 (45)
PRIMO CANTO DI SION

Il Salmo 46 è il primo dei cosiddetti «canti di Sion» dispersi nel Salterio. Un commentatore, il tedesco Deissler, scriveva: «E tra i capolavori del Salterio, una sinfonia di suoni nello stile più raffinato della lingua ebraica, opera di un cantore e di un poeta di grande intensità». Il ritornello musicale e teologico contiene nei vv. 2.8.12Ia chiave d'interpretazione del mistero di Gerusalemme: il «Dio-con-noi», l'Emmanuele, è là, nel suo grembo (vedi Ezechiele 48,35). Il carme si sviluppa attorno ad un simbolo cosmico. Da un lato c'è Sion, simile ad un'oasi percorsa da correnti d'acqua viva, simile ad un grembo fecondo in cui c'è vita e nutrimento. Fuori di essa, invece, si scatena il caos: le acque oceaniche tentano di sgretolare i monti, i popoli si affrontano in battaglie sanguinose. Sion è, quindi, la pietra angolare dell'armonia cosmica e della pace perché in essa si rivela Dio, il Creatore e il Salvatore. La sua voce si leva solenne: Fermate, cessate, spezzate gli archi, infrangete le lance, degli scudi fate un braciere...! (Cfr. vv. 10-11; leggi Isaia 2,1-5).

Salmo 47 (46)
DIO REGNA SU TUTTA LA TERRA

Il Salmo 47 è il primo esempio che il Salterio ci offre di «inni a JHWH re» (vedi anche Salmi 93; 96-99). Con questo particolare genere di salmi si vuole celebrare - attraverso il simbolo «politico» del regno - il progetto che Dio intende attuare nel cosmo e nella storia, vincendo il caos e il male. Questo inno da parata introduce il Signore mentre si rivela sulla ribalta di tutta la terra. Egli è accolto dagli applausi dei popoli, dalle acclamazioni adoranti delle nazioni, dai canti e dal suono del corno, lo strumento principe della liturgia d'Israele (non per nulla il giudaismo recita sette volte il salmo prima che il corno dia il segnale del nuovo anno). Al centro della scena c'è lui, l'Eterno, l'Altissimo, il Terribile, il Sovrano trascendente, ma attorno a lui si raccoglie non solo Israele, «il possesso» personale che egli si è scelto (v. 5), ma anche tutte le nazioni straniere in un mondo ormai pacificato.

Salmo 48 (47)
«O SION, DALL'ORIENTE E DALL'OCCIDENTE...»

Due tavole colme di colori e di immagini dipingono in questo «canto di Sion» la città santa. La prima (vv. 2-8) è il ritratto della Gerusalemme vittoriosa, la città del Gran Re. I nemici avanzano, l'assediano invano, sono costretti ad una fuga catastrofica, «come quando la tempesta d'oriente sbatte e squarcia le galee di Tarsis», le navi fenicie dirette verso Gibilterra. La seconda scena (vv. 9-15) disegna invece la Sion liturgica percorsa dai canti e dalle preghiere del Tempio e dalle processioni che si snodano attorno alle mura e alle torri fortificate. Lo splendore di Gerusalemme e la sua inviolabilità, però, non hanno ragioni architettoniche o militari, ma teologiche: come ripete l'antifona dei vv. 2.9.15, essa è il segno della vicinanza di Dio all'uomo, del suo essere «guida al di là di ogni morte». «Beato, allora, colui che in Sion attende e veglia per veder salire l'alba della luce di Dio», cantava il poeta ebreo medievale Giuda Ha-Levi (XII sec.). 

Salmo 49 (48)
ORATORIO SULLA MORTE

Questo «oratorio sulla morte» è un altro dei capolavori letterari e spirituali del Salterio. Grande meditazione sapienziale sulla vera scala dei valori umani, la lirica si sforza di squarciare il velo oscuro della morte, frontiera ultima dell'esistenza terrena, per scoprirne il mistero. La voracità del mostro che si chiama sheol (gli inferi della Bibbia) ingoia ricchezze e beni: invano il potente si illude di offrire 'un riscatto con le sue immense finanze alla Morte. Per quanto sia alta la copertura finanziaria offerta, essa mai sarà sufficiente (v. 9). E pur sapendo di questa verità, il ricco è come una bestia, già marchiata dal sigillo della fine, che si illude di vincere e di sopravvivere: egli -come si dice nell'antifona dei vv. 13 e 21- «non passa la notte» ed è subito la fine, «non capisce» il suo destino, animalescamente ottuso come egli è. Ma per il giusto una luce è accesa nella tenebra della morte. Il Dio eterno, signore della vita, non può lasciar piombare nel nulla chi è vissuto in intimità di amore e di giustizia con lui. Ed è questo il testamento del poeta: «Iddio potrà riscattarmi, solo lui potrà strappar la mia vita dalla mano feroce di morte!»(v. 16). 

Salmo 50 (49)
FEDE E RELIGIONE

Col maggior teologo protestante del '900, K. Barth, potremmo riassumere il salmo con questa preghiera: «Signore, liberami dalla religione e dammi la fede!». Nello spirito della predicazione profetica il salmista apre un vero e proprio processo (in ebraico rîb, «lite giudiziaria») nei confronti di un Israele attento solo all'osservanza religiosa esteriore. Alla lista sacrificale di sette tipi di animali (vv. 7-15) il poeta oppone la lista morale di sette impegni esistenziali (vv. 16-23), espressione di una fede viva. Dio non ha bisogno di freddi esecutori rituali, non ha necessità di vittime per cibarsi come affermavano gli antichi miti perche suo è tutto il creato, non tollera ipocriti oranti le cui mani grondano ingiustizia e forse sangue. «Mi dà gloria colui che di cuore sacrifici di lode mi offre» (v. 23). Fede ed amore si intrecciano di necessità. Anche nel 2100 a.C. in Egitto un sapiente scriveva: «La divinità gradisce più volentieri le qualità dell'uomo dal cuore giusto che non il bue dell'uomo perverso». E il profeta Osea, citato anche da Gesù, ribadirà: «Misericordia io voglio e non sacrificio» (6,6; leggi anche Isaia 1,10-20 e Michea 6,6-8).

Salmo 51 (50)
CREA IN ME, O DIO, UN CUORE MONDO

Il Miserere è, forse, il salmo più celebre, meditato, interpretato, musicato, persino dipinto (da Rouault) da una schiera immensa di uomini pentiti e convertiti. La cellula poetica e spirituale di questa supplica è, infatti, tutta in quell'appassionato «Contro te, contro te solo ho peccato!» (v. 6). La tradizione giudaica, proprio sulla base di questa confessione, ha attribuito il salmo a Davide adultero con Betsabea e assassino del marito della donna, Urla (vedi 2Samuele 10-12). In realtà lo stile, il tema profetico dello «spirito» e del «cuore» come sacrificio perfetto (v. 19), l'implorazione per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme dopo l'esilio babilonese del VI sec. (vv. 20-21), fanno pensare ad un'epoca posteriore. Resta comunque intatta la potenza interiore di questa preghiera che è simile ad un terreno ricoperto per metà dalla tenebra (la regione oscura del peccato nei vv. 3-11) e per l'altra metà dalla luce (la regione luminosa della grazia nei vv. 12-19). Se il senso della colpa è vivissimo, più intensa è, però, l'esperienza del perdono, della novità dello spirito, della gioia che il Misericordioso, Dio, effonde sul peccatore pentito. Perciò più che un canto penitenziale, il Salmo 51 è la celebrazione della risurrezione alla vita nello spirito della parabola del figlio prodigo di Luca 15.

Salmo 52 (51)
I DUE DESTINI,
DEL CINICO E DEL GIUSTO

Il cinico è come una lama affilata, un freddo metallo che ferisce, squarta, semina morte. Il giusto è, invece, come un olivo in fiore che nutre, dà ombra e pace, semina vita e gioia. Su questo elementare contrasto simbolico, di tipo sapienziale, si sviluppa questo breve carme scritto forse da un sacerdote (vedi il v. 10 autobiografico). Empio e giusto, però, non sono soli sulla faccia della terra: in mezzo a loro siede il Signore, giudice non corrotto e non indifferente. Ed allora, almeno per una volta nella storia, i giusti rideranno (v. 8) vedendo che le ricchezze non rendono intoccabili. Con le sue stesse mani Dio demolirà e farà a pezzi l'arroganza dei potenti, sradicandoli dalla terra (v. 7).

Salmo 53 (52)
CANTO DEGLI INCOSCIENTI

Questo salmo è una riedizione di un altro testo, il Salmo 14, il canto degli «atei», di coloro che affermano la totale indifferenza di Dio nei confronti della storia. L 'attuale edizione si rivela differente nel v. 6 rispetto al corrispondente 14,5-6. Mentre là si esaltava la sicurezza del giusto che ha come rifugio ultimo il Signore, qui si parla degli empi travolti da terrori proprio quando sono più tranquilli, convinti come sono che Dio è lontano e li lascia impunemente impazzire sulla terra. Il salmo, di tono sapienziale, resta comunque la proclamazione della presenza di Dio nella storia umana. Una presenza misteriosa, con tempi segreti ma una presenza efficace, che non lascia impunita l‘ingiustizia e la sopraffazione.

Salmo 54 (53)
PREGHIERA DEL PERSEGUITATO

Questa breve composizione è considerata dagli esegeti quasi il modello ideale del genere «supplica». In una trama essenziale e in pochi dati sobri ed elementari vengono espressi tutti i sentimenti di una persona sofferente, perseguitata ma sempre fiduciosa. Il presente dell'orante è oscuro, pervaso dalla violenza di «stranieri» (v. 5), cioè di empi (il vocabolo ebraico è molto vicino per suono a quello che significa «superbi, arroganti»). Il futuro è, invece, luminoso (vv. 7-9) perché Dio è ostile al male e si schiera dalla parte delle vittime. Nella notte dell'oppressione brilla, alta, la fiaccola della fiducia in un Dio liberatore e amico del suo fedele oppresso. E il fedele immagina già di essere nel Tempio a offrire il sacrificio di ringraziamento per la liberazione ottenuta (v. 8).

Salmo 55 (54)
AVESSI LE ALI DI UNA COLOMBA

«Più del burro untuosa han la bocca, ma solo guerra covano in cuore. Più fluide dell'olio le loro parole, che sono invece spade sguainate» (v. 22). L 'antitesi tra immagini pacifiche, rotonde, fluide e immagini belliche, metalliche e secche rende simbolicamente il dramma dell'ipocrisia che questo supplica esprime in forma vivissima. Alla base, infatti, c'è la storia di un tradimento: «Non è un nemico che mi ha insultato, l'avrei sopportato! Ma sei tu, mio caro compagno, tu altro me stesso, mio amico, confidente mio, legato a me da dolce amicizia» (vv. 13-15). Tutto il lessico dell'amicizia e dell'intimità è qui concentrato per rendere più amara la sorpresa del tradimento. Di fronte al crollo di questo valore sacro il poeta vede piombare nel buio tutto il suo mondo. Gerusalemme stessa gli sembra la città del delitto ove fanno la ronda Rissa e Violenza, al cui centro siedono Crimine, Sciagura e Malizia, mentre la spianata del Tempio è occupata da oppressione e Frode (vv. 10-12). Il desiderio è quello di avere ali di colomba per fuggire nel deserto, lontano da questo mondo traditore. Applicato dalla tradizione cristiana al tradimento di Giuda e al suo bacio simile ad una spada, il Salmo 55 è stato trasformato da Z. Kodaly nel lamento musicale della nazione ungherese (Psalmus hungaricus, 1923).

Salmo 56 (55)
LE MIE LACRIME NELL'OTRE
RACCOGLI

In questa lamentazione personale venata di fiducia e di attesa c'è una coppia di simboli di grande suggestione (v. 9). Le lacrime degli uomini sono agli occhi di Dio realtà preziosa come l'acqua, il vino, il latte, le sostanze vitali che il beduino conserva nell'otre. Dio non lascia cadere nel nulla il dolore dell'uomo, raccoglie le gocce del suo pianto quasi in uno scrigno come se fossero perle. Parallela è l'altra immagine, quella del libro della vita. L 'uomo è come un nomade e un pellegrino sulla terra; egli va errando, spesso senza meta, per le strade del mondo. Ebbene, Dio segna tutti quei passi, fatti di ricerca, di ansia, di errore anche. Li registra sul libro della vita ove tutti i segreti dell'uomo sono raccolti. In questa anagrafe universale della storia tutto è annotato e nulla cadrà nel vuoto. Se la celebre sequenza medievale del Dies irae ha raccolto questa immagine in senso giudiziario, il nostro poeta la assume, invece, in senso positivo: Dio non ci abbandona mai e nulla ignora del nostro dolore. Ed allora «non avrò paura: in Dio confido» (v. 12).

Salmo 57 (56)
...DESTARE IO VOGLIO L'AURORA

Supplica (vv. 2-6) e ringraziamento (vv. 7-12) si accostano secondo una costante nella preghiera biblica che, anche nella desolazione più profonda, ignora la disperazione totale. Tempio di Gerusalemme «l'ombra delle ali» dell'arca) e cosmo (terra, cieli e nubi) si intercettano e parlano dell'amore di Dio. Il male che assedia l'orante è rappresentato da una raffigurazione vivacissima: il leone in posizione d'assalto evoca un guerriero armato di lance, di frecce e di spade (v. 5). Dio, però, appare dal cielo e invia i suoi messaggeri di salvezza, le virtù divine personificate della Fedeltà e della Grazia (v. 4). Ed allora per il perseguitato si apre una nuova aurora. Dolcissimo è il canto del v. 9. È un appello rivolto all'arpa e alla cetra, che durante i periodi di lutto erano raffigurate quasi «in sonno», avvolte da un lenzuolo funebre e quindi silenziose. Finito l'incubo, cessata la notte, esse «si svegliano» per destare, a loro volta, l'alba di un nuovo giorno di luce e di pace.

Salmo 58 (57)
FATE, O DÈI, DAVVERO GIUSTIZIA?

Testo difficilissimo perché giunto a noi molto lesionato a causa delle molteplici applicazioni a cui è stato sottoposto e a causa della fantasiosa tavolozza di immagini che, come una cascata, attraversano tutta la lirica. Testo «esorcizzato» anche dalla recente tradizione cristiana che non 10 usa nella liturgia a causa della sua tonalità imprecatoria, espressione molto «orientale» di lotta contro il male e di adesione alla giustizia. Testo retto da due riferimenti polemici, il primo contro gli idoli, muti sostenitori di imperi arroganti, il secondo contro politici e magistrati corrotti, che «non sanno che mentire e tessere inganni». Testo grandioso per passione morale e per genialità poetica soprattutto nella creazione di simboli di giudizio (vv. 5-10) e nella barocca e poderosa immagine del giusto che si lava i piedi nel sangue degli empi (v. 11). Testo di grande spiritualità profetica: senza giustizia la religione è ipocrita, senza la speranza nella giustizia di Dio, la storia è assurda (v. 12).

Salmo 59 (58)
COME CANI RITORNAN LA SERA

È notte fonda, il poeta è serrato in casa, fuori i cani randagi s'aggirano per le vie della città ringhiando: il quadro, percorso dalle fosforescenze di una tragedia, diventa nella supplica una parabola delle paure della vita, dei suoi mostri, delle spade pronte a colpire il debole. Il ritornello sui cani (vv. 7.15) è, perciò, l'evocazione simbolica degli incubi del male che ci assediano. Ma alla fine l'orizzonte si apre: è l'alba, nelle strade ritorna il silenzio, la luce del sole riporta la vita. È questa la parabola della salvezza che il «solo baluardo», Dio, può offrire all'uomo impaurito. E quest'uomo si mette a cantare (vv. 17-18) il suo inno di gratitudine e di speranza. Si chiude, così, una notte che non è tanto cronologica quanto spirituale.

Salmo 60 (59)
DIO NON ESCE PIÙ
COI NOSTRI ARMATI?

Questa lamentazione nazionale di non facile interpretazione ha al centro (vv. 8-10) un oracolo divino introdotto come sostegno della fede in un nuovo intervento liberatore. Il movimento poetico del carme è, quindi, duplice. Da un Iato impera 10 sconcerto: «Ci hai rigettati e dispersi. ..ci hai respinti e più non esci coi nostri armati!» (vv. 3.12). Siamo in una data tragica per la nazione ebraica, Israele è in agonia. Il grido lanciato a Dio è l'ultima risorsa nella disfatta. Appare, così, la seconda dimensione della supplica, quella della fiducia. Essa si fonda su un antico oracolo in cui JHWH si presentava come il Signore di tutta la Palestina. Anche i tradizionali nemici di Israele erano ai suoi piedi: Moab col mar Morto presente nel suo territorio era il catino di Dio, su Edom egli gettava i sandali nel gesto tipico del trionfatore e sulla Filistea lanciava il suo urrah! di vittoria. Con questa speranza Israele deve continuare a combattere. Nel v. 11 si dà forse un'indicazione concreta: il resto dell'armata d'Israele deve rifugiarsi in una «rocca turrita», in una roccia forte del deserto meridionale di Edom e là prepararsi per la riscossa.

Salmo 61 (60)
NELLA TENDA SARÒ IL TUO OSPITE

Rupe alta e inaccessibile, unico rifugio, torre in faccia al nemico, tenda, ombra delle ali, riparo: queste immagini che costellano la supplica evocano il Tempio e il suo abitante divino, JHWH. Nell'area sacra di Sion l'orante trova rifugio spirituale e protezione giuridica attraverso il diritto d'asilo del santuario. Giunto nell'interno del Tempio, egli professa la sua fiducia in Dio e la sua lealtà politica con una giaculatoria regale, conservata nei vv. 7-8, un «ad multos annos!» indirizzato al re. La tradizione giudaica e cristiana ha letto il salmo in chiave messianica. Infatti per gli antichi scrittori ecclesiastici protagonista della preghiera era il popolo di Dio, esule sulla terra, che anela alla patria celeste. Il re eterno, il Cristo, offre la comunione eterna con Dio nella Gerusalemme celeste. È questo uno dei tanti esempi di libera interpretazione del senso di un salmo, pur conservandone letteralmente i vari elementi originari.

Salmo 62 (61)
A PESARLI INSIEME SONO ARIA

Il salmo nasce da un abile dosaggio di elementi di fiducia nel pericolo, di elementi di speranza e di ringraziamento nello sfondo della liturgia del Tempio, di elementi personali e comunitari, di elementi sapienziali e morali. Un impasto di temi e di sentimenti retti da una certezza basilare: ne violenza ne rapina ne ricchezza salvano, solo Dio è rupe e salvezza, «solo in Dio il mio cuore riposa», come si ripete nell'antifona dei vv. 2-3 e 6- 7. Le forze del male scatenano il loro assalto contro il giusto. Egli è, sì, debole come un muro sbrecciato e pericolante eppure resiste perché, in realtà, dietro la sua fragilità apparente, si erge la rocca imprendibile del Signore (v. 4). Nel giorno della sua vocazione profetica a Geremia Dio aveva detto: «Ecco oggi io ti faccio come una fortezza, come un muro di bronzo... Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno perché io sono con te per salvarti» (1,18-19). Lo strapotere del male e dell'ingiustizia è in realtà come l'erba dei campi, destinata ad essere falciata e a seccare: «illusione sono i potenti del mondo: a pesarli, insieme, sono aria» (v. 10).

Salmo 63 (62)
CANTO ALL' AMORE MISTICO

Salmo molto amato dalla tradizione mistica per la sete e la fame di Dio che lo pervade, questa lirica è anche un capolavoro di compattezza simbolica, nonostante il mutare delle tonalità, dalla supplica all'inno. Sul filo della simbologia fisica si distende una vera e propria geografia dell'anima: essa ha sete dell'infinito come il terreno palestinese arido, assetato, screpolato dalla calura; essa ha fame delle carni dei sacrifici (v. 6), cioè del culto, le sue labbra attendono il miele della lode. La meta è quella di un abbraccio tanto sognato, dopo una notte di veglia e di attesa: «A te l'esser mio si stringe» (v. 9). Ma questo cantico dell'intimità totale con Dio si chiude su una scena fosca, popolata di sciacalli, di spade, di luoghi bui e infernali, di esseri bugiardi. È la proclamazione della fine del male: nell'adesione mistica si scopre un ottimismo irrefrenabile nei confronti della storia. «Non possiamo chiederti nulla; tu conosci i nostri bisogni prima ancora che nascano; il nostro bisogno sei tu. Nel darci te stesso, ci dai tutto» (Kh. Gibran).

Salmo 64 (63)
LE FRECCE DI DIO

Questa è stata concepita come una preghiera che può essere recitata da tutti coloro che vedono la loro vita attraversata dalle frecce velenose della calunnia e del cattivo giudizio. Sapendo che cosa significa la parola in una società a struttura orale com'era quella dell'Antico Oriente, si intuisce il dramma di chi è avvolto dalla ragnatela delle menzogne, ferito dalle false testimonianze, isolato dal tessuto sociale. Il salmo è, allora, un formulario di preghiera per i calunniati e i perseguitati. Il suo messaggio è sostenuto da un'opposizione simbolica di grande effetto: da un lato corrono le frecce velenose della calunnia, vili perché scagliate nel buio (vv. 4-7), dall'altra parte sfrecciano, però, le saette di Dio che a sorpresa piombano sui calunniatori (vv. 8-9). Anzi, secondo la visione della vendetta immanente nello stesso peccato, è la freccia della calunnia che, come un «boomerang», ripiega su chi l'ha lanciata trapassandolo. Ed allora l'ultimo a gioire sarà il giusto (v. Il).

Salmo 65 (64)
INNO ALLA PRIMAVERA

Questa celebre composizione si apre come se fosse un grande trittico medievale. Nella prima tavola (vv. 2-5) è di scena il Tempio, un microcosmo nel quale I'uomo scopre la primavera dello spirito, cioè il perdono e la rinascita interiore. Nella seconda tavola (vv. 6-9) è di scena il cosmo intero sul quale si erge il Potente, JHWH, creatore che zittisce la violenza del caos acquatico e le assurdità dei popoli in guerra. Ma è la terza tavola (vv. 10-15) la più splendida, tutta smaltata com'è di colori: essa dipinge la primavera nel microcosmo della terra di Palestina. Dio è come il «cavaliere delle nubi» della poesia cananea che col suo cocchio passa sul terreno fecondandolo. Tutta l'arida regione palestinese diventa simile ad un vestito policromo. C'è la corona dei fiori imposta alla sposa Israele; le colline si ornano di abiti festivi; i prati sembrano un mantello verde macchiato dal bianco dei greggi; le valli indossano il manto dorato delle messi. E tutti insieme, in processione, si mettono a cantare e a danzare al loro Creatore.

Salmo 66 (65)
E NOI ANDAVAMO PER FUOCO
E PER ACQUA

In cinque strofe (vv. 1-4; 5-7; 8-12; 13-15; 16-20) la comunità e un solista intrecciano le loro voci per evocare paure passate e gioie presenti durante una celebrazione sacrificale di ringraziamento (vv. 13-15). Da tutta la terra sale una sinfonia di lode verso Dio che agisce nel cosmo e nella storia, in particolare attraverso quel grande evento emblematico che è stato l'esodo dalla schiavitù egiziana, il «crogiolo», la «rete» e il «peso» da cui Dio ci ha liberato. La voce corale che ringrazia per il dono della libertà evoca ancora una volta la prova amara passata con una collezione di immagini seriali (vv. 8-12) in cui però brilla quella pittoresca della «cavalcata sul capo» (v. 12), segno di estrema umiliazione e di catastrofica sconfitta. Eppure Dio ci ha sottratto agli zoccoli della cavalleria faraonica, ai piedi degli imperatori, al fuoco e all'acqua del mare. È a questo punto che dal coro si stacca un solista che, come portavoce della comunità, intona un ringraziamento: egli è, forse, il re o il responsabile della comunità che nel suo «io» racchiude il grazie collettivo per lo stupendo dono della libertà.

Salmo 67 (66)
IL CANTO DELLA TERRA

«La terra ha dato il suo frutto!». Queste parole esprimono la gioia primitiva del contadino palestinese che, da una terra avara, ha ottenuto il dono delle messi, segno sperimentabile della benedizione divina. Questo salmo, composto in epoca postesilica (dopo il VI sec. a.C.) a causa della sua visione universalistica (vedi i vv. 3-5), è appunto il ringraziamento corale per il frutto della terra, segno dell'amore di Dio. A questa felicità spontanea è chiamato a partecipare il mondo intero che dal Creatore attende il sostentamento fisico e la guida in mezzo alle stagioni della storia (v. 5). «Figli di Sion - scriveva il profeta Gioele - rallegratevi, gioite nel Signore vostro Dio perché vi dà la pioggia in giusta misura e così le aie si riempiono di grano e i tini traboccano di mosto e di olio» (2,23-24).

Salmo 68 (67)
PREGHIERA DEI SANTI NEL DESERTO

Chiamato tradizionalmente «il Titano dei Salmi», questo monumentale «Te Deum» al Signore della storia e del cosmo pone infiniti problemi di critica testuale, storica e letteraria. È una pagina corrotta e macchiata che lascia, però, intravedere l'antico splendore delle sue miniature; è una cattedrale poetica, lineare nella sua planimetria generale ma complessa nei particolari che spesso sono lesionati o in rovina. Il piano di lettura dell'ode potrebbe essere così disegnato. Un «invitatorio» alla lode in onore del Signore (vv. 2-4) ci introduce alla prima scena (vv. 5-11) che è una rievocazione dell'esodo di Israele dall'Egitto verso la terra della libertà. La seconda scena (vv. 12-19) è la celebrazione proprio di questa terra nella quale ire cananei fuggono in rotta mentre la colomba, cioè Israele, si riveste del loro bottino d'oro e d'argento. Su tutto l'orizzonte si erge il Signore che viene dal Sinai al Tempio di Sion, mentre tutti i monti di Palestina si chinano a lui. Dopo un interludio (vv. 20-22) ecco la terza scena che dipinge una processione verso Sion (vv. 23-24). Nel corteo c'è l'orchestra del Tempio, ci sono le tribù d'lsraele, ci sono i popoli vinti raffigurati da animali (v. 31). Giunta nel Tempio, la processione eleva una solenne benedizione (vv. 35-36) al Dio che è «padre e custode degli orfani e delle vedove», al Dio che ama il suo popolo, al Dio che disperde le genti che amano la guerra.

Salmo 69 (68)
NON UNO HO TROVATO
CHE MI CONSOLASSE

Questa lamentazione, da alcuni studiosi considerata un'opera composita sorta dalla fusione di due suppliche diverse, si apre con un quadro infernale, paludoso e mobile, nel quale l'orante sta orribilmente e irrimediabilmente scivolando. Gli inferi (lo sheol della Bibbia) erano raffigurati in Oriente come una regione sotterranea percorsa da canali fangosi, da flussi incandescenti di lava. «Signore, afferra il tuo servo caduto nelle acque fangose!», prega anche l'assiro Ersha-ku-mal. Ma il lamento del salmista subito precisa la qualità di questo inferno: c'è un diluvio di male interiore fatto di sofferenze e di solitudine e c' è un'onda di violenza dall'esterno con calunnie («cosa ho rubato che io debba ridare?», v. 5), con insulti e vituperi, scagliati persino dagli ubriachi (v. 13), con attentati (v. 22). La preghiera, allora, si trasforma in imprecazione veemente (vv. 23-29) nello stile d'un dialogo totalmente sincero con Dio. Ma si trasforma anche in speranza nel Signore dei poveri e delle vittime (vv. 31-34). Gli evangelisti hanno usato questo salmo per parlare del Cristo: hanno applicato il v. 10 alla cacciata dei mercanti dal Tempio (Giovanni 2,17), hanno visto nell'aceto come bevanda (v. 22) il segno di un evento della passione di Cristo (Matteo 27,34.48), hanno applicato a Giuda, il traditore, il v. 26 (Atti 1,20) .

Salmo 70 (69)
SIGNORE, VIENI A SALVARMI

Questa breve supplica, composta da una benedizione per i giusti (v. 5) e da una maledizione scagliata contro i nemici (vv. 3-4), è la riedizione di un brano del Salmo 40 (vv. 14-18). L 'avvio è il celebre «Deus in adiutorium meum intende» che è usato per aprire molte celebrazioni liturgiche cattoliche. La preghiera è percorsa dall'attesa dell'intervento del Signore, il Grande per eccellenza: «Io sono povero e misero: affrettati, Dio, in mio soccorso!» (v. 6).

Salmo 71 (70)
SARAN PIENI DI GIOIA I MIEI CANTI

È la preghiera di un anziano che «fin da giovane» nel Signore ha posto la sua speranza (v. 5). Il suo lamento, tutto intriso di fiducia e di serenità, pone in parallelo un passato proteso verso Dio rifugio, castello sicuro, salvezza, asilo, roccia (vv. 3-7) e un presente amarissimo, intessuto di umiliazioni, di ostilità, di un affievolirsi delle forze. Eppure esso non si risolverà in un disperato sprofondare nei gironi infernali dello sheol e della morte. Infatti questo anziano attende ancora un futuro di liberazione sperato nonostante l'esiguità degli anni che ancora restano. Ed è particolarmente commovente in questa attesa il ricordo tenero e nostalgico dell'infanzia, anzi l'evocazione della nascita stessa in cui Dio stesso toglieva dal grembo materno la sua creatura, e, come una madre, se la poneva tra le ginocchia per tenerla in piedi (v. 6). Una vita posta tutta sotto il sigillo della fedeltà, dalle radici fino ai tormenti della vecchiaia ma anche fino all'ultimo canto accompagnato dall'arpa e dalla cetra (vv. 22-23). Le labbra stilleranno canti di gioia a Dio perche, come dice un antico inno tibetano, il corpo del vecchio è «un prezioso scrigno di canti di fede».

Salmo 72 (71)
LA TERRA ABBONDI DI GRANO

Coi Salmi 2; 89; 110 il Salmo 72 costituisce la tetralogia classica dei Salmi regali riletti in chiave messianica dalla tradizione giudaica e cristiana. Dietro il volto del giovane re che sta per essere incoronato, a cui si augura un regno di giustizia e di lunghi anni, si profila il volto del re perfetto, il «consacrato-messia» supremo che veramente sarà «giusto giudice dei poveri» e veramente «abbatterà e calpesterà l'oppressore» (v. 4). È proprio in questa prospettiva lunga e gloriosa che i toni encomiastici e curiali dell'innologia monarchica si trasformano nella realtà sperata dal Messia: la sua giustizia sarà perfetta, il suo dominio universale, il suo regno eterno, il cosmo intero sarà coinvolto nella pace, il celebre e atteso shalom che il v. 16 dipinge coi colori agricoli di un paradiso terrestre (le spighe di grano ondeggeranno persino sugli aridi picchi montuosi). L 'inno, dalla struttura molto raffinata segnata da giaculatorie regali (vv. 5.11.17), è chiuso da una benedizione posteriore (vv. 18-19). Essa è stata aggiunta dalla tradizione liturgica giudaica che aveva diviso il Salterio in cinque libri: finiva qui, con questa benedizione, il secondo libro, iniziato col Salmo 42.

Salmo 73 (72)
IL CANTO DEL CUORE

Questa straordinaria storia d'un'anima registra il travaglio interiore di un credente, forse un sacerdote, in crisi di fede di fronte al trionfo dell'ingiustizia nel; mondo. La sua vicenda spirituale diventa preghiera, poesia e testimonianza attraverso i due atti in cui è distribuita questa meditazione sapienziale. Il primo, nei vv. 2-16, è il ritratto appaiato dell'empio e del giusto così come si presenta nello scandalo della storia: l'ingiusto è tratteggiato con uno sdegno e una nausea difficilmente superabili, l'arroganza e la volgarità del potere hanno qui la loro più sarcastica rappresentazione. La tentazione di abbandonare ogni onestà e di essere come loro è, però, subito spezzata da un «finche...» (v. 17). Il poeta, infatti, ritorna nel Tempio e nel silenzio della sua coscienza: lì riesce a comprendere il destino, la «fine», il «poi» dell'empio e del giusto (vv. 17-28). Allora i suoi occhi si aprono e in quello che è stato definito «il più bel testo spirituale dell'Antico Testamento» il salmista lascia il suo testamento ultimo di fede e di speranza: «Il mio bene è di aderire al mio Dio» (v. 28). E Dio lo prende per mano; anche se la carne e il cuore si dissolvono, il fedele è accolto tra le braccia dell'Eterno. Ecco un'altra (rara) pagina dell'Antico Testamento in cui l'orizzonte oltre la morte si rischiara di luce e di certezza. «Con te, cosa m'importa la terra?» (v. 25).

Salmo 74 (73)
HANNO DATO ALLE FIAMME
IL TUO SANTUARIO

Questa maestosa lamentazione sul Tempio diroccato sembra avere come sfondo Gerusalemme rasa al suolo dalle armate babilonesi di Nabucodonosor nel 586 a.C. Il canto si apre con un'elegia che ha al centro la sceneggiatura mobilissima e quasi in visione diretta della devastazione del Tempio (vv. 1-9): i nemici erano in quel giorno come belve in delirio, come boscaioli che vibrano le loro mannaie per squarciare e demolire i cedri di cui era tappezzata l'aula sacra. A questo punto la supplica, segnata dal tradizionale «Fino a quando?», cede il passo ad un inno a Dio re e creatore (vv. 10-17), un inno scandito da sette «Tu», rivolti a JHWH vittorioso sui mostri del caos (i Draghi e il Levìatan), perché ritorni a sfoderare la sua potenza davanti alla tragedia del suo popolo. Il carme si chiude, allora, con un appello finale al Dio dell'alleanza (vv. 18-23) perché «ricordi» il male perpetrato dal nemico e non lasci in pasto alle belve la sua «dolce colomba», Israele. Il popolo ebraico commemora ancora oggi, con la giornata penitenziale del 9 del mese di Av (luglio-agosto), la data tragica del crollo di Sion e del Tempio di Salomone. «Mio Dio, apri gli occhi - dice la liturgia sinagogale - e guarda la nostra rovina e la città nella quale si invocava il tuo nome».

Salmo 75 (74)
CANTO DEL VINO DROGATO

Composizione scintillante e polemica, il Salmo 75 ruota attorno ad un oracolo divino segnato dall'«io» di Dio (vv. 3-6). Esso contiene una specie di ultimatum indirizzato agli empi e ai perversi: «Non fatelo più! Non siate insensati!». Il salmista commenta questo oracolo attraverso un'omelia poetica che è dominata dalla vigorosa immagine del calice di vino drogato (v. 9). Simbolo del destino (leggi Marco 14,32-36) ma anche della collera divina, la coppa è colma di un vino dal potere ipnotico, che stordisce e acceca. È una coppa già ricolma per il giudizio e Dio l'ha già presa tra le mani per farla ingurgitare sino alla feccia a tutti gli empi della terra. Il salmo diventa, allora, il canto della giustizia e della liberazione attesa. L 'ingiusto, convinto che Dio sia muto e lontano, verrà finalmente costretto ad assaporare un giudizio amaro ma giusto. Se il calice è nel nostro testo il segno di un'ordalìa contro il malvagio, nel Salmo 23 la coppa spumeggiante è, invece, simbolo della comunione del giusto col suo Dio.

Salmo 76 (75)
DIO SPLENDIDO E TERRIBILE

Un grido si leva su tutta la terra e l'universo, atterrito, fa silenzio: è il Dio splendido e terribile che, dalla sua residenza terrestre di Gerusalemme, parla. Considerato il tono arcaico, uno studioso ha definito la composizione «un bollettino di vittoria del Dio d'Israele in Sion, poco dopo la conquista da parte di Davide e la traslazione dell'arca». Il salmo è, comunque, distribuito su scene belliche che hanno rispettivamente come teatro Sion (vv. 2-4), i monti, simbolo dei santuari idolatri posti appunto sulle alture (vv. 5- 7), il cielo (vv. 8-10) e tutta la terra (vv. 11-13). In ebraico Dio è invocato con i titoli diversi ma affini per suono: noda', na'or, nora', mora', «conosciuto, splendido, terribile, temibile». Sembra di assistere allo scontro finale tra bene e male, nel quale i nemici di Dio sono storditi, colpiti da un sonno di morte (v. 6) e travolti per sempre. La vittoria è totale e sul campo di battaglia campeggia la figura del Signore avvolta di luce e circondata da tutti i poveri della terra (v. 10).

Salmo 77 (76)
MEDITAZIONE NOTTURNA

S. Francesco - secondo la Legenda Antiqua - aveva scelto il v. 3 del salmo, nella versione latina, come una specie di motto nel travaglio della sofferenza. Effettivamente il Salmo 77 è un soliloquio di un'anima che parla a nome di tanti e che getta sul tappeto le domande fondamentali nella prova: Dio si sta smentendo? Tra passato glorioso e presente tragico c'è mutabilità nell'agire di Dio? L 'amore divino non è eterno? Queste domande salgono come un'ondata al cuore e scuotono le radici della fede. La notte che la supplica suppone è, quindi, interiore. Ma dopo la crisi descritta nei vv. 2-11 e sintetizzata nella frase «Certo ha mutato la mano l'Altissimo!», il salmista si apre all'attesa fondandosi sul «ricordo» del passato salvifico (vv. 12-21). Il ricordo nella Bibbia non è mera evocazione del passato ma certezza che il seme messo da Dio nella storia deve ancora fruttificare. È per questo che l'orante cita nei vv. 17-20 un antico inno in cui Dio appariva nello splendore della sua potenza di Creatore e di Salvatore soprattutto nell'esodo dall'Egitto. Il vincitore delle acque caotiche può ancora strappare il suo popolo sofferente e guidarlo verso i pascoli della pace e della gioia (v. 21).

Salmo 78 (77)
EPOPEA APERTA

Seconda per estensione (dopo il Salmo 119) nel Salterio, questa immensa meditazione storica si snoda come un grandioso spartito poetico destinato ad accompagnare tutta la trama della storia della salvezza. Anche Handel nel suo oratorio Israele in Egitto (1739) ha attinto abbondantemente al salmo per la sua opera. Il tono è, però, più quello della lode che non quello della descrizione storica, perché il Credo di Israele si fonda appunto sulle azioni che Dio compie nella storia (leggi Giosuè 24,1-13). È per questo che l'introduzione (vv. 1-12) raccoglie una grande premessa teologica sulla «tradizione», cioè sulla trasmissione fedele ed efficace della memoria salvifica attraverso la linea delle generazioni. Il Credo professato nel salmo fonde insieme in maniera molto libera tre eventi della storia santa d'Israele: la liberazione esodica dalla schiavitù nei campi egiziani di So'an (Tanis), il dono della terra di Canaan (vv. 44- 72) e il soggiorno nel deserto del Sinai (vv. 12-43). È una storia striata dalle ribellioni e dall'incredulità di Israele che ignora le premure di Dio sino a provocarlo. Ma è anche una storia illuminata dalla potenza del Signore che, come dice l'ardito antropomorfismo del v. 65, è un eroe ubriaco pronto a scatenare la sua corpulenta collera contro i suoi nemici. E l'approdo di questa storia è Davide, simbolo di un altro re e pastore, il dono divino ansiosamente atteso, il Messia.

Salmo 79 (78)
GERUSALEMME INSANGUINATA

Come nel Salmo 74, anche in questa lamentazione nazionale Gerusalemme appare come un cumulo di macerie insanguinate, dopo che Nabucodonosor, nel 586 a.C., è passato su di essa con le sue armate, come un turbine. L 'elegia entra di colpo nel dramma puntando l'obiettivo subito sulla città santa devastata: il Tempio è diroccato e profanato, qua e là si inciampa in cadaveri in decomposizione, lugubri rapaci si aggirano sulle prede, il sangue brilla sulle pietre, il silenzio e la vergogna avvolgono tutto Israele come un manto (vv. 1-4). Ecco allora che il poeta corre alla ricerca delle cause profonde che stanno alla base della tragedia ebraica: non c'è solo la crudeltà degli oppressori, c'è anche il peccato d'Israele (vv. 5-9). È necessario che Dio torni a perdonare, torni a raccogliere Israele come il suo gregge, torni a mostrare la sua fama di difensore dei poveri contro i trionfatori della storia (vv. 10-13). Questa preghiera nella tragedia si rivela, allora, anche come un appello contro ogni sterile rassegnazione. Il Dio che ci ha abbandonati è un Dio vivo e giusto che conosce il perdono e la speranza nei confronti dell'uomo. 
Claudel ha rielaborato questa supplica nel Salmo di Varsavia, dedicato alle vittime del ghetto della capitale polacca sotto la ferocia nazista.

Salmo 80 (79)
CANTO DELLA VIGNA DEVASTATA

L'antifona dei vv. 4.8.15.20 ritma questa supplica nazionale che è una specie di autobiografia di Israele nel momento in cui sente venir meno la luce del volto di Dio, fonte di vita e di speranza. Israele vuole risentire su di sé il contatto della mano di Dio che guida il suo gregge (rappresentato emblematicamente dalle tribù dl Efraim, Beniamino e Manasse; stranamente assente è Giuda, la tribù di Davide). JHWH lo guidava, lo saziava e lo abbeverava; ora invece gli offre solo pane di pianto e lacrime senza misura (vv. 2-8). Israele vuole ritornare ad essere la vigna di Dio, curata con premura dal grande vignaiolo, lussureggiante di tralci e di frutti. Ora invece, priva di difesa, è territorio di libera caccia e di preda (vv. 9-17). Si evocano, così, le radici stesse del popolo, la sua nascita nell'esodo e nel deserto del Sinai sotto la guida del pastore JHWH, la sua stupenda crescita nella terra della libertà. A questo il poeta accosta lo sfacelo presente e dalle labbra gli esce solo un grido: «Rialzaci... guarda, vedi e visita la tua vigna!». Nel cuore affiora una speranza in un re ideale, «un figlio dell'uomo» che Dio stesso ha preparato perché ritornino il sorriso e la pace in Israele.

Salmo 81 (80)
CANTO DEL PLENILUNIO

«Suonate l'arpa, la cetra, tamburi, cembali e trombe nel plenilunio, il giorno della danza»: questo invito dei vv. 3-4 ci fa pensare che il Salmo 81 fosse originariamente destinato ad una festa ebraica segnata, come sempre nel calendario orientale, dalla luna (capodanno, nuovo mese, solennità autunnale delle Capanne, Pasqua?). Il movimento del carme riflette appunto un andamento liturgico: dopo un invitatorio alla lode (vv. 1-6), si apre una solenne omelia oracolare (vv. 7-17) che si sviluppa attorno al primo comandamento, «il non prostrarsi a un dio straniero», Il culto biblico non è mai un freddo rituale ornamentale, è sempre un impegno etico della coscienza. Nel primo comandamento si riassume tutto il Decalogo con le sue esigenze religiose e sociali. Lo sviluppo di questa omelia poetica può essere così rappresentato. Prima tappa: «Popolo mio, ascolta... se tu ascoltassi!». Si proclama e si esalta il primo comandamento (vv. 9-11). Seconda tappa: «Non mi diede ascolto il mio popolo». Il primo comandamento è stato da Israele violato (vv. 12-13). Terza tappa: «Se mi ascoltasse il mio popolo!». Il primo comandamento osservato diventa fonte di benedizione, simboleggiata nel frumento e nel miele che scaturisce dalla roccia arida (vv. 14-17).

Salmo 82 (81)
INVOCAZIONE AL GIUDICE SUPREMO

Un po' come nel Salmo 58, abbiamo all'interno di questo testo polemico un doppio protagonista. La duplicità è favorita anche dall'ambiguità della parola ebraica 'elohîm presente nel v. 1: essa indica «gli dèi» ma anche «i potenti». Perciò il salmo oscilla dalla critica anti-idolatrica a quella sociale e probabilmente esso ha avuto diverse applicazioni in epoche e in contesti diversi. L 'impostazione del testo è quella di un'assise giudiziaria in cui il Signore pronunzia una violenta arringa di denunzia per le violazioni del diritto nei confronti dei poveri (vv. 2-4). Davanti alla pertinacia dei politici e dei loro protettori, gli idoli che essi stessi si sono costruiti (v. 5), si emette la sentenza capitale (vv. 6-7). Essa inizia con un sarcastico «Voi siete dèi e figli del Dio altissimo»: è un atto di accusa contro l'illusione del potente e dell'idolo di poter sfidare Dio ponendo il trono nei cieli, facendosi adorare, credendosi arbitri della storia. Ebbene, Dio li farà precipitare nella tomba, svelando che essi sono carne che muore e non Dio. E il popolo delle vittime causate dal potere e dai falsi dèi chiude l'assise giudiziaria con un'ovazione all'unico vero Dio e Signore, il Vivente, Re della giustizia (v. 8).

Salmo 83 (82)
CANTO DELLE DODICI MALEDIZIONI

Questa lamentazione nazionale di Israele è pervasa da un vento di collera e di sdegno nei confronti degli avversari che si sono coalizzati in una lega militare anti-israelitica (vv. 3-9). Il salmo, allora, si trasforma in una veemente imprecazione costruita su dodici maledizioni, nello stile della sanguigna preghiera biblica, animata da una santa collera contro le oppressioni e le ingiustizie (vv. 10-19). In questa colorita protesta, affidata all'efficacia della parola sacra secondo i canoni delle imprecazioni liturgiche orientali, sfilano le grandi vittorie e i grandi nemici di Israele: da Madian coi suoi principi Oreb, Zeb, Zebah e Salmunna', contro cui combatte Gedeone presso la fonte di En-Harod, a Sisara, comandante dell'esercito cananeo del re Jabin di Hasor, sconfitto da Debora al fiume Kison. Similmente nella prima parte sfila l'armata nemica con la sequenza di tutti i tradizionali avversari di Israele dagli Edomiti, agli Ismae1iti, dagli Agareni ai Moabiti, dagli Ammoniti agli Amaleciti, dai Filistei ai Fenici di Tiro, dagli Arabi di Gebal sino alla superpotenza assira (i «figli di Lot» sono una ripresa di Ammon e Moab). Ma su tutta questa immensa armata si erge l'unico Altissimo il cui nome è JHWH (v. 19).

Salmo 84 (83)
CANTO DEI PELLEGRINI

Aperto dall'esclamazione stupita di un pellegrino giunto davanti al Tempio, questo cantico di Sion di struggente bellezza descrive la nostalgia dello stesso pellegrino quando sta per lasciare la città santa. Infatti ~ il desiderio che lo pervade, durante la preghiera, passa i. attraverso tre tonalità. C'è il desiderio antico, rinfocolato durante il viaggio mentre si attraversava la Valle del Pianto (una località variamente identificata), mentre si passava di fortezza in fortezza, mentre iniziava a scendere la prima pioggia autunnale (vv. 7-8). C'è il desiderio saziato davanti al Tempio, nell'intimità della preghiera, negli atri ove ferve la liturgia. C'è, infine, il desiderio che rinasce quando, prima di partire per le proprie case, si lancia un addio e un ultimo sguardo a Sion. Sembra quasi spontaneo al pellegrino invidiare la rondine e il passero che hanno il loro nido sotto le grondaie e le cornici del Tempio. Perché essere in Sion è come essere nel paradiso, nella gioia dell'intimità con Dio. Possono essere affascinanti i palazzi dei potenti o i santuari pagani, ma il poeta ha già fatto, senza esitazione, la sua scelta: «Un giorno negli atri tuoi più di mille ne vale» (v. 11). Perché - commentava Agostino - «quell'unico giorno eterno non subentra al giorno trascorso e non è premuto dal giorno successivo».

Salmo 85 (84)
IL SUO NOME SARÀ EMANUELE

Costruito sul verbo ebraico shub, il vocabolo del «ritorno», cioè della conversione e quindi della restaurazione di Israele, questo salmo è il canto di un mondo nuovo in cui tutti gli attributi gloriosi del Dio dell'alleanza si iscrivono come cittadini. Così, la Verità e la Fedeltà amorosa di Dio si abbracceranno, la Giustizia e la Pace si baceranno, dal terreno germoglierà la Fedeltà e dai cieli scenderà la Salvezza. Il poeta inglese Milton ha elaborato questa visione di pace e di speranza nella sua Ode del Natale: «Sì, fedeltà e giustizia ritorneranno verso gli uomini, avvolte in un arcobaleno; e, gloriosamente vestita, la bontà si siederà nel mezzo assidendosi con un lampo celeste, raccogliendo ai suoi piedi scintillanti un tessuto di nubi. E il cielo, come per una festa, aprirà totalmente le porte del suo grande palazzo». La tradizione cristiana, infatti, ha riletto questo canto del «ritorno» di Israele alla sua terra e al suo Dio, e del «ritorno» di Dio verso Israele, sua sposa, come la celebrazione dell'abbraccio perfetto in Cristo tra natura umana e natura divina.

Salmo 86 (85)
CANTO DEL SERVO ANGOSCIATO

In una struttura concentrica molto raffinata per cui tutti gli elementi si compongono in un'immagine quasi speculare, l'orante esprime con piena sincerità la sua supplica angosciata al Signore. Egli si autodefinisce «servo e figlio della tua ancella» (v. 16): l'espressione in Oriente indica chi è nato da genitori al servizio di un signore, all'interno della famiglia di quel signore.

Si ha, quindi, un legame particolare; l'orante sente quasi di appartenere alla famiglia di Dio. Ed è a lui che egli si rivolge nel pericolo con un appello pieno di fiducia (vv. 1-7). Spontaneamente gli si affacciano alla memoria tutti i gesti di amore e di potenza che questo Signore, padre della sua famiglia, ha compiuto in passato, giungendo al punto di strappare il suo «servo» dalle fauci degli inferi (vv. 8-13). Ora c'è anche attorno al fedele un incubo mortale, un cerchio di ostilità si sta stringendo col desiderio di cancellare la vita dell'orante. Ma Dio si volgerà di nuovo verso «il figlio della sua ancella» egli darà un altro segno del bene che gli vuole (vv. 14-17). Scrive un commentatore: «Questa preghiera non si confonde con altre, simili, grida di sofferenza verso una divinità amica. In essa si sente già il dialogo amoroso e confidente del Vangelo: Chiedete ed otterrete».

Salmo 87 (86)
LO SCRIVE DIO SUL LIBRO DEI POPOLI

Questo breve canto di Sion, dal testo particolarmente difficile e in qualche punto oscuro, contiene in se una carica ecumenica che può essere variamente interpretata. Sion, comunque, appare come la radice della compattezza cosmica, è la fonte di ogni armonia per la planimetria della terra e delle nazioni i cui quattro punti cardinali sono nettamente delineati: Babilonia è la superpotenza orientale, Rahab, cioè l'Egitto, è quella occidentale. Tiro e Filistea rappresentano il nord mentre l'Etiopia il profondo sud. Ebbene, tutti questi popoli sul libro della storia curato da Dio sono registrati come cittadini di Gerusalemme. Per tre volte, nei vv. 4.5.6, si ripete il verbo ebraico jullad, «è nato là»: tutti i popoli della terra, non più considerati come impuri e pagani, hanno la loro «materna origine», la loro «sorgente» proprio in Sion, là dove risiede il Signore, la città che fa tutti gli uomini uguali e in pace. È naturale il riferimento cristiano alla Gerusalemme della Pentecoste in cui tutte le nazioni si ritrovano nelle loro lingue ad annunziare la stessa «grande opera di Dio» (Atti 2,5-12).

Salmo 88 (87)
MA IO VOGLIO ANCORA GRIDARE

«Il salmo più cupo del Salterio, la più tenebrosa di tutte le lamentazioni, il più drammatico De profundis, il Cantico dei cantici del pessimismo...»: queste ed altre definizioni coniate dagli esegeti esprimono l'impressione che si prova leggendo questa supplica estrema lanciata a Dio quando i piedi dell'orante sembrano irrimediabilmente affondare nella tomba e l'orizzonte si è ormai fatto buio e silenzioso. Il grido estremo, simile ad un SOS lanciato verso Dio, si svolge su due temi, il sepolcro (vv. 2-8) e la solitudine totale (vv. 9-19). Lo sheol, gli inferi biblici, domina tutta la lamentazione con la sua lugubre presenza; sembra quasi un canto della morte che si ramifica con la sua mano gelida nelle ossa e nella carne dell'orante. La morte, però, è anticipata dalla solitudine: chi è emarginato e solo, anche se vive, è come se fosse un cadavere. Anche Giobbe in pagine amarissime lamentava questo silenzio degli uomini (19,13 ss). Ma c'è un silenzio ulteriore, quello di Dio. Se negli inferi le Ombre tacciono e Dio è muto nei loro confronti, l'attuale silenzio di Dio è il segno che egli ha abbandonato quest'uomo, «triste» fin dall'infanzia, «infelice» e «malato» (v. 16). Ed allora è proprio giunta la fine, il nulla. All'orizzonte non c'è neppure una lama di luce come nelle altre suppliche salmiche. Sola amica ormai è la tenebra eterna infernale (v. 19).

Salmo 89 (88)
CARME NAZIONALE

Fondamentalmente da iscrivere nella serie dei Salmi regali «messianici» (Salmi 2; 72; 110), questo lungo carme ha una sua originalità e pone molti interrogativi. Infatti la struttura del poema raccoglie una complessa riflessione sulle promesse divine. La promessa iniziale è quella della creazione che è evocata con un inno cosmico nei vv. 6-19: Dio vincendo i mostri del caos (Rahab del v. 11) e piegando i monti sacri dei culti cananei (il Sapon, l'Olimpo del dio Baal, l' Amanus di Turchia, il Tabor e l'Ermon di Palestina), offre stabilità all'essere e alla vita. C'è, però, una promessa storica decisiva per Israele, quella fatta da Natan a Davide e alla sua discendenza e citata in 2 Samuele 7: il salmista la riprende e la commenta con passione vedendola come il segno più alto della presenza divina nella storia umana (vv. 2-5 e 20-38). Ma -e questo è il dramma della fede -la promessa sembra ora in crisi perché la dinastia di Davide è miseramente finita col 586 a.C. (distruzione di 'Gerusalemme). Ed allora, in questa umiliazione di Israele, si può ancora credere nella promessa? Il salmo non offre una risposta, ma il suo silenzio implicitamente apre la speranza ad un «messia» non più dinastico ma inviato direttamente dal Dio fedele. Il v. 53 è una dossologia aggiunta dalla tradizione giudaica per sigillare il terzo dei cinque libri in cui era stato suddiviso il Salterio.

Salmo 90 (89)
TORNATE, O FIGLI DELL'UOMO

La fragrante e malinconica immagine centrale degli uomini come erba che spunta al mattino e a sera è falciata e avvizzita rimanda ad un tema caro a tutte le letterature. Nel Purgatorio Dante scriveva: «La vostra nominanza è color d'erba, che viene e va e quei, la discolora per cui ell'esce dalla terra acerba» (XI, 115-117). La nostra dolce ma intensa elegia sulla caducità umana si affida a immagini temporali (mille anni-un giorno, anni-giorni, mattino-sera), spaziali (il duplice movimento di «ritorno» dell'uomo verso la polvere e di Dio verso l'uomo) e psicologiche (collera e misericordia di Dio, ansia e attesa dell'uomo) per esprimere due sentimenti. Da un lato domina il male di vivere (vv. 1-10): i nostri anni sono esili e fragili come un sospiro, ma sono tutti intrisi di pena e di affanno. La meta è fatta di polvere, di ombra, di silenzio. D'altra parte, però, si apre una supplica perché Dio ci liberi da questo male, ci insegni a contare i nostri giorni per ottenere la sapienza del cuore. Con la fiducia e l'adesione a chi è eterno, l'uomo vano e precario partecipa di una solidità indistruttibile e le sue opere acquistano una nuova stabilità e una loro permanenza (vv. 11-17). Una sottile speranza di eternità chiude, quindi, questa elegia apertasi sul vuoto e sulla polvere.

Salmo 91 (90)
PERCHÉ IL TUO PIEDE NON URTI SU PIETRA

Divenuta celebre come preghiera serale per la liturgia giudaica e cristiana, amata dalla tradizione russa come talismano contro i pericoli (nel Dottor Zivago di Pasternak il salmo è scritto in un foglietto sul petto dei contadini soldati), questa composizione sembra essere di origine liturgica. Infatti essa raccoglie un'omelia indirizzata a colui che «pernotta negli atri dell'Altissimo» (v. 1 ), cioè al fedele che - secondo la prassi orientale dell' «incubazione sacra» - trascorreva la notte in preghiera nel Tempio in attesa che all'alba Dio gli rispondesse con un oracolo di salvezza. Ed è proprio con un oracolo divino che il salmo si chiude: «Perché a me si è affidato, io lo scamperò...» (vv. 14-16). L'omelia ha lo scopo di infondere fiducia per superare la notte della vita, i suoi incubi (terrori, frecce delle pestilenze, contagi, attentati, i mostri simbolici del v. 13). Dio, infatti, con le sue ali materne, raffigurate nelle ali dei cherubini dell'Arca, col suo angelo-messaggero, seguirà sempre il suo fedele anche nei percorsi accidentati «perché il piede non urti su pietra» (v. 12). È noto che questo versetto è citato da Satana nel racconto della tentazione di Gesù per un messianismo spettacolare (Matteo 4,6). Il salmo, in verità, non è la proposta di una scelta, magica ma di una fiducia generata dalla fede.

Salmo 92 (91)
CANTICO PER IL GIORNO DEL SABATO

Usato dalla liturgia sinagogale per la celebrazione del sabato, la grande festa settimanale, il Salmo 92 sembra effettivamente essere un inno a sfondo liturgico in cui si loda Dio con canti e musica per il suo amore e la sua fedeltà (vv. 2-4). Il «corpus» del cantico è, invece, occupato da un confronto tra il giusto e l'empio davanti a Dio (vv. 5-16). Il ritratto dell'empio è affidato all'immagine vegetale, già nota dal Salmo 90, dell'erba che fiorisce ma che presto è per sempre polverizzata e annientata. Un'altra immagine vegetale è usata per il ritratto del giusto ma il suo valore è ben diverso. A differenza dell'empio che è come l'erba dei campi rigogliosa ma effimera, il giusto si erge verso il cielo, solido e maestoso come la palma e il cedro del Libano. La sua chioma spazia nel santuario celeste e le sue radici affondano nel terreno santo e fecondo del Tempio: il suo vertice aspira all'infinito, la sua base è ancorata all'eterno, l'esistenza sua si perde nel divino (vv. 13-14). Forza come quella dell'unicorno, bellezza come quella d'un eroe cosparso d'olio (v. 11), vita come quella d'un albero maestoso e secolare, frutti continui in una continua giovinezza: questo è l'entusiastico canto del giusto che il Salmo 92 racchiude nelle sue strofe.

Salmo 93 (92)
SOPRA TUTTI I FRAGORI DELLE ONDE

Con la classica acclamazione JHWH malak, «il Signore regna!», si apre un altro cantico al regno di Dio dopo quello apparso fuggevolmente nel Salmo 47 e in attesa della collezione dei Salmi 96-99. La sovranità di Dio si stende su tutto il cosmo, simbolo di tutto l'essere. Secondo la cosmologia biblica il mondo è visto come un blocco che si erge sull'oceano primordiale, simbolo del nulla e delle forze che insidiano la creazione. Inutilmente le acque gridano come ribelli alzando la loro protesta contro il dominio sovrano di JHWH. Dio, dall' alto della sua trascendenza, controlla e vince il caos ribelle perché la sua voce è più potente del rombo delle acque oceaniche. Eppure questo Dio immenso, onnipotente ed invincibile è vicino ad Israele: al trono altissimo dei cieli subentra nella finale dell'inno il trono dell'arca nel Tempio di Gerusalemme, alla potenza della sua voce cosmica subentra la dolcezza della sua parola nella Torah, la legge biblica.

Salmo 94 (93)
CANTO DELLA GIUSTIZIA

Nonostante la compostezza del tono sapienziale, questo salmo riesce a farci risentire il tono caloroso di certe proteste dei profeti contro la corruzione delle magistrature, l'umiliazione dei poveri, le perversioni della giustizia, le prevaricazioni del potere. In apertura e in finale si ode un appello veemente al «Dio della vendetta», l'unico che può fare giustizia senza parzialità o violenza. Agli estremi sono collocate anche due lamentazioni. La prima (vv. 3- 7) è una protesta contro 10 scandaloso trionfo degli empi che calpestano i poveri e bestemmiano Dio; la seconda (vv. 16-21) riprende il motivo dell'oppressione operata dai malvagi per sfociare nella speranza e nell'attesa dell'azione divina. Al centro (vv. 8-15) c'è una grande lezione sapienziale che comprende una vigorosa polemica contro gli empi, convocati, interrogati, giudicati (vv. 8-11) e una beatitudine per il destino gioioso del giusto (vv. 12-15). Paolo ha attinto a più riprese a questo salmo citandone il v. 11 nella 1 Corinzi 3,20 e il v. 14 nella Lettera ai Romani 11, 1-2 ed alludendo altrove ai vv. 2 e 19 (in 2 Tessalonicesi 4,6 e 2 Corinzi 1,5).

Salmo 95 (94) 
CANTO DEL GRANDE INVITO

Le battute iniziali «Venite, esultiamo al Signore, acclamiamo... alla Presenza (divina) andiamo cantando» hanno reso questo inno liturgico il tradizionale «Invitatorio» alla preghiera, posto in apertura al culto giudaico e cristiano. Ed effettivamente questo inno è di origine liturgica: dopo due professioni di fede nell'azione creatrice di Dio (vv. 3-5) e in quella dispiegata nella storia della salvezza (v. 7), il canto si trasforma in un oracolo profetico che coinvolge l'assemblea in un duro esame di coscienza (vv. 8-11). Si evoca, infatti, l'evento centrale della fede biblica, la nascita di Israele nel deserto dopo la liberazione offerta da Dio nell'esodo dall'Egitto. Ebbene, in quegli inizi Israele ha sfoderato tutta la gamma delle sue ribellioni: il poeta cita in particolare l'episodio di Massa e Meriba narrato in Esodo 17,1-7 e in Numeri 20,2-13. Dio, allora, fu nauseato di quel popolo che pure aveva amato e la sua minaccia «Non entreranno nel mio riposo», cioè nella terra promessa, fu attuata per quella generazione ed è sospesa come nuovo giudizio per la generazione presente. Si legga la meditazione che su questo salmo ha intessuto l'autore della Lettera agli Ebrei (cc. 3-4).

Salmo 96 (95)
CANTO DELLA VISIONE

Riprendono i «canti al Signore re», creatore, salvatore e giudice con questo «cantico nuovo»: «nuovo» nel linguaggio della Bibbia significa «perfetto», «pieno», «definitivo». È quindi la celebrazione del progetto perfetto che Dio ha tracciato per la storia e per il cosmo. Nella storia egli governa e giudica secondo giustizia, rettitudine e verità (vv. 10.13). L'uomo deve rispondere obbedendo al comandamento principe, cioè con l'adesione all'unico Dio perché «gli dèi delle genti sono un nulla» e sono solo fonte di perversione e di disarmonia (vv. 4-6). Nel cosmo Dio effonde lo splendore della vita e delle meraviglie naturali che nei vv. 11-12 sono contemplate con tutto lo stupore di chi considera la materia un mirabile capolavoro del Creatore e non come un oggetto da spremere e devastare. È per questo che il creato intero canta e danza con l'uomo davanti al Signore che entra in questo tempio cosmico per ascoltare e per benedire.

Salmo 97 (96)
CANTO ALLA TEOFANIA COSMICA

L 'acclamazione iniziale «Regna il Signore» svela subito il genere di questo salmo e di quelli che lo circondano: JHWH, re della luce, appare nella cornice di una gloriosa teofania a cui assiste tutta la sfilata delle creature e tutta l'umanità nelle sue due categorie fondamentali. Infatti da un lato assistono gli idoli e gli idolatri (vv. 7-9): essi devono piegarsi, pieni di vergogna, di fronte all'unico Vivente, Creatore e Signore. D'altro canto, invece, si leva la voce gioiosa dei giusti (vv. 10-12) che, scegliendo di odiare il male e di amare il Dio vivente, oggi celebrano la loro giornata di luce e di festa. Sullo sfondo il creato partecipa a questa grande rivelazione di Dio con una coreografia scoppiettante e grandiosa (vv. 1-6). Un trionfo luminoso di Dio e dei giusti per un giorno perfetto, tanto atteso e sperato mentre si procede a fatica nelle strade aggrovigliate della storia.

Salmo 98 (97)
TUTTI I FIUMI INNALZINO APPLAUSI

Ecco un altro «cantico nuovo», perfetto e glorioso, al Signore re e giudice, le cui sette qualità fondamentali si chiamano meraviglia, vittoria, salvezza, giustizia, amore, lealtà, rettitudine. Ma il canto nasce da un coro e da un'orchestra straordinari (vv. 4-8). Non sono solo i fedeli che, accompagnati dagli strumenti del culto nel Tempio (arpe, trombe, cetre), acclamano davanti al Re e Signore. Al coro partecipano anche tutte le creature: c'è il mare che romba, c'è la terraferma con tutti i suoi abitanti, ci sono i fiumi che con le loro ramificazioni a braccia sembrano mani che applaudono, mentre gli echi delle valli e dei monti creano suoni fondi e prolungati. L 'ingresso del Signore nel mondo e nella storia provoca un sussulto di felicità in tutti e in tutto. È questa l"'utopia" della Bibbia, è il credere in un mondo che canti perché Dio è in mezzo alle sue creature e non è scomunicato con la ribellione dell'orgoglio e dell'ingiustizia.

Salmo 99 (98)
DA UNA COLONNA DI NUBI PARLAVA

Ancora una volta si sente il grido JHWH malak, «il Signore regna»: un nuovo salmo dedicato al regno giusto di Dio sul cosmo e sulla storia. L'accento è ora posto sulla «santità» di Dio. Infatti per tre volte risuona l'acclamazione qadosh hu, «santo egli è!», quasi come in un'antifona (vv. 3.5.9). La nozione biblica di santità indica prima di tutto «separazione», distacco, diversità, trascendenza. Abbiamo, quindi, la celebrazione della grandezza di Dio, re supremo, come è attestato dalla litania di attributi a lui rivolti nella prima strofa: grande, eccelso, terribile, potente, giusto, santo (vv. 1-5). Nella seconda strofa, invece, il Dio totalmente Altro si accosta all'uomo e, attraverso la mediazione di Mosè, Aronne e di Samuele, cioè delle guide profetiche e sacerdotali, instaura un dialogo vivo col suo popolo (vv. 6-9). Egli parla, ascolta, punisce e perdona. Il Dio che è assiso sulla colonna delle nubi, intatto nella sua santità, si rivela come una persona che si appassiona alla storia del suo alleato, l'uomo.

Salmo 100 (99)
INVITO A COMPORRE CANTI E DANZE

Questa cantata liturgica di lode, di fede e di gioia è stata messa in musica nel 1843-44 da F. Mendelssohn-Bartholdy e più recentemente da L. Bernstein nei suoi Chichester Psalms (1965). In un'ondata di entusiasmo Israele proclama la sua fede nel «Signore buono» il cui amore è eterno e riafferma la sua coscienza di essere il popolo dell'alleanza, legato da un rapporto intenso e personale col suo Dio. Il v. 3, secondo lo studioso tedesco G. Fohrer, costituisce l'articolo di fede fondamentale della teologia di tutto l'Antico Testamento, perché in esso si afferma la dottrina dell'unicità di Dio, della creazione e dell'elezione.

Salmo 101 (100)
PREGHIERA DI UN RE
DA SEMPRE ATTESO

Dalla tradizione dei cosiddetti «re cristiani» era chiamato lo «specchio del principe», un testo nel quale però quei re non sembra si specchiassero con assiduità. Il salmo, nello spirito della sapienza d'Israele e d'Oriente, vuole abbozzare il ritratto di un politico giusto secondo due lineamenti essenziali. Il primo è quello del rigore personale nella scelta della via perfetta ed integra già all'interno della sua famiglia e del suo palazzo, scartando consiglieri corrotti e tentazioni idolatriche (vv. 1-4). La seconda componente è più di tipo pubblico e sociale: lotta contro la calunnia, la delazione, la falsa testimonianza giudiziaria, attacco alle prepotenze delle alte classi, difesa dei poveri, selezione accurata dei ministri, impegno continuo (sin dal mattino, dice simbolicamente il v. 8) ad estirpare impostori e malvagi (vv. 5-8). È il programma ideale di un capo di Stato che sa di non essere arbitro assoluto, ma luogotenente dell'unico re giusto e perfetto, Dio, secondo la classica visione biblica del re davidico.

Salmo 102 (101)
DI ME FANNO I NEMICI UNO STRAZIO

«Qual civetta in deserto mi sento, o un gufo in mezzo a rovine...»: questa originale immagine di solitudine e di tristezza fa quasi da sigla a questa lamentazione nella quale il dolore personale (vv. 2-12 e 24-29) è accostato a quello della nazione intera devastata e umiliata (vv. 13-23). Inserito nella lista dei Salmi penitenziali dalla tradizione cristiana proprio per questa tonalità tenebrosa, il salmo si apre con un vigoroso autoritratto dolente: la febbre brucia le ossa, la nausea per il cibo ha smagrito il corpo, le lacrime e il pane del lutto (v.9) sono ormai il segno d'una vita che si spegne, che si avvia ad una «nera agonia», mentre attorno si è fatto il vuoto. In finale si riprende questa descrizione angosciata che ora avvolge anche tutto l'orizzonte perché tutto porta in sé il tarlo della morte. Il grido è lacerante: «Mio Dio, non rapirmi nel fiore dei giorni! » (v. 25). Ma questa tragedia interiore e personale è lo specchio di un'altra e maggiore tragedia esterna, quella di Gerusalemme devastata. La risurrezione delle pietre di Sion tanto amata (v. 15) diventa, allora, quasi l'emblema della risurrezione che l'orante attende da Colui i cui «anni durano per sempre» (v. 25).

Salmo 103 (102)
DIO È AMORE

Il «Dio è amore» della Prima Lettera di Giovanni (4,8) sembra quasi anticipato in questa benedizione che F. Nietzsche ha definito «il libro della giustizia divina», una giustizia che conosce il perdono. Infatti il filosofo tedesco allegava questo salmo nella sua polemica contro la riduzione dell’Antico Testamento a testimonianza della sola giustizia punitiva di Dio. Racchiuso entro due benedizioni, personale la prima (vv. 2-3) e corale-cosmica quella finale (vv. 20-23), il salmo si sviluppa in due movimenti. Il primo è un dolce canto dell'amore e del perdono (vv. 4-10), un perdono che supera le rigide leggi della giustizia (v. 10). Il secondo movimento lirico celebra il rapporto tra amore divino e fragilità umana (vv. 11-19) e lo fa attraverso cinque similitudini di grande efficacia: la distanza verticale cielo-terra, quella orizzontale oriente-occidente, la tenerezza paterna, l'erba e il fiore del campo investiti dal vento bruciante del deserto. Su tutta la scena si erge la bontà amorosa di Dio, espressa tra l'altro anche con la celebre radice ebraica rhm, che indica «la visceralità» materna dell'amore di Dio per la sua creatura. L 'uomo debole e inconsistente, «breve di giorni e sazio di inquietudine» (Giobbe 14,1), è avvolto dall'«amore di Dio che è per sempre» (v. 17).

Salmo 104 (103) 
INNO ALLA CREAZIONE

Secondo alcuni studiosi questo splendido cantico del Creatore e delle creature rivelerebbe qualche punto di contatto con l’Inno ad Aton del famoso faraone Akhnaton (XIV sec. a.C.), che aveva riformato la religione egizia sulla base di un certo monoteismo solare (Aton era appunto il disco solare). Certo è che la prospettiva del nostro poeta è diversa perché il sole non è divino ma è solo uno dei tanti segni dello splendore di Dio nel cosmo. Affascinato dalle meraviglie disseminate nel creato, il poeta parte dal cielo nel quale si accende una grandiosa teofania (vv. 1-4), contempla la terra e le acque in tensione (vv. 5-9), passa alle innumerevoli manifestazioni della vita, generata dall'acqua sulla terra, germogliata in forme animali e vegetali, esplosa nella sazietà delle creature (vv. 10-18). Si giunge, così, al mistero del tempo scandito dal sole e dalla luna, dalla vita notturna delle belve e da quella diurna dell'uomo (vv. 19-24). Il mare non è più il mostro caotico che tenta di demolire il creato, ma è un pullulare di navi e di pesci tra i quali danza anche il mostro Levìatan ridotto ora ad una simpatica balena (vv. 25-26). Su tutto si stende lo spirito creatore di Dio che dà vita e sazietà e che, dall'alto del suo cielo, contempla pieno di gioia il suo capolavoro (vv. 27-34). E perché tutto canti la lode al Signore è necessario che il mondo sia purificato da tutti i profanatori e da tutti gli empi (v. 35).

Salmo 105 (104)
STORIA CHE SI FA PREGHIERA

In dittico col successivo Salmo 106, questa meditazione poetica sulla storia d'Israele è condotta dall'angolo di visuale di Dio. Perciò questo primo Alleluja del Salterio è una «lode» rivolta al Signore della storia, artefice di atti gloriosi, espressioni di un amore eterno per il suo popolo. Dopo un possente corale d'apertura ritmato da dieci imperativi innici (vv. 1-7), il salmista professa il suo Credo storico in cinque quadri: i patriarchi (vv. 8-15), la vicenda di Giuseppe l'egiziano (vv. 16-22), le piaghe d'Egitto (vv. 23-36), l'esodo dall'Egitto e la marcia nel deserto (vv. 37-43), il dono della terra promessa (vv. 44-45). Pur spoglio da voli lirici o da immagini sfolgoranti, il carme ha un suo fascino che nasce dalle azioni e dalle cose fiorite da un ricordo sacro e salvifico. Si rivela, così, la struttura intima della fede biblica che non è un'astratta adorazione del Dio misterioso ma la scoperta continua della sua vicinanza e della sua presenza nel tempo spesso opaco dell'uomo. Una curiosità: le piaghe d'Egitto elencate dal salmo sono solo otto rispetto alle dieci del racconto di Esodo 4-11 (manca la menzione della moria del bestiame e delle ulcere) e la sequenza è diversa.

Salmo 106 (105)
NON EBBERO FEDE NEL SOGNO DI DIO

Se il Salmo 105 era il Credo delle stupende azioni di salvezza operate da Dio, questa seconda meditazione storica raccoglie invece l'oscuro anti-Credo della infedeltà e delle ribellioni di Israele. Per questo carme c'è nel popolo dell'elezione quasi «un genio dell'infedeltà»: il salmo, allora, si trasforma in una confessione dei peccati comunitari. Il poeta ne mette in luce otto a partire da una ribellione al mar dei giunchi, il mare dell'esodo dall'Egitto, descritta da Esodo 14,10-14 (vv. 6-12). Ci sono poi la brama di cibo e di acqua nel deserto (vv. 13-15), la «gelosia» contro Mosè e Aronne con la rivolta di Datan e Abiram (vv. 16-18; leggi Numeri 16), l'adorazione del vitello d'oro all'Oreb-Sinai (vv. 19-23), la «mormorazione» contro le paure della conquista della terra promessa (vv. 24-27), i culti idolatrici sessuali nel deserto (vv. 28-31), condannati dal sacerdote Pincas (leggi Numeri 25), la provocazione contro Dio alle acque di Meriba (vv. 32-33; vedi Esodo 17,1- 7), la serie interminabile di idolatrie una volta giunti nella terra promessa (vv. 34-36). Una catena di male che, come un fiume fangoso, percorre la storia d'lsraele, ma anche un sottile filo di speranza nell'amore indistruttibile di Dio. Il v. 48 contiene la dossologia che chiude il quarto dei cinque libri in cui la tradizione giudaica aveva suddiviso il Salterio.

Salmo 107 (106)
E ANCORA STOLTI E INFIACCHITI
PAGAVANO...

Nella festosa assemblea liturgica del Tempio si fa silenzio e quattro fedeli a turno alzano la loro voce per cantare un loro personale ex-voto. Il primo è un carovaniere che evoca il terrore passato quando la sua carovana perse la pista nel deserto votandosi ad una morte orribile per sete (vv. 4-9). Il secondo è un ex-carcerato che evoca l'incubo di una cella tenebrosa e delle catene che lo imprigionavano (vv. 10-16). A lui succede un malato che ricorda quell'istante spaventoso in cui l'agonia lo aveva condotto alle soglie della morte (vv. 17-22). Ed infine, in un quadretto straordinario per vivacità, un marinaio narra la sua avventura durante una violenta tempesta marina, un'esperienza indimenticabile ed eccezionale per un popolo che non aveva tradizioni marinare come Israele (vv. 23-32). Ma questi quattro ringraziamenti non restano personali; tutta l'assemblea si associa e vede in quei quattro ex-voto Israele pellegrino, prigioniero, malato, sballottato tra le tempeste della storia ma sempre guidato, liberato, guarito, salvato dalla mano di Dio. Per questo il salmo si chiude nei vv. 33-43 con un inno alla storia della salvezza vissuta da tutto Israele nell'esodo, nel dono della terra promessa e nel ritorno in essa dopo la tragedia dell'esilio babilonese.

Salmo 108 (107)
IL CUORE È SALDO E DISTESO


Questa strana composizione nasce dalla somma di due frammenti salmici già noti, i Salmi 57,8-12 e 60,7-14: il primo è un canto all'aurora, il secondo una lamentazione nazionale che cita un antico oracolo divino. La fusione fa sì che il primo testo diventi un preludio innico in cui l'alba diventa il segno di una nuova epoca storica, epoca auspicata nel corpo del salmo costituito dal testo della lamentazione. Il presente amaro in cui Dio non sembra più accompagnare Israele in battaglia (v. 12) è solo un periodo di attesa. Colui che divide e misura le città e le valli di Palestina, che governa Efraim e Giuda, le due maggiori tribù ebraiche, che usa come catino Moab col suo mar Morto, che calpesta coi suoi sandali di vincitore Edom e trionfa sulla Filistea, non tacerà a lungo. Ci condurrà al riparo in una «rocca turrita» nel deserto e poi mostrerà ancora la sua potenza liberatrice.

Salmo 109 (108)
SALMO DELLE VENTI IMPRECAZIONI

Un'implacabile litania di venti imprecazioni (vv. 6-15) è inserita all'interno di una lamentazione pronunciata da un uomo calunniato gravemente in sede giudiziaria e quindi votato ad un destino pauroso. È in questa luce che le maledizioni diventano quasi un ricorso alla cassazione suprema di Dio perché intervenga e ristabilisca la verità. Non bisogna, quindi, leggere queste righe con le loro potenti iperboli alla lettera; esse esprimono una passionale scelta di campo per la verità e la giustizia e sono un vero e proprio rimettere la causa all'azione giudiziale divina. Certo, in esse emerge anche l'incarnazione della parola di Dio in concrete coordinate storiche e culturali, emerge l'adattarsi del messaggio divino all'uomo facendosi «povero» come lui per poterlo liberare. Tra l'altro gli Atti degli Apostoli citano il nostro salmo (v. 8) per descrivere il dramma di Giuda, l'apostolo traditore (Atti 1, 16.20). Nel testo non mancano immagini di profonda intensità, come quando nei vv. 18-19 la maledizione divina è presentata sotto i simboli dell'acqua bevuta, dell'olio versato sulla pelle, del mantello che copre, del vestito che avvolge e della cintura che stringe.

Salmo 110 (109)
SULLE STRADE DI PASQUA

È composto nell' originale ebraico di sole 63 parole, eppure questo salmo regale è stato il più studiato, il più musicato, il più amato ed anche il più deformato del Salterio. Divenuto fin dal giudaismo il testo classico del messianismo, le sue parole - soprattutto nella versione greca dei Settanta e in quella latina della Volgata di Gerolamo - sono state elaborate e tese verso il re perfetto, erede del sacerdozio di Melchisedek, il sovrano-sacerdote di Salem, la Gerusalemme preisraelitica (vedi Genesi 14). Il carme è strutturato su due oracoli paralleli. Il primo (vv. 1-3) è quello, solenne, destinato al sovrano nel giorno della sua intronizzazione «alla destra» dell'arca, segno della presenza di Dio.
Davanti al re incoronato sfila, poi, la parata militare delle giovani leve (v. 3). Il secondo oracolo (vv. 4- 7) è, invece, più di tipo sacerdotale, avendo anticamente il re anche funzioni cultiche, e finisce con quella sanguinolenta visione del re trionfatore che sfonda i crani dei suoi nemici, come il faraone nelle rappresentazioni egizie, e si abbevera ai torrenti nelle sue marce militari (vv. 6-7). Il v. 3 nell'antica versione greca era, invece, la proclamazione della filiazione divina del sovrano davidico (vedi Sal 2,7): «Dal seno dell'aurora, come rugiada, ti ho generato». In questa luce il salmo è diventato un classico della cristologia, come è attestato dalle numerose citazioni neotestamentarie (vedi, ad esempio, Marco 12,36; Ebrei 1,3.13; 7; Atti 2,34-35).

Salmo 111 (110)
PRIMO ALLELUJA:
LE VENTIDUE LETTERE
DELLA GLORIA DI DIO

Riappare nei Salmi 111 e 112 l'acrostico alfabetico: ogni riga della poesia inizia con un vocabolo aperto dalla corrispondente lettera dell'alfabeto ebraico in successione. Entrambi i salmi sono aperti dall'Alleluja!, l'acclamazione di lode tipica della liturgia biblica, già incontrata nel Salmo 105 e d'ora innanzi abbondantemente usata dal Salterio. In ventidue lettere si esaltano ora le opere di Dio che nell'esodo dalla schiavitù d'Egitto e nel dono della Legge al Sinai hanno la loro suprema manifestazione. La teologia dell'alleanza è, quindi, alla base dell'inno ed è riassunta nella proclamazione del v. 4: «Tenerezza e amore è Dio». Il salmo ha una sua semplicità e una spontaneità quasi disarmante: si loda Dio solo perché egli è e si rivela.

Salmo 112 (111)
SECONDO ALLELUJA:
LE VENTIDUE LETTERE
DELLA SAPIENZA DEL GIUSTO

Se Dio era il protagonista del precedente Alleluja alfabetico, in questo parallelo è il giusto l'attore principale. E proprio per l'uso cristiano nella liturgia in onore dei santi, il Salmo 112 è divenuto uno dei testi classici nella musica occidentale (Monteverdi, Benedetto Marcello, Vivaldi, Mozart, Bruckner ...). Anche Paolo ha citato il v. 8 nel suo trattatello sull'elemosina cristiana in 2Corinzi 9,6-9. La struttura della lirica, di tonalità sapienziale, si basa su un dittico intenzionalmente sghembo: al giusto sono riservati tutti i versetti del salmo tranne l'ultimo che dipinge l'empio mentre digrigna i denti ed è roso dall'invidia. Il giusto, invece, è esaltato soprattutto per la sua generosità sociale: egli dà in prestito, dona largamente ai poveri e la giustizia è la lampada sempre accesa sul cammino della sua vita.

Salmo 113 (112)
L' ALLELUJA DEGLI ANTICHI VESPERI

Con questa breve composizione si apre il celebre «Hallel egiziano», un fascicolo di Salmi (113-118) così chiamato a causa del Salmo 114 dedicato all'esodo dall'Egitto ed usato nella liturgia giudaica della Pasqua. Molto amato anche dalla tradizione cristiana che l'ha considerato un po' il Magnificat dell'Antico Testamento a causa dei contatti che l'inno di Maria rivela col tema fondamentale del salmo, questo cantico celebra JHWH nella sua presenza lungo la linea orizzontale del tempo (vv. 1-3), lungo quella verticale dello spazio (vv. 4-6), ma soprattutto lungo la storia della salvezza. In essa si assiste alle scelte di Dio che ribalta i troni per scegliere con tenerezza coloro che affondano nel fango e nei rifiuti (vv. 7-9). Un canto degli ultimi che agli occhi di Dio sono i primi.

Salmo 114 (113A)
IL MARE VIDE E SI TRASSE STUPITO

Eccoci alla celebre ballata sull' esodo dall'Egitto che ha dato il titolo di «Hallel egiziano» al fascicolo dei Salmi 113-118. Caro anche a Dante che ne fa il canto delle anime del Purgatorio «In exitu Israel de Aegypto cantavan tutti insieme ad una voce, con quanto di quel salmo è poscia scripto», questo inno pasquale ha al centro la straordinaria immagine della danza dei monti davanti al Signore e quella della fuga del mar Rosso e del Giordano che corrono lontano per lasciar passare Israele in marcia verso la terra promessa. Altrettanto suggestiva ed essenziale è la riproduzione del racconto esodico dell’acqua scaturita dalla roccia in un unico versetto folgorante: «egli tramuta la rupe in un lago» (v. 8). Breve eppure imponente, mosso eppur maestoso, questo canto pasquale è divenuto nella tradizione cristiana l'inno della speranza nella storia e oltre la storia.

Salmo 115 (113B)
FEDELTÀ TUA LO ESIGE E L' AMORE

All'interno di un atto liturgico nel Tempio un sacerdote pronunzia una catechesi sul vero Dio, il Dio dell'alleanza, il Dio creatore onnipotente, la fonte di ogni fiducia, lo scudo di tutto Israele (vv. 1-11). In negativo egli apre una polemica serrata e impetuosa contro gli idoli, «statue mute forgiate dall'uomo», ben diverse con la loro immobilità dalla vitalità del Signore (vv. 4-8). Finito il suo sermone, il sacerdote impartisce la solenne benedizione facendola scendere su tutto il popolo, sulla classe sacerdotale, la «casa di Aronne» e su «chiunque teme Dio», una locuzione che in epoca tarda poteva indicare i proseliti pagani, desiderosi di essere ammessi nel popolo eletto. La benedizione effonde fecondità e vita all'interno dell'esistenza umana ed allora tutta l'assemblea, felice di sentirsi viva, innalza un corale finale di ringraziamento (vv. 12-18) «al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio non dei morti ma dei vivi» (Matteo 22,32).

Salmo 116 (114-115)
HO CREDUTO PUR QUANDO DICEVO...

La versione greca dei Settanta, seguita dalla Volgata latina, ha spezzato questo salmo, caro a Paolo (lo cita in 2Corinzi 4,13 e in Romani 3,4), in due composizioni diverse. In realtà si tratta di un unico canto di ringraziamento di sapore liturgico, segnato dall'invocazione del nome del Signore: per tre volte si ripete la frase besem-JHWH 'eqrah, «invoco il nome di JHWH» (vv. 4.13.17). Dopo l'evocazione di un incubo da cui Dio 10 ha liberato (vv. 1-6), il salmista in un soliloquio «anima mia, torna alla pace...» canta la sua totale fiducia nell'amore divino anche quando l'infelicità occupa l'orizzonte della vita (vv. 7-13). È per questo che ora, nel Tempio e davanti all'assemblea, egli sta sciogliendo la sua t6dah, cioè il suo sacrificio di ringraziamento (vv. 14-19). Fedele servo di Dio, membro della sua stessa famiglia come dice la locuzione tecnica «figlio della tua ancella» (v. 16), egli ora davanti al Dio dell'amore leva «il calice della salvezza» (v. 13), la coppa rituale della libazione, segno della gioia che il Signore ha ormai riportato all'interno della sua vita. Tra gli ammiratori di questo salmo dobbiamo registrare un nome insolito, Voltaire, che prediligeva il v. 12: «Che cosa posso offrire al Signore per i doni che mi ha elargito?».

Salmo 117 (116)
O GENTI TUTTE

Simile ad una miniatura, questo mini-inno, il più breve del Salterio, trasformato in musica d'ineffabile bellezza da Mozart nei suoi Vespri solenni di un confessore (1780), è stato usato dalla tradizione come se fosse una giaculatoria e un Gloria da mettere alla fine di altri canti o salmi. Le sue 17 parole, di cui solo 9 decisive, sono infatti la celebrazione del cuore della fede biblica, l'alleanza che Dio stabilisce con l'uomo attraverso il suo amore e la sua fedeltà, in ebraico hesed e 'emet. In questa lode il poeta associa tutti i popoli, tutti i canti della terra che sono rivolti a Dio, il grande amico.

Salmo 118 (117)
QUESTO È IL GIORNO CHE HA FATTO
IL SIGNORE

Con questo inno, complesso e solenne, si conclude l'«Hallel egiziano» pasquale (Salmi 113-118). Il testo sembra svelare ad un esame serrato la partitura di una cerimonia liturgica, da alcuni identificata col rituale della festa autunnale delle Capanne. Pare di essere di fronte ad una processione. Dopo un invito liturgico al canto rivolto a tutto il popolo, ai sacerdoti e, forse, ai proseliti accorsi a Gerusalemme (vv. 1-4), il primo inno di lode risuona in mezzo alle «tende dei giusti», cioè nella città santa e nelle sue vie (vv. 5-18). E un cantico di fiducia nell'angustia e di vittoria nel nome di JHWH, pronunziato da un solista contrappuntato dal coro. Giunta alle «porte di giustizia», cioè alle soglie del Tempio, la processione dei fedeli instaura un dialogo coi sacerdoti per ottenere il permesso d'accesso (vv. 19-20). Una volta entrata, l'assemblea inizia la liturgia di ringraziamento e di lode alla «pietra» che è la testata d'angolo del mondo: il simbolo è trasparente perché Dio è chiamato spesso nella Bibbia «rupe» e la roccia di Sion è la sede della sua presenza nel Tempio. Il corteo ora danza attorno all'altare e riceve la benedizione dei sacerdoti (vv. 25-29). Citato a più riprese dal Nuovo Testamento (vedi il v. 22 in Matteo 21,42 ed Atti 4,11 e il v. 26 in Matteo 21,9 e 23,39), il salmo ha dato origine anche all'acclamazione cristiana «Osanna», dall'ebraico hoshi'ah-na', «oh, sì, salvaci!» del v. 25.

Salmo 119 (118)
ALLA CATTEDRALE DELLA LEGGE

Questo monumentale alfabeto della parola di Dio, espressa in modo eminente dalla Torah, la legge biblica, è simile ad un canto orientale che sgrana le sue cellule sonore su cerchi che a spirale salgono al cielo in ripetizioni infinite. In questa specie di «moto perpetuo» della fedeltà alla parola divina, lampada per i passi (v. 105), più dolce del miele (v. 103) e più preziosa dell'oro fino (v. 127), fa impressione la sofisticata tecnica stilistica per cui, con le progressive lettere dell'alfabeto ebraico, non iniziano solo i 22 ottonari del salmo ma anche tutti i singoli versetti dell'ottonario mentre ogni versetto deve contenere almeno una delle otto parole ebraiche con cui si definisce la legge: torah, «legge», dabar, «parola», 'edut, «testimonianza», mishpat, «giudizio», 'imrah, «detto», hoq, «decreto», piqqu-dim, «precetti», miswah, «ordine», Come in un rosario, che si snoda dall'alef alla tau, dall' A alla Z, il fedele deve lasciarsi conquistare da questo filo orante continuo, il più lungo di tutto il Salterio, e deve professare la sua gioia di essere sempre con Dio in tutte le sue ore e le sue scelte di vita. Si dice che Pascallo recitasse quotidianamente mentre D. Bonhoeffer scriveva: «Indubbiamente il Salmo 119 è particolarmente pesante per la sua lunghezza e monotonia; ma proprio dobbiamo procedere parola per parola, frase per frase, molto lentamente, pazientemente. Scopriremo allora che le apparenti ripetizioni sono in realtà aspetti nuovi di una sola e medesima realtà: l'amore per la parola di Dio. Come quest'amore non può avere mai fine, così non hanno fine le parole che lo confessano. Esse possono accompagnarci per tutta la nostra vita e nella loro semplicità esse divengono preghiera del fanciullo, dell'uomo, del vegliardo».

Salmo 120 (119)
CANTICO DELLE ASCENSIONI

Nei titoli apposti ai salmi dalla tradizione giudaica la collezione dei Salmi 120-134 porta l'indicazione dei «canti delle ascensioni». Si tratta, forse, di una specie di libretto del pellegrino che «ascendeva» verso Gerusalemme (la città è a 800 metri) per i tre pellegrinaggi annuali di Pasqua, Pentecoste e Capanne. Questa «salita» naturalmente diventava espressione di un’«ascesa» spirituale verso il mistero trascendente di Dio. I quindici salmi qui raccolti sono diversi per genere, hanno spesso per sfondo la città santa e amano la ripresa, anche verbale, dei temi. Il primo che incontriamo, il Salmo 120, si apre con un bellissimo 'el-JHWH, «verso il Signore», che indica appunto lo slancio verso l'alto e verso la comunione con Dio. Il tono è quello di una supplica contro due incubi, quello della lingua perversa (vv. 1-4) e quello della guerra (vv. 5-7). L'orante si descrive autobiograficamente esule in Mesek, una regione barbara posta tra il Mar Nero e il Caspio, e prigioniero tra le tende di Kedar, una bellicosa tribù araba nomade della penisola araba o del deserto siro. Evidentemente si tratta di due simboli per indicare un mondo ostile e barbaro, in cui domina la violenza. Ma il desiderio del salmista è uno solo, la pace-shalom, vocabolo che evoca Gerusalemme, la «città della pace».

Salmo 121 (120)
CANTO DELLA SENTINELLA DIVINA

Nell'originale ebraico ricorre per sei volte la radice verbale che indica il «custodire» della sentinella che veglia sulla città nella notte. Dio è, infatti, dipinto in questa preghiera di fiducia, come la sentinella che mai si assopisce, pronta sempre a diventare scudo del suo fedele nelle oscurità della notte, quando i raggi della luna possono accecare o far impazzire (come credeva il folklore orientale), oppure ombra nel cammino assolato del giorno. Gli occhi del fedele sono, perciò, protesi ai monti di Gerusalemme (non dimentichiamo che questo è il secondo «salmo delle ascensioni» ) dove si erge il Tempio e da dove viene la forza del divino custode. Il Signore, infatti, copre con la sua vigilante protezione il «partire» e il «rientrare» dell'uomo, cioè tutto il percorso della vita, dall'uscita dal grembo materno fino all'ingresso nel grembo della terra (v. 8).

Salmo 122 (121)
CANTO ALLA CITTÀ DELLA PACE

Ecco uno dei più celebri e più appassionati canti di Sion e delle ascensioni a Gerusalemme, messo in musica da Monteverdi nel suo Vespro della Beata Vergine (1610). Affidata nell'originale ebraico ad un caldo impasto sonoro, questa lirica nella prima strofa (vv. 1-2) fonde due momenti cronologicamente distinti: il momento lontano in cui il pellegrino decise di partire per la città santa e l'istante presente in cui i piedi finalmente sono sulla terra di Sion, di fronte alle porte della città. Affascinato dallo splendore architettonico e spirituale di Gerusalemme, il poeta si lascia conquistare dalla voglia di celebrare la città del suo amore, sede della casa di Davide e dei tribunali d'appello, i «troni del giudizio» che rendono più giuste le tribù d'Israele (seconda strofa: vv. 3-5). Il cantico si chiude, allora, con un'ultima strofa (vv. 6-9) che è un augurio «francescano» di «Pace e Bene» per la città amata. Come spesso avviene nei Salmi delle ascensioni, con questo augurio si gioca sull'assonanza tra la parola «Gerusalemme», interpretata popolarmente come «città della pace» e il vocabolo ebraico shalom, «pace», dai contorni messianici.

Salmo 123 (122)
COME OCCHI DI SCHIAVA

La celebre scultura del Museo del Cairo che raffigura lo scriba con la mano pronta sul papiro e gli occhi fissi al suo signore sembra quasi la rappresentazione dell'immagine centrale di questa bella lirica dei «canti delle ascensioni». Gli occhi dei servi spiano con estrema attenzione le mani dei loro padroni per cogliere anche il più piccolo segno della loro volontà e della loro benevolenza. Gli occhi del povero e dell'emarginato sono anch'essi fissi sulle mani del Signore perché appena esse si muoveranno, creeranno giustizia e libertà distruggendo «i folli e i potenti». È particolarmente forte la descrizione della «sazietà» a cui il giusto è ora sottoposto: ingozzato da troppi insulti, con la gola sazia di sputi e di scherni (vv. 3-4).

Salmo 124 (123)
PER IL BUCO DELLA RETE

Il piccolo poema ha una prima sezione (vv. 1-5) costruita in forma quasi ritmata; a due protasi ripetute «se Dio non fosse stato per noi...» succedono tre apodosi «davvero... davvero... davvero...» che scandiscono il pericolo descritto attraverso i simboli antitetici del fuoco che tutto incenerisce e delle acque che ingoiano. Anche il Siracide cantava: «Mi hai salvato dalla morsa soffocante delle fiamme, dal ventre di un oceano senz'acqua» (vedi 51,2-5). La seconda parte del salmo passa dalla supplica alla benedizione (vv. 6-8). È il ringraziamento a Dio perché ci ha strappati dai denti del mostro maligno. L 'immagine usata è di tipo venatorio: come un uccello, impigliato nella rete, sente il cappio stringersi al collo, così Israele è soffocato dall'oppressione. Ma Dio irrompe e con la sua forza spezza il laccio e fa uscire il suo popolo verso la libertà. Questa scena è rappresentata, ma al contrario, nella «stele degli avvoltoi», opera sumerica della prima metà del III millennio: il dio Ningirsu con la sinistra tiene i nemici imprigionati in una rete e nella destra stringe la mazza per sfracellare quelli che vogliono evadere.

Salmo 125 (124)
COSÌ IL SIGNORE
CINGE IL SUO POPOLO

In questo sesto «cantico delle ascensioni» Gerusalemme fa di nuovo la sua apparizione. Domina nella strofa iniziale (vv. 1-2) ove si levano i suoi monti, segno della stabilità che JHWH, la rupe per eccellenza, offre ai suoi fedeli. Una seconda presenza di Gerusalemme è, invece, posta in finale nel tradizionale saluto shalom-pace che, come si è detto, gioca sul significato popolare di «Gerusalemme - città della pace». Il resto del carme è occupato da una supplica contro l'incubo dell’oppressione (vv. 3-5). Ma con una significativa precisazione: Dio terrà lontano da Sion lo scettro dell'invasore se gli ebrei non si lasceranno tentare dall'ingiustizia al loro interno, nella gestione della loro vita sociale (v. 3). Una protezione non magica ed automatica, quindi, ma condizionata all'osservanza del Decalogo. È solo così che Dio svelerà il suo volto misericordioso per gli oppressi; altrimenti sarà giudice implacabile anche per il suo popolo (vv. 4-5).

Salmo 126 (125)
QUANDO IL SIGNORE, LE NOSTRE CATENE,

Scrive A. Chouraqui, noto traduttore e commentatore ebreo della Bibbia: «Usciti dai campi di concentramento, scampati dai forni crematori nazisti, noi cantavamo il Salmo 126 che sembrava essere scritto per questa circostanza, il ritorno dei prigionieri di Sion verso la terra promessa. Il riso che riempiva la bocca del salmista 2500 anni prima era il nostro riso e la nostra lingua cantava il suo canto!». Anche se il salmo invoca probabilmente solo che Dio restauri le sorti di Sion caduta o schiava, il carme può essere inteso anche come il canto dei rimpatriati dall'esilio di Babilonia, dopo che nel 538 a.C. Ciro aveva concesso loro il rientro al focolare nazionale. La restaurazione o il ritorno sono descritti con due immagini desunte dall'orizzonte palestinese. I torrenti del Negheb, arida regione meridionale di Israele, sono secchi e sassosi d'estate ma a primavera si gonfiano d'acqua e fanno fiorire persino il deserto. La semina è sempre un momento sospeso, perché una stagione meteorologicamente negativa può vanificare ogni lavoro. La mietitura è, invece, festa.
Così è stato per la storia d'Israele. Ai momenti di sete e di aridità, al pianto e all'attesa Dio fa succedere acqua e cibo, gioia e libertà.

Salmo 127 (126)
SE NON EDIFICA DIO LA CASA

Messo in musica in una mirabile tessitura musicale (dieci voci!) da C. Monteverdi nel Vespro della Beata Vergine (1610), questo «canto delle ascensioni» è costruito su un ideale dittico: senza Dio, invano. ..(vv. 1-2); con Dio, ecco invece... (vv. 3-5). Tutte le immagini sono urbane, assunte quasi da Gerusalemme. Senza Dio, invano si elevano mura di protezione, le scolte notturne spiano la notte, i lavoratori si consumano per il pane. Con Dio, invece, ecco una stupenda discendenza. Questo simbolo riassume in se tutte le benedizioni divine perché non è solo segno di vita e di fecondità ma anche di immortalità nel ricordo e nel futuro dei figli soprattutto quando incerta era la speranza nell'oltrevita. Il giusto entra in scena come un poderoso guerriero, armato di quelle frecce acuminate e vittoriose che sono i figli. Per mezzo di queste giovani forze egli respingerà i nemici che si concentrano alle porte della città nella speranza di farla cedere. O se si vuole, il giusto sarà come uno sceicco attorniato da una folta e vigorosa prole: egli si fa largo tra la folla che si accalca alla porta-municipio della città e tutti i suoi avversari si ritirano davanti alla sua forza, segno della benedizione divina.

Salmo 128 (127)
FELICE L'UOMO CHE TEME IL SIGNORE

Questo delizioso quadretto familiare - che ha reso il salmo uno dei testi liturgici del matrimonio giudaico e cristiano - mette in scena un padre soddisfatto del suo lavoro, una moglie piena di vita e di fecondità come la vite, simbolo per eccellenza dell'Israele benedetto da Dio (vedi il Salmo 80), i figli pieni di energia e di vitalità come i polloni dell'ulivo, altro albero caro alla Bibbia. Un idillio pieno di pace, di serenità, di felicità. Ma la porta della casa sembra essere aperta su Gerusalemme, alla piccola famiglia ebraica subentra la grande famiglia della nazione sulla quale scende la stessa atmosfera di pace, di serenità, di felicità. Il carme sapienziale, fiorito all'interno di una casa, sfocia così nella liturgia del Tempio ove i sacerdoti, benedicendo quella famiglia, vedono in essa il segno della protezione divina e della pace-shalom (v. 5) su tutto Israele fedele.

Salmo 129 (128)
FIN DALL'INFANZIA AMARA

Il decimo «cantico delle ascensioni» raccoglie un grido: è l'Israele oppresso che urla nella tortura e che evoca la sua continua storia di perseguitato «fin dall'infanzia», cioè fin dalle sue origini come popolo, in Egitto sotto la schiavitù faraonica. L 'immagine usata per descrivere questo tormento è quella dell'aratura (v. 3): al suolo lacerato, squartato, straziato dalla lama dell'aratro o del legno appuntito subentra in dissolvenza il dorso umano di un prigioniero striato di sangue, scavato dai flagelli, straziato dalle torture. Ma il salmo nella seconda parte scivola verso la speranza ed è ancora un'immagine agricola a dipingere la svolta attesa, quella della mietitura che nella Bibbia è spesso segno del giudizio divino. I tetti delle case palestinesi erano spesso coperti di terra battuta. In occasione delle piogge primaverili su di essi si stendeva un velo di verde, fatto di erbe spontanee e di grano. Ma l'esiguità del terreno impediva che potessero attecchire pienamente crescendo in spiga o fiore. Così sarà il successo degli oppressori: un apparente fulgore, la fioritura d'un istante, ma nessuno potrà colmare il grembo quando mieterà quelle spighe.

Salmo 130 (129)
DALL'ABISSO

Le 52 parole ebraiche del De profundis sono state ripetute, tradotte, commentate forse più di ogni altro salmo. Ed anche se spesso ridotta al rango di canto funebre, questa supplica resta uno splendido inno alla gioia del perdono. Questo grido che sale dai luoghi abissali del male nascosto nel cuore umano penetra i cieli e dalla colpa conduce alla grazia, dal peccato alla redenzione, dalla notte alla luce. Vorremmo solo fare due osservazioni su questa pagina così celebre e così nitida. La prima riguarda il v. 4. Il timore di Dio nasce per il salmista non dal giudizio ma dal perdono, proprio come suggerisce Paolo: «È la bontà di Dio che ti deve spingere alla conversione» (Romani 2,4). Il gesto del perdono deve incutere dolore per un amore offeso; più che la collera di Dio deve generare timore e dolore il suo amore disarmante. È più amaro colpire un padre che un sovrano inesorabile. 
Il secondo dato che vogliamo sottolineare è racchiuso nell'immagine del v. 6. L 'attesa del perdono è il sospiro di tutto l'essere così come le sentinelle spiano il primo filo di luce dell'aurora che segna la fine delle paure notturne. Nella trepidazione c'è anche la certezza che il sole sempre spunterà col suo carico di luce e di vita. Ma il vocabolo «sentinelle» indica anche più genericamente «coloro che vegliano», forse anche i sacerdoti che nel Tempio attendono il giorno per poter presiedere - forse anche una sola volta in vita a causa del loro numero elevato - il culto d'Israele. Un'attesa santa e gioiosa dell'amore di Dio verso la sua creatura.

Salmo 131 (130)
UN BIMBO IN BRACCIO A SUA MADRE

La dolcissima immagine che regge le poche battute di questo salmo di fiducia hanno reso la preghiera in esso racchiusa una delle più care alla tradizione cristiana. È il canto di una fiducia spontanea ed assoluta, quasi istintiva, simile appunto all'aggrapparsi affettuoso e sereno del bambino alla persona che costituisce la sua sicurezza e la sua pace, cioè la madre. Non si tratta, però, come molti pensano, del bambino ancora allattato; il termine ebraico definisce il bimbo svezzato e l'immagine, allora, è quella molto orientale del bimbo che la madre porta sul dorso. Si ha, quindi, un'intimità più cosciente. Isaia aveva già cantato il rapporto tra Israele e il suo Dio proprio sulla base della simbolica materna (49 , 15) e anche in alcune epigrafi egiziane si diceva: «Due volte felice colui che riposa beatamente sul braccio del dio Amon che ha cura del piccolo e del povero». A questa intimità, che non è compresa da chi ha il cuore gonfio d'orgoglio e mira a successi clamorosi, il poeta in finale chiama tutto Israele: «In Dio speri sempre Israele! » (v. 3).

Salmo 132 (131)
UNA CASA PER IDDIO

Testo molto complesso e arcaico, questo «cantico delle ascensioni» sembra essere un inno liturgico per la processione dell’arca e per la dinastia davidica, le due «sedi» della presenza divina a Gerusalemme, nello spazio e nella storia. Il carme è articolato su due tavole che contengono due giuramenti. Il primo (vv. 1-10) è quello che Davide rivolge a JHWH: «Che mai abbia una casa... finché non trovi una tenda per il Dio di Giacobbe» (vv. 3-5). Si evoca, così, l'atto di Davide descritto in 2 Samuele 6 allorché il sovrano di Giuda trasferì l'arca dalla regione di Efrata, attorno a Betlemme, e precisamente dalle compagne di Iaar (Kiriat-Jearim) a Gerusalemme, la nuova capitale, da poco conquistata. Il primo quadro tratteggia la processione commemorativa di quell'evento coi suoi cori, coi sacerdoti, con l'assemblea. Il secondo giuramento è, invece, fatto da Dio nei confronti di Davide e della sua dinastia: «Se i figli tuoi saranno fedeli, sul trono tuo staranno per sempre» (v. 12). Si riprende qui la promessa di Natan citata da 2Samuele 7 e nel Salmo 89 e la si vincola alla fedeltà alla legge divina. Alla proclamazione della promessa segue un coro sacerdotale di acclamazioni che si chiude con le immagini della luce e della vita: la lampada, lo splendore del diadema e il fiorire della potenza di Davide diventano nella liturgia del Tempio un segno della speranza messianica.

Salmo 133 (132)
È COSÌ LA RUGIADA...

Se volessimo trascrivere questo canto della fraternità dell'Israele di Dio in chiave cristiana potremmo usare le parole di Gesù nel testamento dell'ultima sera della sua vita: «Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, dall'amore che avrete a vicenda» (Giovanni 13,35). Il tema del salmo è commentato attraverso una duplice simbologia. Innanzitutto l'olio profumato usato nella consacrazione dei sacerdoti (Aronne, il fondatore del sacerdozio ebraico): esso penetra nel corpo e nelle vesti santificando e trasformando la creatura. C'è poi il simbolo della rugiada dell'Ermon, il monte settentrionale della Palestina (2760 metri): un'immagine di freschezza in un mondo assolato e bruciato. Con un'iperbole s'immagina che questa rugiada sia come un'inondazione che dal nord della Palestina scende al sud a bagnare anche l'arida Gerusalemme. L 'amore fraterno è, quindi, fonte di santità e di vita in un mondo dissacrato e morto.

Salmo 134 (133)
INNALZATE A LUI LE MANI

Con questa breve e spoglia benedizione si chiude la collezione dei «cantici delle ascensioni» aperta dal Salmo 120. Preghiera vespertina e notturna, questa lirica si svolge su due benedizioni. La prima è contenuta in un appello indirizzato ai sacerdoti che abitano nel Tempio e nella notte vegliano: i fedeli che stanno per lasciare il santuario chiedono a questi «servi del Signore» di non lasciare mai spegnere la lampada della lode divina (vv. 1-2). I sacerdoti rispondono con la seconda benedizione che viene impartita nel nome del Signore su tutta l'assemblea d'Israele (v. 3). «Colmaci, o Dio, con le tue festose benedizioni -dice un canto sinagogale -accordaci vita e pace, gioia e sazietà secondo la tua promessa!».

Salmo 135 (134)
E IL VENTO DAGLI ANTRI SCATENA

Questo inno allelujatico, tutto intessuto di reminiscenze di altri testi biblici, è una solenne celebrazione del Dio vivente che si rivela nella creazione e nella storia della salvezza. Infatti, entro un'ampia cornice di lode e di benedizione (vv. 1-4 e 19-21) si raccoglie una meditazione poetica in tre strofe che professano le fede biblica. Il primo tema è quello della creazione evocata nei vv. 5- 7 nelle sue strutture cosmiche e meteorologiche fondamentali. C'è poi il tema della redenzione nella storia (vv. 8-14) con la memoria dell'esodo dall'Egitto, della marcia nel deserto con gli incubi dei re locali come i principi transgiordanici Seon e Og, della conquista della terra di Canaan. Il salmo nella terza parte (vv. 15-18) passa, allora, ad una polemica contro i falsi dèi, falsi creatori e falsi salvatori perché essi sono inerti manufatti dell'uomo (vedi Salmo 115,4-8). Il Dio della Bibbia appare, quindi, nella sua triplice qualità di Creatore, Redentore e Vivente. Nella tradizione giudaica il nostro salmo dal v. 4 in avanti, unito al successivo Salmo 136, costituisce il cosiddetto «Grande Hallel», la grande lode della liturgia pasquale.

Salmo 136 (135)
CANTO DEL «GRANDE HALLEL»

Ecco il «Grande Halle1», la solenne lode che la liturgia giudaica riservava alla celebrazione pasquale, unendolo al precedente salmo in una specie di grande Credo. In questo inno si professava la fede storica di Israele nei suoi articoli fondamentali: la creazione, l'esodo dall'Egitto, il dono della terra. Questi tre temi sono espressi nel nostro salmo in 22 distici (vv. 4-25) tanti quante sono le lettere dell'alfabeto, quasi a racchiudere in una sigla perfetta la lode al Dio Creatore e Salvatore. Altri due testi biblici, Deuteronomio 26,5-9 e Giosuè 24,1-13, raccolgono 10 stesso Credo con alcune varianti, attestando così l'esistenza di una formula fissa liturgica. Che il nostro salmo sia destinato alla liturgia appare anche dalle strutture per solista e coro. La voce solista elenca le azioni di Dio, dalla creazione Cosmica alle piaghe d'Egitto, dal passaggio del mar dei giunchi nell'esodo dalla schiavitù faraonica alla traversata del deserto, dalla guerriglia contro i principi beduini, come ire transgiordanici Seon e Og, all'ingresso nella terra promessa. Il coro acclama continuamente con un'antifona kf le (olam hasdo, «eterno è il suo amore!». È, quindi, un dialogo tra gli atti salvifici di Dio e la fede riconoscente d'Israele.

Salmo 137 (136)
LUNGO I FIUMI DI BABILONIA

Ripresa ininterrottamente nella tradizione letteraria di tutti i secoli (ultimo, forse, Salvatore Quasimodo nella poesia Alle fronde dei salici), questa meravigliosa e drammatica lamentazione degli ebrei esuli lungo i canali di Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. dev'essere affidata solo all'ascolto. La sua carica di disperazione e di speranza, l'asciutta forza delle sue immagini, la folgorante intensità dello sdegno e della malinconia sono intraducibili in un commento. L'amore viscerale per Sion, l'impossibilità di cantare e di suonare le melodie del Tempio profanandole in terra straniera, la brutalità degli aguzzini, i ricordi laceranti degli Edomiti, vassalli d'Israele, che avevano collaborato coi Babilonesi a radere al suolo la città santa diventano materia di una poesia sublime. In finale resta sulle labbra la terribile maledizione per Edom e per Babilonia, la sterminatrice: come tu hai fatto ai bimbi ebrei così - per la giustizia biblica del taglione - altri sfracellino sulle rupi i tuoi bambini. Una scena macabra, segno della «condiscendenza» del Dio della Bibbia nei confronti di un'umanità oppressa che non ha come arma se non quella delle parole e dell'invocazione al Dio giusto vendicatore.

Salmo 138 (137)
A PIENO CUORE TI VOGLIO CANTARE

L'incubo di un pericolo che attentava alla vita dell'orante e dell'intero Israele si è dissolto; sulle labbra sboccia un ringraziamento reiterato che il fedele innalza prostrato verso l'aula sacra del Tempio, davanti alla corte celeste evocata con la locuzione arcaica degli «dèi» (v, 1) piegati da JHWH e ridotti al rango di angeli, Con la sua riconoscenza il credente diventa un testimone missionario del dono ottenuto davanti a tutti ire e ai popoli, Tre sono i motivi per cui Dio non resta muto e indifferente davanti al dolore del suo fedele, Innanzitutto per la sua fedeltà nei confronti dell'alleanza che lo vincola al giusto (v, 2), In secondo luogo perché il Signore sceglie sempre l'oppresso e il povero e rifiuta il superbo e il potente (v, 6), Da ultimo la costanza della provvidenza divina: Dio non crea l'uomo per abbandonarlo ai bordi di una strada, ma lo segue sempre con amore paterno e premuroso, «portando a termine l'opera sua» (v, 8), Anche Paolo scriverà ai Filippesi che «colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno del Signore Gesù» (1,6).

Salmo 139 (138)
SIGNORE, TU MI SCRUTI E MI CONOSCI

Ecco un altro capolavoro del Salterio, un inno al Dio infinito, onnisciente, onnipotente, un inno di grande potenza e di sovrana bellezza nonostante un testo ebraico giunto a noi con molte lesioni e oscurità. Il carme, di qualità sapienziale, rivela contatti con passi di Geremia e di Giobbe: è stato composto, perciò, in epoca post-esilica (dal V sec. a.C. in avanti). È difficile in poche note rendere ragione delle molte ricchezze racchiuse in queste quattro strofe dedicate all'onniscienza (vv. 1-6), all'onnipresenza divina (vv. 7-12), alla creazione dell'uomo (vv. 13-18) e al giudizio divino sugli empi (vv. 19-24). Basti solo citare la sorpresa dell'uomo quando vede che Dio conosce già il suo discorso sin dalla prima parola (v. 4), la sua fuga da Dio in un folle volo nèi cieli, negli inferi, verso l'aurora e fino agli estremi confini d'occidente (vv. 8-9), la tenebra che si fa trasparente allo sguardo di Dio (vv. 11-12), la «tessitura» del feto nel grembo della madre, un ricamo di ineguagliabile bellezza (vv. 13-15), la biografia di ogni uomo scritta già da Dio nel suo libro prima ancora che i nostri giorni esistano (v. 16), l'acre sdegno per gli empi che si illudono di spezzare l'opera divina (vv. 19-22)... È il canto dell'incontro tra due misteri, quello infinito di Dio e quello dell'uomo creatura «mirabile» (v. 14). 

Salmo 140 (139)
HANNO LINGUE UGUALI A SERPENTI

Questa supplica ardente contro nemici perversi e crudeli, segnata in qualche punto da varie difficoltà interpretative, è affidata a due movimenti. Il primo, nei vv. 2-6, è un'implorazione contro nemici simili a vipere in furia, pronti sempre a colpire con le loro parole maligne. Il secondo movimento (vv. 7-12) è, invece, centrato sul simbolo del capo: «Signore, nella lotta riparami il capo», invoca I'orante (v. 8) e continua con una maledizione: «Stronca il capo di quanti mi assalgono» (v. 10). Sui nemici, poi, il poeta vede piombare il giudizio di Dio simile a una pioggia di fuoco (v. 11) come quella di Sodoma e Gomorra (vedi Genesi 19 e l'allusione di Paolo in Romani 12,20). La supplica sfocia, allora, in una professione di fede finale: «So che i miseri Dio difende, egli fonda il loro diritto» (v. 13). E questa la luce che sostiene il giusto anche nell'oscurità della persecuzione.

Salmo 141 (140)
E LE MANI ALZATE IN OFFERTA,
LA SERA...

I vv. 5- 7 di questa supplica costituiscono un vero e proprio enigma testuale variamente risolto dagli studiosi. Il senso generale del salmo può essere così restituito. Un appello iniziale presenta la preghiera e la sofferenza dell'orante come se fosse il sacrificio vespertino dell'incenso che quotidianamente si celebrava nel Tempio di Gerusalemme (vv. 1-2). Il culto autentico è, perciò, l'esistenza stessa offerta a Dio, con le sue amarezze e le sue speranze, nello spirito del messaggio profetico (vedi il Salmo 50). La supplica vera e propria si snoda nei vv. 3-7 e comprende una protesta d'innocenza e un 'imprecazione. Il salmista non cederà mai alle vergogne dell'idolatria, non lascerà mai che l'olio profumato dell'ospitalità degli iniqui lo attiri, contro di essi egli scaglierà la maledizione affidandoli alla giustizia divina. E la maledizione - ironicamente chiamata «dolci parole» nel v. 6 - è citata in modo esplicito nei vv. 6- 7 e comprende immagini iperboliche di esecuzioni capitali operate da Dio stesso contro i malvagi. A questo punto il salmo si chiude con un'altra breve supplica (vv. 8-1 D), con una nuova implorazione e una nuova maledizione contro i nemici. Le parole sempre veementi del poeta vogliono sottolineare la sua totale dissociazione dal male e la sua fedeltà al Signore anche nella prova.

Salmo 142 (141)
MENTRE IL MIO SPIRITO È IN AGONIA

Come attestano s. Bonaventura e Tommaso da Celano, questa protesta intensa di un perseguitato che si rivolge a Dio dal profondo dell'angoscia è stata l'ultima preghiera di S. Francesco d' Assisi prima della sua morte, la sera del 3 ottobre 1226. La supplica è marcata ripetutamente dai pronomi personali che ne svelano, la qualità intima, la forma dialogica. La stessa introduzione è amplissima e martellata (vv. 2-4a) e lascia il passo ad una preghiera piena di fiducia nella quale brillano due professioni di fede: «Tu conosci la strada che io percorro... Tu sei il mio rifugio» (vv. 4b. 6b). l Forse l'orante è un prigioniero. Infatti nel v. 5 egli segnala a Dio il vuoto totale in cui è posto, senza una sola persona che si prenda cura di lui, e nel v. 8a dalle labbra gli esce una domanda precisa: «Fammi uscire dal carcere, Dio». Come sempre nelle preghiere bibliche, l'ultima voce è intrisa di speranza. E l'attesa di un giorno in cui la solitudine sarà spezzata da una folla di amici e la condanna cancellata dalla grazia e dalla libertà gioiosa nel Tempio (v. 8b).

Salmo 143 (142)
NESSUN VIVENTE È GIUSTO

«Non è giusto per te nessun essere»: questa dichiarazione del v. 2 sulla universale peccaminosità di ogni Uomo è stata uno dei punti di partenza della riflessione paolina sul peccato e sulla grazia, Come è attestato da Galati 2,16 e Romani 3,20. È anche per questa ragione che il Salmo 143 è l'ultimo dei sette salmi penitenziali della tradizione cristiana (Salmi 6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). Ed è proprio a questo umile riconoscimento della fragilità umana che attinge anche la supplica dell'orante. Egli chiede a Dio di sostenerlo negli incubi della morte e della fossa infernale e contro la furia dei nemici che lo perseguitano. Egli si sente quasi cittadino delle tenebre: «È mia casa d'esilio la notte Come uno che è già nella morte» (v. 3). Egli ha ormai l'anima Consumata Come una terra riarsa. Ma è certo che il Signore lo prenderà per mano e lo libererà dal peccato, dalla morte e dai nemici conducendolo «su vie giuste in terre tranquille» (v. 10). Più che una speranza di immortalità è l'attesa di un futuro diverso nella strada della vita.

Salmo 144 (143)
ALBERI IN PIENO VIGORE

Composizione antologica basata soprattutto su citazioni dell'arcaico Salmo 18, questo carme nasce dalla fusione di due canti regali orientati ormai in senso messianico. Il primo, nei vv. 1-11, è un inno per ottenere la vittoria, segnato dall'antifona dei vv. 7-8 e 11. Di scena sono «gli stranieri», cioè gli oppressori d'Israele e, in senso lato, tutte le forze del male che si oppongono al regno di giustizia e di pace che il Messia deve inaugurare. Non per nulla nel v. 7 si parla anche delle «acque», simbolo del caos e del male. Il secondo canto è un inno alla pace-shalom messianica (vv. 12-15) e comprende una pittorica descrizione del benessere nei figli, simili ad alberi vigorosi, nelle figlie, eleganti colonne della casa, nella prosperità agricola e nella sicurezza della città. Un ritratto idilliaco che tende a trasfigurarsi in quello della Gerusalemme perfetta, la città della pace e della beatitudine (v. 15).

Salmo 145 (144)
GIORNO PER GIORNO TI VOGLIO
LODARE

Il Salmo 145 è l'ultimo inno alfabetico del Salterio (vedi il Salmo 25) ed è una celebrazione solenne della regalità di Dio, come è attestato dal cuore tematico e spaziale del salmo, i vv. 11-13. Per il resto l'inno è una litania in onore delle azioni di salvezza e delle qualità proprie del Dio dell'alleanza: la sua onnipotenza svelata nelle grandi gesta della storia della salvezza, il suo amore per i poveri (v. 14), il suo saziare l'affamato (vv. 15-16), la sua vicinanza al giusto (v. 18), la sua infinità (vv. 3.6.8), la sua eternità (vv. 1.2.13.21), la sua bontà (vv. 7.9), la gloria (vv. 5.11.12), la maestà (vv. 5.12), 10 splendore (v. 5), la giustizia (vv. 7.17), la grazia (v. 8), la santità (v. 21), il suo nome potente (vv. 1.2.21). Lode, ringraziamento, fiducia si fondono in questo canto a JHWH re amoroso e tenero nei confronti delle sue creature.

Salmo 146 (145)
ALLELUJA AL DIO LIBERATORE

Con questo Alleluja! si apre una serie di cinque salmi chiamati dalla tradizione l'«Hallel finale» (Salmi 146-150) per distinguerli dall'«Hallel egiziano» (Salmi 113-118) e dal «Grande Hallel» (Salmi 135-136). Questo inno di gioia e di lode in onore del Dio fedele e liberatore è scandito da dodici acclamazioni che registrano altrettanti atti divini: creatore del cielo e della terra, custode della fedeltà, operatore di giustizia per gli oppressi, datore di pane agli affamati, liberatore dei prigionieri, che apre gli occhi ai ciechi, che rialza chi è caduto, amante dei giusti, protettore dello straniero, che sostiene l'orfano e la vedova, sconvolge la via degli empi e regna per sempre (vv. 6-10). Nella litania di lode si esprime in modo reiterato la beatitudine della fede, «Beato colui che ha per suo aiuto il Dio di Giacobbe» (v. 5), e la maledizione dell'orgoglio e della prepotenza, «Non affidatevi mai al potente... è subito polvere» (vv. 3-4).

Salmo 147 (146-147)
È LUI CHE OSCURA IL CIELO DI NUBI

La versione greca dei Settanta, seguita dalla Volgata latina di Gerolamo, ha spezzato questo cantico della creazione e della redenzione in due salmi: il secondo, Lauda Jerusalem Dominum (vv. 12-20) ha goduto di una fama particolare nell'ambito della tradizione eucaristica cristiana che l'ha dotato di diverse e struggenti melodie. In realtà il carme è unitario e, in tre movimenti (vv. 1-6; 7-11; 12-20), riprende costantemente lo stesso filo teologico. Il tono litanico e quindi liturgico è visibile nell'originale dall'uso frequentissimo del participio che sembra quasi scandire altrettanti «nomi bellissimi di Dio». Non mancano quadretti di grande bellezza come quelli del Signore medico che fascia le ferite e guarisce i cuori affranti (v. 3), del Signore chino sui piccoli del. corvo che urlano per la fame (v. 9), del Signore che controlla e rinforza le serrature delle porte di Gerusalemme (v. 13), della neve che, come lana, imbianca il paesaggio palestinese e della brina simile a polvere (v. 16), del soffio primaverile dei venti che scioglie i ghiacci efa scorrere le acque (v. 18)... Un mondo sereno, pieno di bellezza, guidato da Dio e donato all'uomo.

Salmo 148
L'ALLELUJA DEL CREATO

Corale cantico delle creature guidato dall'uomo che presiede questa liturgia cosmica di lode, il Salmo 148 è composto da due possenti alleluja! Il primo è quello che risuona nei cieli ed ha cantori astrali (vv. 1-6). Il loro inno è la celebrazione della creazione e della provvidenza divina (vv. 5-6). Il secondo alleluja! è intonato dalla terra rappresentata da un alfabeto di creature (ventidue esseri creati che costituiscono il nostro orizzonte terrestre) che celebrano l'azione creatrice e redentrice di Dio (vv. 13-14). Tutti gli abitanti del cielo e della terra sono, quindi, convocati nel tempio cosmico per una preghiera «sinfonica» alloro unico Signore, Creatore e Salvatore.

Salmo 149
MA ORA METTETE VIA LA SPADA

Protagonisti di questo canto della guerra santa sono i Hasîdîm (letteralmente «i fedeli, i pii»), cioè i combattenti per l'indipendenza religiosa e politica di Israele sotto il dominio siro-ellenistico del re Antioco IV Epifane (175-164 a.C.). Guidati dai Maccabei, questi «volontari della Legge» (I Maccabei 2,42) si presentano col loro «cantico nuovo», cioè col loro inno di trionfo, cantato sempre, sia nella battaglia sia nel riposo (v. 5). Il ritratto di questi sacerdoti della guerra santa è abbozzato nel v. 6 secondo i canoni della teocrazia dell'antico Israele: nelle loro gole le lodi di Dio e in mano la spada a doppio taglio per far vendetta e rappresaglie tra i pagani oppressori. È questo uno degli ultimi salmi a livello cronologico, certamente lontano dallo spirito evangelico ma pieno di entusiasmo per la libertà e per la fede. Suggestivo è il saluto militare finale rivolto a questi combattenti della libertà: «Onore ai Hasîdîm!» (v. 9).

Salmo 150
ULTIMO ALLELUJA

Con questo corale alleluja! si chiude la collezione dei salmi. È una fastosa, solenne e musicale dossologia a JHWH, l'ultima parola del Salterio. Una cascata di alleluja accompagna l'orchestra del Tempio che è qui integralmente convocata col shofar, il «corno», l'arpa, la cetra, i timpani, le corde, il flauto e i cembali. Ma in finale si leva un suono supremo, è il respiro di ogni essere vivente che si fa preghiera e lode (v. 6). Con questo canto cosmico, spesso trasposto in musica (C. Franck, H. Bruckner, I. Stravinskij...), si chiudono i tehillîm, «le lodi» come gli Ebrei hanno chiamato i Salmi.

 


Ritorno al testo dei "Salmi"

Ritorno alla Bibbia