JOACHIM JEREMIAS


PER COMPRENDERE
LA TEOLOGIA DELL'APOSTOLO PAOLO

MORCELLIANA 1973


Titolo originale dell'opera: Der Schlüssel zur Theologie des Apostels Paulus
trad. di
Guido Stella

estratto dal sito: https://www.atma-o-jibon.org

I. TARSO

L'apostolo Paolo è nato a Tarso, capitale della Cilicia, nella parte sudorientale dell'Asia Minore (At 9, 11; 21, 39; 22, 3). Lì, egli crebbe in ambiente ellenistico. La lingua e la cultura greca, la religiosità e la morale ellenistica lo circondarono sin dalla fanciullezza (1). Tarso era una delle più interessanti città del mondo antico, perché lì passava il confine tra l'Oriente e l'Occidente. In questa città, due mondi si incontravano e si mescolavano tra loro. L'ampiezza dell'orizzonte intellettuale, che questa situazione di confine arrecava, si rispecchia nelle lettere dell' Apostolo: in esse lo elemento ellenistico e quello biblico-orientale si compenetrano.

Si pensi soltanto al suo repertorio di immagini: da un lato abbiamo l'allenamento del corridore (1 Cor 9, 25), il pugilato (9, 26) e lo spettacolo delle belve nell'arena (15, 32), dall'altro la pasta azzima che la massaia fa cuocere a Pasqua (5, 7), il bue che trebbia al quale non si può mettere la museruola (9, 9) ed il figlio che invoca il padre, Abba (Rom 8, 15; Gal4,6).

Come è certo che, a Tarso, lo strato superiore era improntato alla cultura ellenistica, così è pure certo che la città rimaneva ancora fondamentalmente una città orientale. Possiamo, ad esempio, considerare il costume di portare il velo. A Tarso era seguito in maniera ,rigida come nel resto dell'Asia Minore. Qui la donna, secondo il costume orientale, portava il velo in strada (2), mentre ad occidente di Tarso questa prescrizione di costume si andava sempre più allentando ed in Grecia la donna si presentava in pubblico senza velo (3). C'è forse l'influenza di ricordi giovanili, quando Paolo in tono inflessibile esige dalle donne cristiane di Corinto che portino il velo nelle assemblee di culto (1 Cor 11, 2-16)?

Anche la vita religiosa della città rimaneva d'impronta orientale. Impariamo a conoscerla nel modo migliore grazie ad un tipo di moneta che per la prima volta appare direttamente dopo la nuova fondazione di Tarso (171 a. C.) e da allora la ritroviamo in forma stereotipa sino alla fine del III secolo d. C. (4) In essa vediamo un basamento a forma di cubo, decorato da ghirlande, che sorregge una tenda aperta, dalla foggia di piramide, costruita con grandi pali. In questa tenda aperta, si scorge un animale favoloso, un leone con delle corna e delle ali erette; su di esso sta una figura che, con le sue caratteristiche, in particolare la bipenne, si riconosce come Sandas, il Baal di Tarso. Sopra la piramide, a suo coronamento, si libra un'aquila, simbolo della divinizzazione. Tutto l'insieme rappresenta una pira. Esso poggia, così dobbiamo raffigurarcelo, su di un carro che accompagnato in una solenne processione da migliaia di persone, nella festa annuale del Baal Sandas, veniva condotto attraverso le strade di Tarso sulla piazza del mercato, dove si danzava con l'effigie della divinità dinanzi alla pira, fino a che nella notte essa veniva data alle fiamme. Tutti gli anni, ci testimoniano le monete, nella città natale dell'Apostolo, si festeggiava la morte e l'apoteosi del dio tutelare di Tarso. Paolo conosce dunque per esperienza diretta, fin dalla giovinezza, il culto di un dio che muore e che risorge. Non è quindi da stupirsi che egli in Rom 6, 1 ss. si serva del ricordo di questo culto, quando a questo proposito dice che il cristiano è crocifisso e sepolto nel battesimo con Cristo, per essere trasposto con lui in una nuova esistenza. Era un discorso che gli uomini di quel tempo comprendevano.

Inoltre Paolo conosceva da Tarso il culto di Cesare, che era particolarmente vivo nell'Asia Minore. Nella parte orientale dell'Impero, non a Roma, furono per la prima volta attribuiti onori divini all'imperatore mentre era ancora in vita; sappiamo, dall' Apocalisse di Giovanni, con ,quale fanatismo nell' Asia Minore fossero attribuiti onori all'imperatore, quale Sotér, salvatore. Quando Paolo, nella Lettera ai Filippesi, afferma che la nostra patria è nel cielo, che dal cielo noi aspettiamo come nostro salvatore il Signore Gesù Cristo (3, 20), ciò è affermato in antitesi con il culto di Cesare, quale Paolo aveva potuto conoscere sin dalla fanciullezza a Tarso. Ancora più importante del culto dei misteri e della venerazione del sovrano, per la formazione dell'Apostolo, fu il fatto che Tarso era un centro culturale di primo piano. Il fervore che spingeva i cittadini di Tarso alla filosofia ed alla cultura generale, superava quello degli Ateniesi e degli Alessandrini, afferma Strabone (63 a. C. - 20 d. C.) (5), ed egli enumera tutta una serie di filosofi stoici, originari di Tarso. Non fa quindi meraviglia quando Paolo si mostra familiarizzato con la filosofia stoica e con la sua tecnica della discussione e con la sua arte retorica, la cosiddetta diatriba cinico-stoica. Si tratta, in Paolo, del tentativo di far capire agli uomini della strada informa popolare i concetti fondamentali filosofici, in particolare le concezioni morali fondamentali della filosofia: domande retoriche, similitudini, esclamazioni, citazioni, cataloghi di virtù e di vizi, giochi di parole, antitesi e simili procedimenti devono servire a stabilire il contatto con ascoltatori semplici, senza pretese. Paolo conosce ed adopera la diatriba cinico-stoica; esemplare a questo riguardo è il passo di 1 Cor 9, e lo sono inoltre i cataloghi di vizi e di virtù che si trovano presso di lui. Ma gli è pure noto il contenuto della filosofia di moda allora, la Media Stoa; troviamo nelle sue lettere dei termini stoici fondamentali (come coscienza [morale], natura, libertà), concetti stoici (come conoscenza di Dio tratta dalle sue opere - Rom 1, 20 - o la lègge non scritta -2, 14), elementi del patrimonio culturale stoico (come la natura quale educatrice - 1 Cor 11, 14 - oppure 1'analogia con la gara di corsa nello stadio - 9, 24 ss.).

Questo era dunque il mondo nel quale era cresciuto Paolo. O meglio: questo era il mondo nel quale generalmente si credeva che Paolo fosse cresciuto, sino al momento in cui, nel 1952, questa visione venne posta in discussione dalle ricerche di uno studioso olandese del N. T., W. C. van Unnik (6). Egli concentrò la sua analisi su di un singolo passo del N. T. (At 22, 3) dove la storia dell'Apostolo è introdotta con le seguenti parole:

Io sono un israelita,
nato a Tarso in Cilicia;
allevato in questa città (= Gerusalemme),
istruito
ai piedi di Gamaliele.

Sulla base di un ricco materiale documentario, egli osservò che i tre participi impiegati in At 22, 3, rappresentano una triade corrente, dove ognuno dei tre verbi ha un preciso significato fisso. Alla nascita fa seguito 1'« essere allevato », la crescita nella casa paterna durante i primi anni, e poi « l'istruzione» da parte del maestro. La stessa triade è riferita a Mosé in At 7, 20-22, e il confronto è istruttivo per il nostro caso. Li è detto che Mosé, i primi tre mesi, fu «allevato» dai suoi genitori e poi nella casa della figlia del Faraone e che fu « istruito» in tutta la cultura egiziana. Il passo degli Atti (22, 3) ci informa che Paolo era nato a Tarso, ma che aveva trascorso la sua fanciullezza e tutti i suoi anni di formazione in Gerusalemme, dove viveva inoltre una sorella sposata dell'Apostolo (At 23, 16).

Secondo il passo degli Atti 22, 3, i suoi genitori si erano già trasferiti a Gerusalemme quando Paolo era ancora un fanciullo. Questa notizia si trova confermata quando sottoponiamo ad accurato esame i supposti influssi profani ellenistici su Paolo nel periodo della sua maturazione, per esempio la sua conoscenza della filosofia stoica (7).

Si vede allora facilmente che Paolo conosce bene le concezioni popolari, ma che non possiamo parlare di un influsso profondo. della filosofia stoica sulla sua predicazione. Sono assenti idee fondamentali della filosofia stoica (8) oppure vengono usate in maniera non rigorosa. Un esempio significativo in tal senso lo troviamo in Col 3, 5, in cui Paolo illustra l'esortazione a mortificare le membra della carne, adducendo un catalogo di vizi che comprende cinque termini: fornicazione, impurità, passione peccaminosa, cattivo desiderio e cupidigia di' possedere. È una lista del tutto improbabile per il pensiero stoico. La « passione» posta al terzo posto (in greco, pathos), secondo la dottrina stoica costituisce un concetto sovraordinato e per essa è cosa assurda il porla, con le sue concretizzazioni, in un catalogo.
No, nulla mostra che Paolo abbia ricevuto una formazione profana greca oltre al semplice apprendimento della lingua greca parlata comunemente nel suo ambiente (9).
Quegli elementi di eredità ellenistica che in lui troviamo derivano piuttosto da un processo di assimilazione, che il giudaismo della diaspora in quel tempo stava effettuando, vale a dire:
sono trasmessi a Paolo tramite il giudaismo ellenistico. La cultura spirituale di Tarso non è in alcun caso la chiave per comprendere la teologia paolina.

 

[1] H. BOHLIG, Vie Geisteskultur von Tarsus in augusteischen Zeitalter mit Berücksichtigung der paulinischen Schriften, Göttingen 1913.
[2] DIONE DI PRUSA, Orationes 33, 46.
[3] A. OEPKE, Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, III 564.
[4] Riproduzione in H. BOHLIG, op. cit., p. 24 ed in J. LEIPOLDT, Vie Religionen in der Umwelt des Urchristentums (Atlante per la storia delle religioni, ed. a cura di H. HAAS, fascicoli 9-11), Le1pz1g 1926, riproduz. n. 124 (grandezza naturale); cfr. p. XVI s.
[5] Geagraphica XIV, 673.
[6] W. C. VAN UNNIK, Tarsus of Jerusalem, De stad van Paulus' jeugd (Mededelungen der Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen, Afd. Letterkunde, Nieuwe Reeks 15, 5), Amsterdam 1952, pp. 141-189. Traduzione inglese: Tarsus or Jerusalem. The City of Paul's Youth, London 1962.
[7]M. POHLENZ, Paulus und die Stoa, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 42, 1949, pp. 69-104.
[8] Per esempio apatheia (la libertà dalle passioni), atarassia (la libertà da preoccupazioni e da agitazioni), eudaimonia (benessere derivante da un'armonia spirituale). Materiale più vasto in M. POHLENZ, art. cit., p. 81 s.
[9] «Non vi è assolutamente nulla nei richiami di Paolo alla filosofia popolare o nel suo raro uso di aforismi greci oppure di comuni artifici retorici che faccia pensare ad una sua educazione profana greca. La totale mancanza di testimonianze che Paolo conoscesse i classici greci è, da sola, prova conclusiva che egli non ha mai studiato in maniera sistematica il greco - almeno al di là di un corso scolastico elementare », scrive giustamente W. F. ALBRIGHT, Appendice VIII: Paul's Education in J. MUNK, Tbe Acts al Apostles (The Anchor Bible), Garden C1ty, New York 1967, p. 312.

II. GERUSALEMME

Paolo proviene da una pia famiglia ebrea. Era un dovere per i genitori israeliti ammaestrare i loro figli fin dall' età di cinque anni nella lettura della Sacra Scrittura (10). L'eccellente scienza biblica dell' Apostolo, il quale (come occasionali divergenze dal tenore del testo fanno trasparire) ha attinto dalla memoria le sue numerose citazioni bibliche, rende molto probabile il fatto che suo padre abbia adempiuto al proprio dovere e lo abbia educato sin da piccolo nella lettura e nella conoscenza della Sacra Scrittura. Da ciò deriva anche un'ulteriore osservazione. Paolo cita l'A. T. il più delle volte secondo la traduzione greca (Settanta). Ciò è molto strano in quanto egli, nella sua comprensione della Scrittura, e principalmente (come possiamo accertarcene) nel suo metodo esegetico, era legato alla scuola scuola teologica palestinese, non a quella ellenistica.

Il prendere in considerazione solo la sua comunità che parlava il greco non spiega affatto la sua preferenza per i Settanta, perché la conoscenza d'essi per questo è in lui troppo profonda. La familiarità di Paolo con il testo greco della Bibbia dovette piuttosto essergli procurata fin da piccolo dalla famiglia e dalla Sinagoga ellenistica (11).
Benché i genitori appartenessero alla diaspora ebraica, essi si preoccuparono che il figlio, accanto alla lingua .greca, imparasse anche quel
la dei suoi antenati, l'ebraico; lo afferma espressamente Paolo quando si dichiara (Fil 3, 5): « ebreo, discendente da ebrei ». Concorda con ciò il fatto che le citazioni bibliche dell' Apostolo fanno vedere come egli fosse in possesso di più lingue: accanto all'uso dei Settanta, esse rivelano spesso la conoscenza del testo originale.

Nella sua famiglia, si pregava. Egli menziona spesso la preghiera prima e dopo i pasti come qualcosa di assolutamente naturale per lui (1 Cor 10, 30; Rom 14, 6; 1 Tim 3, 4 s.). E quando assicura le sue comunità che egli « continuamente» ringrazia Dio a loro riguardo (1 Tess 1, 2; 2 Tess 1, 3; 2, 13; 1 Cor 1, 4; Filem 4; Col 1, 3; cfr. 2 Tess 1, 11; Rom 1, 10; Fil 1, 4), «incessantemente» facendo menzione di loro a Dio (1 Tess 1, 2 s.; 2, 13; Rom 1, 9), con questo non afferma, poniamo, (come occasionalmente si è frainteso) che tutta la sua vita è un'incessante intercessione, ma egli parla invece dell'intercessione che compie nelle sue preghiere regolari. Sin da piccoli, i ragazzi delle famiglie farisee venivano educati a recitare ,tre volte al giorno - al mattino dopo essersi alzati dal letto, nel pomeriggio alle tre, all'ora del sacrificio quotidiano nel tempio, ed alla sera prima di coricarsi - la grande preghiera di lode (chiamata in seguito la preghiera delle 18 benedizioni), che comincia con le parole: «Sii lodato, Signore, nostro Dio e Dio dei nostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe » e Paolo, anche da cristiano, con altissima probabilità, ha sottolineato la pratica dei tre momenti di preghiera. La « Dottrina degli Apostoli» (Didaché), un breve ordinamento della comunità primitiva cristiana che risale nel suo nucleo fondamentale al primo secolo, prescrive che sia recitato tre volte al giorno il Padre Nostro (Didaché, 8,3). Anche Paolo può essersi comportato cosi, immettendo un' nuovo contenuto nell'uso antico.

L'educazione alla preghiera non fu la sola eredità spirituale di cui Paolo dovette ringraziare i suoi genitori. Sul piano religioso, Paolo ha ricevuto dalla sua famiglia la fede biblica in un Dio personale, la consapevolezza dell'onnipotenza sovrana di Dio (Rom 9-11), della serietà delle esigenze poste da lui e del suo giudizio (1, 18-3, 20), l'importanza fondamentale dell' adorazione di Dio (4, 20), questa e molte altre cose.
Quando Paolo in Gerusalemme si aggregò ai Farisei (Fil 3, 5), su questa decisione aveva influito, accanto all'esempio del suo maestro Gamaliele, l'esempio della casa paterna; secondo gli Atti degli Apostoli (23, 6) già suo padre e il nonno erano stati Farisei. Questi ultimi costituivano una associazione di pii laici studiosi della Bibbia, i cui membri si impegnavano solennemente, alla fine di un periodo di prova, ad adempiere nel modo più scrupolo so il precetto delle decime e quello della purità
legale, spesso trascurati dal popolo. Il loro numero, relativamente ristretto - 6000 secondo Giuseppe Flavio - fa comprendere che la severità degli impegni allontanava molti. Paolo invece è stato attratto ai Farisei proprio da essa; nessuno doveva superarlo in coscienziosità (Gal 1, 14).
Dopo aver scelto la sua strada, ciò che secondo noi avvenne nella sua prima giovinezza (12), Paolo si risolse per lo studio della
teologia. Secondo la relazione degli Atti (22, 3), egli scelse il suo maestro nella persona di Gamaliele I, il quale «era amato da tutto il popolo» (At 5, 34) ed al quale i posteri elevarono un monumento ideale con questo giudizio: «Con la morte di Gamaliele venne meno la venerazione per la Sacra Scrittura, e vennero meno la purezza e la sobrietà» (13). Secondo la sua tendenza teologica, Gamaliele era discepolo di Hillel, il famoso dottore di teologia del tempo immediatamente prima di Cristo, il cui insegnamento si situa all'incirca vent'anni prima di Gesù, anche lui molto venerato dal popolo, perché il suo grande sapere si accompagnava ad una bontà e pazienza addirittura proverbiali.

La conclusione normale dello studio era l'ordinazione, che aveva luogo verso i 25-30 anni (14). Che Paolo fosse ordinato, lo precisano gli Atti, quando narrano che era stato inviato a Damasco con i pieni poteri del Sinedrio (9, 1 s; 22, 5; 26, 10); sappiamo che questi inviati con l'autorizzazione della più alta autorità giudaica erano persone di alto rango.

Le lettere dell' Apostolo completano la testimonianze degli Atti sulla formazione e cultura teologica di Paolo. Mostrano come in esse la penna sia guidata da una persona che possiede in maniera sovrana il metodo esegetico della teologia giudaica di allora; nelle sue lettere troviamo così delle sottigliezze come « la collana di perle» (Rom 15, 9-12: abbiamo una serie di passi biblici sulla base di un termine di richiamo, in questo caso «pagani ») e la « spiegazione a catena» ( 15) (di Dt 30, 12-14 in Rom 10, 6-9), l'esegesi tipologica ( 16) (1 Cor 10, 1 ss.; Gal 4, 21-31; Rom 9, 13) e quella allegorica ( 17) (1 Cor 9, 9 s.) dell'Antico Testamento; inoltre il ricorso al silenzio della Scrittura (argumentum e silentio: per esempio, Rom 4, 6 sine operibus è aggiunto per il fatto che nella citazione del versetto 7 non si parla di opere) come pure anche l'argumentum e contrario,. il quale da un passo scritturistico fa emergere la proposizione antitetica. Ecco due esempi a questo riguardo:all'affermazione della Bibbia « ogni uomo è un mentitore» (Salmo 116, 11), Paolo contrappone la affermazione «Dio è veritiero» (Rom 3, 4); la parola del profeta Isaia che Dio parlerà « in altra lingua », senza trovare fede (ls 28, 11 s.), offre a Paolo la possibilità di affermare l'inverso: secondo la Scrittura, il dono delle lingue è un segno non per quelli che credono, ma per gli increduli; la profezia invece non è per gli increduli, ma per quelli che credono (1 Cor 14, 22), un aspro richiamo per gli entusiasti di Corinto a non sovraesaltare la glossolalia.
Le lettere dell' Apostolo non fanno soltanto sapere che il loro autore possiede magistralmente il metodo dell' esegesi biblica giudaica, ma anche che egli era formato nella teologia del rabbi Hillel; abbiamo qui una luminosa conferma dell' affermazione contenuta negli Atti, che Gamaliele scolaro di Hillel era il suo maestro (At 22, 3). Dal numeroso materiale (18), ricaviamo soltanto un esempio: le norme esegetiche. L'importanza di Hillel consiste non per ultimo nel fatto che egli ha stabilito su di una nuova base tutta l'interpretazione della Bibbia, perché egli ha fissato sette norme per 1'esegesi. Queste norme godevano di tale considerazione che sono state accolte, aumentate a tredici (19), con tutta serietà in parecchi punti, nella preghiera quotidiana del mattino.

Di queste norme di Hillel, in Paolo ne troviamo non meno di cinque. Ricordo le prime due. La prima norma consisteva nell'argomentazione dal minore al maggiore (a minori ad maius), il cui uso a mo' di formula fissa è ancora del tutto sconosciuto nell'Antico Testamento. Paolo se ne serve ripetutamente (Rom 5, 15.17; 11, 12; 2 Cor 3, 7 s. 9.11). Ma Hillel non aveva compreso sotto questa regola soltanto l'argomentazione a minori ad maius ma anche quella del passaggio a maiori ad minus. Ritroviamo anche questa in san Paolo: la sua argomentazione contenuta in Rom 5, 6-9.10; 8, 32; 11, 24; 1 Cor 6, 2 s. si comprende quando ci si rende conto che Paolo non segue il procedimento a minori ad maius, ma il contrario. Prendiamo l'esempio di Rom 5,6-10. Dio ci ha donato, afferma Paolo, un amore semplicemente incomprensibile: Cristo ha dato la sua vita per noi, sebbene fossimo dei peccatori e senza Dio. Non è forse una luminosa evidenza che noi, in quanto resi giusti e riconciliati con Dio, saremo salvati da Lui nell'ultimo giudizio?
La seconda norma consisteva nella deduzione per analogia. La regola si esprime così:
quando un termine compare più volte nella Bibbia, allora un passo biblico illumina l'altro. In Rom 4, 1-2 Paolo si serve in un contesto importante della deduzione per analogia. Egli vuole dimostrare che la giustificazione dipende soltanto dalla fede e non ha nulla a che vedere con le opere e si richiama al passo di Gn 15,6: «Abramo credette a Jahvè che glielo imputò come giustizia ». Che cosa significa, domanda Paolo, «Dio imputa (a giustizia) la fede»? La risposta, afferma Paolo, deriva dal fatto che il termine «imputare» appare di nuovo in un altro contesto della Sacra Scrittura, nel Salmo 32, al versetto 1 ss.:

Felice quegli cui è rimessa la colpa, 
coperto il peccato!
Felice l'uomo cui non imputa 
Jahvé delitto.

In questa espressione del Salmo, il vocabolo « imputare» è usato nel senso di perdonare. La deduzione per analogia insegna in tal modo che « imputazione della fede» (Gn 15, 6) equivale a «non imputazione del peccato» (Salmo 32, 1 s.). In altri termini. giustificazione significa perdono, nient' altro che perdono. Una nozione di fondamentale importanza, anche se raggiunta con l'ausilio di un metodo esegetico per noi inusitato.
Vediamo come la vita interiore di Paolo e
tutta quanta la sua teologia siano profondamente radicate nella pietà e nella teologia giudaiche. È, evidente che non possiamo pensare a lui senza tener conto della sua appartenenza al giudaismo. Ma però anche Gerusalemme non è la chiave per la teologia paolina. Dopo tutto, Paolo era cristiano!

 

[10] «Con 5 anni per la (Sacra) Scrittura », Sentenze dei Padri (Pirqé Avoth) 5, 21.
[11] Le sinagoghe servivano anche come edifici scolastici. Inoltre era d'uso ed era titolo di merito il portare con sé i fanciulli ai servizi di culto della Sinagoga. Non solo nella Sinagoga di Tarso, ma anche a Gerusalemme, Paolo ha studiato i Settanta. Infatti, molto parla in favore dell'ipotesi che a Gerusalemme i genitori si siano aggregati alla Sinagoga ellenistica, ricordata dagli Atti (6,9) nel contesto della narrazione su Stefano, e le cui fondamenta, secondo la testimonianza di un'epigrafe in greco sono state trovate sull'Ofel, quindi a sud della piazza del tempio. Da un lato cioè sappiamo che i giudei della diaspora immigrati dalla Cilicia appartenevano a questa Sinagoga (At 6,9); dall'altro forse anche il passo di Atti 7,58 allude a rapporti di Paolo con questa Sinagoga che anche Stefano frequentava. H. LIETZMANN si esprime con molta fiducia: «Un uomo..., che apparteneva alla Sinagoga della Cilicia [in Gerusalemme] e che era cittadino romano, noi lo conosciamo: Paolo di Tarso» («Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 20, 1921, p. 172).
[12] «Con 10 anni per la Mishna (= per lo studio del diritto tradizionale), con 15 anni per il Talmud (= per la discussione
sopra la Mishnà) », Sentenze dei Padri, 5, 21.
[13] Trattato della Mishna sull'adultera (Sota), 9, 15.
[14] Cosi era comunque per gli Esseni: «Giudice della comunità... nell'età dai 25 anni fino ai 60 anni» (Scritto di Damascò, 10, 4-7). «E quando ha raggiunto l'età di 30 anni, può accedere al tribunale, dirigere un processo e pronunciare sentenze e prendere posto... tra i giudici ed i capi del popolo »(I QSa 1, 13-15).
[15] Spiegazione continuata del testo.
[16] Interpretazione del testo che, negli avvenimenti della storia sacra, vede rappresentazioni anticipate Ci ciò che accadrà alla fine dei tempi. L'esegesi tipologica era praticata soprattutto in Palestina.
[17] Il significato letterale del passo biblico viene fatto retrocedere a favore di un significato più profondo. L'interpretazione allegorica, che era molto praticata nelle scuole giudeo ellenistiche, in Paolo ricorre solo in questo testo.
[18] Per una trattazione più vasta, cfr. J. JEREMIAS, Paulus als Hillelit, Neotestamentica et Semitica, Festschrift für M. Black, Edinburgh 1969, pp. 88-94.
[19] H. L. STRACK, Einleitung in Talmud und Midrasch, München 1921 (5), p. 99.

III. ANTIOCHIA

In relazione con la citazione dell' antica confessione di fede (1 Cor 15, 3. 5) Paolo sottolinea il fatto che egli ne è debitore alla tradizione (v. 3: «vi trasmisi invero, prima di tutto, quanto anch'io [come tradizione] ho ricevuto ») e che questa confessione per lui e per gli Apostoli in Gerusalemme era un possesso comune: «Tanto io, dunque, quanto essi così predichiamo» (v. 11).
In maniera del tutto analoga alla confessione di fede, Paolo introduce la sua citazione delle parole dell'ultima Cena di Gesù. Egli sottolinea di nuovo il fatto che esso gli è stato comunicato dalla tradizione (1 Cor 11, 23). Una analisi linguistica fa vedere che Paolo si serve di una forma che si era strutturata nell'ambito semitico, ma che era stata poi grecizzata. A Paolo è dunque familiare una versione delle parole dell'ultima Cena, che ebbe la sua strutturazione caratteristica in un ambiente bilingue, al qual proposito molti argomenti si
possono addurre a favore di Antiochia. Poiché là, nella capitale della Siria, la terza città per grandezza dell'impero romano, dopo Roma ed Alessandria, Paolo aveva già lavorato assieme con Barnaba prima dei suoi viaggi missionari (Atti 11, 25 s.); da Antiochia era stato inviato in missione (13, 1-3) ed a questa comunità che sosteneva il suo apostolato egli aveva sempre fatto ritorno (14, 26; 15, 30.35. 18,22; cfr. Gal 2, 11).

Un'immagine analoga ci offre l'analisi linguistica dell'Inno a Cristo (Fil 2, 5-11). Essa mostra la grande verosimiglianza che Paolo non sia l'autore dell'inno, ma documenta che egli lo cita e che esso, in ogni caso, rinvia a un ambito misto semitico-ellenistico.

Tutto ciò mostra che Paolo era profondamente debitore della tradizione cristiana. Di ciò troviamo tracce in ogni pagina delle sue lettere, ed esse non si limitano affatto alle formule cristologiche o liturgiche o al patrimonio innologico. lo devo perciò limitarmi ad indicare un vasto campo nel quale Paolo, a differenza degli Apostoli di Gerusalemme, dipendeva interamente dalla tradizione: le parole di Gesù. Per cinque volte, Paolo afferma esplicitamente che egli cita parole di Gesù (1Tess 4, 15-17; 1 Cor 7, 10; 9, 14; 11,23-25; anche Rom 14, 14 è da intendersi in tal senso) ed inoltre egli si riferisce spesso al messaggio di Gesù, senza nominarlo direttamente. Così, per fare un esempio, conosce l'appellativo a Dio 'Abba' (Rom 8, 15; Gal 4, 6), che negli scritti del tempo non è testimoniato in alcun testo all'infuori della preghiera di Gesù (Mc 14, 36); sottolinea 20 l'annuncio di Gesù su quel Dio che ama i peccatori (Rom 5, 8) e chiama a sé non i sapienti, ma gli insipienti, non i forti ma i deboli, non coloro che sono riveriti ma i disprezzati (1 Cor 1, 26-29; Mc 2,17; Mt 11,25 s.); egli ricorda inoltre l'ammonimento di Gesù, che non ha riscontro fuori del Vangelo: «Benedite coloro che vi perseguitano» (Rom 12, 14; Le 6, 28).
Avremmo dunque alfine trovato la chiave per la comprensione della teologia dell'apostolo Paolo: la tradizione cristiana primitiva? Sarebbe vera pazzia negare il valore fondamentale che la confessione di fede, la Cena del Signore e le parole di Gesù hanno rappresentato per Paolo. Eppure Paolo si è difeso appassionatamente contro l'opinione che la dipendenza dalla tradizione sia l'elemento ultimo e decisivo della sua posizione di cristiano e della sua teologia (Gal 1, 10-2, 21). Né Tarso, né Gerusalemme, né Antiochia ci offrono la chiave che stiamo cercando.

 

[20] Cfr. J. JEREMIAS, Die Botschaft vom Vater (Calver Hefte, n. 92), Stuttgart: 1968.

IV. DAMASCO

Ci rimane solo una chiave per la teologia paolina e si chiama Damasco. Paolo appartiene a quegli uomini che sono avanzati nella vita grazie ad una violenta rottura e la sua teologia nella sua essenza è caratterizzata dal fatto che è derivata da una svolta nella vita.
Noi siamo molto ben documentati sull'esperienza di Damasco. La fonte più autorevole è la testimonianza stessa dell' Apostolo; si trova in Gal 1, 12-17 (21); 1 Cor 9, 1; 15, 8. 10; 2Cor 4, 6; Fil 3, 7 s.12. A ciò si aggiunge la testimonianza delle comunità della Palestina sulla sua conversione da persecutore in apostolo (Gal 1, 23 s.; cfr. p. 41 s.) ed infine il racconto degli Atti (9, 1-19), che nei passi 22, 4-16 e 26, 9-18 viene ripetuto da Luca con alcune varianti. È. degno di nota come
questo racconto in momenti decisivi coincida con la testimonianza dell' Apostolo: Paolo inizialmente ha perseguitato la comunità cristiana (Gal 1, 13.23; 1 Cor 15, 9; Fil 3, 6 / At 9, 1 s.; 22, 4 s.; 26, 9-11); la conversione è localizzata a Damasco o nei pressi di questa città(Gal 1, 17 / At 9, 3.8.10; 22, 5 s.10 s.; 26, 12); essa consiste nella visione del fulgore luminoso del Signore (2 Cor 4,6; cfr. 1 Cor 9, 1; 15,8 / At 9,3; 22,6.11; 26, 13).
Vorrei cercare di dimostrare sulla base di undici osservazioni come tutta la teologia dell'Apostolo trovi le sue radici in questa esperienza.

1) È assolutamente certo che per Paolo la fede in Cristo e la comunione con Cristo sono nate dall'esperienza fatta a Damasco. Da quando Paolo ha potuto vedere Gesù nella sua gloria, il Signore esaltato e glorioso rappresenta una grande realtà nella sua vita. Da quel momento, egli è « schiavo di Gesù, il Salvatore»(Rom 1, 1), sua proprietà personale, legato a lui come uno schiavo al suo padrone. Non meno di 55 volte, nelle lettere paoline, incontriamo l'espressione «nostro Signore ». Non è certo un caso che l'unico passo in san Paolo in cui incontriamo la locuzione « mio Signore» sia quello di Fil 3, 8, dove egli parla della sua vocazione come della «conoscenza sovraeminente di Gesù Cristo, mio Signore ». Con quanta forza la cristologia paolina sia determinata dalla sua visione del - Cristo a Damasco, lo si vede anche dal fatto che il titolo di Kyrios, in lui, designa in primo luogo il Signore presente nella Chiesa, il Christus praesens. Egli gli era venuto incontro come il 'presente '.

2) Paolo era cosciente che un cristiano appartiene, sin da ora, nel Cristo, al mondo futuro di Dio. « Perciò se uno è in Cristo è una nuova creazione; ciò che era antico è passato: ecco, il nuovo è sorto» (2 Cor 5, 17). « Siano rese grazie al Padre... egli ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nei Regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12 s.). Anche questa consapevolezza, di appartenere qui ed ora al santo mondo di Dio, deriva dall'esperienza di Damasco. Poiché, quando Paolo riferisce l'avvenimento accadutogli in quell'ora con l'espressione: «Dio mi ha rivelato suo Figlio» (Gal 1, 16 e 12), adopera un termine (apokalyptein), che era il termine tecnico per la rivelazione finale di Dio (cfr. Mt 10, 26; Lc 17, 30; Rom 8, 18; 1 Cor 3, 13). Lo splendore che lo avvolse significò per lui una reale irruzione del nuovo mondo di Dio nella sua vita.

3) Nell'episodio di Damasco si radica la sua comprensione dell'azione salvifica di Dio nel Cristo, che forma il contenuto centrale del messaggio paolino. Dobbiamo qui partire da Gal 3, 13: «Cristo ci ha riscattati da questa maledizione della legge, essendo per noi divenuto maledizione. Sta scritto infatti: «Sia maledetto chiunque è appeso al legno del patibolo (Dt 21, 23) ». Questa espressione si trova del tutto isolata nel Nuovo Testamento. Nessuno ha osato altrove definire Gesù come riprovato da Dio. -Per il carattere inaudito, enorme di questa affermazione esiste soltanto una spiegazione: essa proviene dal vocabolario del persecutore Saulo, traboccante di odio.
Così Gal 3, 13 ci consente di avere una visione dei motivi che lo spinsero a perseguitare i cristiani. Egli scorgeva in loro i discepoli di un seduttore, del capo di un'eresia che era suo dovere estirpare. Egli aveva una prova concreta tra le mani che questo Gesù di Nazareth
era un falso Messia: la croce. Ed ora Dio gli faceva vedere con i suoi occhi il dannato e maledetto nella gloria celeste. In questa visione dovette apparire chiaro a Paolo come la morte in croce di Gesù non fosse affatto la morte di un delinquente, ma come i cristiani avessero ragione quando affermavano che questa morte aveva valore di sostituzione per noi. Paolo espresse questa certezza in Gal 2, 20, in maniera personalissima: «Mi amò e diede se stesso per me ». Egli sopportò la maledizione per me.

4) Nell'episodio di Damasco si è stabilita la sua consapevolezza dell' onnipotenza della grazia. «Per grazia di Dio sono quello che sono», afferma Paolo (1 Cor 15, lO), dando uno sguardo retrospettivo alla sua vocazione. Che Dio abbia collocato nel numero dei testimoni della Resurrezione lui, che le comunità della Palestina consideravano un mostro 28, perché voleva distruggere radicalmente la Chiesa di Dio (Gal 1, 13); più ancora, che Dio lo avesse reso ambasciatore di Cristo (2 Cor 5,20); che egli, nelle dure fatiche al servizio del Vangelo, dovesse superare tutti gli altri inviati (1 Cor 15, 10) per tutto questo esisteva un solo vocabolo: grazia.

Nuove realtà creano un nuovo linguaggio. Ciò vale anche nel nostro caso. Charis si riferisce ad un concetto centrale della teologia dell'Apostolo; si trattava di un nuovo uso del termine. Nel greco profano, la parola indicava grazia, amabilità, favore, benevolenza, ringraziamento ed era usata quasi esclusivamente nel significato profano. Ciò vale anche per il giudaismo ellenistico, in cui appare quasi del tutto isolata e indica l'atteggiamento pieno di bontà di Dio nei confronti degli uomini (22). Il significato centrale che la parola assume in Paolo non ha alcuna analogia.

5) Strettamente collegata è una osservazione più vasta. Con maggior forza di tutti gli altri scrittori neotestamentari, Paolo sottolinea il solo operare di Dio, la sua elezione gratuita, che trascende ogni azione umana (Rom 9-11). In definitiva non si tratta della volontà o degli sforzi dell'uomo, ma soltanto della misericordia di Dio. Con locuzioni volutamente unilaterali, Paolo sottolinea la sovranità assoluta di Dio. «Egli usa misericordia a chi vuole, e indurisce chi vuole» (9, 18) come sta scritto: « Io faccio grazia a chi voglio far grazia ed ho pietà di chi voglio avere pietà» (Es 33, 14). Paolo ha sperimentato nella conversione della sua vita questo operare esclusivo di Dio. Siamo abituati a chiamare questo momento «la conversione» dell'Apostolo. Paolo dal canto suo non si serve di questa locuzione e l'avrebbe respinta appassionatamente, perché la locuzione « convertirsi» indica una decisione umana, o per lo meno la implica. Ma poiché Cristo « chiama mediante la sua grazia» (Gal 1, 15) lui, il persecutore, ogni cooperazione umana veniva esclusa. Dio, soltanto lui, era all'opera. Egli portava a compimento ciò che aveva deciso molto tempo prima che Paolo nascesse (1, 15 a). E ciò che era avvenuto, non era una conversione, ma una chiamata (1, 15 b).

6) Nell'episodio di Damasco si radica la sua consapevolezza della spaventosa natura del peccato. Paolo era certamente già prima cosciente della santità di Dio e della colpa dell'uomo; entrambe appartengono alla parte migliore della sua eredità ebraica. Ma nell'intimo del suo cuore non aveva preso sul serio il peccato; aveva invece creduto di essere « quanto alla giustizia che si può raggiungere con la legge, di condotta irreprensibile » (Fil 3, 6). Ora si trova improvvisamente dinanzi al fatto abissale che egli ha bestemmiato il Messia ed ha cercato di distruggere la sua comunità. L'amara esperienza che le intenzioni più pie possono condurre alle colpe più gravi, esperienza che egli si è trascinata dietro come un peso lungo la sua esistenza, ha infranto per sempre la sicurezza in se stesso, il «vantarsi di sé dinanzi a Dio », il pensar bene di se stesso.

7) Soltanto pensando all'esperienza di Damasco si comprende la posizione radicale dell'Apostolo contro ogni pietà che si basi sulla legge. Paolo sintetizza il significato di quell'ora per la sua vita nel fatto che egli ha vissuto un sovvertimento radicale di tutti i valori; tutto ciò che sino a quel momento era apparso « valido », era diventato per lui «privo di valore », «a confronto del vantaggio sovraeminente che è la conoscenza di Cristo Gesù mio Signore» (Fil 3, 7 s). Prima di Damasco, il contenuto della sua vita era stato lo sforzo, grazie al penoso compimento della legge, di apparire senza macchia dinanzi a Dio (3, 6). Ora, pone al posto della legge una novità al centro della sua vita: Cristo, «mio» Signore (3, 8). Come tutti gli uomini che progrediscono grazie ad una rottura, Paolo vede con maggior severità degli altri l'aspetto negativo del passato. La sua attività si svolge in un'epoca, in cui esiste il pericolo che il cristianesimo divenga una setta giudaica. Il giudeo-cristianesimo sviluppa molto l'idea che la fedeltà alla legge e la fede in Cristo siano pienamente conciliabili. Paolo è cosciente dell'inconciliabilità della giustizia proveniente dalla legge con la « giustizia di Cristo ». «Se la giustizia si ottiene mediante la legge, allora Cristo è morto inutilmente» (Gal 2, 21).

8) Nell' episodio di Damasco ha le sue radici la speranza di Paolo. Certamente l'attesa della resurrezione dai morti e del nuovo mondo di Dio apparteneva già al suo retaggio farisaico (cfr. At 23, 6-8). Ma ora egli aveva visto la luce del nuovo eone con i propri occhi, aveva visto « la gloria di Dio che brilla sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6). Questa visione dello splendore di Dio fu da allora in poi il pegno della sua speranza: «Allora conoscerò appieno, come sono conosciuto» (1 Cor 13, 12).

9) Nell' episodio di Damasco ha le sue radici l'impegno missionario dell'Apostolo. Recentemente è stata offerta la prova convincente che la notizia più antica sulla chiamata di Paolo che noi possediamo (più antica dell'autotestimonianza contenuta nelle sue lettere e del racconto degli Atti degli Apostoli nei suoi diversi contesti) è contenuta in una breve frase che Paolo cita (Gal 1, 23) del tutto incidentalmente (23). Egli dice nel versetto precedente (v. 22) che egli, nei primi anni dopo la sua chiamata all'apostolato personalmente è rimasto sconosciuto alle comunità cristiane della Palestina ed esse ora hanno saputo che

colui che un tempo ci perseguitava
ora predica quella fede

che un tempo voleva distruggere
(v. 23).

Questi tre versetti, che sono caratterizzati come una citazione grazie al «che» (dass) da cui sono introdotti sono stati chiaramente
formulati sotto la recente impressione dell'accaduto e ci lasciano provare ancora qualcosa del come nelle comunità della Palestina la notizia del fatto di Damasco si fosse diffusa in un baleno e quale lode a Dio (Gal 1,24) esse innalzassero: la doppia menzione della persecuzione fa riecheggiare l'angoscia dei cristiani minacciati, il suono quasi di innodia dei tre versetti, la grande meraviglia per un miracolo inconcepibile di Dio. Per la nostra ricerca è interessante, in questa antichissima fonte sino ad ora nascosta, ed ora scoperta, sulla chiamata di Paolo, che l'oggetto del giubilo non viene espresso in questi termini: il persecutore è diventato un seguace, ma: il persecutore è diventato un predicatore. Paolo perciò deve aver confessato pubblicamente il Cristo molto presto dopo la sua chiamata. In realtà, gli Atti degli Apostoli ci dicono che Paolo già « alcuni giorni dopo» aveva cominciato a predicare Gesù come Figlio di Dio, nella Sinagoga di Cafarnao (At 9, 19 s.). Egli stesso afferma del suo dovere missionario: «è una necessità che mi incombe» (1 Cor 9, 16) o con maggior forza (lì dove la forma indiretta descrive l'azione di Dio): «Dio mi obbliga ». Gli uomini che hanno fatto l'esperienza di un subitaneo cambiamento provano con maggior forza che non gli altri il bisogno di far conoscere ciò che ad essi è accaduto (invece il carattere universale della sua missione, ed il compito di predicare ai pagani, sono rivelati all' Apostolo tre anni dopo la sua chiamata nel corso di una visione nel tempio di Gerusalemme [At 22, 17-21]. Certamente, l'Apostolo afferma [Gal 1, 16] che Dio gli ha rivelato il suo Figlio, « affinché lo annunciassi alle nazioni »; tuttavia il termine « affinché» indica qui l'intenzione divina, non un avvenimento attuale (24). In questa visione di Cristo nel tempio, Paolo si è dapprima opposto alla sua missione fra i gentili, ma un duro: «Va'!» del suo Signore lo ha chiamato all'obbedienza).

10) L'episodio di Damasco origina infine la coscienza apostolica di sé e la coscienza della missione nell'Apostolo Paolo. Il titolo di «Apostolo di Gesù Cristo» si incontra per la prima volta in Paolo ed è forse una" creazione paolina. Con essa egli si designa come plenipotenziario dell' Altissimo ed esprime che egli non viene dopo i dodici, anche se non è stato un seguace di Gesù durante la sua vita. Come loro infatti, egli è testimone della Resurrezione (1 Cor 9, 1; 15, 8-10). La sua missione apostolica è collegata alla visione di Cristo. Nessun altro se non Gesù, il Signore in persona, lo ha rivestito di potere, nell'ora della chiamata, per essere suo. messaggero (1 Cor 9, 1). Perciò lottando per il suo ministero apostolico in Asia Minore egli dice di essere: «Apostolo non per. volere umano né per mediazione d'uomo, ma per opera di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti» (Gal 1, 1).

11) Fin qui ci siamo limitati ai rilievi che ci offrono le lettere paoline, richiamando testi degli Atti solo a comprova. Se analizziamo infine la loro relazione dell' episodio di Damasco, troviamo nella domanda, colma di rimprovero, del Risorto, la stessa in tutt'e tre le relazioni: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»una testimonianza che la concezione della Chiesa dell' Apostolo per lo meno ha una delle sue radici nel suo incontro con il Cristo. Il Signore risorto si identifica con la comunità dei suoi fedeli. Chi lo perseguita, perseguita lui. Questa identificazione è fondamentale per la visione paolina della comunità. L'Apostolo in seguito ha così espresso in un'immagine quest'unità fra Cristo e la comunità dei suoi: la Chiesa forma il corpo di Cristo. Egli è il suo capo, ed ogni cristiano è un ,membro del suo corpo.

In sostanza abbiamo visto che tutta l'esistenza di fede dell' Apostolo e tutta la sua teologia si richiamano alla sua visione di Cristo sulla strada di Damasco. Solo partendo da qui possiamo comprenderlo. La sua teologia è la teologia di uno che è stato improvvisamente chiamato. Né Tarso, né Gerusalemme e neppure Antiochia, ma Damasco ci offre la chiave per comprendere la teologia dell'Apostolo Paolo. Gli altri fattori che consideriamo la cultura ellenistica, l'eredità giudaica e la tradizione cristiana primitiva - non sono svuotati di valore da questa conoscenza, perché furono assunti a servizio della sua missione. Decisivo però è il momento, riferendosi al quale l'Apostolo dice: «Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Fil 3, 12).

 

[21] Da notare che il v. 16 non ,può essere tradotto: «per rivelare in me suo Figlio» (ciò che potrebbe indicare una esperienza mistica), ma deve esserlo cosi: «per rivelare a me suo Figlio».
[22]
G. P. WETTER, Charis (Untersuchungen rom Neuen Testament, 5), Leipzig 1913, p. 6.
[23] E. BAMMEL, Galater 1, 23, «Zeitsrchrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 59, 1968, pp. 108-112.
[24] At. 26, 175., è da interpretare in maniera analoga al passo di 22, 17-21.

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