Il libro del Genesi *

Gerhard von Rad (1901-1971, pastore luterano)

Estratto dal libro „Genesi“. Edizione italiana a cura delle Benedettine di Civitella San Paolo - Paideia Editrice Brescia 1978

 

INTRODUZIONE GENERALE [1]

 

1. Il Genesi nell’Esateuco

Il Genesi non è un libro completo in sé, tale da poter essere interpretato da solo. I libri compresi tra il Genesi e Giosuè (Esateuco [2]), nella redazione attuale, formano un unico grandioso contesto narrativo. Il lettore pertanto, si interessi delle singole grandi fonti che vi si intersecano oppure del complesso della composizione, nata dalla fusione organica di quelle fonti per mano dell’ultimo redattore, dovrà sempre, qualsiasi punto dell'opera abbordi, aver presente alla mente tutto l’insieme e i contesti in cui si inseriscono le singole parti, le quali, a loro volta, andranno intese alla luce del tutto. La suddivisione nei libri del Genesi, dell’Esodo, del Levitico, ecc., che ha oggi tanto risalto per il profano, non è altro che una successiva ripartizione, a seconda dell'argomento, dell’enorme materiale, e non ci deve far perdere di vista l’unitarietà originaria.

Un'opera di tale vastità e di così notevole contenuto, che va dalla creazione del mondo alla migrazione delle tribù nella terra di Canaan, dev'essere studiata prestando particolare attenzione al fine a cui mira e al suo carattere teologico peculiare. Dal punto di vista letterario è già stato fatto un colossale lavoro; si possiedono nozioni abbastanza chiare anche a proposito della natura e della provenienza di molti temi particolari. Ci si è però preoccupati troppo poco di sapere che cosa sia l'Esateuco nel suo insieme, quale ne sia il tema fondamentale; di qui la frammentarietà delle interpretazioni del Genesi. Si è notato poco, o non si è notato affatto, che questi capitoli sono strettamente connessi con gli avvenimenti di cui parlano i successivi libri dell’Esateuco.

Il tema fondamentale dell’Esateuco è press a poco questo: Dio, che ha creato il mondo, rivolge il suo appello ai patriarchi e promette loro la terra di Canaan. Moltiplicatosi Israele in Egitto, Dio guida il popolo attraverso il deserto dandogli prove miracolose della sua benevolenza, e dopo un lungo pellegrinare, lo introduce, sotto la guida di Giosuè, nella terra promessa. Dal confronto di questa trama con l’Esateuco risalta subito la sproporzione tra il tema e il suo svolgimento: una massa incredibile di materiale disparato è stata raccolta e ordinata per esprimere un pensiero così semplice. Bisognerà allora concludere senz’altro che questa complessa elaborazione di un tema tanto semplice non può essere che uno stadio finale, un punto di arrivo. Questo svolgimento barocco del tema fondamentale, in un’opera di così enorme ampiezza, letterariamente non può essere stato fatto di getto e neppure essere il frutto di una maturazione preoccupata dell’armonia e della compiutezza classica, ma è il risultato finale di un processo spinto fino ai limiti del possibile e del leggibile, che deve assolutamente aver avuto stadi preparatori.

Ci sono numerosi testi, più o meno ampi, che attirano l’attenzione del lettore dell’Antico Testamento preoccupato di ricercare il tema dell’Esateuco. Particolarmente arcaica è la preghiera che si recitava durante l’offerta delle primizie al tempio:

 

Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele (Dt 26,5-9).

 

Non c’è dubbio che in tempi antichi si parlasse veramente così; nell’ambito del culto c’era dunque l’uso, fra l’altro, di recitare una breve storia della salvezza alla maniera d’una professione di fede. Infatti le parole qui pronunciate sono una specie di credo, non una preghiera individuale di ringraziamento; manca un interlocutore divino. Il fedele ricapitola i grandi fatti della salvezza, da cui è nata la comunità, e rinuncia ad ogni richiesta individuale per identificarsi completamente con la comunità; insomma, pronuncia una professione di fede.

Un analogo compendio della storia della salvezza, in forma di credo, si trova in Dt 6,20-24. È facile notare come in origine questo passo, ora pienamente inserito nel grande contesto parenetico, fosse a sé stante per la forma e per il contenuto.

 

Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà..., tu risponderai a tuo figlio: “Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi. (Dt 6,20-24)

 

Aggiungiamo un terzo esempio, il discorso di Giosuè all’assemblea di Sichem; esso è un po’ più ampio a motivo di alcune aggiunte, ma certo neppure questo panorama storico, nella sua forma essenziale, è una creazione letteraria a sé stante. È evidente che anche qui ci si è serviti di una formula stereotipa, che permetteva solo delle varianti di poco conto.

 

“Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi. Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan. Moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. A Isacco diedi Giacobbe ed Esaù; assegnai a Esaù il possesso della zona montuosa di Seir, mentre Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto. In seguito mandai Mosé e Aronne e colpii l’Egitto con le mie azioni in mezzo a esso, e poi vi feci uscire. Feci uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso, ma essi gridarono al Signore, che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare, che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto feci in Egitto. Poi dimoraste lungo tempo nel deserto. Vi feci entrare nella terra degli Amorrei, che abitavano ad occidente del Giordano. Vi attaccarono, ma io li consegnai in mano vostra; voi prendeste possesso della loro terra e io li distrussi dinanzi a voi. In seguito Balak, figlio di Sippor, re di Moab, si levò e attaccò Israele. Mandò a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse. Ma io non volli ascoltare Balaam ed egli dovette benedirvi. Così vi liberai dalle sue mani. Attraversaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Ittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei, ma io li consegnai in mano vostra. Mandai i calabroni davanti a voi, per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco. Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato”. (Gs 24,2-13).

 

Nessuno dei tre testi citati si esaurisce in una casuale reminiscenza di fatti storici; essi sono invece concepiti come una recitazione in forma solenne e in discorso diretto. Sono evidentemente costruiti secondo uno schema, vale a dire seguono a loro volta una rappresentazione canonica della storia della salvezza, da lungo tempo fissata in tutti i suoi dati essenziali. Per quanto grande possa sembrare la differenza tra questa specie di recitazione dei fatti della salvezza, in forma di credo, e il nostro Esateuco nella sua redazione ultima, si rimane tuttavia stupiti per la concordanza tematico-concettuale che si riscontra in ambedue. In fondo si tratta di uno stesso pensiero conduttore, estremamente semplice, e si può già definire Gs 24,2-13 un ‘Esateuco’ in forma ridotta. Se si considera poi l’intero processo ci si potrà fare un’idea dell’enorme forza d’inerzia dei temi di fede che formano l’Antico Testamento; intatti, per quanto consistenti siano le aggiunte e profonda la loro elaborazione, esse si fondano pur sempre sulla solida base di ciò che la fede riteneva fondamentale e oltre cui non ha potuto né voluto andare neppure l’Esateuco nella sua forma definitiva.

Il passo di Dt 26 porta chiare tracce di un rimaneggiamento più recente. Perciò è difficile dire quando tali sintesi storiche siano nate e venute in uso. A mio avviso non è fuor di luogo l’ipotesi che esse fossero già esistenti al tempo dei Giudici. Sarebbe invece improbabile considerare queste sintesi come tardi riassunti dei grandi abbozzi storici dell’Esateuco. Se così fosse, dovrebbero avere un'altra configurazione; soprattutto non mancherebbe l'avvenimento del Sinai, di cui era ovvio far parola.

Lo Jahvista, però, scrisse in tutt'altra epoca. Se anche non vi fu un lungo intervallo di anni fra lui e l'epoca dell'antica anfizionia israelitica (abbiamo motivo di credere ch'egli abbia scritto al tempo di Salomone o poco più tardi), dal punto di vista della storia della civiltà e del culto in genere, molto era cambiato.

Per una comprensione più profonda dei primi libri della Bibbia è di importanza capitale che la ‘sigla J' perda la sua astrattezza, che riusciamo ad avere una visione reale dei processi letterari, perché fu proprio lo Jahvista a dare, a quanto sembra, forma e misura all'Esateuco. Lo Jahvista rappresenta quel profondo incastro storico-culturale che constatiamo presso tanti popoli: è colui che ha raccolto innumerevoli tradizioni antiche, circolanti fino allora liberamente in mezzo al popolo. Con lui i racconti poetici e cultuali, che già correvano sulla bocca del popolo in maniera inorganica, divengono letteratura. È lecito supporre che questo processo non si sia espletato d'un colpo nella forma di una grande opera letteraria. Forse lo Jahvista stesso ha preso le mosse da lavori preliminari, sui quali tuttavia non ci è dato sapere niente. Del resto che si sia potuto giungere a raccogliere questi antichi materiali e a dar loro nuova forma, non è naturalmente da attribuire solo all'iniziativa dello Jahvista, ma anche al fatto che ormai i tempi dovevano essere maturi; anzi — ed è la constatazione più importante — va notato che le premesse di ciò erano già implicite in quei materiali stessi. La maggior parte di questi antichi racconti era formata da ‘eziologie', ossia da spiegazioni di qualche reale situazione locale, cultuale o di storia tribale. La validità di queste tradizioni e il loro interesse avevano, un tempo, limiti regionali, vale a dire erano circoscritti all'ambiente che ne sentiva il problema. Ciò è facilmente comprensibile, soprattutto per le leggende cultuali

In particolare le antiche tradizioni cultuali erano impensabili in quel tempo al di fuori dell'ambito sacrale, e solo nel corso di funzioni sacre si poteva conoscerle e viverle. Esse infatti non erano accessorie al culto, ma ne costituivano la parte essenziale, da cui esso traeva la vita e la festività acquistava contenuto e forma. Quale profonda trasformazione avvenne, quando fu possibile comporre in un tutto unitario materiali provenienti dai più diversi luoghi di culto, modificarne il contenuto subordinandoli a idee più vaste, in una parola dar loro elaborazione letteraria! Perché ciò avvenisse dovevano esistere, come abbiamo già detto, le premesse nei materiali stessi. Fra questi e la loro matrice cultuale doveva già essersi creato un certo distacco. Sembra che, specialmente nel primo periodo della monarchia, vi sia stata una crisi del culto genuino, semplice ed antico; cominciarono a trasformarsi i suoi fondamenti spirituali e, nel corso di questo processo, anche le tradizioni si sciolsero lentamente dalla matrice sacra del culto.

È questa la grande crisi che accompagnò la formazione dello stato d'Israele. Ad essa si collega una decadenza dell’antica confederazione delle tribù d'Israele alla fine dell’epoca dei Giudici, e la crisi raggiunge il suo primo vertice nell'illuminismo dell'era salomonica. Qualunque datazione si voglia attribuire allo Jahvista, è certo che, rispetto all'età delle tradizioni che la sua opera abbraccia, egli rappresenta una fase tardiva. Bisogna quindi rendersi conto che la loro formulazione letteraria rappresentò, in un certo senso, la fine di questi materiali, che avevano già a quel tempo una lunga storia. Ma al tempo stesso rappresentò anche l’inizio di una storia ancor più lunga. Si compie però, soprattutto, in questo passaggio un intimo, profondo spostamento del senso di quei racconti. Si pensi, infatti, che cosa può restare ad una leggenda cultuale del suo significato antico, se le si toglie il suo valore eziologico. Lo stesso va detto delle antiche saghe tribali etnologiche, che anche per il passato erano legate, quanto al luogo e specialmente al tempo, ad un ambiente ristretto. In seguito però esse vennero svelte dal loro terreno, e furono così disponibili per qualsiasi genere di impiego letterario spiritualizzato. Qual è allora il contenuto di Gen 18, se il racconto non serve più a legittimare il centro cultuale di Mambre? Qual è il contenuto di Gen 22, se il racconto non serve più a legittimare il riscatto d’un fanciullo destinato quale vittima sacrificale? Quale il significato di Gen 28, se il racconto non legittima più la santità di Bethel e gli usi locali? E quello di Gen 16 - per ricordare un’altra saga etnologica — se non fornisce più una risposta alla domanda sull’origine e la natura degli Ismaeliti? (Con tutta probabilità, già lo Jahvista non aveva più alcun interesse per la questione eziologica, dato che ai suoi tempi gli Ismaeliti non esistevano già più come tribù.) In tutti questi interrogativi si delinea uno dei compiti più importanti, dinanzi ai quali si vede posto oggi l’esegeta dei racconti del Genesi. In molti casi egli, con una probabilità che rasenta la sicurezza, riesce a fissare il senso e lo scopo che i materiali hanno avuto in una fase precedente e cioè preletteraria. Ma deve essere aperto ad ammettere che il racconto, nel contesto in cui lo Jahvista l’ha collocato, è diventato un altro. Si trova spesso di fronte a trasformazioni radicali, poiché, con l’atrofizzarsi dell’antico scopo eziologico, quasi tutta la precedente costruzione concettuale crolla. Siamo così ricondotti al problema del significato che lo Jahvista ha dato all’intera sua opera.

Cerchiamo d’immaginare a grandi linee la situazione: da una parte lo Jahvista disponeva dell’antico credo cultuale, lo schema canonico della storia della salvezza, dai patriarchi fino all’occupazione del paese; dall’altra, di un grandissimo numero di racconti slegati, alcuni forse già riuniti in brevi composizioni, ma per la maggior parte staccati e brevi. Ne è uscita un’opera di stupenda potenza creativa: seguendo il semplice schema del credo della storia salvifica, lo Jahvista ha coordinato quell’enorme massa di singole narrazioni, saldandole ad una tradizione fondamentale che tutto sostiene e collega, in modo che il pensiero, semplice e trasparente, di quel credo è rimasto dominante e quasi immutato nella sua fondamentale ispirazione teologica. Sarà quasi impossibile, ora, determinare nei particolari le singole tradizioni che lo Jahvista ha incorporato nella sua opera; forse egli ha potuto riallacciarsi anche a stadi intermedi di elaborazione. Teologicamente importanti sono, però, i casi di tradizioni accolte anche se non collimavano perfettamente con l’antico schema del credo. Questi inserimenti ed aggiunte comportarono naturalmente una dilatazione dell’antico schema e un ampliamento teologico della sua primitiva matrice. Ciò si può osservare in tre punti capitali: a) inserimento della tradizione sinaitica, b) elaborazione della tradizione patriarcale, c) introduzione della preistoria.

 

a) Inserimento della tradizione sinaitica

Nei dati della storia della salvezza offerti dalle brevi redazioni ricordate sopra, sorprende l’assenza totale di un accenno all’episodio del Sinai. Specialmente in Gs 24 ci sembra che l’importantissimo avvenimento della traversata del deserto non potesse mancare, accanto a vari ricordi di minore importanza, se la tradizione canonica l’avesse in qualche modo richiesto. La supposizione poi che fin dall’inizio l’episodio del Sinai mancasse nello schema dell’antica tradizione della conquista del paese diventa certezza, se si considerano da una parte le licenze che la lirica si permette nei confronti del credo (Sal 78; 105; 135; 136; Es 13) e dall’altra la singolare posizione della pericope del Sinai nel contesto dell’Esateuco. Anche la tradizione sinaitica deve la sua forma a una celebrazione cultuale (come si vedrà nel commento all’Esodo); tuttavia va distinta dalla nostra tradizione della conquista, dal punto di vista della storia sia del culto, sia della tradizione. Questo materiale, senza dubbio molto antico, ebbe infatti una sua propria, strana storia, e fu lo Jahvista per il primo (o forse un suo predecessore) che riunì tali tradizioni disparate, inserendo la tradizione sinaitica in quella della conquista. Conseguenza importante ne è stato il vasto ampliamento della base teologica. La tradizione della conquista fissata dal credo rende testimonianza alla benevolenza provvidente di Dio: è storia della salvezza. La tradizione sinaitica invece celebra il presentarsi di Dio in mezzo al suo popolo, e ruota tutta quanta attorno alla esigente affermazione del diritto di Jahvé, alla rivelazione della grande sovranità di Dio sopra Israele. La semplice concezione del credo, fondamentalmente soteriologica, riceve dalla tradizione sinaitica un valido sostegno. La fusione delle due tradizioni sottolinea i due elementi portanti di ogni annuncio biblico: legge e vangelo.

 

b) L'elaborazione della tradizione patriarcale

Del periodo dei patriarchi le sintesi storiche non parlavano che brevemente (Dt 26,5; Gs 24,2; 1 Sam. 12,8), mentre nel Genesi il filo della narrazione si estende per ben 38 capitoli. Come analizzare questo enorme materiale? È ormai pacifico, almeno in linea di massima, suddividerlo fra le tre fonti J, E e P, e si è pure fondamentalmente d'accordo sulle singole attribuzioni. Ma se, come è egualmente fuori discussione, i racconti mutuati alle varie fonti hanno alla lor volta una lunga storia precedente, donde essi derivano e di qual genere sono le notizie che ci forniscono su Abramo, Isacco e Giacobbe? Se si indagano le narrazioni partendo dall'ambito geografico in cui si muovono, cioè in base agli «addentellati locali» del materiale narrativo, esse risultano stranamente circoscritte alla zona palestinese. Le storie di Giacobbe, con Sichem (Gen 33,18 s.), Bethel (Gen 28,11 ss.; 35,3 ss.) e Fanuel (Gen 32,22 ss.), si localizzano nella Palestina centrale, mentre quelle di Isacco non si scostano mai dai pressi di Bersabea nell’estremo sud (Gen 26). Anche le storie di Abramo, pur non prestandosi tutte a una localizzazione così sicura, si inquadrano tuttavia certamente nella regione meridionale (Mambre, Gen 18). Singolare constatazione, che ci dovremo spiegare nel senso che gli antenati seminomadi di quello che fu più tardi il popolo d’Israele, divenuti a poco a poco sedentari, trasferirono ai santuari palestinesi le tradizioni che avevano portato con sé. Di conseguenza la loro religione, che probabilmente era un culto del dio dei padri, si contaminò con le antiche tradizioni cananee. Come oggi è difficile pensare che Abramo, Isacco e Giacobbe in quanto «depositari della rivelazione e fondatori del culto» (A. Alt) siano personaggi storici, è altrettanto difficile dare un valore biografico al materiale narrativo che li riguarda. Esso è passato per troppe mani. Al massimo può averci conservato qualche elemento caratteristico di storia della civiltà, riguardante le condizioni di vita di queste tribù. Le narrazioni non offrono neppure alcun dato per una cronologia almeno approssimata dei patriarchi. Usi e costumi di questi gruppi seminomadi rimasero gli stessi per secoli e secoli e non hanno fatto storia in nessun luogo. Se anche si ammette (con J. Bright) che siano vissuti all’inizio del secondo millennio, ci sono quasi 900 anni fra loro e le narrazioni dello Jahvista!

In conclusione: chi ci narra le vicende degli antenati di Israele, è lo Jahvista. Ed egli, ben lungi dal preoccuparsi (come farebbe uno storico moderno) di interpretare le antiche tradizioni alla luce di tutto quel complesso arcaico di idee che implicava la ‘religione dei padri' allora in uso, le ha introdotte ‘anacronisticamente’ nel quadro ideale che egli e il suo tempo si erano fatto dei rapporti di Jahvé con l’uomo, adattandole così, in certo senso, ai suoi contemporanei.

Per fondere insieme in un grande complesso narrativo il materiale molto disparato e spesso alquanto ingombrante della storia dei patriarchi, quale ci si presenta oggi, occorse senza dubbio una consumata tecnica redazionale. Queste numerose pericopi isolate e con esse le unità più vaste, già allora esistenti, cioè le così dette ‘corone di saghe’ (ad es. il ciclo Lot-Sodoma, il ciclo Giacobbe-Labano) non si raggrupparono certo per loro conto in modo da costituire una narrazione organica e continua, subordinata per di più a una ben precisa tecnica teologica. L’intima connessione che lega le singole tradizioni è dovuta soprattutto al fatto di essere orientate tutte al tema della ‘promessa fatta ai padri’, in particolare la promessa della terra, ma anche quella della discendenza. In certi casi tale promessa è presente già alla radice dei materiali narrativi mutuati dallo Jahvista (Gen 15,18; 26,4,24), in altri è evidente che fu inserita, in un secondo tempo, dallo Jahvista (ad es. Gen 18,13; 22,17; 50,24). In sé almeno la promessa della terra è un elemento che risale alla religione dei padri. Naturalmente questa promessa antichissima, fissata nelle saghe patriarcali, venne intesa un tempo direttamente, come possesso della terra coltivata assicurato a quei ‘progenitori’ dalla vita seminomade. Certo essa non teneva conto, in origine, di frequenti abbandoni del paese, quali si verificarono subito dopo, né di una rinnovata conquista (sotto Giosuè). Ma quando questa tradizione patriarcale fu inserita nel grande schema di storia della salvezza offerto dalle sintesi del Credo, quella prima antica promessa risultò stranamente infirmata; il lettore dovrà per l’innanzi intenderla in maniera indiretta, in quanto riferita alla conquista del paese sotto Giosuè. Il rapporto dei padri con la terra che abitano apparirà quindi qualcosa di provvisorio e persino tutta la loro epoca verrà vista nella prospettiva teologica singolarissima di uno stadio intermedio, di un errare dalla promessa all’adempimento, cosicché tutti gli avvenimenti acquistano un carattere di provvisorietà ed insieme di misterioso presagio. L’Esateuco, infatti, è strutturato dallo Jahvista nel quadro del grande pragmatismo teologico: epoca patriarcale-promessa, conquista del paese-adempimento. Anche l’alleanza di Abramo figurava probabilmente nella tradizione dell’antichissima religione dei padri (cfr. Gen 15,17 s.); ora però è messa in evidente rapporto con l’alleanza del Sinai. E non solo la relazione dei patriarchi con la terra, ma quella stessa con Dio, è qualcosa di provvisorio, che troverà adempimento, ad opera del divino volere, solo nella rivelazione sinaitica e nella ‘occupazione’ della terra da parte della comunità nata dai patriarchi.

Infine, il riferimento di tutti gli avvenimenti dell’età patriarcale alla conquista del paese sotto Giosuè, e quindi a tutto Israele, ha permesso un’amplificazione contenutistica dei racconti stessi. E il significato di questo ampliamento e del riferimento all’Israele delle dodici tribù può essere colto in tutta la sua portata, se si pensa che le antiche tradizioni cultuali premosaiche appartenevano soltanto a comunità religiose molto ristrette, e che pure i molteplici racconti eziologici avevano una validità geografica assai limitata.

Ma c’è un altro settore nel quale si è esplicato il lavoro redazionale dello Jahvista, per dare unità organica ai materiali offerti dalla tradizione: l’inserimento, ove occorra, di ‘brani di transizione’. Si tratta di pericopi che, come è abbastanza facile riconoscere, non risalgono a un’antica tradizione ‘che abbia avuto la sua crescita’, ma costituiscono semplicemente dei ponticelli gettati fra un punto e l’altro dell’antico patrimonio narrativo (ad es. Gen 6,5-8; 12,1-9; 18,17-33).

Questi ‘brani di transizione’ sono caratterizzati da un più alto potenziale di riflessione teologica e proprio per questo riescono particolarmente utili per stabilire con precisione le concezioni teologiche dello Jahvista, delle quali altrove possiamo farci un’idea solo in modo indiretto.

 

c) Aggiunta di una preistoria

Lo Jahvista dimostra tutta la sua indipendenza di fronte alla tradizione sacrale, che peraltro lo alimenta, con l’elaborare come preambolo della sua opera una preistoria (Gen 2, 4b-12,3). La tradizione della conquista del paese si era agganciata alla storia patriarcale, ma certo in nessuna delle forme in cui poté mai presentarsi aveva comportato affermazioni sulla preistoria, la creazione ecc. È proprio qui che lo Jahvista, abbandonato a se stesso, diventa libero di sviluppare le sue idee personali. Evidentemente, non è possibile addurre delle prove stringenti che garantiscano che lo Jahvista non ha avuto predecessori nello stabilire un legame teologico tra preistoria e storia della salvezza. D’altra parte non abbiamo neppure elementi che ci permettano di affermare il contrario. Questa visione peraltro è così singolare, e, di fronte alle incertezze riscontrabili in tutta la composizione, si può credere di scorgervi il rischio di un’opera di prima mano.

La composizione della preistoria, che lo Jahvista ha redatto servendosi di elementi molto eterogenei, sottolinea anzitutto, con spiccata insistenza, che solo dal peccato provengono la rovina e il disordine esistenti nel mondo; afferma però insieme come, di fronte all’abisso che si scava sempre più profondo fra Dio e l’uomo, si levi la misteriosa potenza della grazia. Le storie della caduta, di Caino, di Noè sono nel contempo testimonianze eloquenti della misericordiosa e provvida azione salvifica di Dio. Solo nella storia della torre di Babele, quando i popoli si disperdono e si disgrega l’unità degli uomini, sembra che il castigo di Dio abbia il sopravvento. Ma è proprio qui che si opera la sutura tra la preistoria e la storia della salvezza. Abramo viene tratto di mezzo ai popoli «affinché in lui siano benedette tutte le generazioni della terra». Così la storia della salvezza s'annuncia come una risposta alla domanda sollevata dalla preistoria, quale sia cioè il rapporto di Dio con i popoli in generale. Il suo affacciarsi in Gen 12,1-3 non rappresenta quindi soltanto la fine della preistoria, ma ci offre altresì la chiave per interpretarla. Mediante questa sutura di preistoria e storia della salvezza lo Jahvista rende ragione del significato e del fine dello statuto salvifico che Dio ha stabilito per Israele. Egli ci offre l'eziologia di tutte le eziologie dell'Antico Testamento, rivelandosi in tal modo un vero profeta: senza preoccuparsi della razionalità o della precisione del dettaglio, proclama come fine ultimo della storia di salvezza, che Dio opera in Israele, il superamento completo dell'abisso che separa l'uomo da Dio. La promessa di Gen 12,1 ss. contiene tre benedizioni: 1. viene benedetto Abramo, che diventerà un grande popolo, 2. Jahvé darà la terra alla stirpe di Abramo (12,7), 3. in Abramo saranno benedette le generazioni della terra (12,3). Le prime due benedizioni lo Jahvista le trovava già nella tradizione delle saghe patriarcali; la terza, invece, evidentemente non proviene da alcuna tradizione precedente, ma è frutto genuino della sua forte illuminazione profetica (cfr. anche pp. 201 ss.).

 

2. Le tre fonti narrative

I rilievi fatti fino a questo punto si fondano sui risultati di studi compiuti nel corso di quasi duecento anni, e dominanti oggi la scienza veterotestamentaria: i libri che vanno dal Genesi a Giosuè sono formati da più fonti intersecantisi, che furono a loro volta fuse posteriormente, più o meno bene, dalla mano di un redattore. Le due fonti più antiche portano il nome di Jahvista (J) ed Elohista (E), in base all’uso loro caratteristico del nome di Dio. Lo Jahvista potrebbe essere collocato intorno al 950 e l’Elohista, forse, uno o due secoli più tardi. Il Deuteronomista (D) letterariamente occupa un posto a parte; lo si trova nel Deuteronomio (aggiunte e rielaborazioni deuteronomistiche, però, si hanno anche nel libro di Giosuè). La fonte più recente è la redazione Sacerdotale (P = Priesterschrift), la cui elaborazione (senza le aggiunte posteriori) va attribuita al periodo postesilico, a un dipresso tra il 538 e il 450.

Non bisogna tuttavia dare eccessivo valore a queste datazioni, che per di più si fondano su mere ipotesi, dal momento che interessano solo lo stadio finale della composizione letteraria. Ben diverso è infatti il problema della datazione dei singoli materiali confluiti in ognuna di queste redazioni. Così, ad esempio, proprio la redazione più recente (P) contiene tutta una massa di materiali antichi ed antichissimi.

Non possiamo qui esaminare a fondo la forma espositiva delle singole fonti. Ci accontenteremo di alcuni accenni. Tutti sono concordi nell’esaltare la genialità della narrazione jahvistica. A ragione si giudica la maestria artistica di questa narrativa come una delle maggiori affermazioni della storia dell’ingegno umano di tutti i tempi. La descrizione delle varie scene si distingue per stupenda limpidezza ed estrema semplicità. Con una sorprendente esiguità di mezzi l’opera di questo narratore abbraccia l’intero arco della vita umana con le sue altezze e le sue miserie. Egli ci descrive con una concretezza ineguagliabile l’uomo e il suo mondo, gli enigmi e i conflitti delle sue opzioni ed azioni esterne, come pure gli smarrimenti e le confusioni del suo cuore. Tra i narratori biblici egli è il grande psicologo; ma l’uomo ch’egli studia non si sente solo al mondo, con i suoi desideri e le sue disperazioni; sente che sulla sua vita s’è manifestato il Dio vivente e sa di essere l’oggetto di un discorso, di un'azione divina, e quindi del giudizio di Dio e della sua salvezza. Così, nella preistoria, egli considera i maggiori problemi dell’uomo alla luce della rivelazione: creazione e natura, peccato e dolore, uomo e donna, discordia tra fratelli, confusione tra i popoli, ecc. Ma soprattutto egli ama descrivere le vie che Dio ha seguito ai primordi d’Israele, costellandole di miracoli manifesti e di misteri nascosti. Coglie quanto vi è di incomprensibile nell’elezione della comunità dell’Antico Testamento e, in Gen 12,3, reagisce con potenza profetica al mistero di questa provvidenza divina: «Jahvé è il Dio del mondo, ovunque la sua presenza è sentita con profonda venerazione» (Procksch). La narrazione jahvistica, inoltre, è piena di arditi antropomorfismi. Jahvé passeggia nel giardino al fresco della sera, chiude l’arca, scende a vedere la torre di Babel, ecc. Ma tutto ciò non è il prodotto dell’ingenuità e della rozzezza di un narratore arcaico; si tratta piuttosto di quella spontaneità e semplicità che sono l’indice più eloquente di una spiritualità nobile e virile. Ogni tentativo di spiegazione, anche elementare, di questa spiritualità delle narrazioni jahvistiche, trasparente e fragile come un vetro, si trova di fronte ad un compito difficile, quasi insolubile.

L’opera dell’Elohista ha preso forma uno o due secoli più tardi, e presto un redattore l’ha intrecciata con quella dello Jahvista. Ciononostante le due opere si distinguono abbastanza chiaramente fra loro. In genere l’Elohista non raggiunge lo splendore e la maestria geniale della composizione jahvistica. I singoli materiali sono senz’altro intrecciati in maniera meno raffinata; ad esempio, vi si accentua più fortemente l’aspetto appariscente dei miracoli. È un’opera, quindi, che non esige così grandi sforzi dal lettore e dall’interprete; è più popolare, rappresenta cioè l’antica tradizione sacra del popolo in una forma meno ritoccata e spiritualizzata. Di qui le minori possibilità per l’Elohista di tracciare quadri grandiosi ed imponenti (cfr. la linearità con cui la storia di Abramo o di Giacobbe, quale si ha nello Jahvista, tende al suo fine). Il suo legame con la tradizione si manifesta soprattutto nel piano globale. Inizia con Abramo e non conosce una preistoria. Per questo la sua aderenza all’antica forma canonica della storia salvifica è maggiore che nello Jahvista. Mentre infatti quest’ultimo, introducendo la preistoria, si era allontanato dall’antica tradizione, l’Elohista stringe ancor più i suoi vincoli con l’antica forma del credo, scolpita nella coscienza religiosa del popolo da una tradizione secolare.

Il quadro risulterebbe falsato se non si ricordasse inoltre che nell’Elohista — oltre alle caratteristiche popolari — emergono chiari elementi di riflessione teologica. In molti punti, infatti, è direttamente discernibile una rielaborazione teologica intenzionale delle antiche tradizioni. Accenniamo soltanto a due peculiarità dell’Elohista. Nei testi a lui attribuiti i contatti diretti di Dio con l’uomo, le sue apparizioni, il suo intrattenersi sulla terra, vengono rigorosamente ridotti; l’angelo di Jahvé non cammina più sulla terra, ma parla dal cielo (Gen 21,17; 22,11.15). Questo distacco di Dio dall’uomo e dal terrestre sarà causa del grande valore che viene attribuito ai sogni. Sono essi, ora, il piano spirituale sul quale si svolge la rivelazione di Dio all’uomo; la zona franca del sogno è in certo modo il terzo spazio nel quale Dio incontra l’uomo. Neppure qui però è dato all’uomo di accedere direttamente alla rivelazione; solo una speciale illuminazione che viene da Dio può infatti rendere possibile l’interpretazione dei sogni (Gen 40,8; 41,15 s.).

In secondo luogo, questa perdita dell’immediatezza nel rapporto con Dio e con la sua parola rivelata giustifica la grande importanza che l’opera elohistica attribuisce al profeta e alla sua missione. Il profeta è colui che ha ricevuto una vocazione speciale di mediatore tra Dio e l’uomo; da Dio egli riceve la rivelazione e a lui, intercedendo, presenta le preghiere degli uomini (Gen 20,7.17; Ex. 15,20; 20,19; Nm  11 ; 12,6 ss.; 21,7). La simpatia dell’Elohista per il profetismo e la sua missione è così spiccata, da rendere assai suggestiva l’ipotesi che l’intera sua opera sia sorta da antichi circoli profetici. Noi, comunque, nel nostro studio non ci prefiggiamo il compito di stabilire la forma originaria di questo documento. L’intreccio con lo Jahvista, infatti, è talmente profondo che non sarebbe possibile tracciare una linea di demarcazione, senza perdere molti testi. Le caratteristiche teologiche della tradizione elohistica saranno esaminate caso per caso.

Del tutto diversa è invece la redazione sacerdotale. Anche un profano ne può facilmente riconoscere i testi, tanto le caratteristiche di forma e contenuto sono accentuate. In genere questo documento non è un’opera narrativa. Esso è un vero scritto sacerdotale, cioè interamente dottrinale, e trascrizione di un pensiero densissimo e teologicamente articolato. La forma è pertanto di un genere a sé stante. La lingua è densa e pesante, meticolosa e per nulla artistica. Soltanto nei punti principali la dizione, per solito estremamente concisa, si stempera e diventa più particolareggiata, in modo da poter pienamente concettualizzare l’oggetto (ad es. Gen 1; 9; 17). Come nello Jahvista abbiamo trovato una narrazione di alta semplicità, senza alcuna concessione al dottrinale (nel senso stretto del termine), così nella redazione sacerdotale non troviamo che un minimo di narrazione viva e di commozione artistica: ogni ornamento ad effetto è stato abbandonato. In verità, è proprio in questa rinuncia che si può scoprire la sua grandezza; questa scarna oggettività è infatti altissima partecipazione, altissima concentrazione sulla rivelazione divina. Qui tutto è pensato in funzione teologica; in quest’opera possediamo l’essenza del lavoro teologico di molte generazioni di sacerdoti. Invano si ricercherebbe in essa uno sforzo per descrivere gli uomini di fronte alla rivelazione, le loro situazioni, i loro conflitti e la loro problematica spirituale o sociale. Da questo punto di vista la descrizione sacerdotale è del tutto incolore e schematizzata. L’interesse è concentrato esclusivamente su ciò che procede da Dio, sulla sua parola, i suoi disegni, i mandati, gli ordinamenti. La storia è vista unicamente in funzione delle decisioni e degli statuti comunicati da Dio, dalle istituzioni con cui, in misura crescente, egli fonda e garantisce la salvezza del suo popolo. Non è una storia degli uomini, ma soltanto la storia degli ordinamenti divini sulla terra. La ‘redazione’, dato lo sviluppo infinitamente lento di tali tradizioni sacre, non può essere stata completata nel giro di un anno e neppure di un secolo. La sua forma definitiva può averla ricevuta soltanto in un’epoca postesilica; però, accanto a materiali più recenti e fortemente elaborati dal punto di vista teologico, essa conserva ancora materiale antichissimo, che riporta quasi intatto, nella sua veste molto arcaica.

Naturalmente la saldatura redazionale di questo documento con lo Jahvista e l’Elohista, a loro volta già fusi nello ‘Jehovista’, non poteva avere altrettante possibilità di successo. In genere i testi sacerdotali conservano un loro posto ben qualificato nella composizione dell’Esateuco. Prescindendo da minori interpolazioni sacerdotali, soltanto nella storia del diluvio il redattore del Genesi è riuscito a fondere in un unico testo la tradizione di P e di J.

La forma attuale dell’Esateuco è opera di redattori che si son lasciati condizionare dalla particolare testimonianza che i singoli documenti rendevano alla fede. È indubbio che l’Esateuco, così com’è, richiede molta intelligenza da parte del lettore. Quest’opera immensa, infatti, è il frutto di molte epoche, molti uomini, molte tradizioni e teologie. Non colui, pertanto, che le si accosta con superficialità ne avrà una retta comprensione, ma soltanto chi ne coglie la dimensione profonda, saprà ascoltare la voce delle rivelazioni e delle esperienze di fede, che sale dal fondo di molte età. Infatti, nessuno stadio della lunga gestazione di quest'opera è stato propriamente superato; di ogni fase qualcosa è rimasto ed è entrato stabilmente nella stesura finale dell’Esateuco.

 

3. Il problema teologico dello Jahvista

Per poter comprendere l’opera dello Jahvista (ed anche quella dell’Elohista) bisogna porsi ancora una domanda. Una grande quantità di antiche tradizioni particolari, nate dal culto, è entrata a far parte di quest’opera; sono materiali che il culto ha foggiato e che lunghe età hanno conservato. Ora però questo legame e questa ispirazione cultuale, senza dei quali un tempo, come abbiamo visto, queste tradizioni non erano neppure immaginabili, sono scomparsi completamente. È come se questi materiali avessero formato la loro crisalide e ne fossero usciti con una forma nuova, indipendente; si sono liberati della loro matrice sacrale e si muovono in un’atmosfera del tutto o in parte estranea al culto. Lo stile così intelligentemente raffinato dello Jahvista — che del resto è quasi senza pari nella storia della fede veterotestamentaria - ci dà l’impressione di una ventata refrigerante dell’età, spiritualmente libera, di Salomone. Ci si domanda allora se questo fiorire delle tradizioni fuori del loro ambito originario non fosse la via obbligata di una loro secolarizzazione, oppure se quello che esse avevano perduto, in un primo tempo disancorandosi dal culto, non sia stato sostituito da un nuovo legame teologico d’altro genere. Una testimonianza nel senso teologico del termine, si ha però solo là ove vi sia riferimento ad una precedente azione rivelatrice divina; del resto non si vede come lo Jahvista avrebbe potuto parlare al suo popolo senza fondarsi su una tale garanzia.

Non è allora inutile mettersi alla ricerca del fatto divino che ha permesso allo Jahvista di concepire tutta la sua opera. L’antico Israele era abituato a considerare la parola di Dio e la sua opera salvifica come intimamente connesse con le istituzioni sacre, e in particolare con l’ambito più strettamente cultuale del sacrificio e dei responsi divini ad opera dei sacerdoti; tuttavia l’esperienza dell’azione provvida e salvatrice di Dio si poteva avere anche nella sfera cultuale intesa in senso più largo, ad esempio, della guerra santa, nel carisma di un condottiero inviato da Dio, nel ‘terrore sacro’ che colpiva i nemici senz’intervento dell’uomo, o negli altri prodigi operati alla presenza dell’arca santa. Lo Jahvista, invece, vede l’azione di Dio in maniera essenzialmente diversa. Non che egli contesti le possibilità d’intervento divino, su cui i suoi predecessori particolarmente si fondavano, ma ne supera le concezioni religiose. La mano di Dio che guida, egli la vede tanto negli avvenimenti della grande storia quanto nello svolgimento silenzioso di una vita umana, nelle cose profane non meno che in quelle sacre, nei grandi prodigi come nel segreto del cuore. (Nella storia di Giacobbe e di Giuseppe, ad esempio, ci vien quasi suggerita l’idea che Dio operi persino nel peccato dell’uomo e per mezzo di esso!) Insomma, per la prima volta si pone il centro di gravità dell’azione divina al di fuori delle istituzioni sacre; in tal modo, forse, essa risulterà meno evidente allo sguardo comune, dato che è all’opera anche in tutta la sfera profana; ma certo vien concepita in forma più integrale, meno discontinua, più coerente. Lo Jahvista ci presenta la storia unitaria delle provvidenze e degli interventi divini che investono tutti i campi della vita, pubblici e privati.

Una concezione siffatta, che non vede più l’azione di Dio legata alle antiche istituzioni sacrali, ma non si perita di ravvisarne le tracce nella complessità delle sorti politiche e personali, era evidentemente rivoluzionaria nei confronti delle antiche concezioni cultuali dei patriarchi. In pratica, poi, essa è in strettissimo rapporto con i grandi fatti storici dell’epoca, specialmente dell’età di David. L’antica confederazione sacra delle tribù (epoca dei Giudici) s’è sciolta e la vita del popolo ha incominciato ad uscire dalle vecchie forme, in cui era stata incanalata, e a secolarizzarsi. Già con Saul la ragion di stato s’era emancipata dagli antichi ordinamenti cultuali, e questo movimento deve aver fatto altri progressi nell’organizzatissimo apparato statale di David, nella corte come nell’esercito. I vari settori capitali della vita del popolo diventano sempre più indipendenti e retti da esigenze proprie; in ogni caso, è tramontato per sempre il tempo che aveva visto l’ordinamento sacrale imporsi a tutte le altre norme di vita. Ma, in questo modo, Israele è forse caduto fuori dell’orbita del suo antico Dio, del Dio dei padri e di Mosè? è uscito dal raggio di azione della sua salvezza e della sua guida? Questo è il grande problema.

Non è difficile per il lettore trovare la risposta nell’opera dello Jahvista. Il suo modo di raccontare spira una fiduciosa e fermissima persuasione che Jahvé è vicino e governa direttamente il suo popolo e che è possibile, usando il nuovo linguaggio religioso, parlare di tutto nel modo più semplice. Certo, per cogliere l’intero mondo di idee dello Jahvista, bisogna appellarsi non solo alle storie patriarcali, ma anche ai racconti di Mosè, all’evento del Sinai e alla traversata del deserto nell’Esodo e nei Numeri. Lì si comprende pienamente quanto fossero ormai lontani i tempi antichi, compresa l’età dei Giudici. Dalla situazione storica che l’opera dello Jahvista presuppone si può almeno rilevare che essa è nata nei primi tempi dopo la costituzione dello stato. È sintomatico che le tribù non abbiano più una vita politica propria ma che d’altra parte non sia possibile trovare in nessun punto traccia della netta scissione di Israele in due regni. Ancor più importante dei mutamenti politici che si possono arguire, è però il cambiamento delle idee religiose che a paragone di quelle arcaiche dell’epoca dei Giudei, sono diventate più ‘moderne’. Dietro l’opera dello Jahvista si intravede una nuova esperienza di Dio, e nella singolare storia che egli scrive, tutta tessuta di meravigliosi interventi e provvidenze divine nascoste, par di poter cogliere ancora la fresca gioia di uno scopritore.

Queste premesse erano necessarie, affinché il lettore non si inganni, attribuendo a queste storie un’attendibilità maggiore di quella che possono offrire, ma le sappia leggere nella loro attualità rivoluzionaria, collocandole nel loro vero contesto.

 


* Nota del redattore del sito:

Parlando del primo libro della Bibbia dobbiamo dire il Genesi, al maschile, oppure la Genesi, al femminile?

La parola genesi, come nome comune, è senza dubbio femminile, come era femminile in latino, gènesis, e in greco génesis: nascita, origine, creazione. Il libro infatti racconta la creazione del mondo ovvero “la genesi” del mondo. Diciamo infatti normalmente il Libro della Genesi. Ma quando genesi diventa nome proprio di quel libro, oltre al consueto femminile (“Ho letto la Genesi”) viene usato spesso anche nella forma maschile: il Genesi. E l’esempio ci viene niente meno che da Dante: “...se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio, conviene...” (Inf-, XI, 107). Il perché del maschile è chiaro: per influenza della parola “libro” sottintesa, che è maschile. Ma attenzione: maschile o femminile, proprio perché nome proprio, il Genesi o la Genesi sarà sempre maiuscolo. (Fonte "dizionari.corriere.it" Hoepli Editore 2023).

[1] Ndr:

- Ho modificato le citazioni bibliche ricavandole dalla Bibbia CEI 2008, così come le abbreviazioni dei testi biblici.

- Non ho riportato l’ultimo capitolo dell’introduzione dal titolo “Problemi ermeneutici dei racconti del Genesi” e le note a piè di pagina.

[2] Ndr: Esateuco (gr. "Sei astucci", in assonanza a Pentateuco) è un termine poco usato per indicare i primi sei libri dell'Antico testamento) e cioè il Pentateuco o Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e il Libro di Giosuè (il quale, dal punto di vista dell'ordine del racconto, è considerato la continuazione del Deuteronomio). I sei libri narrano la storia del popolo d'Israele prima del tempo dei Giudici. I fatti in esso narrati si svolgono fra la Mesopotamia, Canaan e l'Egitto e si concludono con la conquista della Terra Promessa. (Fonte Wikipedia)

 


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05 marzo 2023               a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti  Bibbia@ora-et-labora.net