ADALBERT DE VOGÜÉ OSB

LE DATE DI SAN BENEDETTO E DELLA SUA REGOLA

A PARTIRE DA ALCUNI RECENTI LAVORI

 

(Libera traduzione dal testo francese “LES DATES DE SAINT BENOÎT ET DE SA RÈGLE D'APRÈS QUELQUES TRAVAUX RÉCENTS“)

Estratto da « Études sur la Règle de saint Benoît, Nouveau recueil » Edition abbaye de Bellefontaine Vie monastique n°34 - décembre 1996

[Chi vuole può leggere solo il riassunto a questo link]

Tra i frutti di ogni genere che sono maturati nel centenario di san Benedetto, non si trova nessuno studio avente per oggetto proprio ed esclusivo la cronologia dell’uomo o della sua opera. Tuttavia, alcune pubblicazioni hanno toccato questo tema, in modo più o meno diretto. Così ci è sembrato profittevole raccogliere qui i loro risultati e confrontarli, al fine di discernere i veri progressi compiuti in questo campo. Determinare la data di un testo è sempre, per la storia letteraria, un compito fondamentale, che mette sovente in gioco un insieme complesso di conoscenze acquisite e condiziona a sua volta ogni ulteriore interpretazione dell’opera. Così non sarà tempo perso l’esame di questo problema modesto, ma importante.

A nostra conoscenza, tre autori si sono occupati, ognuno a modo suo, di cronologia benedettina. Il primo, che ha ambizioni molto vaste, purtroppo non porta niente di utile. Gli altri due, che si occupano solo di punti di dettaglio, forniscono al contrario delle precisazioni interessanti.

I.  Una prova mancata

Nell’introduzione della sua “Édition du Centenaire” (“Edizione del Centenario” Ndt) (1), il Padre Eugène Manning ha riservato tre pagine al problema della datazione. La sua conclusione è che “la vita di san Benedetto si è svolta non tra il 480 e il 547, ma piuttosto tra il 520 e il 575, senza che sia possibile fissarla con precisione”. Ecco dunque le “date tradizionali” ritardate, l’una di quarant’anni e l’altra di una trentina d’anni. Questa proposizione appoggia su diversi argomenti, che noi cercheremo di presentare con esattezza, per quanto siamo riusciti a comprenderli.

Innanzitutto, i quarantasei anni che separano la data presunta della morte di san Benedetto (547) e la redazione dei Dialoghi gregoriani (593) sono un lasso di tempo molto lungo, dato che “nel 593 Simplicio è segnalato come il terzo abate di Montecassino, Onorato a Subiaco e Valentiniano è morto in Laterano dopo un lungo abbaziato”. Inoltre, gli amici e le conoscenze di Benedetto hanno vissuto fino a date ben più tardive: Sabino di Canossa (2) è morto nel 566 e Costanzo di Aquina verso il 570; Esilarato è ancora in vita, dopo una “conversione” conosciuta da Pietro e da Gregorio; un nipote (sic) del cattivo prete di Subiaco, di nome Fiorenzo anche lui, è suddiacono della Chiesa romana, a meno che non sia diventato vescovo.

Questi fatti indicano già che Benedetto viveva durante il  terzo quarto del secolo. Si comprende allora che abbia avuto un presentimento sulla distruzione di Montecassino: i Longobardi si avvicinavano. Quando questo disastro arriverà, verso il 580, i monaci cassinesi troveranno rifugio nel monastero del Laterano governato da lungo tempo, ci dice Gregorio, da un discepolo di Benedetto, e senza dubbio fondato dal santo stesso. Questo spiega lo stile “basilicale”, molto elaborato, della liturgia organizzata dalla Regola, nonché l'esplicito riferimento di questa alla consuetudine della “Chiesa romana” (RB 13,10), che è difficile capire al di fuori di Roma. E’ in questo monastero romano del Laterano che deve essere stato compilato il codex  liturgicus benedettino. D’altra parte, il titolo di Abbas Romensis dato a Benedetto negli esemplari più antichi della Regola suggerisce che visse a Roma e che là ha completato la propria legislazione.

Per finire, Manning esamina gli ultimi episodi della Vita di Benedetto: incontro finale con Scolastica, morte a Montecassino, un miracolo postumo a Subiaco. Questi racconti sono discussi e portano a varie ipotesi, ma senza che ne risulti alcuna conclusione, né alcun chiaro suggerimento circa la cronologia. Noi quindi li lasciamo da parte nell’esame dei fatti invocati dal Manning per stabilire le sue date tardive.

Prima di rivedere questi fatti, va notato che Manning non è il primo a voler spingere la morte di Benedetto oltre il 547. Come egli stesso osserva, “molti studiosi sono già inclini a spostarla, come minimo, al 550". La novità è di arrivare fino al 575, data che Manning propone con un po’ di esitazione. Più originale appare ancora la data di nascita (520), indicata solo alla conclusione e senza argomenti.

Vediamo ora quali sono i vari indici di supporto a queste datazioni. In primo luogo, riguardo i discepoli del santo che servirono da informatori a Gregorio,  Manning commette vari errori (3). Rimanendo alla cronologia, il “lungo” abbaziato di Valentiniano al Laterano, già terminato quando Gregorio scrive, non invita a ritardare la morte di Benedetto, anzi. Quanto a Montecassino, il fatto che due abati siano succeduti al fondatore prima della distruzione, lungi dal confermare che Benedetto morì intorno al 575, rende questa data del tutto inverosimile. Se, infatti, il monastero fu distrutto nel 577, come indicano i migliori studi recenti, non restano che due anni, dopo la morte di Benedetto, per questi due abati successivi! Anche se, con Manning, si presume che la distruzione ha avuto luogo nel 580 o 581, i cinque o sei anni così ottenuti sono troppo pochi per due superiorati dei quali nessuno è segnalato da Gregorio come particolarmente breve.

Se Manning non è preoccupato di questa improbabilità, potrebbe essere perché egli guarda, a torto, il secondo abate, Simplicio, come il superiore di  una “congregazione” che raggruppa i vari monasteri fondati da Benedetto. Questa sarebbe sopravvissuta dopo la distruzione di Montecassino, e quindi un surplus di dieci anni diventerebbe disponibile per il superiorato di Simplicio, che si era comunque concluso quando Gregorio scriveva. Ma questa congregatio governata da Simplicio, secondo Gregorio, è semplicemente la “comunità” di Montecassino, non una “congregazione” di monasteri benedettini. Dunque la serie di superiori cassinesi resta un ostacolo decisivo  alla cronologia proposta. Se ci furono due successori prima del 580, per non parlare del 577, Benedetto doveva essere morto ben prima del 575.

Resta il caso di Onorato, il solo che possa, a prima vista, portare un po’ d’acqua al mulino di Manning. Ancora in vita quando Gregorio scrive, questo abate di Subiaco è stato il discepolo di Benedetto. Se quest’ultimo fosse morto, come si ammette comunemente al giorno d’oggi, una quarantina d’anni prima dei Dialoghi, Onorato dovrebbe essere arrivato, nel 593, ad un’età ben avanzata… E’ quello che suggerisce precisamente Gregorio quando dice di lui: nunc adhuc cellae eius, in qua prius conuersatus fuerat, praeest, (Dial. II, Prol. 2) (che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo di vita religiosa. Ndt). Questo nunc adhuc significa che la sopravvivenza di Onorato, in contrasto con la sparizione dei tre colleghi, costituisce in quella data un fatto degno di nota. Meno di vent’anni dopo la morte di Benedetto, se si ammette la cronologia di Manning, la notazione non sarebbe giustificata. Suppone piuttosto che il santo abbia lasciato questo mondo da lungo tempo, in modo che è diventato un fatto eccezionale trovare ancora in vita uno dei suoi discepoli. I quarant’anni che si considerano abitualmente sono la differenza conveniente perché il linguaggio di Gregorio abbia senso.

Passiamo ora agli amici di Benedetto. Indicando le loro date Manning non cita i suoi autori, ma non è difficile vedere che prende in prestito le sue conoscenze a J. Chapman. Secondo Chapman, dunque, Sabino di Canosa sarebbe morto nel 566. Ma questa data lo storico inglese non la propone che con riserva, senza altro riferimento, sembra, di una Vita leggendaria. In realtà, non è  verosimile, essendo contraria a ciò che si sa di più sicuro riguardo a Sabino. Prelato già molto in vista nel 536 -  è in quel periodo incaricato di condurre una legazione a Costantinopoli -, questo vescovo era così vecchio sotto il regno di Totila che aveva completamente perso la vista. È Gregorio stesso che ce l'insegna, in un racconto ulteriore dei Dialoghi che ci si stupisce di non vedere citato né da parte di Chapman né da parte di Manning. L’incontro di Sabino con il re gotico può essere avvenuto nel 542 o 547. Supporre la sua morte nel 566, è come dare ancora venti anni di vita ad un uomo arrivato ad un’estrema vecchiaia. È piuttosto verso il 550 che deve essere avvenuto il suo decesso.

Del resto, questa data della morte di Sabino importa poco, poiché quella del suo incontro con Benedetto ci è nota con certezza. La conversazione dell'abate e del vescovo sulla sorte di Roma si situa tra gli ultimi giorni del 546, o meglio nel marzo 547. È dunque prima della metà del secolo che i due uomini si sono conosciuti ed apprezzati. Se nulla costringe a pensare che Benedetto fosse così vecchio come il suo amico, tuttavia le sue relazioni con quest'ultimo ci riportano all'epoca della guerra gotica, una trentina d’anni prima di quando si suppone che fosse morto.

La data del 570, assegnata da Manning al decesso di Costanzio, è ancora un prestito preso da Chapman. Gregorio dice soltanto che il vescovo di Aquino è morto “recentemente” (nuper), sotto il pontificato di un papa Giovanni che può essere soltanto Giovanni III (561 – 574). Fondandosi su questo nuper, Chapman ritiene per probabile che Costanzio sia morto alla fine del pontificato piuttosto che all'inizio. Ma il termine sembra qualificare l’epoca di Giovanni III presa come una totalità, in modo che non sia affatto possibile trarne la precisione dedotta dall'autore inglese.

D’altronde Costanzio  avrà anche lui due successori prima della devastazione della sua città da parte dei Longobardi, che deve essere avvenuta quasi contemporaneamente a quella di Montecassino.

Il suddiacono Fiorenzio non era il nipote (di zio) del prete di Subiaco, come dice il Manning, bensì era suo “nipote di nonno”. La sua presenza a Roma nel 593 non ci obbliga ad abbassare la data della partenza di Benedetto per Montecassino. Se Fiorenzio fosse nato verso il 550, suo padre potrebbe essere nato nel primo quarto di secolo, prima che suo nonno diventasse prete ed entrasse in conflitto con Benedetto. Lungi dall’invitarci a ringiovanire costui, il caso dei due Fiorenzio permetterebbe, a giudizio del Chapman, di situare la fondazione di Montecassino ben prima del 530.

Concludiamo questa rassegna delle relazioni di Benedetto con il puer Esilartato. Questo conuersus dei Dialoghi è il familiare che Gregorio vuole inviare a Costantinopoli nel 594, il secundicerius che tornerà dall’Oriente nel 597, il vescovo di Sicilia censurato nel 603? Se è accettata questa identificazione, sembra che Esilarato non abbia potuto conoscere per niente Benedetto prima del decennio 550-560, quando era poco più che ventenne. In tutti i casi esaminati finora, è l'unico che assegna alla morte di Benedetto un terminus post quem abbastanza basso, senza tuttavia la necessità di scendere fino al settimo o ottavo decennio del secolo, come crede il Manning.

Gli ultimi suoi argomenti ruotano intorno alla distruzione di Monte Cassino, che può essere datata nel 577. La predizione che ne fece Benedetto suppone, come suggerito da Manning, l'avvicinamento dei Longobardi, che avanzarono in Italia centrale a partire dal 571? Secondo il racconto gregoriano, la profezia del santo non menziona i Longobardi, ma più vagamente "dei barbari" (gentibus). Secondo Gregorio, dunque, Benedetto non sembra aver sentito parlare di persone che distruggeranno il suo monastero. Quanto all’aver paura di tale distruzione, non aveva bisogno per questo motivo di vivere sotto la minaccia longobarda. Diciotto anni di guerra gotica, seguiti da un invasione dei Franchi, bastavano per rendere questo pericolo molto presente agli spiriti degli italiani della metà del secolo. Inoltre, un resoconto dettagliato dei Dialoghi non invita per niente ad inserire la profezia di Benedetto al tempo dei Longobardi. Chi la raccoglie dalle labbra del santo è Teoforo, di cui Gregorio ci dirà più tardi che egli fu anche il confidente della grande visione cosmica di Benedetto. Ma questa visione è legata ad un fatto ben datato: la morte del vescovo Germano di Capua, avvenuta pochi giorni o settimane prima del 23 febbraio 541. Certamente, non sappiamo nulla circa il tempo che durarono i rapporti di Benedetto con  Teoforo. Ma in ogni caso avevano iniziato nel decennio 530-540, vale a dire nel tempo in cui la cronologia tradizionale pone gli inizi di Benedetto a Montecassino.

Questo inizio del 541, in cui il vescovo Victor succede a Germain nella sede di Capua, è un traguardo importante: una delle due sole date indicate dai Dialoghi, e la più antica, essendo l'altra la conversazione con Sabino riguardo a Roma nel 546-547. Perché Manning non la menziona? Indubbiamente la situazione letteraria di questo racconto di visione è ingannevole: collocato dal  narratore in prossimità della morte di Benedetto, erroneamente suggerisce che il visionario si avvicina alla fine, mentre la storia precedente della profezia su Roma indica che vivrà ancora per almeno altri sei anni. Ma se Gregorio pone questa grande visione alla fine dell’opera, per ragioni teoriche piuttosto che cronologiche, è comunque significativo che Benedetto raggiunge, secondo lui, il vertice dell'esperienza mistica in una data così alta, ben prima della metà del secolo. Fin dal 541, Benedetto è ai suoi occhi ai vertici della spiritualità, giunto a contemplazioni insuperabili, dopo le quali non ha più che da attendere l'aldilà.

Questa presentazione suggerisce irresistibilmente che il santo, in quell'anno, non fosse lontano dalla fine della sua vita. Questa era probabilmente la convinzione di Gregorio stesso. Indirettamente, ma quasi sicuramente, l'episodio dimostra che Benedetto doveva aver raggiunto nel quinto decennio del secolo l’età matura, o piuttosto avanzata, che normalmente è quella delle realizzazioni supreme.

Collegandosi alla distruzione di Montecassino, Manning discute ancora dall’ordo officii della Regola, che rifletterebbe una liturgia elaborata nel monastero del Laterano, rifugio dei monaci cassinesi. Noi abbiamo detto altrove ciò che pensiamo di questa ipotesi. Ma la nostra confutazione, che è inutile ripetere qui, riguardava solo una prima fase delle vedute del Menning, esposte prima in un articolo delle “Melanges Bascour”, che riprende nell’”Edizione del Centenario” sotto forma di “Riflessioni sull’autenticità dei capitoli 8-18 della Regula Benedicti”. Egli attribuiva la romanità dell’ufficio benedettino al soggiorno forzato dei monaci cassinesi a Roma tra il 580 e il 620. Sotto questa ipotesi, l’origine presumibilmente romana dell’ufficio benedettino non ha alcun peso per la cronologia di Benedetto, perché se ne fissa l’elaborazione dopo la morte del santo.

Ma questo stesso carattere romano della liturgia benedettina riceve da Manning una spiegazione diversa nelle sue pagine di Introduzione a "La Vita di San Benedetto", che noi ora esamineremo. Non si capisce, ci viene detto, “a meno che il testo di questa sezione liturgica…. sia stato scritto a Roma  da Benedetto stesso". Questa nuova spiegazione è compatibile con quella precedente? In ogni caso, essa riguarda la storia di Benedetto, che avrebbe soggiornato a Roma verso la fine della sua vita, fondando il monastero del Laterano e scrivendo - almeno in parte - i capitoli della Regola  sull'Ufficio.

Tuttavia, noi confessiamo di non vedere l'impatto di questa nuova ipotesi sulla cronologia del santo. In che modo aiuta a rendere credibile la data tardiva assegnata alla sua morte? Manning non lo precisa, e noi lasciamo a qualcuno più sagace di noi il merito di scoprirlo.

Che Benedetto stesso abbia fondato il monastero del Laterano e che i suoi monaci vi si fossero rifugiati dopo la devastazione di Montecassino, è mera speculazione che non garantisce né Gregorio né Paolo Diacono. L'unico fatto certo è che questo  monastero ebbe " per molto tempo" come superiore un certo Valentiniano, che era stato monaco a Cassino  con Benedetto. Tutto quello che possiamo concludere è che gli anni cassinesi di Valentiniano, già morto nel 593 dopo un lungo abbaziato, hanno la possibilità di porsi prima del 560. Ancora una volta, è verso la metà del secolo che ci porta questa indicazione riguardo a Benedetto.

Quanto al titolo di Romensis, che danno al santo la lettera di Venerando e il manoscritto di Verona, è un indizio di origine romana per la recensione “interpolata” della Regola benedettina, alla quale si ricollegano  questi due testimoni piuttosto che per la Regola stessa e per il suo autore. Ancor meno il riferimento alla ecclesia Romana (RB 13,10), ci suggerisce che Benedetto visse a Roma come abate. E, in ogni caso, ripeto, questo presunto soggiorno del santo nella Città Eterna non ha effetti sulla sua cronologia: che cosa impedisce che si sia verificato prima del 560?

Tutte queste speculazioni sulla data della morte del santo non portano ad alcun serio risultato. Quando Manning propone di ritardarla di 10 anni, egli sfonda una porta aperta, come abbiamo già detto: nessuno sostiene al giorno d’oggi che Benedetto sia morto nel 547. Quanto a portarla in avanti di venti anni, cioè fino al 575, come in definitiva vorrebbe, egli non porta nessun argomento valido e cade pure nell’inverosimiglianza più evidente. Se Montecassino è andato in rovina nel 577, si può essere sicuri che il suo fondatore è morto ben prima del 575, lasciando più di due anni ai due abati che gli sono successi stando a Gregorio, per non dire dei quattro di cui parla Paolo Diacono.

Per finire, diciamo una parola sull’altra data estrema proposta dal Manning, quella della nascita di Benedetto. Questa è ancora meno verosimile dell’anno della sua morte. Nato nel 520, Benedetto non avrebbe che ventuno anni nel 541, quando vede salire al cielo Germano di Capua, ventisei o ventisette anni nel 546-547, quando riceve la visita di Totila. Appena uscito dall’adolescenza egli avrebbe dunque raggiunto l’apice dell’unione mistica ed acquisito una reputazione di profeta. Passi pure questa non comune precocità. Ma come è possibile che, prima dei venti anni, abbia passato tre anni nella grotta di Subiaco, fatta una prima prova di abbaziato dopo una lunga riluttanza, ripreso la vita solitaria, fondato una pleiade di monasteri, lasciato Subiaco in seguito ad un conflitto col curato del posto, distrutto i santuari pagani di Montecassino dove edificò un nuovo monastero ed evangelizzato la popolazione circostante?

Tutto ciò suppone venti o trenta anni in più di quanto non ne accordi la cronologia di Manning. Costui ha riflettuto almeno un po’ sull’incompatibilità delle sue speculazioni con gli elementi di datazione che forniscono i Dialoghi? Lasciamo dunque da parte questa prova mancata, e passiamo, di seguito, ai suggerimenti ristretti, ma chiarificanti, di due autori più accorti.

 

II. Due utili precisazioni

1. Emmanuel Lanne

La prima è quella di Padre Emmanuel Lanne, in una conferenza pronunciata a Subiaco il 2 ottobre 1980, durante il congresso scientifico su san Benedetto, ed apparsa diciotto mesi più tardi negli Atti del congresso (4). Trattando delle forme di preghiera presso san Benedetto e presso i suoi contemporanei orientali, l’autore si interessa ai rapporti indiretti che si sono potuti annodare  tra i grandi monaci di Gaza – Barsanufio e Giovanni, Serido e Doroteo – da una parte, Benedetto dall’altra. A questo riguardo c’è un fatto degno di nota: la versione latina degli Apoftegmi, citata nella Regola benedettina a due riprese con venerazione (5), è l’opera di un uomo che ha soggiornato a Gaza verso il 540 e qui avrebbe ben potuto trovare il testo greco che ha tradotto.

Quest’uomo, che fu una delle personalità significative della metà del secolo, è il diacono romano Pelagio, futuro papa. La sua carriera ecclesiastica, fino al suo breve pontificato (556-561), è stata esaminata nel 1957 da Anscari Mundó, con l’obiettivo di precisare il periodo in cui potrebbe aver fatto la sua opera di traduttore. Dei due periodi considerati – prima della prima partenza del diacono per Costantinopoli (526/530 – 535) e dopo il suo ritorno a Roma (543 – 545) -, l’esperto spagnolo, senza escludere il secondo periodo, preferisce il primo, il che lascia supporre che Pelagio abbia conosciuto la collezione sistematica greca proprio a Roma.

Riprendendo la questione nel 1974, il Padre Michel Van Parys ha messo in evidenza che la scoperta di questo testo greco si spiegherebbe meglio se lo si collegasse al viaggio compiuto da Pelagio verso il 538-539 ad Antiochia, Gaza e Gerusalemme. La versione latina comporta in effetti certe omissioni che potrebbero provenire da una revisione anti-origenista, in rapporto con le querele teologiche nelle quali Pelagio si trovò immischiato nel corso di questo viaggio. Sarebbe dunque nel 543-545, piuttosto che prima del 535, che il lavoro di traduzione si collocherebbe con più verosimiglianza.

Questa congettura riceve nuova forza dalle considerazioni che Lanne vi aggiunge. In Palestina, Pelagio non ha solo frequentato i monaci anti-origenisti di Saint-Sabas. Egli ha anche soggiornato a Gaza, e ci si può immaginare che sia anche entrato in contatto col monastero di Serido, dove vivevano in reclusione Barsanufio e Giovanni. Ma il fatto più interessante è che, dalla corrispondenza di questi due grandi vegliardi, così come dall’opera di Zosimo, autore contemporaneo della stessa regione, questo ambiente monastico sembrava impregnato di Apoftegmi. E’ dunque abbastanza naturale supporre che Pelagio abbia ricevuto in quel luogo la raccolta sistematica che tradurrà.

A loro volta, queste vedute di Lanne sono allargate e corroborate da uno studio recente del Parde Lucien Regnault sull’origine delle collezioni di apoftegmi. Fin da prima del 1974, D.J. Chitty emetteva l’ipotesi che la prima grande collezione fosse nata nell’ambiente monastico di Gaza. Passando in rassegna le testimonianze sulla diffusione degli apoftegmi in Palestina, poi quelle degli stessi apoftegmi riguardanti i monaci palestinesi, Regnault congettura che le due maggiori collezioni – l’alfabetico-anonima e la sistematica – si sono costituite in Palestina; ciò spiegherebbe a sua volta la loro compilazione a partire da fonti egiziane molto diverse e la loro diffusione così rapida in tutti i luoghi della cristianità. Per quanto concerne le versioni latine, questa origine palestinese dei testi tradotti sembra probabile, non solo per la grande serie sistematica di Pelagio e Giovanni, ma anche per le piccole raccolte di Paschase e di Martino di Dumio.

Qualunque cosa ne sia delle vie tramite le quali queste ultime sono arrivate nel nord-ovest della penisola iberica, il passaggio di Pelagio in Palestina ha qualcosa di affascinante quando si pensa che la serie sistematica ha probabilmente visto la luce in questo paese. Non è là, nella sua stessa culla, che è stata scoperta e raccolta dal grande ecclesiastico romano. Ci piacerebbe sapere in quale precisa data si è fatto l’incontro. Senza entrare nel dettaglio dei fatti, esaminati dal Lanne, accontentiamoci di una approssimazione sufficiente: il soggiorno palestinese di Pelagio si situa ben prima del 540 e, se non fosse così, tutto o in parte, nel corso di quell’anno.

E’ dunque molto verosimile che la traduzione latina degli apoftegmi è iniziata poco tempo dopo. Ritornato a Roma nel 543, Pelagio ha sicuramente potuto lavorarvi fino al 22 novembre 545, giorno in cui papa Vigilio lasciò Roma per ordine dei Bizantini, lasciando al suo diacono il pesante compito di sostituirlo in una situazione sempre più critica. E’ a partire da questo momento che il cambio dovette essere preso dal suddiacono Giovanni, lui stesso sostituito poco più tardi da un chierico anonimo. Sembra che l’intera opera sia stata pubblicata prima che Pelagio diventasse arcidiacono (553) o, in ogni caso, papa (556).

Secondo gli echi di questa versione degli apoftegmi che si incontrano nella Regola di Benedetto, si congettura che lui avesse conosciuto solamente i libelli 1 - 18, tradotti da Pelagio che glieli avrebbe comunicati prima del completamento del lavoro. Ma questi echi ci sembrano troppo incerti per fondare fermamente simile induzione. È meglio attenersi alle due citazioni certe che fa Benedetto, a proposito del salterio settimanale e della razione di vino. Tutte e due sono prese dallo stesso libellus 4, cioè dalla parte tradotta da Pelagio.

Ci si potrebbe chiedere, con Mundó, se Benedetto non fosse a conoscenza dei primi libelli, presi separatamente, prima della pubblicazione dell'opera completa. Tale comunicazione precoce, forse tramite un amico in comune, come Sabino di Canosa, sarebbe stata posta tra il 543/545 e 553/556. Non si può escludere, tuttavia, che Benedetto abbia avuto tra le mani l'intera opera, di cui egli ha conservato solo due apoftegmi limitrofi situati verso l'inizio. In questo caso, nulla ci costringe a pensare che la lettura del testo sia avvenuta prima  della pubblicazione di esso.

Sia che abbia letto la versione degli apoftegmi prima o dopo la pubblicazione, Benedetto non necessariamente ha subito tratto le due citazioni che egli cita. Tuttavia, data la natura del tutto insolita di questa doppia citazione – la Regola non utilizza d’altronde la formula d’introduzione legamus e non prende in prestito in modo esplicito, almeno nelle sue proprie parti, da qualsiasi altra opera se non dalla Scrittura – abbiamo  motivo di ritenere che questa doppia citazione sia stata fatta sotto la forte impressione che aveva prodotto nell'autore la lettura degli apoftegmi in questione. D'altra parte, data la vicinanza con Roma ed i contatti che ha avuto con questa città, Benedetto non ha potuto a lungo ignorare un lavoro di così grande interesse monastico come la traduzione di Pelagio e Giovanni. Tutto questo suggerisce che la formulazione delle due parti della Regola che la citano è avvenuta poco dopo la creazione di questa versione, alla metà del VI° secolo.

  Ma queste considerazioni possono solo suggerire un terminus ante quem vago - diciamo, prima del 560  - e non sono nuove. Tuttavia, le osservazioni originali di Lanne, preparate da quelle di Van Parys e arricchite da quelle di Regnault, portano ad un terminus post quem nuovo e abbastanza saldo: con ogni probabilità, è stato solo dopo il 543-545 che Benedetto ha potuto “leggere", come dice lui, i due aneddoti sui Padri e scrivere i due passi in cui egli ne fa riferimento. Questa è la prima precisazione apportata alla cronologia della Regola, in linea con le vecchie ricerche di Mundò, nel corso di questi ultimi anni.   

 

2) Richard Kay

L’altra precisazione ci viene da oltre Atlantico. In uno studio molto dettagliato sulle donazioni fatte ai monasteri dai nuovi monaci, Richard Kay confronta il regime (previsto nella Regola) del Maestro con quello di Benedetto e, alla luce della legislazione imperiale, fissa delle date per l’uno e per l’altro.

In breve, il Maestro tenderebbe a una donatio del tipo mortis causa, secondo la quale il donatore resta proprietario, fino alla sua morte, dei beni donati. Poiché con questo sistema al monaco apostata viene lasciata la possibilità di revocare la sua donazione e di riprendere ciò che ha donato, il Maestro ha cura di esigere da ogni donatore un atto scritto (cautio) che garantisce al monastero la proprietà dei beni donati, di cui è fatto un inventario (breuis): in caso di partenza, l’apostata se ne andrà solo, senza i suoi beni.

Nel prendere questa precauzione, il Maestro sembra ignorare una legge imperiale, emanata da uno sconosciuto sovrano, ma il cui posto nel Codex di Giustiniano porta a pensare che sia stata redatta tra il 484 e il 524. Secondo questa legge i beni mobili portati dal monaco al monastero non possono essere reclamati da lui in caso di partenza, anche se non sono stati oggetto di qualche atto giuridico; solo i beni immobili che egli ha donato – e si tratta, anche qui, di una donatio mortis causa – restano suscettibili di rivendicazione. Questa ignoranza del Maestro situa la sua legislazione prima dell’introduzione del Codex in Italia, cioè, secondo Kay, prima dell’anno 537.

Da parte sua, Benedetto prevede anche una donatio in buona e dovuta forma, ma non esige la cautio. Al contrario, egli prescrive ad ogni fratello che entra di redigere una petitio, cioè un impegno scritto di perseveranza. Ormai, ciò che conta innanzitutto è la persona, non i beni.

Questo nuovo sistema sembra derivare da misure prese da Giustiniano nella sua Novella 5 (535); al suo ingresso, le proprietà del nuovo monaco passano al monastero ipso facto, senza la necessità di specificare nulla a loro riguardo; in caso di apostasia, rimarranno al monastero. In base a tale nuova normativa, è sufficiente stabilire che l'uomo è entrato - atto di professione - che i suoi beni sono acquisiti automaticamente e in modo permanente dalla la comunità.

Carta di professione, la petitio benedettina mira a stabilire questo punto fondamentale richiesto solo nella nuova legge. Così Benedetto mostra di conoscere la Novella 5, che probabilmente è stato congiunta al Codex fin dalla sua introduzione in Italia, che il Kay data, abbiamo detto, nel 537. Tuttavia, la regola benedettina mantiene, in subordine, la donatio del diritto precedente, e ciò in ragione della prudenza. Fino al 553, infatti, l'Italia è ancora divisa tra Goti e Bizantini, e questi ultimi continuano ad applicare le vecchie leggi.

Benedetto sembra dunque scrivere il suo capitolo 58 nel periodo indeciso della guerra gotica, in cui si può avere a che fare con giudici dell’uno e dell’altro campo. Questa incertezza dovette farsi sentire soprattutto negli anni in cui Totila teneva la campagna, tra il 542 e il 552. Più estesamente, si possono presumere gli anni 537-553.

In questo brillante saggio di storia del diritto, uno dei punti più interessanti è la determinazione precisa del momento in cui la legislazione di Giustiniano è entrata in vigore nell’Italia riconquistata. Questa data non sarebbe né il 554 (Prammatica Sanzione), né a fortiori il 544, come noi avevamo scritto, in seguito a un lapsus di C.  de Clercq, nel nostro commentario della Regola benedettina, ma il 537, quando un Prefetto del Pretorio per l’Italia viene installato a Roma e si cominciano a tradurre le Novelle una ad una, prima di riunirle nel corpo dell’Autentico (556).

Così i punti di contatto della Regola con la Novella 5, sia a proposito del dormitorio dei monaci che dei loro beni e della loro professione, non invitano ad abbassare l’epoca della sua redazione fino a dopo la vittoria definitiva di Bisanzio (553). Fin dal 537, Benedetto ha potuto prendere conoscenza di questa costituzione imperiale, ed è proprio negli anni di guerra che seguirono, senza attendere la pace, che egli sembra averlo fatto, poiché la sua prudente legislazione tiene conto sia del vecchio diritto che del nuovo. Dopo il trionfo di Narsete, tali precauzioni sarebbero senza motivo. La prescrizione concernente la donatio fissa un terminus ante quem: 552 o 553.

Queste conclusioni di Kay saranno ratificate dagli storici del diritto? In ogni caso esse sembrano riposare su uno studio serio del testo, dove non si discernono errori importanti a prima vista. Senza dubbio il saggio americano interpreta un passaggio del Maestro in modo molto discutibile, ma questa esegesi resta in margine alla sua dimostrazione e non la compromette in modo grave.

Questo passaggio mal compreso risiede nella frase in cui il Maestro enumera gli oggetti che l’anziano abate rimette al suo successore nel corso della cerimonia di insediamento:

a) tradat ei in manu regulam hanc,

(b) simul et petitas claues a cellerario de inthicis monasterii 

(c) uel breuem rerum uniuersarum uel ferrammentorum et codicum uel uniuersi mobilii 

(d) uel conlata singulorum testamento omnia

(e) ante pontifice adsignante,

 Nel breuis del terzo estratto (c) Kay vorrebbe vedere, non un inventario generale dei beni del monastero, secondo il senso ovvio indicato dalla nostra traduzione di “Sources chrétiennes” (6), ma tre inventari distinti, di cui uno qualunque può essere utilizzato, a titolo simbolico, per questa trasmissione di poteri: ”...e l'inventario o di tutti i beni, o degli strumenti di ferro e dei libri, o di tutto ciò che è mobile..“. Ugualmente, nell’estratto seguente (d), di cui riparleremo, il Maestro menzionerebbe un quarto inventario che potrebbe servire – ad libitum – allo stesso scopo.

Questa interpretazione suppone che il primo uel ha un senso diverso dai tre seguenti. La parola significherebbe inizialmente “e” ed in seguito “o”. Davanti a breuem, avrebbe il senso congiuntivo; davanti ferramentorum, uniuersi mobilii e conlata singulorum.., prenderebbe il senso disgiuntivo. Senza essere assolutamente impossibile, questa variazione di significato nella stessa frase porta delle difficoltà, come Kay stesso ha ben percepito. Spontaneamente, il lettore da ai tre ultimi uel il senso congiuntivo che manifestamente ha il primo.

Inoltre, non sembrerebbe probabile che il Maestro, in questa frase, “enumera tutti gli inventari che sono tenuti nel suo monastero”. Il secondo di questi quattro inventari sarebbe un breuis ferramentorum et codicum, una lista contenente a sua volta gli utensili e i libri. Questo curioso assemblaggio di oggetti eterogenei non corrisponde a ciò che è detto nel capitolo 17. Là, il Maestro parla prima di ferramenta, di cui l’abate tiene un breue, poi di diversi oggetti, ordinati in categorie omogenee, che si distinguono tra di loro. Un baule particolare (arca) racchiude ciascuna di queste categorie. Una di queste comprende “i libri (codices), pergamene e carte del monastero”. Non si vede perché i codices sarebbero tolti dalla loro particolare categoria e riuniti alle ferramenta in un unico inventario. Sembra piuttosto che l’inventario delle ferramenta, solo menzionato all’inizio del capitolo 17, abbia valore di prototipo per il seguito dell’elencazione: ogni categoria speciale ha il suo proprio inventario, elaborato sullo stesso modello. In ogni caso, gli oggetti dati al monastero dai fratelli al loro ingresso, che sono rinchiusi in uno dei bauli, sono annotati su dei breues particolari – uno per ogni fratello -, come il Maestro dirà più avanti.

Così, a partire dal capitolo 17, ci sembra probabile che ferramentorum et codicum non designa qui un determinato inventario, distinto dal precedente e dai due seguenti, ma fa allusione a due liste separate, l’una per gli utensili, l’altra per i libri, che si trovano riunite – con altre – nel corpo del breuis generale che il vecchio abate rimette al suo successore. Questo grande unico inventario è evocato da quattro termini – lasciamo da parte i conlata (d), su quali ritorneremo -, di cui il primo e l’ultimo sono qualificati “universali” (rerum uniuersarum.. uniuersi mobilii), mentre i due mediani, riuniti dalla congiunzione et, sono di particolare natura. Rerum ha qui il senso generale di “beni, oggetti”, o il senso speciale di “vestiti”? Nel primo senso, il solo considerato dal Kay, non è agevole vedere come “tutti gli oggetti” si distinguono da “tutte i beni mobili”. E qualunque sia il senso di rerum uniuersarum, è chiaro in ogni caso che questo universi mobilii congloba tutto ciò che precede. L’intenzione del Maestro non è dunque, così sembra, di enumerare tutti gli inventari esistenti – esattamente tre o quattro -, di cui uno qualunque può essere preso per simbolo del temporale della comunità, ma di evocare tramite un’accumulazione di termini, gli uni generali e inglobanti, gli altri particolari e scelti per la loro speciale importanza, l’insieme dei beni del monastero, le cui liste particolari confluiscono nel grande breuis unico.

Veniamo ai due ultimi testi (d ed e), che Kay comprende così: “o di singoli oggetti (mobili), i quali sono stati precedentemente conferiti da un "testamentum" che il vescovo ha testimoniato”. Questa traduzione fa di uel.. singulorum (d) un complemento di breuem (c), mentre conlata.. testamento omnia è inteso come un accusativo assoluto, al quale si collega ancora l’avverbio ante (e). Costruzione quasi impossibile. Certamente, il Maestro è capace di complicazioni. Ma questa che gli si attribuisce supera i limiti che si impongono anche a uno stile così lambiccato come il suo. Come può la congiunzione uel (d) essere separata dal genitivo singulorum (“ di singoli oggetti”), quando deve essere collegata a ciò che precede?

In realtà, uel questa volta non unisce dei genitivi, ma degli accusativi: Ciò che la congiunzione avvicina, è – come è naturale – la parola che la segue: conlata.. omnia, che essa collega a breuem. Di questi “oggetti donati”, il Maestro indica innanzitutto i donatori: singulorum, “ciascuno dei fratelli”. Questo modo di sostantivare un participio e di determinarlo tramite un complemento al genitivo si incontra in un passaggio anteriore e strettamente connesso, dove il participio è giustamente conlata.

Fin qui nessuna difficoltà. Di contro, la funzione grammaticale e il senso di testamento creano qualche problema. Dal passo parallelo che noi abbiamo citato, ci sembra certo che il Maestro pensi al “testamento” dell’abate morente. Non si tratta dunque di un testamento fatto da ogni fratello, come l’ha inteso L. Eberle, benché questa interpretazione, che fa del testamento il complemento di conlata, sia la più ovvia dal punto di vista grammaticale. Ancor meno può trattarsi di un “trattato di alleanza” (covenant) che lega ogni donatore e che consiste nella sua donatio, come crede il Kay. Non è verosimile che il Maestro abbia così costruito, a partire dalla nozione biblica di alleanza, un senso quasi giuridico, benché non tecnico, di testamentum, ad uso della sua sola casa. Questo modo vago e poetico di designare la donatio non è solo senza parallelo nella Regola. Inoltre contrasterebbe con le preoccupazioni molto realiste del Maestro, che non aveva nessuna ragione, specialmente nel presente contesto, di non chiamare le cose col loro nome.

Dato che testamento designa, qui come nel capitolo 89, il testamento dell’abate, si può esitare sulla funzione grammaticale della parola. Un altro autore americano, a cui si deve un importante studio della struttura giuridica delle nostre regole , sembra averlo capito come un ablativo strumentale, complemento di tradat (a): è per mezzo del suo testamento che l’abate rimette al suo successore i beni donati dai fratelli. Sostanzialmente esatta, questa esegesi è difficile da capire dal punto di vista della sintassi, poiché testamento difficilmente può essere separato dalle parole che lo circondano e collegato al distante tradat. Ci sembra piuttosto una specie di ablativo di luogo, costruito in modo ellittico e con sottinteso un participio come inserta: l’anziano abate rimette al suo successore i beni donati dai fratelli, sotto forma di inventari di donazioni inseriti nel suo testamento. L'ellisse del verbo e l’ablativo di luogo costruito liberamente sono entrambi comuni nel Maestro.

Potremmo anche discutere il significato che il Kay dà alla parola ante (e), unita da lui a quanto precede, e l'interpretazione che ne risulta per pontifice adsignante , che diventa un ablativo assoluto, ma questa "firma" apposta dal Vescovo sia alla fine degli atti di donazione indirizzati precedentemente, sia in fondo al testamento ed agli inventari trasmessi durante la cerimonia, ha solo una minore importanza per la comprensione del passaggio. E' deplorevole che il Kay abbia lavorato così duramente per piegarlo ai suoi punti di vista senza successo. Era proprio necessario ? Questa frase del Maestro gli dava fastidio, perché vi si poteva vedere la prova che i fratelli lasciavano la loro proprietà al monastero per testamento, procedura legale incompatibile con la donatio mortis causa. Con un bel coraggio, ha preso la difficoltà di petto, ma per arrivare a un'interpretazione che non è difendibile filologicamente. Piuttosto che entrare in queste sottigliezze esegetiche , sarebbe stato meglio rimanere sul piano giuridico, accontentandosi di dimostrare, come ha fatto il Kay, che il contrasto tra testamento e donatio mortis causa svanisce un po' in tempi antichi, in modo che, anche se il Maestro parla di un " testamento " fatto da ogni fratello, può ancora trattarsi in realtà di una donazione del tipo indicato. D’altronde non è di ciò che parla il Maestro, ma del testamento dell’abate.

Non possiamo concludere questa discussione senza citare almeno uno dei molti punti interrogativi che rimangono dopo il chiarimento del Kay. Perché la Regola del Maestro e la legislazione anteriore a Giustiniano non prevedono, in caso di entrata in religione, che la donazione mortis causa? Perché non considerano la donazione tra vivi, che escluderebbe o diminuirebbe, nel caso di apostasia, il rischio di un reclamo dei beni donati?

D'altra parte le misure adottate dal Maestro per risolvere questo problema sarebbero da sostituire nella serie delle soluzioni adottate dai legislatori precedenti e contemporanei. Verso l'inizio del V° secolo, i Quattro Padri accettano donazioni da coloro che arrivano - beni o schiavi -, non senza lasciare intendere al donatore che egli perde il suo diritto in quanto egli dona. Venti anni dopo, Cassiano mette in guardia contro questa pratica, citando le esperienze negative. Alla fine del secolo, Macario ammette di nuovo le donazioni, che egli sanziona liturgicamente facendole depositare sull'altare davanti a tutti. Dopo questo gesto solenne, che si ritrova nel Maestro e Benedetto, l'apostata non potrà riprendere nulla, ed i suoi eredi saranno respinti dalla semplice lettura della regola. Un po’ più tardi, Cesario impone ad ogni postulante, maschio o femmina, la redazione di un atto scritto di vendita o di donazione. Poco importa quelli che saranno i beneficiari di queste “cartae”, i genitori o il monastero. La cosa importante è che sono redatte in buona e debita forma, in modo che nessun monaco o monaca non abbia più diritto a niente ......

Cosa significano questi cambiamenti? Come queste diverse prescrizioni di legge si relazionano alla legislazione contemporanea? Le misure adottate dal Maestro e da Benedetto avranno senso quando si avrà risposto a queste domande e quando sarà stata spiegata l'evoluzione della prassi monastica all'interno della storia generale del diritto. Ci piacerebbe che gli specialisti, a partire da Kay, studiassero questo problema in tutta la sua estensione, alla luce delle nuove datazione e localizzazioni che le più recenti ricerche permettono di assegnare ai documenti . La storia monastica potrebbe ricevere, a sua volta, una delle più utili illuminazioni.

 

Conclusione

Tornando alla cronologia di San Benedetto. La nostra prima parte ha dimostrato che non è sicuramente nato e morto così tardi come vuole il Manning. La cronologia oggi attuale, che pone la sua nascita verso il 480-490, il suo arrivo a Montecassino verso il 530, la sua morte circa nel 550-560, si trova, alla fine di questa discussione, non scossa ma fortificata .

A loro volta, le informazioni fornite da Lanne e da Kay si inseriscono armoniosamente in questo quadro. La prima indica, per la redazione dei capitoli 18 e 40, gli anni successivi 543/545 . La seconda suggerisce, per il capitolo 58, il periodo 542-552, o più in generale 537-553. La metà del secolo è quindi il momento in cui Benedetto, poco prima della sua morte, ha dato gli ultimi ritocchi al suo lavoro. Questa datazione della Regola benedettina è anche coerente con quello che altri ricercatori osservano nel campo delle citazioni bibliche (7) o del divieto di fare da padrini ai bambini (8). Quindi non c'è motivo di dubitarne .

Quanto alla Regola del Maestro, si conferma che ha visto la luce in Italia, prima della traduzione degli “apoftegmi” di Pelagio e Giovanni, che non cita, anche prima della pubblicazione del “Codice” e della “Notizia 5” di Giustiniano, che ovviamente ignora. Senza che risultino a suo riguardo nuove precisazioni, i recenti lavori tendono quindi a situarla là dove noi la collochiamo: non lontano da Roma, prima del 530 circa. Dopo questa data, oltre al suo utilizzo da parte di Eugippo e Benedetto, la Regola del Maestro sembra non aver ricevuto che piccole integrazioni .

 

NOTE

[Nel testo originale le note, oltre ai riferimenti alle Regole ed ai Dialoghi di Gregorio, sono molto più numerose e complete. Ho qui riportato solo quelle che mi sono sembrate essenziali per una corretta comprensione del testo. Ndt]

(1) Règle de Saint Benoît. Édition du Centenaire, ed. H. Rochais – E.Manning, Rochefort 1980

(2) Questa grafia utilizzata da Manning e presa da Mundó crea confusione perché si può confondere col famoso Castello di Canossa. Questa città dove Sabino fu vescovo si chiama ancora oggi Canosa. Ugualmente più sotto si trova Aquina, che è da sostituire con Aquino. Il suddiacono Fiorenzo non è nipote “di zio” del prete omonimo, bensì nipote “di nonno”.

(3) Per esempio Valentiniano non è perdonato da Benedetto, ma suo fratello (vedere Dialoghi II,13). Ed altri errori simili.

(4) Si tratta del 7° congresso internazionale sull’alto medioevo, Norcia – Subiaco – Cassino – Montecassino, 29 settembre – 5 ottobre 1980.

(5) RB 18,25 “Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati, dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana”

RB 40,6 “Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà”

(6) La Règle du Maître, t. II (SC 106) Paris 1971: “e l’inventario di tutti i beni, utensili e libri e di tutto il mobilio”.

(7) J. Gribomont, La Règle et la Bible, negli atti del congresso della nota (4): “L’esame delle citazioni bibliche condurrebbe a situarla tra il Decreto di Gelaso (vero il 530), che spiega l’eliminazione degli Apocrifi, e la metà del VI° secolo, che spiega la (timida) apparizione della Volgata di Gerolamo… I fatti esaminati rientrano agevolmente nell’ipotesi … della datazione di questo documento verso il 550”.

(8) J.H. Lynch, Baptismal Sponsorship and Monks and Nuns, 500-1000, ABR 31 (1980), in cui il silenzio di Benedetto a questo riguardo si colloca tra la Lettera del diacono Giovanni a Senario, secondo la quale i bambini possono essere presentati dai loro genitori o da altri, e Gregorio, Regola 4,40=Epistola 4,42, che vieta ai monaci di fare da padrini ai bambini. L’Italia sarebbe, a questo riguardo, in ritardo sulla Gallia, dove tutti i legislatori monastici, a partire da Cesario, si preoccupano di vietare ai monaci e alle monache di fare da padrini o da madrine, cosa che era diventata generalizzata.


RIASSUNTO DELL'ARTICOLO

In questo studio il de Vogüé analizza tre nuovi contributi alla cronologia della Regula Benedicti.

 1° Studio.

E. Manning, nell'introduzione alla sua edizione della RB, detta del Centenario (Rochefort, 1980), afferma che la vita di San Benedetto è trascorsa tra il 520 e il 575. Le date tradizionali (480-547) sono state significativamente arretrate per i seguenti motivi: posticipando così la data della sua morte la si avvicina a quella di amici e coetanei di Benedetto, citati da Gregorio Magno, che vissero fino a diversi anni dopo il 547;  quando ci fu la distruzione di Montecassino nel 580 i monaci si rifugiarono nel monastero di Laterano, fondato forse dallo stesso Benedetto, e questo spiegherebbe il carattere basilicale della liturgia della Regola.  La risposta di A. de Vogüé è in contrasto con l'ipotesi del Manning e ritiene pertanto che la cronologia gregoriana (i due abati successori di Benedetto a Cassino ed il lungo abbaziato di Valentiniano in Laterano) invita ad anticipare piuttosto che a posporre la data della morte del Santo.  Onorato, abate di Subiaco e discepolo di Benedetto, era sicuramente anziano nel 593, come afferma Gregorio, ma non è detto che il medesimo sia stato a Subiaco con Benedetto prima del 530, e nemmeno che fosse stato suo discepolo a Cassino.  Contro l’affermazione del Manning, è chiaro che Gregorio mette in evidenza la longevità eccezionale del personaggio.  Un altro contemporaneo, Sabino di Canosa, era vecchio nel 542/547.  Prolungare la vita fino al 566 è arbitrario, in quanto Sabino potrebbe essere morto verso il 550. Il suo incontro con Benedetto è del 546/547. Il de Vogüé prende anche in considerazione Costanzio, vescovo di Aquino, il suddiacono Fiorenzo ed Exhilaratus, escludendo che l’intervento del Manning nei Dialoghi gregoriani costringa a rinviare la data della morte di Benedetto oltre il 550/560. Per quanto riguarda la visione di Benedetto che vide l’anima di Germano di Capua salire in cielo nel 541, indica un momento singolare dell’esperienza spirituale Benedetto che non può collocarsi in gioventù, all’età di 20 anni.  L'attribuzione del carattere basilicale e  romano dell'Ufficio benedettino ad un soggiorno di monaci Cassinesi in Laterano, con lo stesso Benedetto, non è verificata né aggiunge nulla di essenziale.  L'origine del monastero del Laterano è oscura e non ci sono dati certi per attribuirla a Benedetto.  Dato che la distruzione di Cassino può oggi venire collocata nel 577, la morte del suo fondatore deve essere precedente di parecchi anni, per dare spazio ai due abati che gli succedettero.

 2° Studio.

E.  Lanne, in una conferenza tenuta durante il congresso che commemorò il quindicesimo centenario di San Benedetto (Le forme della preghiera personale in S. Benedetto e nella tradizione, in: Atti del 7° Congresso Intemazionale sull'Alto Medioevo, 1980, vol. 2, Spoleto, 1982, p. 449-476), si è interessato all’influenza orientale su Benedetto.  Egli sostiene che Benedetto abbia conosciuto gli Apoftegmi nella traduzione latina di Pelagio, come aveva già dimostrato A. Mundò, ma aggiunge importanti dettagli cronologici.  Pelagio avrebbe visitato Gaza nel 540, dove avrebbe trovato il testo greco che poi tradusse.  E’ ormai dimostrato che la diffusione della prima letteratura del deserto deve molto agli ambienti monastici della Palestina, ed in particolare al monastero di Seridos a Gaza, dove vissero appartati Barsanufio e Giovanni (cfr L. Regnault. Les Apophtegmes des Pères en Palestine aux V-VIè siècles, in: Irénikon, 54, 1981, pag 320-330).  Le più grandi collezioni di Apoftegmi sono stati raccolte in Palestina, non solo la Sistematica, che tradusse Pelagio, ma anche le collezioni minori, come quella di Paschase e di Martino di Dumio.  Se è così, Pelagio dovette applicarsi su questi al suo ritorno a Roma, cominciando la traduzione nel 543, proseguita poi dal suddiacono Giovanni e da un altro chierico anonimo.  Il lavoro fu pubblicato sicuramente prima del 553/556.  Benedetto, poi, potrebbe aver conosciuto l'opera completa, anche prima del rilascio finale, ma cita solo due massime del libro 4°. La rarità delle citazioni dimostra che sono originate dall’impressione di una lettura recente e si può fissare una data finale non posteriore all’anno 560. Ma le ricerche del Lanne, basate sui lavori di Regnault, danno un termine ante quem: solo dopo il 543/545 fu disponibile la traduzione di Pelagio, utilizzata da Benedetto.

 3° Studio.

R. Kay  (Benedict, Justinian and Donations “mortis causa” in the Regula Magistri, in: RBen 90, 1980, p. 169-193),  fornisce anche un arricchimento alla cronologia benedettina partendo dal campo giuridico. La Regula Magistri al cap. 87, 37 prevede che il monaco all’atto della professione, qualora egli doni i suoi beni al monastero, si impegni con atto ufficiale a non pretenderne la restituzione, nel caso decidesse di andarsene.  La Regula Benedicti non prevede ciò, perché la donazione è personale e presume che i beni siano irrecuperabili qualora se ne dovesse andare.  In questo RB applica una disposizione imperiale (Novella 5 De monachis di Giustiniano, 535), secondo la quale "i beni del nuovo monaco passano al monastero ipso facto, senza la necessità di specificare nulla a tale scopo; in caso di apostasia, rimarranno nel monastero " (p. 19).  Questa disposizione è stata introdotta in Italia nel 537 in ambito bizantino, mentre nel territorio dominato dai Goti persisteva la vecchia legislazione.  Siccome è possibile assegnare una data alla legislazione di Giustiniano, il 537, pertanto non è necessario ritardare la redazione di RB.

 Conclusione.

 Le date proposte da Manning non possono essere accettate, e rimane valida la datazione attuale.  Benedetto è nato intorno al 480/490 e morì nel 550/560.  L'utilizzo della versione latina del Apoftegmi indica che i capitoli  18 e 40 della RB sono stati scritti dopo il 543/545, ed il cap. 58 sulla destinazione dei beni del monaco, tra il 542/552 o, più in generale, tra il 537 e il 553. RM, tuttavia, è anteriore alla traduzione degli Apoftegmi di Pelagio e Giovanni, e non conosce la Novella 5 di Giustiniano , rimanendo confermata la sua origine, nei pressi di Roma, attorno al 530.


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10 maggio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net