Alcuni argomenti introduttivi al libro dell'Esodo.
Jean-Louis Ska S.I.
Estratti da “Il libro 
dell’Esodo” - EDB Edizioni Dehoniane Bologna
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			 IL LIBRO DELL’ESODO: UN CANTO PIANO O UNA CANTATA A PIÙ VOCI?  | 
		
CHE COSA BISOGNA SAPERE PER LEGGERE
IL LIBRO DELL’ESODO?
Formare o informare?
Molte opere antiche sono anonime e questo per la semplice ragione che non sono 
state scritte da singoli individui, ma sono il riflesso di una tradizione.
Il loro primo obiettivo 
non è quello di essere originali o creative e neanche di dirci «ciò che è 
accaduto veramente». Il primo obiettivo di 
tali opere, ed è anche il caso del libro 
dell'Esodo, è quello di ricreare e trasmettere 
la tradizione nella maniera più fedele possibile. La fedeltà alla tradizione 
prevale sulla «verità storica» e sul genio individuale. Tutte le domande che ci 
possiamo porre a proposito del libro dell'Esodo devono dunque tener conto di 
questo fatto fondamentale. Il lettore contemporaneo vorrebbe sapere chi ha 
scritto il libro dell'Esodo. Vorrebbe sapere pure sotto quale faraone gli 
schiavi ebrei sono usciti dall’Egitto, in quale epoca storica si deve situare la 
teofania del Sinai o se è possibile localizzare questa montagna in quel deserto 
che porta lo stesso nome. Tali questioni, e 
molte altre, sono certamente legittime, ma le risposte che oggi vi possiamo dare 
restano molto evasive e probabilmente lo 
resteranno per sempre. Infatti, cercare delle risposte a domande del genere nei 
racconti dell'Esodo equivale, se posso permettermi questo paragone, a cercare 
della birra presso un mercante di vino. Non è impossibile trovarne, ma si tratta 
piuttosto di un caso. È meglio chiedere del vino a un mercante di vino che può 
fornirne di eccellente. Qual è allora il vino che ci offre il libro dell'Esodo? 
Di quale genere di vino si tratta? Da dove proviene e a che cosa può servire?
In poche parole: il libro dell’Esodo non cerca di informare il lettore sul 
passato di Israele e sulle sue origini in Egitto oppure sui dettagli concreti 
del suo soggiorno nel deserto. Cerca invece di formare la coscienza di un 
popolo, partendo dalle tradizioni sul suo passato, così come 
è stato trasmesso di generazione in generazione. 
Questo libro è quindi interessato più al presente che al passato dei suoi 
destinatari, i membri del popolo di Israele di tutte le epoche. Il libro 
dell'Esodo lo ripete più volte. Per esempio troviamo questa dichiarazione divina 
nel racconto delle piaghe di Egitto (Es 5-11), al capitolo 10.1-2:
Allora il Signore disse a Mosè: «Va' dal faraone, perché io ho indurito il cuore 
suo e dei suoi ministri, per compiere questi miei segni in mezzo a loro, 
e perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figlio 
di tuo figlio come mi sono preso gioco degli Egiziani e i segni che ho compiuti 
in mezzo a loro: così saprete che io sono il Signore!».
Secondo questo testo, quindi, 
l’azione divina ha lo scopo di manifestare la 
presenza del Signore, il Dio d'Israele, nel paese d'Egitto, agli occhi del suo 
sovrano e dei suoi sudditi, ma anche, ed è 
questo il punto che occorre sottolineare, per creare un racconto che sarà 
trasmesso in Israele, di generazione in generazione, per celebrare le meraviglie 
compiute da Dio in favore del suo popolo. L'azione divina crea un racconto e una 
memoria, e questa memoria fa di Israele il popolo del suo Dio.
È questo anche lo scopo della prima liturgia importante evocata dal libro 
dell'Esodo, la celebrazione della Pasqua (Es 12-13). E una liturgia che cerca di 
«ri-presentare» i grandi eventi della salvezza, ossia di renderli presenti. I 
gesti compiuti durante la celebrazione della Pasqua e della festa dei pani 
azzimi (dei pani senza lievito) 
è l'occasione di evocare un passato che forma e 
informa il presente. Si tratta di quella che talvolta viene chiamata «la 
catechesi pasquale», un insegnamento che scaturisce dalle domande poste dai 
bambini ai loro genitori in tali occasioni:
Quando i vostri figli vi chiederanno: «Che significato ha per voi questo rito?», 
voi direte loro:
«E il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato 
oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto c salvò le nostre 
case» (Es 12,26-27; cf. 13,8).
Il rito 
è l’occasione di un racconto che lo spiega e 
che si trasmette da padre in figlio, dai genitori ai loro bambini. Come i 
genitori trasmettono la vita ai loro figli, trasmettono loro anche l’essenziale 
di un'identità indissolubilmente legata alla liberazione dalla schiavitù egizia. 
Se non ci fosse stato l'Esodo, Israele non sarebbe esistito.
Occorre nuovamente insistere sul fatto che il racconto non trasmette quella che 
chiameremmo la memoria dei fatti storici, di un esodo che sarebbe avvenuto sotto 
un faraone di una dinastia precisa e ben conosciuta. Il faraone dell'Esodo 
rimane anonimo, come del resto restano estremamente incerti molti altri 
dettagli. Si tratta invece di un racconto che ha l’obiettivo di manifestare che 
Israele deve la propria esistenza a una forza che non è di questo mondo. Israele 
deve la sua origine al suo Signore, al suo Dio: «Così saprete che io sono il 
Signore!» (Es 10,2). Il racconto ha dunque una innegabile dimensione teologica, 
ed è bene ricordarselo.
Ma una volta detto tutto ciò, è utile affrontare alcune questioni più concrete 
riguardo alla composizione di questo libro fondamentale per l'identità del 
popolo d’Israele e, di conseguenza, anche per il popolo cristiano che ha 
ereditato l'essenziale di questa tradizione.
Le 
fonti del libro dell’Esodo
Il libro dell’Esodo, come ho detto, non ha autore. Si 
è formato in tempi diversi, probabilmente nel corso 
di parecchi secoli, a partire da antiche tradizioni che sono state 
progressivamente riviste, corrette, accresciute e completate. È senza dubbio 
impossibile rifare tutta la storia della composizione del libro. In effetti 
siamo in una posizione difficile perché 
abbiamo a nostra disposizione unicamente i dati biblici. Fino a
oggi non è stato 
ritrovato alcun riferimento preciso al contenuto del libro dell'Esodo al di 
fuori della Bibbia, per esempio nei documenti egizi. Ci è dunque possibile 
fissare solamente alcuni punti di riferimento.
Le memorie più antiche dell’esodo si trovano nei libri di Osea e di Amos. Tre 
elementi importanti sono citati dal libro di Osea. In primo luogo il libro parla 
dell’uscita dall'Egitto: «Per mezzo di un profeta il Signore fece uscire Israele 
dall’Egitto, 
e per mezzo di un profeta lo custodì» (Os 12,14). Il profeta anonimo a cui 
allude dev’essere Mosè. In secondo luogo, Osea parla del soggiorno nel deserto 
in termini molto positivi: «Eppure io sono il Signore, tuo Dio, fin dal paese 
d’Egitto. Ti farò ancora abitare sotto le tende, come ai giorni dell’incontro 
nel deserto» (Os 12,10; cf. 13,5). Infine, terzo elemento importante, il Signore 
è il Dio di Israele fin dagli eventi dell’esodo, fin dal paese d’Egitto, come 
dice Os 12,10 o anche Os 13,4-5: «Eppure io sono il Signore, tuo Dio, fin dal 
paese d'Egitto, non devi conoscere altro Dio fuori di me, non c’è salvatore 
fuori di me. Io ti ho protetto nel deserto, in quella terra ardente». Notiamo 
tuttavia che il profeta Osca non fa alcuna allusione né 
alla teofania del Sinai né al dono della Legge. Nella sua parte più antica, il 
libro di Osea risale all'VIII secolo a.C. Ci troviamo quindi nel regno del Nord, 
il regno di Samaria. Isaia, invece, che è quasi contemporaneo di Osea, abita a 
Gerusalemme e quindi è un cittadino del regno di Giuda, non parla mai dell’esodo 
o del soggiorno nel deserto. Questa tradizione è quindi originaria del regno di 
Samaria.
Anche Amos, che da parte sua proviene da Tekoa, un villaggio del regno di Giuda 
a sud di Betlemme, ma che è attivo nel regno di Samaria, poco prima di Osea, 
sempre nell’VIII 
secolo a.C., menziona l'esodo: «Ascoltate questa parola, che il Signore ha detto 
riguardo a voi, figli d’Israele, e riguardo a 
tutta la stirpe che ho fatto salire dall’Egitto: “Soltanto voi ho conosciuto tra 
tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre colpe» 
(Am 3.1-2; cf. 9.7). Rivolgendosi agli abitanti del regno del Nord, Amos fa 
ricorso agli argomenti che sono più significativi per loro e per questo motivo 
evoca l’esodo, il momento in cui Dio sceglie Israele come suo popolo. «Israele», 
in questo contesto, vuole indicare innanzi tutto il regno di Samaria. In altri 
testi, parla sia dell’esodo sia del soggiorno nel deserto (Am 2,10; cf. 5,25 per 
i quaranta anni nel deserto).
Per trovare un'allusione chiara al dono della Legge sul monte Sinai, e in un 
testo che si possa datare con maggiore facilità, occorre attendere il libro di 
Neemia, scritto intorno al 350 a.C.: «Sei sceso sul monte Sinai e hai parlato 
con loro dal cielo, 
e hai dato loro norme giuste e leggi sicure, statuti 
e comandi buoni; hai fatto loro conoscere il tuo santo sabato e hai dato loro 
comandi, statuti e una legge per mezzo di Mosè, 
tuo servo» (9,13-14). Ben inteso: esistevano già delle leggi, ma la tradizione 
del dono della Legge sul monte Sinai, con Mosè come intermediario, è quindi una 
tradizione recente.
Possediamo di conseguenza delle tradizioni antiche sull’uscita dall’Egitto
e sul soggiorno nel deserto presenti nel regno di 
Samaria a partire dall’VIII secolo a.C. La tradizione del Sinai, da parte sua, è 
più recente. È 
possibile risalire ancora più indietro nel tempo? Appare estremamente difficile, 
poiché, come ho detto, nessun documento egizio fa riferimento agli eventi 
raccontati dal libro dell’Esodo: l’oppressione, le piaghe d'Egitto, l’uscita 
dall’Egitto, il passaggio del mare con l’esercito egiziano inghiottito dal mare 
o il lungo soggiorno nel deserto.
Tuttavia, grazie a documenti egiziani molto antichi, siamo in grado di affermare 
che alcuni aspetti del racconto possono basarsi su una conoscenza del mondo 
egizio e per questo acquistano una certa verosimiglianza. I racconti quindi non 
sono delle cronache di fatti storici, ma non sono neanche il frutto di una pura 
fantasia. Per esempio, certi bassorilievi egizi raffigurano la fabbricazione dei 
mattoni così come ce la descrive Es 5. Alcuni operai o schiavi sono inoltre 
rappresentati con la barba, un modo tipico di raffigurare gli abitanti originari 
del Vicino Oriente. Altri documenti, i papiri Anastasi IV, V e VI, permettono di 
stabilire 
l’esistenza di gruppi di semiti che vivevano in 
Egitto verso il 1200 a.C. Inoltre, il papiro V descrive un fatto interessante, 
poiché parla della fuga di due schiavi che la notte si nascondono tra le canne 
per poter guadagnare in seguito il deserto. 
Questo documento risale al regno di Seti II, morto nel 1193 a.C. Notiamo che gli 
schiavi sono due e che è impossibile conoscere 
la loro origine. Fatto sta che hanno percorso una strada che fa pensare a quella 
descritta nel libro dell'Esodo. Ma siamo ben lontani dal numero citato da Es 
12,37 di «seicentomila uomini adulti, senza contare i bambini».
Per quanto riguarda Mosè, poco o nulla sappiamo di questa figura gigantesca che 
emerge dai racconti biblici. Ma probabilmente non è una figura inventata di sana 
pianta. Infatti porta un nome egiziano, forse abbreviato, che significa «figlio 
di», «generato da». Lo ritroviamo per esempio nel nome del faraone Ramses, che 
significa «figlio del dio Ra» o «Thutmose», che significa «figlio del dio Thot». 
È difficile immaginare che il popolo di Israele abbia dato deliberatamente un 
nome egiziano al suo maggiore profeta.
Altri dettagli resistono alla critica e difficilmente possono essere stati 
inventati. Per esempio, Mosè sposa una donna straniera, per di più madianita, 
quindi appartenente a un popolo nemico di Israele. Ora, lo stesso Mosè sarà 
all’origine della legislazione che vieta i matrimoni misti (Es 2,21; cf. Nm 
12,1; per i matrimoni misti, cf. Dt 7.3; per i madianiti. cf. Nm 25,6.14-15; Ode 
6,2-6). Infine, Mosè muore prima di poter entrare nella Terra promessa, un 
problema spinoso che i testi biblici cercano di risolvere, ma senza riuscirci 
veramente (cf. Nm 20,1-13; Dt 1,37; 3,26-27). Questi dettagli creano grosse 
difficoltà ed è lecito pensare che non siano il frutto della fantasia, perché un 
racconto creato di sana pianta risulta molto più coerente.
I testi sul soggiorno nel deserto, da parte loro, contengono molto probabilmente 
le tracce di tradizioni trasmesse dai pastori e dai carovanieri. Sono loro 
infatti a conoscere le piste e le leggende che circolavano in quelle regioni, 
tra l’altro intorno ai pozzi, luoghi di incontro abituali in quegli ambienti. 
Tali racconti si occupano di problemi tipici di quelle zone desertiche: dove 
trovare dell’acqua e del cibo, come trovare il cammino e difendersi dai pericoli 
che minacciano il viaggiatore.
La legislazione del monte Sinai pone un problema particolare. È assai evidente, 
per esempio, che i dettagli della costruzione del santuario sono una proiezione 
nel passato di realtà molto posteriori. La parentela esistente per contenuto e 
linguaggio tra questi testi e quelli del libro di Ezechiele fa pensare a una 
data postesilica molto tardiva.
Il Decalogo, da parte sua, pone un altro problema. È 
estremamente verosimile che il Decalogo del libro dell'Esodo sia una revisione 
del Decalogo che troviamo nel libro del Deuteronomio, al capitolo 5. Si tratta 
di testi tardivi in quanto rispecchiano le preoccupazioni di una comunità che 
riflette sulle basi essenziali della propria esistenza, molto dopo l’esilio di 
Babilonia. Certo, è un testo che ha delle 
radici antiche, soprattutto nella sua seconda parte sui comandamenti sociali 
(cf. Os 4,2; Ger 7,9). Ma la formulazione attuale e 
recente è probabilmente posteriore alla 
ricostruzione di Gerusalemme e del suo Tempio. Essa riflette la fede in un Dio 
unico, fede che raccoglie i frutti delle tragiche esperienze del passato e delle 
riflessioni del Secondo Isaia (Is 40-55).
Le leggi che troviamo in quello che viene chiamato il «Codice dell’alleanza» 
(Es 21-23) costituiscono indubbiamente una delle parti più antiche del libro 
dell’Esodo. Il nome di questo «codice» proviene dal testo di Es 24,7 che parla 
del «libro» o del «rotolo dell'alleanza», scritto da Mosè per la circostanza.
La parentela di numerose leggi, soprattutto quelle di Es 21,1-22,16, con quelle 
degli antichi codici mesopotamici, 
tra cui il famoso Codice di Hammurabi (1792-1750 a.C.), fanno pensare a una data 
antica. È probabile che il Codice dell’alleanza 
sia stato scritto nel momento in cui si faceva sentire maggiormente l’influenza 
assira, nel regno del Nord, a partire dal IX secolo o all'inizio dell'VIII 
secolo a.C., quando il regno del Nord è diventato per lungo tempo un vassallo 
dell’Assiria. Insieme ai testi amministrativi, i codici legislativi sono i 
documenti più antichi in nostro possesso. Questo codice è stato in seguito 
rivisto, corretto e completato, arrivando alla fine a Gerusalemme dopo la caduta 
di Samaria.
Riassumendo, le parti più antiche del libro dell’Esodo vanno cercate 
nelle leggi, nel Codice dell’alleanza (Es 21-23), oltre che nelle tradizioni 
sull’uscita dall’Egitto e in certi racconti sul soggiorno nel deserto. In 
seguito abbiamo dei racconti scritti dopo l’esilio, delle riletture 
che suggeriscono di vedere nell’Egitto il prototipo di Babilonia e fanno 
dell'uscita dall’Egitto la prefigurazione della fine dell’esilio. Il Decalogo va 
collocato sulla scia di tali racconti, dopo il ritorno dall'esilio. Infine, le 
parti più recenti sono quelle dedicate alle istruzioni per la costruzione del 
santuario e dei suoi accessori (Es 25-31)
e il racconto della sua realizzazione, che 
senza dubbio è ancora più recente (Es 35-40).
I 
manoscritti antichi del libro dell’Esodo
Un’ultima parola sulla tradizione manoscritta. 
Il testo ebraico completo del libro dell'Esodo lo si 
trova in quello che veniva chiamato il
Codice di Leningrado, un manoscritto del 1009 d.C., che alcuni 
oggi preferiscono chiamare
Codice o
Manoscritto di San Pietroburgo. È 
uno scritto dunque che ha un po’ più di mille anni, ma che naturalmente è molto 
distante dall'epoca in cui le prime tradizioni sono state messe per iscritto. Un 
certo numero di frammenti del libro dell'Esodo sono stati ritrovati tra i 
manoscritti del Mar Morto o di Qumran, redatti tra il 150 a.C. e il 70 d.C, ma 
possono contenere delle tradizioni più antiche. Nei dettagli differiscono dal 
testo ebraico del
Codice di San Pietroburgo. Nessun manoscritto completo dell’Esodo 
è stato ritrovato a Qumran o altrove.
Possediamo inoltre il Pentateuco samaritano, i cui manoscritti più antichi 
risalgono al XII secolo circa. Il Pentateuco samaritano differisce soprattutto 
nei dettagli dal cosiddetto Pentateuco masoretico, 
quello del 
Codice di San Pietroburgo. I ricercatori contano più o meno 6000 
differenze, in pratica una per versetto. Per quanto concerne il libro dell’Esodo 
vi sono due differenze notevoli. La prima riguarda i racconti delle piaghe 
d'Egitto. Il racconto del Pentateuco samaritano è più lungo di quello del testo 
masoretico. Quest’ultimo utilizza spesso 
l'ellissi, in particolare quando Dio ordina a Mosè (e ad Aronne) di recarsi dal 
faraone per chiedergli di lasciar partire Israele, il racconto masoretico, 
quello del 
Codice di San Pietroburgo, lascia immaginare al lettore che Mosè 
(e Aronne) esegua(no) l'ordine e che il faraone rifiuti, come era peraltro 
previsto fin dall'inizio. Il Pentateuco samaritano, al contrario, racconta ogni 
volta tutte le tappe percorse, l’arrivo di 
Mosè (e di Aronne) dal faraone, il discorso di Mosè al sovrano e la reazione 
negativa del faraone. Questo desiderio di armonizzazione è del resto tipico del 
Pentateuco samaritano. L'altra differenza notevole si trova al capitolo 20. Nel 
Pentateuco samaritano, il Decalogo che conosciamo è seguito da un’ingiunzione che 
ordina di costruire un altare sul monte Garizim. Questo versetto riprende il 
testo di Dt 11,29 e 27,4-7, leggendo «Garizim» là dove il testo masoretico legge 
«Ebal». Il Pentateuco samaritano fa quindi del culto sul monte Garizim il decimo 
comandamento del Decalogo, rivelando tutta l’importanza che gli attribuisce.
La traduzione greca dei Settanta, fatta ad Alessandria di Egitto nel III secolo 
a.C., è spesso vicina al testo samaritano. Differisce però molto dal testo masoretico 
nei capitoli 37-40 del libro dell’Esodo. Il testo della traduzione greca è più 
breve, e diverso l'ordine delle pericopi. Più di uno specialista pensa che il 
testo masoretico sia più recente e che testimoni la volontà di far coincidere 
più esattamente l'esecuzione della costruzione del santuario nel deserto e dei 
suoi accessori con le istruzioni date da Dio a Mosè nei capitoli da 25 a 31. Il 
testo masoretico attribuisce inoltre più importanza alla tribù di Giuda. La 
volontà di insistere sul culto fin nei suoi minimi dettagli è tipica dell'epoca 
ellenistica, come testimoniano i libri delle Cronache e il libro del Siracide 
(cf., per esempio. Sir 45.9-22; 50.1- 
21).
CHE COSA CI RACCONTA IL LIBRO
DELL'ESODO?
Un 
riassunto del libro dell’Esodo: dalle sponde del Nilo al monte Sinai
Non è facile trovare un filo conduttore all'interno 
del libro dell’Esodo. La prima parte appare molto lineare, almeno fino al 
capitolo 15. Ci viene detto che gli ebrei - gli israeliti - proliferano in 
Egitto, che un nuovo faraone sale al trono e inizia a opprimere gli ebrei per 
timore di una qualche sollevazione. Sono quindi queste le circostanze in cui si 
colloca la nascita di Mosè, il futuro salvatore di Israele. Dopo un certo numero 
di peripezie, nella scena del roveto ardente Mosè è 
chiamato da Dio a tornare in Egitto per chiedere al faraone di far uscire 
Israele da quel paese. Mosè non è molto entusiasta, ma si lascia convincere. Va 
a trovare il faraone insieme al fratello Aronne, ma questa prima missione si 
conclude con uno smacco cocente. Il faraone rifiuta e addirittura rende più dura 
la vita dei suoi schiavi. A questo punto inizia la lunga serie di «piaghe 
d’Egitto» che colpisce il paese con diverse calamità. Ma il faraone, appena la 
calamità è terminata, cambia idea e si ostina nel suo rifiuto. Bisognerà 
attendere la decima piaga, la morte dei primogeniti di tutto l'Egitto a 
cominciare dall'erede al trono, perché il faraone si decida a lasciar partire il 
popolo, il quale se ne va via armi e bagagli 
nella notte.
Tutto è bene quello che finisce bene, almeno così sembra. Infatti, al faraone 
bastano tre giorni per cambiare idea e decidere di raggiungere il popolo in 
cammino verso il deserto per riportarlo alla sua condizione servile. Sembra 
riuscirci, poiché la sera il faraone raggiunge il popolo, che 
è accampato sulla riva del mare. Il 
popolo è intrappolato tra il mare e il 
formidabile esercito del faraone. Ma i conti sono stati fatti senza Dio e Mosè, 
i quali fanno in modo di far perire l'esercito del faraone nel mare. E infatti 
le acque raggiungono Tarmala, sebbene non sia chiaro se la sommergano oppure la 
travolgano, in quanto il racconto contiene senza dubbio diverse versioni del 
«miracolo del mare». Ma il risultato è lo stesso: gli egiziani periscono nelle 
acque del mare e gli israeliti sono liberati per sempre dai loro oppressori.
Ha allora inizio una marcia nel deserto, ma non verso la Terra promessa, bensì 
verso il monte Sinai. Dio, con la mediazione di Mosè, è costretto a intervenire 
a più riprese per risolvere dei problemi di gestione, ossia dare da bere e 
mangiare al suo popolo in un ambiente più che ostile, o per difenderlo dagli 
attacchi dei nemici. Alla fine, il popolo arriva al monte Sinai. Nel contesto di 
una scenografia solenne, Dio appare sulla montagna, proclama il Decalogo, le 
«dieci parole» o «dieci
comandamenti», poi trasmette a Mosè una serie di 
prescrizioni dettagliate riguardanti il diritto civile, quello penale e il culto 
(il diritto sacro). Mosè scende dalla montagna, proclama tutte queste leggi 
davanti al popolo riunito, le scrive in un libro che diventa la base di 
un'alleanza solenne conclusa tra il popolo e il suo Dio. Il popolo promette di 
essere fedele all’alleanza verso il suo Dio, o più in concreto promette di 
vivere secondo le norme della legge che sono state proclamate.
Una volta conclusa l’alleanza, Mose viene richiamato sulla montagna del Sinai 
per ricevere una lunga serie di istruzioni sulla costruzione di un santuario 
portatile e di tutti gli accessori necessari per il culto. Tutto andrebbe per il 
meglio se non vi fosse un inconveniente del tutto inatteso: il popolo si stanca 
di attendere Mosè e si fabbrica un nuovo dio o una nuova rappresentazione del 
suo Dio, un vitello d’oro. Segue allora la collera di Dio, assolutamente 
giustificata, la collera di Mosè, la punizione dei colpevoli. Occorrono allora 
due lunghi capitoli di trattative tra Dio 
e Mosè per rimediare ai danni fatti e, in termini più 
biblici, per ristabilire un'alleanza tra Dio e il suo popolo. Una volta rimesse 
a posto le cose, con alcune modifiche, Mosè può cominciare la costruzione del 
santuario e dei suoi accessori. Il tutto termina con Dio che prende solennemente 
possesso del santuario e viene ad abitare la 
«Tenda del convegno». Il Dio liberatore viene 
ad abitare in mezzo al suo popolo liberato ed è ormai da questo santuario che 
guiderà il suo popolo attraverso il deserto. Il libro dell'Esodo termina a 
questo punto, in modo un po’ brusco, poiché il popolo resterà ancora per mesi ai 
piedi del monte Sinai. Ora dobbiamo cercare di capire il motivo di questo 
finale.
Il
filo conduttore del libro dell’Esodo: chi è il Signore d’Israele?
Nel libro dell'Esodo troviamo almeno quattro grandi generi di testi. Vi è in 
primo luogo una serie di racconti sull'uscita dall’Egitto 
e sui primi mesi di soggiorno nel deserto. Poi 
troviamo una serie di leggi appartenenti al diritto sacro, al diritto civile e 
al diritto penale. In terzo luogo, il libro contiene dei lunghi capitoli sul 
culto, delle istruzioni sulla costruzione del santuario e la cronaca dettagliata 
dell'esecuzione di quelle istruzioni. Infine troviamo un cantico, il cantico di 
Mosè, ripreso da sua sorella Maria e dalle ragazze di Israele (Es 15). È 
possibile trovare un’idea centrale, un filo conduttore in questo miscuglio 
apparente di testi tanto diversi e così poco omogenei?
Potremmo partire da un elemento molto semplice, quello del viaggio. Infatti, la 
prima parte del libro parla di una situazione dolorosa che fa nascere il 
desiderio di uscire dall'Egitto e il racconto giunge a una prima conclusione nel 
momento in cui questo desiderio si realizza (Es 1—15). Il viaggio tuttavia non 
finisce sulle sponde del mare. Il popolo riprende il cammino e si ritrova molto 
presto ai piedi del monte Sinai, dove pianta a lungo le tende, poiché è ancora 
là alla fine del libro dell’Esodo e vi resterà fino al capitolo 10 del libro dei 
Numeri (Nm 10,11). E in realtà questo viaggio terminerà solo nel libro di 
Giosuè, quando il popolo entrerà nella Terra promessa per prenderne possesso. Il 
viaggio non può dunque essere il vero filo conduttore del libro dell’Esodo, 
poiché si interrompe al capitolo 40.
È senza dubbio utile, pertanto, chiedersi perché il capitolo 40 costituisce la 
conclusione del libro. Che vi accade di tanto particolare? in realtà, Dio, il 
Signore di Israele, viene a prendere possesso del santuario. La nube e la 
«gloria», simboli della sua presenza, riempiono la «Tenda del convegno». Ora, 
nel mondo antico un santuario è prima di tutto la residenza della divinità. In 
altri termini, il Signore viene a prendere possesso della sua dimora, del suo 
palazzo, che si trova in mezzo al campo di Israele. Questo accampamento, che 
sarà del resto disposto come quello di un esercito durante una campagna, ha per 
centro la tenda di quello che oggi definiremmo stato maggiore. Questa tenda, nel 
libro dell’Esodo,
è occupata da Dio in persona. È 
lui che dirigerà le operazioni.
A tutto questo occorre aggiungere un elemento essenziale. Nell’antichità, gli 
eserciti sono comandati dai re. Ciò significa che il vero sovrano, il signore di 
Israele, è il Dio che 
l’ha fatto uscire dall’Egitto. Israele ha dunque il 
suo Dio come re. Un ultimo elemento, molto 
importante: questo Dio non è solo un dio nazionale, ma è anche il creatore dell’universo
e il Signore di tutte le nazioni. L'ha 
provato, tra l’altro, durante il passaggio del mare (Es 14), poiché è stato in 
grado di comandare al vento, al mare, e di far apparire la terra asciutta in 
mezzo alle acque. È il creatore dell’universo che viene a installarsi nel suo 
palazzo in mezzo all’accampamento di Israele, 
e al centro di tutta la creazione. Di qui il paradosso su cui dovremo ritornare: 
il sovrano di tutto l’universo si accontenta 
di una tenda modesta, smontabile e trasportabile, per accompagnare il suo popolo 
mentre vaga nel deserto verso la sua destinazione finale, la Terra promessa.
Questo finale quindi ha un suo senso. Corrisponde del resto ad altri racconti 
noti, in Mesopotamia o in Fenicia. In questi racconti della creazione, il dio 
creatore, 
Marduk a Babilonia o Baal a Ugarit - un porto a nord della Fenicia - termina la 
sua opera creatrice facendosi costruire un tempio, un palazzo, al centro della 
sua creazione. Nella nostra Bibbia, il Dio creatore si accontenta di instaurare 
il sabato nel settimo giorno. Dio instaura un tempo sacro, ma non possiede 
ancora uno spazio sacro. Occorrerà aspettare la fine del libro dell’Esodo perché 
il Dio creatore della Bibbia acquisti un santuario. Infatti, è solo allora che 
si è acquisito un popolo e che questo popolo liberato può onorare il suo Dio in 
tutta libertà. Le allusioni al racconto della creazione in Es 39-40 confermano 
che esiste sicuramente un rapporto tra i due momenti. Mi soffermo solo sugli 
elementi essenziali: il quadro dei sette giorni della settimana (Es 24,16); i 
lavori sono 
terminati come la creazione è
terminata (Es 39,32; 40,33 e Gen 
2,1); Mosè 
vede tutta
l'opera compiuta come Dio
vede la sua
opera creatrice (Es 39,43 e Gen 1,31); Mosè
benedice l’opera compiuta come Dio
benedice le sue creature e il settimo giorno (Es 39,43 e Gen 
1,22.28; 2,1). Queste corrispondenze sono intenzionali e mostrano a sufficienza 
che l’opera creatrice trova il suo compimento necessario nella costruzione del 
santuario.
Tutto questo ci pone un’ultima questione: come mai 
Dio non ha potuto farsi costruire ancora prima un santuario per venire ad 
abitare in mezzo al suo popolo? Il problema è 
serio e c'è una sola risposta a questo 
interrogativo: perché Dio, il Dio di Israele, non era stato ancora riconosciuto 
come il solo sovrano del suo popolo. L’insediamento è potuto avvenire solo dopo 
aver risolto alcuni problemi gravi. Il primo di tutti, ovviamente, è la pretesa 
del faraone d’Egitto di regnare come sovrano di Israele: «Chi è 
il Signore, perché io debba ascoltare la sua 
voce e lasciare partire Israele? Non conosco il Signore e non lascerò certo 
partire Israele!» (Es 5,2). Occorrerà del tempo prima che il faraone finisca per 
riconoscere che il Dio d'Israele è il Signore e che lasci partire Israele.
Nel deserto, tutto sembra svolgersi senza intoppi, ma ben presto sorge una 
difficoltà inattesa: il popolo si mette ad adorare un vitello d’oro (Es 32). 
Ecco un rivale che viene a contestare la supremazia del Dio dell'esodo. 
Occorrerà tutta la pazienza 
e la perseveranza di Mosè per risolvere questa crisi. 
Quando la soluzione è trovata e il rapporto tra Dio e il popolo è stato 
ristabilito, la costruzione del santuario può avere inizio ed essere portata a 
compimento (Es 35-40). Dio infine può venire ad abitare nel suo «palazzo» e a 
regnare sul suo popolo senza altre contestazioni.
Di conseguenza, il libro dell’Esodo risponde a un interrogativo: chi servirà 
Israele? Al contrario, l'interrogativo può essere formulato anche così: chi è il 
sovrano di Israele? Ciò permette di dare un senso nuovo al titolo di Georges 
Auzou, 
Dalla servitù al servizio 
[1], 
poiché il libro dell’Esodo descrive in che modo Israele passa dalla servitù 
imposta dal faraone al servizio libero al Dio che l'ha liberato, liberandosi 
lungo in cammino da tutti i vitelli d'oro che cercano di distoglierlo dalla 
retta via.
Il libro 
dell’Esodo: un canto piano o una cantata a più voci?
La lettura del libro dell'Esodo è meno semplice 
di quella del libro della Genesi. Quest'ultimo appare più unitario, soprattutto 
riguardo al contenuto: si tratta di una narrazione che inizia con la creazione e 
termina con l'arrivo della famiglia di Giacobbe in Egitto. Il libro dell'Esodo 
copre un tempo («tempo narrato») molto più breve, dall’oppressione in Egitto 
fino all'arrivo al monte Sinai. Il lettore però si rende presto conto che il 
racconto fornisce un quadro a testi legislativi o cultuali che coprono quasi la 
metà dei suoi quaranta capitoli. Vi troviamo in realtà contemporaneamente la 
costituzione fondamentale di una nazione e il racconto ufficiale delle sue 
origini. Lo scopo principale è quello di fornire ai destinatari del libro una 
documentazione sugli elementi giuridici essenziali della nazione e una 
giustificazione di quel diritto a partire dal racconto delle sue origini. Si 
tratta quindi di convincere i membri del popolo d'Israele, di generazione in 
generazione, a rimanere fedeli a tale passato immemorabile. In primo luogo, 
Israele è invitato ad accettare come Legge quella che è stata proclamata al 
Sinai e a celebrare il culto che è stato inaugurato ai piedi di quella montagna. 
Nel mondo antico, ciò che conferisce il valore a un’istituzione è la sua 
antichità. Le leggi d'Israele saranno quindi delle leggi valide e autentiche se 
risalgono alle origini del popolo nel deserto del Sinai. Certo, si tratta di una 
tradizione più che di un fatto storico. Ma nella mentalità antica, e dunque 
anche in quella biblica, è la tradizione a contare e non i fatti rappresentati, 
i quali, in molti casi, sfuggono a ogni indagine storica. 
L'immagine che meglio corrisponde al contenuto 
del libro dell'Esodo è quella degli archivi, dove i documenti essenziali sono 
classificati secondo un certo ordine, ma non sono necessariamente ripresi, 
raccolti e armonizzati per dar luogo a un'opera omogenea, frutto del lavoro di 
una persona sola. Esiste senza dubbio un’unità di intenzione, ma non un’unità di 
stile. Tutti i documenti servono tuttavia a un medesimo obiettivo: spiegare le 
origini del popolo di Israele e permettere a quello stesso popolo di sapere come 
sopravvivere attraverso tutte le peripezie della sua esistenza. 
Un'altra immagine che mi viene in mente è quella 
di alcune nostre città antiche, come Roma, Firenze, Palermo, Parigi, Lione, 
Marsiglia e molte altre. Queste città sono state abitate per secoli, hanno 
subito le ingiurie del tempo, delle guerre, delle epidemie, delle inondazioni e 
altre catastrofi naturali. Il centro della città non è sempre stato lo stesso, e 
anche la pianta della città ha potuto modificarsi, come Haussmann ha rimodellato 
la capitale francese nel corso del XIX secolo o i piemontesi hanno ridisegnato 
il tessuto urbano di Roma dopo il 1870. Gli stili e gli edifici di epoche 
diverse si affiancano o si sovrappongono, le strade e i corsi hanno una 
geometria variabile, i piani di sviluppo urbano si sono succeduti per rispondere 
ad altri bisogni, come il passaggio dalla trazione a cavallo al motore a scoppio 
o la costruzione della metropolitana. È difficile, se non impossibile, 
ricondurre l’insieme di una città a una sola idea portante e ancora meno a un 
solo architetto. Ogni epoca aveva le proprie priorità e il proprio stile. A 
volte, come nel caso della Parigi di Haussmann, uno stile è facilmente 
riconoscibile nelle diverse parti della città, specialmente in quella centrale. 
Ma non è certamente il solo. Ciò non impedisce tuttavia a una città di essere 
una città, sia essa Parigi, Lione, Marsiglia, Roma, Madrid o Barcellona. Ci sono 
il centro e la periferia, i quartieri eleganti e quelli popolari, i settori 
residenziali e quelli commerciali, le zone verdi e quelle industriali. L’unità 
si accompagna alla diversità. 
Alcuni esempi di testi compositi
Una cosa molto simile la troviamo nel libro 
dell’Esodo, con una giustapposizione, e talora una sovrapposizione, di brani di 
epoche diverse e dunque con stili diversi. Basteranno due esempi a dimostrarlo. 
La prima delle piaghe d'Egitto viene spesso 
intitolata: «L’acqua mutata in sangue» (Es 7,14-24). In realtà, Dio ordina a 
Mosè e ad Aronne di andare presso il faraone, il quale rifiuta di lasciar 
partire il popolo di Israele e, per ritorsione, Dio aggiunge: 
Gli dirai: «Il Signore, il Dio degli Ebrei, mi 
ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel 
deserto; ma tu finora non hai obbedito. Dice il Signore: Da questo fatto saprai 
che io sono il Signore; ecco, con il bastone che ho in mano io batto un colpo 
sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue» (Es 7,16-17). 
È quindi molto chiaro che sono le acque del 
Nilo, il grande fiume, che saranno mutate in sangue. Ma la sorpresa arriva un 
po’ dopo, quando lo stesso Dio dà questo ordine a Mosè: 
Il Signore disse a Mosè: «Di' ad Aronne: “Prendi 
il tuo bastone e stendi la mano sulle acque degli Egiziani, sui loro fiumi, 
canali, stagni e su tutte le loro riserve di acqua; diventino sangue e ci sia 
sangue in tutta la terra d'Egitto, perfino nei recipienti di legno e di pietra!» 
(Es 7,19). 
Questa volta, la punizione non riguarda solo il 
Nilo, ma si estende a tutte le acque d’Egitto, compresa l'acqua che si trova nei 
recipienti di legno e di pietra, ossia all’interno delle case. Qui assistiamo a 
un'amplificazione del racconto, un procedimento molto caratteristico delle 
tradizioni antiche. Una cosa in ogni caso è chiara: qui siamo alla presenza di 
due «voci» diverse, due modi di raccontare la piaga dell’acqua mutata in sangue. 
Un altro esempio molto chiaro di una giustapposizione di documenti, come se 
fossero in un raccoglitore, si trova al capitolo 24 dell'Esodo. Ecco il testo: 
[Dio] disse a Mosè: «Sali verso il Signore tu e 
Aronne. Nadab e Abiu e settanta anziani d'Israele; voi vi prostrerete da 
lontano, solo Mosè si avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il 
popolo non salga con lui. Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del 
Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: 
«Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse 
tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai 
piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni 
giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come 
sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise 
in tanti catini e ne versò l'altra metà sull’altare. Quindi prese il libro 
dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il 
Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne 
asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha 
concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». 
Mosè salì con Aronne, Nadab. Abiu e i settanta 
anziani d’Israele. Essi videro il Dio d'Israele: sotto i suoi piedi vi era come 
un pavimento in lastre di zaffiro, limpido come il cielo. Contro i privilegiati 
degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero 
(24,1 -11).
Anche un lettore poco attento si accorgerà che 
qui siamo alla presenza di due racconti, e che il secondo è incastrato tra 
l’introduzione e la conclusione del primo. Nei versetti 1-2, Dio dà un ordine a 
Mosè, a suo fratello Aronne, ai due figli di quest'ultimo e a settanta anziani: 
devono salire da soli sulla montagna dove Dio li convoca. Ritroviamo insieme 
questi personaggi al versetto 9, nello stesso ordine, mentre eseguono l’ordine 
divino e salgono sulla montagna. Segue allora una scena che si svolge sulla 
sommità della montagna, dove il gruppo può contemplare Dio e partecipare a un 
pasto alla sua presenza (Es 24,9-11). Nella parte centrale invece, nei versetti 
3-8, Mosè è solo. Aronne e i suoi figli sono assenti, tanto che Mosè deve 
chiedere ad alcuni giovani di offrire dei sacrifici, che invece è un compito 
proprio dei sacerdoti. Qui non si parla di salire sulla montagna, ma ci troviamo 
piuttosto ai suoi piedi, e tutto il popolo, invece di alcuni pochi privilegiati, 
partecipa alla proclamazione della legge e al rituale del sangue, rituale con 
cui si conclude un’alleanza tra Dio e il suo popolo. Eccoci allora davanti a due 
differenti azioni, con due diverse serie di personaggi in due luoghi diversi. 
Risulta abbastanza difficile conciliare o armonizzare questi due racconti. È 
certo allora che diverse mani hanno contribuito alla composizione del libro 
dell’Esodo. 
Lo stile dello scrittore 
sacerdotale
Lo stile più riconoscibile è senza dubbio quello 
chiamato comunemente «stile sacerdotale». È costituito da frasi molto corte, da 
proposizioni coordinate, piuttosto che da periodi lunghi con proposizioni 
subordinate, preferendo uno stile quasi liturgico, fatto di ripetizioni che 
somigliano a certi ritornelli delle nostre canzoni. Anche la scelta delle parole 
e delle formule è molto accurata. Molto spesso si tratta di un linguaggio 
giuridico con un senso preciso. Ecco uno degli esempi migliori, preso dal 
capitolo 6 dell'Esodo (Es 6,2-8). 
Dio parlò a Mosè e gli disse: «lo sono il 
Signore! Mi sono manifestato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio 
l'Onnipotente, ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore. Ho anche 
stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro la terra di Canaan, la terra 
delle loro migrazioni, nella quale furono forestieri, lo stesso ho udito il 
lamento degli israeliti, che gli egiziani resero loro schiavi, e mi sono 
ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! 
Vi sottrarrò ai lavori forzali degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù 
e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio 
popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio. 
che vi sottrae ai lavori forzali degli Egiziani. Vi farò entrare nella terra che 
ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe; ve la darò in 
possesso: io sono il Signore!”». 
Notiamo innanzitutto la triplice ripetizione 
dell'affermazione centrale di questo discorso divino: «Io sono il Signore», che 
introduce il discorso al v. 2, lo conclude al v. 8 e al v. 6 divide il discorso 
in due parti. Viene impiegato una quarta volta al v. 7, in una proposizione 
subordinata che aggiunge un elemento importante: quanto viene affermato da Dio 
sarà conosciuto e riconosciuto dal popolo d'Israele quando il Signore ne farà il 
suo popolo. In effetti si tratta della chiave di volta della fede di Israele. 
Notiamo inoltre altre tre ripetizioni di una 
certa importanza. I nomi dei tre patriarchi si ritrovano al v. 3 e al v. 8, ogni 
volta collegati alla promessa solenne di dare loro il paese. Qui ci troviamo 
davanti a una cosiddetta «inclusione», una maniera per introdurre e concludere 
un testo con una medesima formula o con una stessa serie di parole. Notiamo 
tuttavia che la solenne promessa di dare il paese ai patriarchi è formulata 
diversamente al v. 3, dove si parla di un'«alleanza», mentre il v. 8 parla di un 
giuramento «a mano alzata». Lo scritto sacerdotale ha il gusto per piccole 
variazioni di stile. Notiamo anche che la parola «alleanza» è ripetuta ai vv. 4 
e 5. 
La seconda ripetizione è quella che si trova ai 
vv. 6 e 7: il Dio di Israele, suo Signore, è colui che libererà o «sottrarrà» il 
suo popolo ai lavori forzati d'Egitto (v. 6) e sarà questo evento a essere 
legato per sempre al suo nome. Israele potrà dire che il primo attributo del suo 
Dio è il fatto di averlo liberato dalla schiavitù. 
La terza ripetizione è collegata alla seconda. 
Il Dio che non si era «fatto conoscere» sotto il nome di «Signore» al v. 3, si 
fa conoscere dal suo popolo sotto quello stesso nome quando fa di Israele, 
liberato dai «lavori forzati d'Egitto», il proprio popolo (v. 7). Il luogo della 
rivelazione del nome divino, il Signore, è quindi proprio l’esperienza 
dell’esodo, il passaggio «dalla servitù al servizio». 
Vi è un ultimo elemento che può aiutare ad 
apprezzare meglio lo stile «sacerdotale». La prima parte del discorso divino, i 
vv. 2-5, parla del passato, mentre la seconda parte, dotata di una nuova 
introduzione («Pertanto di’ agli Israeliti»: v. 6), è tutta al futuro. Ciò 
significa che questo discorso è stato costruito con molta cura. 
Due parole infine sul vocabolario giuridico, che 
definisce poco a poco lo statuto del popolo di Israele in rapporto al suo Dio. 
Gli antenati di Israele sono innanzitutto degli «emigrati», ossia non sono dei 
cittadini a pieno titolo nella terra di Canaan (v. 4). In Egitto, Israele 
diventa un popolo di schiavi, un rango ancora più basso di quello di emigrati 
(v. 5). Il popolo acquista la libertà grazie all’intervento diretto di Dio (v. 
6). Una volta libero, Dio stabilisce una relazione assolutamente particolare tra 
sé e il suo popolo. Il testo utilizza, in effetti, una formula che descrive il 
matrimonio: «Prendersi qualcuno in marito/moglie e diventare sua moglie/suo 
marito» (v. 7). Questa formula ricorre in più occasioni nell’Antico Testamento. 
Basterà un esempio. Si trova alla fine del capitolo 24 della Genesi, e descrive 
il matrimonio tra Isacco e Rebecca: «[Isacco] si prese in moglie Rebecca». La 
stessa formula viene impiegata per quella che corrisponde a un'adozione: 
«Mardocheo prese [Ester] per sé come se fosse stata [sua] figlia» (Est 2,7: 
traduzione letterale). Con questo linguaggio, il testo vuole allora significare 
che Dio fa del popolo di Israele un partner privilegiato, come una sposa. Si 
tratta, come è noto, di un’immagine spesso utilizzata per illustrare l'alleanza 
tra Dio e il suo popolo. Infine, ultimo atto, Dio «fa entrare» il suo popolo 
nella terra che ha giurato di dare ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Anche questo 
costituisce un linguaggio noto, poiché sancisce l’ingresso della sposa nella 
dimora nuziale, come Isacco fa entrare Rebecca nella sua tenda: «Isacco 
introdusse Rebecca nella tenda» (Gen 24,67). Il testo ci accompagna 
progressivamente attraverso tutte le tappe che fanno di Israele il partner 
privilegiato del suo Signore, analogamente a una sposa. 
In generale, gli specialisti ritengono che 
questo «scrittore sacerdotale» abbia operato successivamente all’esilio, 
all’epoca dei primi ritorni da Babilonia, e che abbia riletto tutta la storia di 
Israele dalla creazione fino alle rive del Giordano per ridare speranza al suo 
popolo e convincerlo che Dio gli riserva un futuro nella sua terra. Questo 
scrittore è molto interessato anche alle istituzioni cultuali e proprio per 
questo viene chiamato «scrittore sacerdotale». Tuttavia, abbiamo delle buone 
ragioni per pensare che si tratti di una scuola piuttosto che di un individuo. È 
a questo scrittore sacerdotale che viene attribuito, per esempio, il primo 
capitolo della Genesi, che termina con il «riposo di Dio», il primo
shabbat dell'universo. 
Lo stile dei racconti 
popolari
I primi capitoli dell’Esodo contengono alcune 
pagine che portano il marchio delle tradizioni popolari. Come esempi di questo 
stile tipico prenderò il racconto della nascita di Mosè (Es 2,1-10): 
Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere 
in moglie una discendente di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide 
che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non polendo tenerlo nascosto 
più olire, prese per lui un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, 
vi adagiò il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella 
del bambino si pose a osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto.
Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare 
il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella 
vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide 
il bambino: ecco, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «È un 
bambino degli Ebrei».
La sorella del bambino disse allora alla figlia 
del faraone: «Devo andare a chiamarli una nutrice tra le donne ebree, perché 
allatti per te il bambino?». «Va’», rispose la figlia del faraone. La fanciulla 
andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: «Porla con 
le questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna prese il 
bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia 
del faraone. Egli fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosè, dicendo: «lo l’ho 
tratto dalle acque!».
Notiamo alcune caratteristiche principali di 
questo stile narrativo. Innanzitutto è costituito da una rapida sequenza di 
scene molto brevi. Ciascuna di queste comporta sempre e soltanto due personaggi 
attivi: il matrimonio tra il padre e la madre di Mosè, che restano entrambi 
senza nome (v. 1); la madre e il neonato (vv. 2-3); la sorella del bambino viene 
poi introdotta per preparare la scena seguente (v. 4); la figlia del faraone e 
il neonato (vv. 5-6); la figlia del faraone e la sorella del neonato (vv. 7-8); 
la figlia del faraone e la madre del neonato (vv. 8-9); la madre del bambino e 
la figlia del faraone, che alla fine resta in scena da sola insieme al bambino 
(v. 10). 
L’azione è rapida e spesso viene riassunta con 
alcune parole, per esempio la preparazione del cestello per adagiarvi il bambino 
e deporlo tra i giunchi, lungo la riva del fiume (v. 3). Troviamo anche alcuni 
dialoghi al momento decisivo, per esempio quello tra la sorella del neonato e la 
figlia del faraone, quando la prima propone alla seconda di andare a cercare la 
madre del bambino per allattarlo (v. 7), oppure la richiesta della figlia del 
faraone alla madre per chiederle di prendersi cura del bambino (v.9). 
I personaggi appaiono sulla scena quando sono 
attivi e scompaiono dopo aver svolto il loro ruolo. Il padre, per esempio, non 
viene mai più menzionato, e non sapremo nulla delle sue reazioni nel corso dello 
sviluppo del racconto. In particolare, non partecipa alle decisioni della madre. 
La sorella appare all’improvviso per occuparsi del bambino lasciato tra i 
giunchi, sulla riva del fiume. Sembrava che il bambino fosse il primogenito, ma 
non lo era, e non ne eravamo stati informati. La sorella del neonato appare in 
scena molto semplicemente perché è utile allo svolgimento dell'azione e sparirà 
altrettanto rapidamente una volta compiuto il suo dovere, nei vv. 7-8. Non se ne 
riparlerà più nel racconto e non si dirà nulla, per esempio, dei rapporti tra i 
due figli. 
Tutto è incentrato sulle azioni e non ci viene 
rivelato nulla a proposito dei sentimenti o delle intenzioni dei personaggi. 
Osserviamo tutto dall'esterno, come se ci trovassimo al teatro, in prima fila. 
Perché la madre decide di esporre il figlio sul bordo del Nilo, in un cestello 
di papiro reso impermeabile? Sapeva, per esempio, che la figlia del faraone vi 
si recava regolarmente a fare il bagno? Ha previsto o almeno sperato che la 
figlia del faraone scoprisse il cestello? Oppure ha solamente contato sulla 
fortuna? Quali sono stati i sentimenti della madre quando ha lasciato il bambino 
nel suo cestello tra le canne ed è tornata da sola a casa? Quali sono stati i 
suoi sentimenti, la sua angoscia, nelle ore seguenti? Che pensava la sorella del 
neonato per tutto quel tempo?
E quale è stata la reazione della madre nel 
veder tornare la figlia con la buona notizia? Che cosa ha potuto provare nello 
stringere nuovamente tra le braccia il suo bambino e nel poterlo nutrire? Che 
cosa è avvenuto nei due o tre anni prima dello svezzamento del bambino? Che cosa 
ha potuto dire la madre al bambino al momento di separarsene e di portarlo al 
palazzo della figlia del faraone? Si può immaginare il momento in cui la madre 
ha detto «addio» a suo figlio, che non avrebbe rivisto mai più? Ci si può 
immaginare cosa provasse, da sola, sulla via del ritorno? E cosa sapremo della 
reazione del bambino che passa dalle braccia di sua madre a quelle di una 
sconosciuta, la figlia del faraone? E come ha vissuto, quale fu la sua 
educazione, qual era il suo carattere? O persino, che lingua parlava? Tutti 
questi dettagli ci rimangono nascosti e il racconto non cerca in alcun modo di 
soddisfare la nostra curiosità. Solo l'azione conta, e l'azione ci descrive come 
questo bambino sfugga alla morte in modo particolare, ma senza alcun intervento 
divino. Egli è salvato, «tratto dalle acque», come dice l'etimologia popolare 
del suo nome (Es 2,10). Questo è un ultimo dettaglio sorprendente perché ci si 
può chiedere se il bambino fosse rimasto senza nome durante il tempo trascorso 
con sua madre. Questo dettaglio non è importante in questo racconto. Essenziale 
è il nome che riceve dalla figlia del faraone, e la sua spiegazione legata 
all'episodio del suo salvataggio.
Il racconto però fa un'eccezione quando ci svela 
i sentimenti della figlia del faraone quando scopre il bambino nel cesto di 
papiro: " 
L’aprì e vide il 
bambino: ecco, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «È un bambino 
degli Ebrei»”, disse» (v. 6). “Ne ebbe compassione”, questo elemento è decisivo 
poiché la pietà della figlia del faraone è l'elemento che deciderà il suo 
destino. Come sappiamo, lo stesso faraone aveva ordinato di gettare nel Nilo 
tutti i figli maschi degli Ebrei (Es 1,22), il versetto che precede 
immediatamente il nostro racconto. La prima a disobbedire agli ordini del 
faraone è proprio sua figlia. È possibile vedere in ciò una tipica reazione 
dell'istinto materno, ma è anche possibile comprendere che, per la figlia del 
faraone, la voce della sua coscienza, la voce della sua natura profonda, è più 
forte della voce del padre e dei suoi ordini crudeli. Ella vede chiaramente che 
è un bambino ebreo, ma non esita, non può in alcun modo rassegnarsi a farlo 
morire. È come se la voce di un diritto fondamentale alla vita trionfasse sulle 
leggi mortifere emanate da suo padre, rappresentante di un potere oppressore e 
totalitario, e di conseguenza iniquo.
La storia, infine, è ironica, come spesso accade 
quando i deboli parlano di un potere tirannico. La madre del bambino lo ritrova 
e lo nutrirà a spese della corte, a spese del faraone che aveva decretato la 
morte dei neonati ebrei.
In conclusione, lo stile di questa storia, come 
quello di molte storie bibliche, è conciso, incentrato sull'azione più che sulla 
psicologia dei personaggi, è lineare ed elimina tutti i dettagli che potrebbero 
distrarre dall'azione principale. Nasce da qui questo stile ellittico che, da 
generazioni, lascia tanto spazio all'immaginazione di lettori e lettrici.
Lo stile del libro dell'Esodo è certamente 
polifonico. È quindi importante abituarsi a questo canto a più voci, composto 
secondo toni e principi diversi dai nostri. Tuttavia, tutte queste voci si 
uniscono per cantare lo stesso cantico di un popolo la cui prima esperienza è 
stata la liberazione dalla schiavitù e la cui prima conquista è stata la 
libertà.
 
	27 febbraio 2023                a cura di Alberto "da Cormano"   
  Bibbia@ora-et-labora.net