BASILIO DI CESAREA

 

“LE GRANDI REGOLE”

 

(libera traduzione dal latino)

 

Indice

 

01 - Dell'ordine stabilito nella serie dei comandamenti del Signore.

02 – Dell’amore verso Dio. L'uomo ha in sé per natura la disposizione e la forza di compiere i comandamenti del Signore.

03 - Della carità verso il prossimo.

04 - Del timore di Dio.

05 - Della dispersione d’animo da evitare.

06 - Della necessità di vivere nella solitudine.

07 - Dell'opportunità di unirsi a coloro che hanno uno stesso desiderio di piacere a Dio, perché è difficile e contemporaneamente pericoloso vivere da soli.

08 - Della rinuncia.

09 - Dell'obbligo di abbandonare i propri beni ai parenti soltanto con discernimento.

10 - Chi occorre accettare fra quelli che si presentano per vivere secondo Dio? Quando, e come?

11 – Degli schiavi.

12 - Come occorre ricevere la gente sposata.

13 - Quanto è utile esercitare al silenzio i anche nuovi venuti.

14 - Di quelli che si consacrano a Dio e cercano in seguito di disconoscere la loro promessa.

15 - Dell'accettazione e dell'istruzione dei bambini, e della professione di castità.

16 - La temperanza è necessaria a coloro che vogliono vivere santamente.

17 - Occorre anche moderarsi nel ridere.

18 - Occorre gustare tutte la vivande che ci presentano.

19 - Quale è la norma della temperanza.

20 - Quale tavola offrire agli ospiti.

21 - Quale sistemazione e quale posto occorre prendere a tavola ai pasti di mezzogiorno e della sera.

22 - Quale abito conviene al cristiano.

23 - Della cintura.

24 - Soddisfatti di questi insegnamenti, vorremmo ora apprendere il modo di vivere gli uni con gli altri.

25 - Quanto sarà terribile il giudizio per il superiore che non riprende i colpevoli.

26 - Occorre rivelare al superiore perfino i segreti del cuore.

27 - Se il superiore viene ad indebolirsi, sarà ripreso da quelli che hanno autorità nella fraternità.

28 - Come si devono comportare tutti riguardo a chi non obbedisce.

29 - Dell'orgoglio e della mormorazione nel lavoro.

30 - In quale spirito i superiori devono occuparsi dei fratelli.

31 - E’ necessario accettare i servizi del superiore.

32 - Quale atteggiamento occorre prendere riguardo ai membri della sua famiglia.

33 - Quale regola osservare nelle relazioni con le sorelle.

34 - Quali qualità sono richieste a quelli che distribuiscono il necessario ai fratelli.

35 - Occorre stabilire molte fraternità in una stessa località?

36 - Di quelli che escono dalla fraternità.

37 - Occorre trascurare il lavoro sotto pretesto di preghiera e di salmodia? Quali sono i momenti opportuni per la preghiera? e, innanzitutto, occorre lavorare?

38 - Quali lavori sono compatibili con la nostra professione.

39 - Come occorre vendere i prodotti del lavoro e come viaggiare a questo scopo.

40 – I mercati che si tengono in occasione delle feste religiose.

41 - Della volontà propria e dell'obbedienza.

42 - Per quale fine e con quale disposizione d’animo occorre lavorare.

43 - Quali qualità devono avere i preposti della comunità e come devono guidare quelli che stanno con loro.

44 - A chi permettere di assentarsi e come interrogare coloro che rientrano dal viaggio.

45 - E’ necessario che, dopo il superiore, quando quest'ultimo è assente o impedito, ci sia un fratello capace di assumere la direzione della fraternità.

46 - Non bisogna dissimulare né il proprio difetto né quello altrui.

47 - Coloro che non ammettono le decisioni del superiore.

48 - Non bisogna controllare la condotta del superiore, ma occuparsi di ciò che si deve fare.

49 – Controversie che si riscontrano nella comunità tra fratelli.

50 - Come il superiore deve reprimere gli errori.

51 - Come occorre correggere la mancanza di chi ha peccato.

52 - Con quali sentimenti occorre ricevere la correzione.

53 - Come coloro che insegnano i lavori devono correggere i giovani colti in errore.

54 - Del dovere per i superiori delle fraternità di trattare insieme le incombenze che li riguardano.

55 - Se il ricorso alla medicina è conforme allo spirito della vita religiosa.

 

 

 

D - 1: Dell'ordine stabilito nella serie dei comandamenti del Signore

 

Poiché la Scrittura ci permette di interrogare, noi vi preghiamo di dirci subito se i comandamenti di Dio si seguono in un certo ordine. Vi è un primo, un secondo, un terzo e così via? o sono tutti connessi ed ugualmente degni del primato nella pratica, in modo che si possa cominciare dove si vuole, come in un cerchio?

 

R. - La vostra domanda è vecchia ed è stata già posta nel Vangelo, quando il dottore della legge si avvicinò a Gesù e disse: “Maestro, quale è il primo comandamento nella legge? - Ed il Signore rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso “ (Mt 22,36-39).

Il Signore in persona ha dunque determinato l'ordine da osservare nei comandamenti. Il primo e il più grande è quello che riguarda l’amore verso Dio, ed il secondo, che gli è simile, o piuttosto è il compimento e la conseguenza, riguarda l'amore del prossimo.

Ecco come le parole suddette e anche altre riportate nella Sacra Scrittura ci insegnano in quale sequenza sono imposti i comandamenti di Dio.

 

 

D - 2: Dell’amore verso Dio. L'uomo ha in sé per natura la disposizione e la forza di compiere i comandamenti del Signore.

Parlateci inizialmente dell'amore di Dio. Si intende che occorre amare Dio, ma come occorre amarlo? Ecco ciò che vorremmo apprendere.

 

R - L'amore di Dio non si insegna. Nessuno ci ha insegnato a gioire della luce né a tenere alla vita sopra tutto; neppure nessuno ci ha insegnato ad amare coloro che ci hanno messi al mondo o ci hanno educati.

Allo stesso modo, o piuttosto a maggior ragione, non è un insegnamento esterno che ci insegna ad amare Dio. Nella natura stessa dell’essere vivente, voglio dire dell’uomo, si trova inserito come un germe che contiene in sé il principio di quest'attitudine ad amare. E’ alla scuola dei comandamenti di Dio che spetta raccogliere questo germe, coltivarlo diligentemente, nutrirlo con cura, e portarlo alla sua pienezza con l'ausilio della grazia divina.

Approvo il vostro zelo, è indispensabile allo scopo. Noi stessi, fintanto che lo Spirito Santo ce ne darà il potere, cercheremo, con l'aiuto di Dio e delle vostre preghiere, di stimolare la scintilla dell'amore divino nascosto in voi.

Occorre sapere che questa virtù di carità è una, ma che in potenza abbraccia tutti i comandamenti: “Se uno mi ama, dice il Signore, osserverà la mia parola” (Gv 14,23), ed ancora: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti“ (Mt 22,40).

Noi non ci accingeremo ad argomentare in dettaglio riguardo a quest'affermazione poiché, senza accorgercene, vi introdurremmo tutto il trattato delle virtù. Vi ricorderemo soltanto, sempre che sia in nostro potere e che ciò sia di aiuto al nostro scopo, l'amore che dovete a Dio.

Poniamo inizialmente questa premessa: abbiamo ricevuto da Dio la tendenza naturale a fare ciò che egli comanda e non possiamo dunque ribellarci come se ci venisse chiesta una cosa del tutto straordinaria, né inorgoglirci come se noi rendessimo più di quello che ci è dato. È utilizzando onestamente ed adeguatamente queste forze che noi viviamo santamente nella virtù; al contrario, deviandole dal loro fine siamo condotti verso il male.

Tale è, infatti, la definizione del vizio: l'utilizzo abusivo e contrario ai comandamenti del Signore delle facoltà che Dio ci ha dato per il bene e, di conseguenza, è questa la definizione della virtù che Dio esige da noi: l'utilizzo coscienzioso di queste facoltà secondo il comandamento del Signore.

Stando così le cose, noi diremo la stessa cosa della carità.

Ricevendo da Dio il comandamento dell'amore e partendo dalla nostra origine, noi abbiamo immediatamente posseduto la facoltà naturale di amare.

Non è dal di fuori che ne siamo informati; ciascuno può rendersene conto da sé stesso ed in sé stesso, poiché cerchiamo naturalmente ciò che è bello, benché la nozione di bellezza differisca per l’uno e per l'altro. Noi amiamo, senza che ci venga insegnato, coloro che ci sono apparentati con il sangue o con l'alleanza; noi manifestiamo infine volentieri la nostra benevolenza ai nostri benefattori.

Ma, cosa di più ammirevole della bellezza divina? Cosa si può concepire di più degno di piacere della magnificenza di Dio? Quale desiderio è ardente ed intollerabile come la sete causata da Dio nell’anima purificata da ogni vizio e che esclama con sincera emozione: “Io sono malata d’amore”? (Ct 2,5).

Ineffabili e indescrivibili sono i raggi della bellezza divina! La lingua è impotente a parlarne, l'orecchio non può intenderla! Quand’anche diceste lo splendore della stella del mattino, la luminosità della luna e la luce del sole, tutto ciò è indegno di rappresentare la sua gloria, e, paragonato alla luce di verità, è molto più distante da questa di quanto la notte profonda, triste ed oscura sia distante dal mezzogiorno più puro.

Questa bellezza è invisibile agli occhi del corpo, solo l’anima e l'intelligenza possono afferrarla. Ogni volta che ha illuminato i santi, ha lasciato in loro il pungolo di un desiderio insopportabile, al punto che, stanchi di questa vita, hanno esclamato: “Disgrazia a me, perché il mio esilio si è prolungato!” (Sal 119,5 LXX), “Quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 41,3), e ancora: “Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo” (Fil 1,23), “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 41,3), e infine: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace!” (Lc 2,29). Sopportando con fatica questa vita che sembrava loro una reclusione, contenevano difficilmente gli slanci causati nel loro cuore dal desiderio di Dio; mai soddisfatti di contemplare la bellezza divina, supplicavano che fosse prolungata nella vita eterna la visione della magnificenza di Dio.

Così gli uomini aspirano naturalmente verso il bello. Ma ciò che è buono è anche infinitamente bello e piacevole. Ora Dio è buono: dunque tutto ricerca il buono, dunque tutto ricerca Dio.

Ne consegue che, se il nostro cuore non è pervertito dal male, il bene che noi facciamo ha in noi stessi la sua radice. Siamo così obbligati a rendere a Dio, come uno stretto dovere, questo amore, di cui tuttavia la privazione è per l’anima il più grande di tutti i mali, poiché la lontananza e l'avversione di Dio sono la più terribile delle pene dell'inferno, ed anche se non si aggiungesse il dolore, essa sarebbe più pesante da portare della privazione della vista per l'occhio, e della morte per l’essere vivente.

Se l'affezione dei bambini per i genitori è un sentimento naturale che si manifesta nell'istinto degli animali e nella disposizione degli uomini ad amare la propria madre fin dalla loro giovane età, cerchiamo di non essere meno intelligenti dei bambini, né più stupidi delle bestie selvagge: non rimaniamo dinanzi a Dio che ci ha creati, come degli estranei senza amore.

Anche se non avessimo ancora appreso grazie alla sua stessa bontà ciò che è, dovremmo ancora, per la sola ragione che siamo stati creati da lui, amarlo sopra tutte le cose e restare attaccati al suo ricordo come bambini a quello della loro madre.

Infatti, fra coloro che si amano naturalmente, i benefattori sono al primo posto, e quest'affezione per coloro che ci hanno fatto del bene non è un sentimento proprio dell'uomo soltanto, ma comune alla maggior parte degli animali: “Il bue, dice la Scrittura, conosce il suo proprietario, e l'asino la greppia del suo padrone” (Is 1,3).

Non piaccia dunque a Dio che si possa dire di noi: “Israele non conosce, il mio popolo non comprende!” (Is 1,3). Occorre dire quale riconoscimento il cane ed altri animali mostrano a quelli che li nutrono?

Se l'affezione e l'amicizia sorgono spontaneamente in noi per quelli che ci fanno del bene, e se facciamo di tutto per rendere il beneficio ricevuto, quale linguaggio potrebbe esprimere degnamente l'importanza delle grazie di Dio?

Sono così abbondanti che il loro numero sfugge, così grandi e di tale natura che una sola grazia basta a renderci debitori di tutta la nostra riconoscenza a Colui dal quale l’abbiamo ricevuta!

Io tacerò dunque di quei doni che, sebbene siano in sé eccellenti per importanza e dignità, sono tuttavia superati dai più grandi di loro, come le stelle dai raggi del sole, e pertanto perdono così del loro splendore. Chi trascura infatti i doni più grandi, difficilmente potrà misurare la bontà del benefattore in base ai suoi favori più piccoli.

Silenzio dunque sul sorgere del sole, sulle fasi della luna, sulle alternanze delle stagioni, sulla successione delle ore.

Non diciamo nulla delle acque del cielo, delle fonti che sgorgano, del mare stesso e della terra intera.

Non parliamo di tutto ciò che sorge dal suolo, di tutto ciò che vive nelle acque, di tutto ciò che vola nell’aere, degli innumerevoli animali, di tutto ciò che serve alla nostra vita.

Ecco il dono di cui è impossibile non tenerne conto, anche suo malgrado, quello di cui assolutamente non si può tacere, se si è dotati d'intelligenza e di sana ragione, e di cui nessuno tuttavia è capace di parlare degnamente: Dio aveva creato l'uomo a sua immagine ed a sua rassomiglianza, lo aveva giudicato degno di conoscerlo lui stesso, messo al di sopra tutti gli animali, col dono dell'intelligenza, stabilito nella gioia delle incomparabili delizie del paradiso. Ed infine, costituito signore di tutto ciò che si trovava sulla terra; tuttavia, quando lo vide, circuito dal serpente, cadere nel peccato e, con il peccato nella morte e nelle sofferenze che vi conducono, non lo respinse. Al contrario gli diede inizialmente l'aiuto della sua legge: designò degli angeli per proteggerlo e prendersi cura di lui, inviò dei profeti per rimproverarlo della sua cattiveria ed insegnargli la virtù, spezzò con le minacce le sue tendenze al male e stimolò con delle promesse le sue disposizioni per il bene, mostrando continuamente con esempi salutari l’esito dell'una e dell'altra.

Quando, nonostante queste ed altre grazie ancora, gli uomini persistettero nella disobbedienza, non si allontanò da loro.

Dopo avere offeso il nostro benefattore con la nostra indifferenza di fronte ai segni della sua benevolenza, non fummo tuttavia abbandonati dalla bontà del Signore né privati del suo amore, ma siamo stati tratti della morte e resi alla vita dal nostro Signore Gesù Cristo, ed il modo in cui siamo stati salvati è degno di un'ammirazione più grande ancora! “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6-7).

Ha preso le nostre debolezze, ha portato le nostre sofferenze, è stato straziato per noi per salvarci con le sue ferite (Is 53,4), ci ha riscattati dalla maledizione facendosi maledizione per noi (Gal 3,13); ha sofferto la morte più infamante per condurci alla vita della gloria.

E non gli è bastato rendere alla vita coloro che erano nella morte, egli li ha rivestiti della dignità divina ed ha preparato loro nel riposo eterno una felicità che supera ogni immaginazione umana.

Cosa renderemo dunque al Signore per tutto ciò che ci ha dato? (Sal 115,12).

Egli è così buono che non chiede nulla in compensazione dei suoi favori: si accontenta di essere amato!

Per me, dirò la mia impressione: quando ripasso tutto ciò nella mia memoria, sono afferrato da una terribile ansietà, nel timore che, in seguito alla mia incuranza ed a forza di occuparmi di vanità, io non tradisca l'amore di Dio e non diventi per Cristo un motivo di vergogna.

Colui che, ora, cerca di ingannarci e mette tutto il sua impegno per farci dimenticare il nostro benefattore dinanzi alle lusinghe del mondo, un giorno infatti lo insulterà con la nostra rovina. Calpestandoci coi piedi presenterà al Signore il nostro disprezzo come un'ingiuria, e si glorificherà dinanzi a lui della nostra disobbedienza e del nostro tradimento, lui che non ci ha creati e non è neppure morto per noi. Ma, al contrario, ci ha trascinati con lui nell'insubordinazione e nel disprezzo dei comandamenti di Dio.

Questa umiliazione inflitta al Signore e questa gloria guadagnata dal suo avversario: ecco ciò che mi sembrerà più pesante dei castighi dell'inferno! Poiché si diventa per il nemico di Cristo una ragione d'orgoglio ed un motivo di innalzamento, di fronte a colui che è morto e risuscitato per noi, al quale, secondo la Scrittura, siamo così tanto debitori …!

Ciò basti sull'amore di Dio. Come ho detto, il mio scopo non era di fare una relazione completa, ciò che sarebbe impossibile, ma di consegnare brevemente alle anime un compendio delle ragioni che devono portarle a amare Dio incessantemente.

 

 

D - 3: Della carità verso il prossimo.

Sarebbe ora necessario di parlarci del comandamento che viene come secondo sia come ordine che per importanza.

 

R. - Vi ho già detto che la legge trova in noi dei germi che coltiva e nutre. Avendo ricevuto l'ordine di amare il prossimo come noi stessi, vediamo dunque se Dio ci ha dato anche la tendenza naturale a farlo.

Chi non si rende conto che l'uomo, essere socievole e tenero, non è fatto per la vita solitaria e selvaggia?

Nulla è più conforme alla nostra natura del frequentarci reciprocamente, del ricercarci l'un l'altro e di amare il nostro simile. Il Signore chiede dunque i frutti di ciò di cui ha in noi depositato in germe, quando ha detto: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13,34).

Allo scopo di stimolare la nostra anima ad obbedire a questo precetto, non ha voluto che si cercasse la traccia dei suoi discepoli in prodigi o opere straordinarie, benché ne avessero ricevuto il dono nello Spirito Santo.

Cosa dice al contrario?

“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E mette un tale legame tra i due comandamenti che egli considera come fatta a sé stesso qualsiasi buona azione verso il prossimo: “Poiché ho avuto sete, disse, e voi mi avete dato da bere …” (Mt 25,35), quindi aggiunge: “Tutto quello che voi avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

L’osservanza del primo comandamento contiene dunque anche l’osservanza del secondo, e con il secondo si torna ad attuare il primo.

Colui che ama Dio amerà di conseguenza il suo prossimo: “Se uno mi ama, dice il Signore, osserverà la mia parola” (Gv 14,23) e “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). Lo ripeto dunque: chi ama il suo prossimo colma il suo dovere d'amore verso Dio, e Dio considera questo dono come fatto a lui stesso.

Così il fedele servitore di Dio, Mosè, amò i suoi fratelli fino a supplicare di essere cancellato del libro dei viventi sul quale era iscritto, se il popolo non avesse ricevuto il perdono del suo errore (Es 32,32).

Paolo stesso osò desiderare di diventare anatema, separato da Cristo, per i suoi fratelli di razza (Rm 9,3), perché voleva, sull'esempio di Cristo, diventare riscatto per la salvezza di tutti. Tuttavia, lo capiva bene, era impossibile che fosse separato da Cristo colui che, a motivo dell’amore per lui, non si curava neppure della grazia di Dio per l’osservanza del più grande dei suoi comandamenti, e doveva perciò ricevere molto più di quello a cui rinunciava.

Ecco quanto basta a dimostrare come i santi hanno raggiunto un elevato grado nell'amore del prossimo.

 

 

D - 4: Del timore di Dio

 

R.: Per quelli che sono appena entrati nella via della perfezione, è più utile cominciare con l'insegnamento elementare del timore; il tanto saggio Salomone lo afferma: “Il timore del Signore è principio della scienza” (Pr 1,7).

Voi, che avete attraversato l'infanzia nel Cristo e non avete più bisogno di latte, siete capaci di portare l'uomo interiore alla sua perfezione grazie al solido nutrimento della dottrina. Vi occorrono dunque dei comandamenti più elevati nei quali si verifichi tutta la realtà dell'amore di Dio.

Tuttavia state attenti: l'abbondanza dei doni di Dio potrebbe diventare un motivo di giudizio più rigoroso per quelli che mancassero di riconoscenza verso il loro benefattore, poiché sta scritto: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto” (Lc 12,48).

 

 

D - 5: Della dispersione d’animo da evitare

 

R.: Occorre sapere questo: non ci è possibile osservare né il comandamento dell'amore di Dio, né quello della carità verso il prossimo, né nessun altro comandamento, se i nostri pensieri cambiano costantemente oggetto.

Non si può conoscere esattamente un'arte o un professione quando si passa dall’una all'altra, e non si può certamente giungere a perfezionarne una, se non si conosce ciò che è proprio al fine da raggiungere. Occorre, infatti, proporzionare i mezzi al fine poiché, con mezzi inadatti, nessuno raggiungerà perfettamente ciò che si è proposto.

Un calderaio non farà nulla lavorando come un vasaio, ed un atleta non guadagnerà la corona esercitandosi al flauto, ma ad ogni fine corrisponde uno sforzo speciale ed adeguato.

È lo stesso della vita di ascesi con la quale vogliamo piacere a Dio conformandoci al Vangelo di Cristo: noi possiamo portarla avanti soltanto stando lontani dalle preoccupazioni del mondo e mettendo al bando in modo assoluto le distrazioni.

È per questo che, benché il matrimonio sia permesso e degno di essere benedetto, l'Apostolo oppone tuttavia gli intralci che questo implica alla cura del servizio di Dio, come se non fossero conciliabili fra loro: “Chi non è sposato, dice, si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie” (1 Co 7,32-33).

È anche così che il Signore, considerando la purezza di cuore e la fedeltà dei suoi discepoli, diede loro questa testimonianza: “Voi non siete del mondo” (Gv 15,19).

D'altra parte, affermerà l'incapacità del mondo di ricevere la conoscenza di Dio e di possedere lo Spirito Santo: “Padre giusto, dice, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25) e: “Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere” (Gv 14,17)

Colui che vuole veramente seguire Cristo deve dunque liberarsi dai legami delle inclinazioni della vita, e ciò si realizza nell’allontanamento e nella dimenticanza delle vecchie abitudini. È per questo che, se non ci rendessimo estranei alla parentela carnale ed alle relazioni esterne, a noi, il cui carattere è di tendere verso un altro mondo, secondo questa parola: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli” (Fil 3,20), ci sarà impossibile raggiungere il nostro scopo e piacere a Dio. Gesù ha detto categoricamente: “Colui fra di  voi che non rinuncia a tutto ciò che ha, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33)

Quando abbiamo fatto ciò, ci occorre ancora custodire il nostro cuore con grande vigilanza (Pr 4,23), affinché non perdiamo di vista Dio, e non sporchiamo con vane fantasticherie la memoria delle meraviglie divine. Ovunque ci occorre portare il santo pensiero di Dio come un sigillo indelebile stampato nelle nostre anime, ricordandoci esclusivamente ed instancabilmente di lui.

Così si sviluppa in noi l'amore di Dio, e, nello stesso tempo che ci porta al compimento dei comandamenti del Signore, attinge a sua volta da loro la sua continuità e la sua perfezione. Tale è del resto l'avvertimento che ci dona il Signore, quando ora dice: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti.” (Gv 14,15), ed ora: “Se osservate i miei comandamenti, resterete nel mio amore” (Gv 15,10), che aggiunge queste parole ancora più impressionanti; “Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,10).

Ci insegna con ciò a conservare sempre come scopo dei nostri atti la volontà di colui che comanda ed a tendere verso lui con tutta la nostra energia, come dice altrove: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,38).

Infatti, i diversi mestieri si propongono inizialmente ciascuno un fine particolare e in seguito adeguano a questo scopo il dettaglio delle loro operazioni. Così ne va nelle nostre opere: quando ci siamo assegnati per regola e unico fine di osservare i comandamenti di Dio, in modo di piacergli, ci è impossibile farlo alla perfezione senza conformare la nostra condotta alla volontà di colui che ce li prescrive. D'altra parte è nello zelo nel compiere puntualmente la volontà di Dio in ciò che ci è ordinato che si trova il mezzo per unirsi mentalmente a lui.

Quando un fabbro deve fare un'ascia, pensa inizialmente a chi gliene ha affidata l'esecuzione, e ne conserva la memoria presente nel pensiero. Riflette in seguito sulla dimensione e sulla forza dell'oggetto ed effettua il suo lavoro, secondo la volontà di colui che glielo ha ordinato poiché, se perde di vista tutto ciò, farà altra cosa di ciò che gli è stato ordinato o lo farà differente.

È lo stesso del cristiano, quando orienta tutta la sua attività, qualunque sia, verso il compimento della volontà di Dio. Mettendo il suo impegno nella perfezione nei suoi atti, resta fedele al pensiero di colui che ordina e realizza queste parole: “Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non potrò vacillare” (Sal 15,8), ed osserva questo precetto: “Sia che mangiate, sia che beviate, fatte tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31).

Invece, colui che compie un comandamento allontanandosi dal suo rigore, mostra evidentemente che pensa poco a Dio.

Occorre dunque sempre ricordarci questa voce della Scrittura: “Non riempio io il cielo e la terra? Oracolo del Signore” (Ger 23,24), “Io sono un Dio molto vicino e non un Dio lontano” (Ger 23,23 LXX), ed ancora: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20), di modo che ogni azione si compia sotto gli occhi del Signore e che qualunque pensiero si formi, come conviene, sotto i suoi sguardi. Così regnerà questo timore di cui la Scrittura dice che odia l'iniquità (Sal 118,163), l'insolenza, l'orgoglio e la via dei cattivi; allora sboccerà l'amore che compie ciò che dice il Signore: “Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5,30); l’anima infatti vivrà in questa convinzione che il Giudice da cui dipende la nostra ricompensa gradirà le sue buone opere, mentre le azioni contrarie riceveranno da lui la loro punizione.

A mio parere, questo modo di agire avrà anche come conseguenza che non si eseguiranno più i comandamenti del Signore per piacere agli uomini.

Se ha coscienza di trovarsi in presenza di un personaggio potente, nessuno si girerà verso un altro che lo è meno. Meglio ancora, se un atto piace e riceve l'approvazione della persona più degna, benché incorra nella critica e nella disapprovazione di quella che la è meno, l'approvazione della prima aumenterà di valore, mentre la critica della seconda verrà disprezzata.

Ora, se è così quando si tratta di uomini, un cuore realmente prudente, saggio e penetrato dal pensiero di Dio cesserà di agire con l'intenzione di piacere a Dio, per tendere verso le lodi degli uomini? Dimenticherà i precetti divini per farsi schiavo del modo di agire degli uomini, per lasciarsi dominare dai pregiudizi o farsi turbare da considerazioni umane?

Tali erano le disposizioni di colui che ha detto: “I cattivi mi hanno assalito di menzogne, ma io conservo la tua legge” (Sal 118,85 LXX), ed ancora: “Davanti ai re parlerò dei tuoi insegnamenti e non dovrò vergognarmi” (Sal 118,46).

 

 

D - 6: Della necessità di vivere nella solitudine

 

R.: Per aiutare l’anima a concentrarsi, occorre abitare nella solitudine.

È pericolosi, infatti, rimanere fra quelli che vivono senza alcun timore di Dio e disdegnano di osservare perfettamente i suoi comandamenti. Salomone ce lo insegna dicendo: “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Pr 22,24-25); ugualmente dice l'Apostolo: “Perciò uscite di mezzo a loro e separatevi, dice il Signore” (2 Cor 6,17).

Se temiamo di essere tentati dagli occhi e dagli orecchi, e di abituarci lentamente al peccato, se temiamo per la nostra anima il pericolo mortale che ci sarebbe conservando nella memoria le cose viste o le parole udite, se vogliamo inoltre perseverare nella preghiera continua, cominciamo per prendere la decisione di abitare in solitudine.

Così riusciremo, forse, a sfuggire all’abitudine presa di vivere come stranieri ai comandamenti di Cristo: e non è sufficiente un tenue lotta per vincere una pratica rafforzata dal tempo. Forse anche arriveremo a cancellare le tracce del peccato, grazie ad una preghiera instancabile e la meditazione dei comandamenti divini, preghiera e meditazione alle quali è impossibile dedicarsi in mezzo alla folla, fonte di molteplici distrazioni e di preoccupazioni temporali.

E la parola di Cristo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso” (Lc 9,23), chi potrebbe mai osservarla pur restando fra loro? Poiché è rinunciando a noi stessi e prendendo la croce di Cristo che dobbiamo seguirlo.

Ma la rinuncia è la dimenticanza completa delle cose temporanee ed il sacrificio della propria volontà, sacrificio molto difficile, per non dire del tutto impossibile a chi vive tra gli uomini.

Prendere la propria croce e seguire Cristo è anche una cosa difficile in un mondo così confuso. Poiché prepararsi a morire per Cristo, essere mortificato, come conviene alle membra sulla terra, essere pronto a resistere agli attacchi lanciati contro di noi a causa del nome di Cristo, conservarsi distaccati della vita presente: in questo consiste prendere la propria croce, ma vi troviamo molti ostacoli, se perseveriamo nella vita ordinaria.

Tra le tante cose anche ciò: quando l’anima ha sotto gli occhi la massa dei peccatori, non trova più l'occasione di osservare i propri peccati, né di fare penitenza, nel pentimento, per le sue mancanze. Essa si paragona ai più grandi colpevoli e si immagina di avere della virtù. In seguito, sottratta dalle difficoltà e dalle preoccupazioni della vita ordinaria ad un pensiero molto più degno: quello di Dio. Ed essa così perde, con la gioia e l’allegria spirituale, la felicità di gradire le delizie del Signore e gustare la dolcezza delle sue parole. Non potrà più dire: “Mi sono ricordato del Signore e sono stato nella gioia” (Sal 76,4), e neanche: “Come sono dolci le tue parole al mio palato, sono per la mia bocca preferibili al miele” (Sal 118, 103). Infine si abitua a disprezzare completamente i giudizi divini, e, per essa, nulla di più triste né di più disastroso!

 

 

D - 7: Dell'opportunità di unirsi a coloro che hanno uno stesso desiderio di piacere a Dio, perché è difficile e contemporaneamente pericoloso vivere da soli.

Le vostre parole ci hanno convinti del pericolo che ci sia a vivere in mezzo ai denigratori della legge divina. Noi vorremmo ora apprendere se occorre, allontanandosi da loro, vivere da soli o in compagnia di fratelli, uniti in uno stesso spirito ed uno stesso desiderio di perfezione.

 

R.: Coloro che perseguono un obiettivo identico trovano una serie di vantaggi nel vivere insieme, ne sono sicuro.

Innanzitutto, nessuno di noi basta a sé stesso quanto alle necessità materiali, e noi abbiamo bisogno gli uni degli altri per sovvenire alle nostre necessità.

Il piede, ad esempio, possiede alcune facoltà, ma ve ne sono altre che non ha. Privato dell'aiuto delle altre membra trova le sue forze impotenti ed insufficienti da sé stesse a conservargli l'esistenza o procurargli ciò di cui ha bisogno. Così ne è della vita solitaria: ciò che possediamo non ci serve e non possiamo procurarci ciò che ci manca poiché Dio ha voluto che si abbia bisogno gli uni degli altri, affinché siamo uniti l'un l'altro, come dice la Scrittura. (Qo 13,20).

Il precetto di Cristo sulla carità non permette del resto che ci si occupi soltanto di sé. E’ detto: “La carità non cerca il proprio interesse” (1 Cor 13,5). Ma la vita solitaria tende soltanto ad uno scopo: vivere ciascuno per sé, fine ovviamente opposto alla legge d'amore che osservava l'apostolo san Paolo, poiché lui cercava non il suo vantaggio personale, ma quello di tanti altri che voleva salvare. (1 Cor 10,33).

In secondo luogo, il solitario conoscerà difficilmente i suoi difetti, poiché non avrà nessuno né per mostrarglieli, né per correggerlo con dolcezza e compassione. Un rimprovero, infatti, anche quando viene da un nemico, produce spesso nel cuore ben disposto il desiderio del rimedio e, d'altra parte, il rimedio al peccato spetta a colui che ama realmente applicarlo con saggezza: “Chi ama è pronto a correggere” dice la Scrittura (Pr 13,24). Ma ecco ciò che non potrà trovare il solitario, se non vive inizialmente con altri. Gli succederà dunque ciò che dice l’Ecclesiaste: “Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi” (Qo 4,10).

Quando si è in molti, si può anche osservare un più grande numero di comandamenti, ciò che uno solo non può fare, poiché mentre osserva l’uno, non può osservare l'altro. Visitare i malati, ad esempio, impedisce di ricevere ospiti; la distribuzione delle elemosine, soprattutto quando questo ministero esige molto tempo, ostacola l'applicazione al lavoro; ed a causa di ciò, si trascurerà un comandamento importante, essenziale alla salvezza, omettendo di nutrire colui che ha fame e di vestire colui che è nudo.

Chi dunque preferirebbe una vita oziosa e sterile a quella che porta frutto ed opera secondo il comandamento di Dio?

Poiché noi tutti, che siamo stati associati per vocazione in un’unica speranza (Ef 4,4), siamo un solo corpo, avente Cristo per testa, e membra gli uni degli altri (1Cor 12,12), ciascuno da parte sua, noi entriamo nella costruzione di un corpo unico nello Spirito santo soltanto nell'armonia. Se dunque ciascuno fra noi sceglie la solitudine, senza servire l'utilità comune gradita a Dio, ma soddisfa i suoi capricci, come potremmo, così lacerati e divisi, conservare la reciprocità ed il mutuo servizio delle membra o la sottomissione alla nostra testa che è Cristo? Poiché, in una vita isolata non è possibile né rallegrarsi con chi è glorificato, né simpatizzare con chi è nella sofferenza (1 Cor 12,26), non potendo ciascuno, come sarebbe giusto, conoscere la situazione del prossimo.

D'altra parte, uno solo non può ricevere tutti i carismi spirituali, distribuendo lo Spirito Santo i suoi doni in base alla fede di ciascuno (Rm 12,6); ma, nella vita comune, il carisma proprio di ciascuno diventa il bene comune dell'insieme: “A uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni, ecc .…” (1 Cor 12,8-10). Colui che riceve uno di questi doni non lo riceve tanto per sé stesso quanto per gli altri. In modo che, nella vita comune, la forza dello Spirito santo donata all'uno diventi necessariamente allo stesso tempo quella di tutti. Colui che vive in solitudine ha forse un carisma, ma lo rende inutile con il suo ozio, nascondendolo in sé stesso. Voi tutti che leggete i vangeli, voi sapete quale pericolo egli corre. Invece colui che vive in una società numerosa gioisce del suo carisma, lo amplifica dividendolo con gli altri, ed approfitta dei carismi degli altri come se fossero suoi.

La vita comune ha ancora molti altri vantaggi che non è facile contare. È meglio della solitudine per la conservazione dei doni che Dio ci ha fatto. Quanto agli ostacoli esterni del nemico, quello se ne difenderà certamente molto di più, se è svegliato da quelli che non dormono quando, per caso, è afferrato da questo sonno di morte che David ci ha insegnato ad allontanare con la preghiera, quando dice: “conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte” (Sal 12,4).

Per il peccatore, l’allontanamento dal peccato gli diventa così più facile, temendo la concorde disapprovazione dei più, in modo che si possa applicargli questa parola: “quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dalla maggior parte di voi” (2 Cor 2, 6).

Per colui che si comporta bene, invece, ci sarà questa certezza che viene dal fatto di essere visto ed approvato da molti, poiché se ogni parola prende il suo valore sulla fede di due o tre testimoni (Mt 18,16), è molto più ovvio che colui che agisce bene si troverà incoraggiato dalla presenza di numerosi testimoni.

Oltre agli svantaggi di cui abbiamo già parlato, la completa solitudine presenta ancora altri inconvenienti, di cui il primo e più grande è l'auto compiacimento. Il solitario non avendo nessuno per giudicare la sua condotta, si immaginerà ben presto di essere arrivato alla perfezione della Legge. Conservando sempre inattive le sue facoltà, non conoscerà le sue necessità e non constaterà progressi nelle sue opere, poiché gli mancherà l'occasione di praticare i comandamenti. In che cosa  mostrerà la sua umiltà, se non ha nessuno davanti a cui abbassarsi? Verso chi farà misericordia, essendo staccato dalla società? Come esercitarsi alla dolcezza, non essendoci nessuno che si opponga alle sue volontà?

Se qualcuno sostiene che basta, per giungere alla perfezione, studiare le Sacre Scritture, lo stesso fa esattamente come colui che impara il mestiere di falegname senza mai lavorare il legno, il lavoro di fabbro senza mettere in pratica le lezioni che riceve. È a lui che l'Apostolo direbbe: “Infatti, non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati” (Rm 2,13). Nel suo sovrabbondante amore per gli uomini, il Signore non si è accontentato dell'insegnamento orale, ma per dare un esempio preciso e sorprendente dell'umiltà nella perfezione della carità, si cinse lui stesso e lavò i piedi dei suoi discepoli. Ma tu che vive di fronte a te stesso, a chi laverai i piedi? Dietro chi ti metterai per ultimo? Chi servirai? Questa felicità e questa gioia di essere molti fratelli che abitano insieme, simili, dice lo Spirito Santo, al profumo che esala dalla barba del Sommo Sacerdote, come trovarle nella residenza del solitario? (Sal 132,1-2).

Una comunità di fratelli è anche il campo di combattimento, la via garantita del progresso, un addestramento continuo, la pratica assidua dei comandamenti del Signore. Tende alla gloria di Dio secondo il precetto del nostro Signore Gesù Cristo, che ha detto: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Conserva infine questa caratteristica propria dei santi la cui storia è riportata negli Atti e di cui è detto: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune” (At 2,44), ed ancora: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (At 4,32).

 

 

D - 8 Della rinuncia.

Occorre in primo luogo rinunciare a tutto prima di dedicarsi in quel modo a Dio?

 

R. - Il nostro Signore Gesù Cristo ha spesso insistito vivamente: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinunci sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24), ed ancora: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33). Ci sembra dunque esigere la rinuncia più completa.

Certamente, abbiamo rinunciato soprattutto al demonio ed alle passioni della carne, noi che abbiamo respinto i peccati nascosti, le parentele di sangue, le frequentazioni umane ed ogni pratica di vita in contraddizione con la pratica perfetta e salutare del Vangelo.

E, cosa più necessaria ancora, è a sé stesso che rinuncia colui che “si è svestito dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9), di quell’uomo vecchio che “si corrompe seguendo le passioni ingannevoli” (Ef 4,22). Egli rifiuta dunque tutte le affezioni mondane capaci di mettere ostacolo alla perfezione che prosegue, considera come suoi genitori veri coloro che l’hanno generato in Cristo con il Vangelo (1 Cor 4,15), e come fratelli coloro che hanno ricevuto lo stesso Spirito d'adozione. Infine, considera le ricchezze come cosa estranea a lui, come in realtà lo sono.

In una parola, come potrebbe ancora entrare nelle preoccupazioni mondane colui che dice, seguendo l’Apostolo: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo”? (Gal 6,14). Poiché Cristo ha voluto fino all'estremo il disprezzo della sua vita e la rinuncia a sé, quando ha detto: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce”, aggiungendo: “e mi segua”, (Mt.16, 24) ed ancora: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26).

La rinuncia completa consiste dunque nel non tenere più alla vita, ma considerasi sempre come condannati a morte, in modo da non confidare più su di sé (2 Cor 1,9).

Si comincia con l'abbandono delle cose esteriori, come le ricchezze, la vanagloria, la compagnia degli uomini, l'attrazione delle cose inutili.

È di ciò che ci hanno dato l'esempio i santi apostoli di Cristo: Giacomo e Giovanni che lasciano loro padre Zebedeo e anche la loro barca con cui guadagnavano da vivere; Matteo, che si alza del suo banco da gabelliere per seguire Gesù, non soltanto a scapito dei suoi interessi, ma ancora a dispetto delle sanzioni che incombevano su di lui e sui suoi parenti da parte dei magistrati, perché lasciava indebitamente incompiuta la riscossione delle imposte. Quanto a Paolo, il mondo era crocifisso per lui, e lui lo era al mondo (Gal 6,14).

Così colui che è animato da un desiderio imperioso di seguire Cristo non può tenere più conto di nulla in questa vita: né degli affetti verso genitori ed amici, nel momento in cui questi si oppongono ai precetti del Signore, poiché è allora che si applicano le parole: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, ecc …” (Lc 14,26); né del timore degli uomini, quando questo lo induce a deviare dal vero bene, come l’hanno fatto eccellentemente i Santi che hanno detto: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29); né infine delle prese in giro con i cui cattivi affliggono i buoni, poiché non occorre lasciarsi vincere dal disprezzo.

Se si vuole conoscere più esattamente e più chiaramente con quale ardore amavano Cristo coloro che lo seguirono, ci si ricordi di ciò che l'Apostolo disse parlando di sé stesso per istruirci: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo” (Fil 3,4-8).

In realtà - parlando con audacia, ma anche con verità -  se è ai peggiori rifiuti del corpo, a ciò che noi rigettiamo con disprezzo e da cui ci allontaniamo con premura, che san Paolo paragona perfino i vantaggi accordati per un certo tempo alla Legge, se diventano ostacoli alla conoscenza di Cristo, alla giustizia in lui ed alla trasformazione nella sua morte, che dire di ciò che è stato stabilito dagli uomini?

Ma che bisogno c’è di appoggiarci alle nostre argomentazioni o agli esempi dei santi? Possiamo citare le affermazioni del Signore stesso e con esse confondere l’anima timorosa, poiché egli parla chiaramente e senza possibile contraddizione: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo, dice “ (Lc 14,33). Ed altrove: “Se vuoi essere perfetto …”, quindi continua: “Va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri …”, dopo di ché aggiunge: “e vieni! Seguimi!” (Mt 19,21).

Per chi sa comprendere, la parabola del mercante vuole ovviamente significare la stessa cosa: “Il regno dei cieli, dice Gesù, è simile ad un mercante che va in cerca di pietre preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti suoi averi e la compra” (Mt 13, 45-46).

La pietra preziosa designa indubbiamente qui il regno dei Cieli, ed il Signore ci mostra che è impossibile ottenerlo, se non abbandoniamo tutto ciò che possediamo: ricchezza, gloria, nobiltà di nascita e tutto ciò che tanti altri ricercano avidamente.

Il Signore lo ha dichiarato, è del resto impossibile occuparsi adeguatamente di ciò che si fa, quando lo spirito è sollecitato da oggetti diversi: “Nessuno può servire due padroni” (Mt 6,24), ha detto, ed ancora: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24).

È per questo che il tesoro che è nel cielo è il solo che possiamo scegliere a cui unire il nostro cuore: “Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21) Se ci riserviamo dunque dei beni terrestri o delle ricchezze caduche, il nostro spirito vi rimane nascosto come nel fango ed il nostro cuore resta incapace di contemplare Dio; diventa insensibile ai desideri degli splendori celesti e dei beni che ci sono promessi. Ma, questi beni, possiamo ottenerli soltanto se un'ardente aspirazione ci porta a richiederli incessantemente e ci rende leggero lo sforzo per raggiungerli.

Praticare la rinuncia è dunque, lo abbiamo mostrato, affrancarsi dei legami di questa vita terrestre e momentanea, e liberarsi dagli eventi umani, per essere più in grado di andare nella via che conduce a Dio. È liberarsi dagli ostacoli per potere possedere ed utilizzare di questi beni più pregevoli di cui è detto: “più preziosi dell’oro, di molto oro fino” (Sal 18,11).

Riassumendo, significa trasportare il cuore umano nella vita del cielo, in modo che si possa dire: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli” (Fil 3,20), e soprattutto è iniziare ad assimilarci a Cristo, che si è fatto povero per noi, da “ricco” che era (2 Co 8,9), ed a cui dobbiamo somigliare se vogliamo vivere conformemente al Vangelo.

Quando dunque potremo avere la contrizione del cuore e l'umiltà dello spirito, o affrancarci dalla collera, dalla tristezza, delle preoccupazioni e, insomma, da tutte le dannose passioni del cuore, se restiamo nell'ambito delle ricchezze e delle preoccupazioni della vita che sono in relazione con le antecedenti passioni?

In breve, perché colui che non vuole neppure mettersi in pena per il necessario, come gli alimenti e l'abito, si lascerebbe trattenere dalle maligne preoccupazioni della ricchezza, come spine che verrebbero ad ostacolare la produttività del seme che il seminatore divino getta nelle nostre anime? Poiché il Signore ha detto: “(Il seme) caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione” (Lc 8,14).

 

 

D - 9: Quando ci si vuole unire a coloro che si sono donati a Dio si devono, con indifferenza, abbandonare i propri beni ai parenti che potrebbero farne un cattivo uso?

 

R. - il Signore ha detto: “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!“ (Mt 19,21), e: “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina” (Lc 12,33).

Credo dunque che colui che rinuncia a qualsiasi proprietà a tale scopo, non può tuttavia agire con disprezzo riguardo ai suoi beni. Deve al contrario prenderne scrupolosamente cura, perché ormai sono consacrati al Signore.

Ne distribuisca con tutta carità sia lui stesso, se ne è capace e se possiede abbastanza esperienza, sia con intermediari scelti, innanzitutto ben provati, e che hanno dato prova di poter gestire con prudenza e saggezza. Deve infatti sapere che non è senza pericolo il fatto di abbandonarli ai parenti o di lasciarli a chi se ne occupi.

Chi ha l'incarico di amministrare i beni del re, anche se non se ne appropria, non sarà tuttavia esente da colpa se perderà, con la sua negligenza, l'occasione di acquisirne di nuovi. Se dunque è così, quale giudizio devono aspettarsi coloro che si sono mostrati rilassati e negligenti nell'amministrazione dei beni ormai consacrati al Signore? Non si espongono forse alla condanna che attende gli indolenti, conformemente alle parole della Scrittura: “Maledetto chi compie fiaccamente l’opera del Signore”? (Ger 48,10).

Dobbiamo tuttavia sempre fare attenzione che, col pretesto di osservare un comandamento, non ne trasgrediamo con evidenza un altro.

Così non conviene iniziare una lite ed un processo con coloro che agiscono, poiché il litigio non si addice al servo di Dio (2 Tm 2,24). Se siamo spogliati, fosse anche dai nostri genitori, occorre ricordarci ciò che dice il Signore: “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30).

Certamente, secondo il precetto di Cristo: “Se tuo fratello pecca, va e correggilo …” (Mt 18,15), occorre mostrare a questi imprudenti che fanno male e che il loro furto è sacrilego; ma la pietà ci impedisce di citarli dinanzi ai tribunali civili, poiché è detto: “A chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (Mt 5,40), e: “Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli ingiusti anziché dei santi?” (1 Cor 6,1). È dunque in presenza di questi ultimi che li chiameremo, avendo in vista la salvezza dei nostri fratelli molto più che del possesso delle ricchezze, poiché il Signore dopo avere detto: “se ti ascolterà”, ha aggiunto: “avrai guadagnato il tuo fratello” e non dei possedimenti (Mt. 18,15).

Può succedere che per stabilire la verità, e quando lo stesso che ha iniziato la lite ci fa comparire al tribunale ordinario, là ci recheremo per confutare l'accusa. Non andiamo tuttavia per primi, ma seguiamo piuttosto coloro che ci citano, non per soddisfare il nostro gusto di litigio, ma per fare conoscere la verità. Così noi strapperemo il nostro avversario al male, nonostante lui, ed anche noi non  infrangeremo i comandamenti, ma saremo veri ministri di Dio, nemici dei litigi e della cupidigia, che manifestano la verità con calmo equilibrio, e non superano mai in nulla il limite del giusto zelo.

 

 

D - 10 - Bisogna accogliere tutti coloro che si presentano, oppure chi bisogna accogliere? Occorre ammetterli subito o dopo una prova, e quale prova?

 

R. - Nella sua divina Bontà il nostro Signore Gesù Cristo ha detto e proclamato: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).

Non è dunque senza pericolo il respingere coloro che vengono da noi per servire il Signore e per prendere, con il suo soave giogo, il fardello dei suoi comandamenti che ci innalzano fino al cielo.

Certamente non dobbiamo accogliere chi si presenta agli insegnamenti di fede con piedi non lavati (Gv 13,10): imiteremo invece il nostro Signore che interrogò sulla propria vita il giovane uomo che venne a lui. Avendo appreso che la sua vita passata era stata buona, gli mostrò ciò che rimaneva da fare per raggiungere la perfezione e quindi gli concesse di seguirlo.

Così dobbiamo ovviamente informarci sul passato di coloro che si presentano.

A quelli che avranno già praticato il bene, occorrerà mostrare la perfezione dei comandamenti. Per gli altri, che si convertono dopo una vita di peccato, o che abbandonano uno stato d'indifferenza per cercare la vita di perfezione nella conoscenza di Dio, occorre esaminare il loro carattere, per paura che siano instabili e cambino idea facilmente. Costoro che sono incostanti sono infatti ambigui, poiché essi stessi non arrivano ad alcun risultato, e inoltre vengono a nuocere agli altri, spargendo sul nostro tipo di vita menzogne, colpe e malvagie calunnie.

Tuttavia, siccome tutto si corregge con lo zelo, ed il timore di Dio ha ragione di tutte le mancanze dell’anima, non occorre neppure respingerli, bensì metterli in grado di esercitarsi adeguatamente e, col tempo e con continui sforzi, diano prova della loro buona volontà. Se si constata allora in loro qualche fermezza, potranno essere accolti senza pericolo; altrimenti, intanto che non fanno parte della fraternità, saranno rinviati. Così questa prova non arrecherà alcun danno alla comunità.

Qualcuno ha vissuto fino ad allora nel peccato? Occorre allora bene esaminare se la vergogna non gli impedisce di riconoscere le sue colpe segrete e di confessarle, se detesta e disconosce i complici delle sue malefatte, secondo questa parola: “Via da me, voi tutti che fate il male” (Sal 6,9), e infine se, per il futuro, offre garanzie che in seguito non si lascerà più trascinare dalle sue passioni.

Un genere di prova che conviene a tutti, è di vedere se accettano senza arrossire qualsiasi umiliazione, al punto da accettare i compiti più vili, quando la ragione ne riconosce l'utilità.

Infine, quando qualcuno è stato provato in ogni modo da spiriti prudenti e quando lo si riconosce come uno strumento utile al Signore, pronto a qualsiasi buona azione, può essere ammesso fra coloro che si sono consacrati al Signore.

In particolare, a colui che vuole lasciare una situazione visibile nel mondo, per venire a praticare l'umiltà sull'esempio del nostro Signore Gesù Cristo, occorrerebbe imporre un esercizio considerato come dei più umilianti da parte della gente del mondo, e vedere se dà piena certezza che lavora per Dio senza arrossire.

 

 

D - 11: Gli schiavi

 

R. - Gli schiavi che fuggono per venire ad aggiungersi alla fraternità devono essere esortati e ricondotti a migliori sentimenti, quindi rinviati al loro padrone.

Così fece il beato Paolo che generò Onesimo al Vangelo e lo rinviò in seguito a Filemone (Fm 10,12). Egli aveva rassicurato il primo che il giogo della schiavitù, portato onestamente per piacere a Dio, rende degni del regno celeste, e supplicava il secondo, non soltanto di abbandonare ogni minaccia ricordando ciò che dice il vero Signore: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi” (Mt 6,14), ma anche di comportarsi a suo riguardo con una più grande bontà, scrivendo a questo scopo: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo” (Fm 1,15-16).

Tuttavia, se il padrone è malvagio, dà ordini iniqui ed obbliga lo schiavo a violare la legge del nostro vero Signore, Gesù Cristo, occorre lottare perché il nome del Signore non sia oltraggiato dallo schiavo nel compiere un atto che dispiace a Dio. Ed ecco in quale senso occorre lottare: si preparerà lo schiavo a sopportare i cattivi trattamenti per obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Ac 5,29), o lo si riceverà accettando, per piacere a Dio, gli attacchi che verranno lanciati a causa di lui contro coloro che lo avranno accolto.

 

 

D - 12 - Come occorre ricevere la gente sposata.

 

R. - Quando persone sposate vogliono condurre tale vita, occorre chiedere loro se lo fanno d'accordo con i loro coniugi, conformemente alla parola dell'Apostolo: “Non sono più padroni del proprio corpo” (1 Cor 7,4). Si devono allora ricevere in presenza di testimoni, poiché nulla deve essere preferito all'obbedienza a Dio.

Se, non facendo alcun caso al desiderio di piacere a Dio, l'altra parte non acconsente e fa opposizione, ci si ricorderà dell'Apostolo che dice: “Dio vi ha chiamati a stare in pace!” (1 Cor 7,15) e ci si conformerà all'insegnamento del Signore: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli,…, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Nulla, infatti, è da preferire all'obbedienza a Dio. Del resto abbiamo spesso osservato che una fervente preghiera ed un assiduo digiuno fanno prevalere il desiderio di vivere in castità, poiché verso coloro che si ostinano nel rifiuto, Dio agisce a volte sul loro corpo per costringerli a sottomettersi al buon obiettivo.

 

 

D - 13 – E’ utile esercitare anche al silenzio i nuovi venuti.

 

R. – E’ bene che i nuovi venuti si esercitino anche al silenzio. Nello stesso momento in cui daranno una prova evidente di padronanza su essi stessi, dominando la loro lingua, applicandosi con zelo, conservando un silenzio costante e perfetto, ad apprendere da quelli che sanno ben utilizzare la parola, come interrogare e come rispondere.

Il tono della voce, la discrezione nelle parole, il momento opportuno, la speciale natura dei termini familiari e particolari di coloro che vivono nella pietà: tante cose che è impossibile conoscere, se non si sono disimparate le usanze del mondo. Inoltre, il silenzio permette di dimenticare le vecchie abitudini non praticandole più e dà il tempo di apprendere quelle buone.

È per questo che, al di fuori naturalmente dalla salmodia, occorre conservare il silenzio e parlare soltanto se si è costretti, sia dall'utilità personale, come la direzione della propria anima, o in assoluta necessità nel corso di un lavoro, sia ancora perché si viene interrogati urgentemente.

 

 

D - 14 - Quelli che si consacrano al Signore e cercano in seguito di rinnegare la loro promessa

 

R. - Se qualcuno è ammesso nella fraternità e in seguito viene meno alla sua professione, sia considerato come peccatore verso Dio, in presenza del quale e verso il quale ha acconsentito ad impegnarsi con un patto. Ma è detto: “Se qualcuno pecca contro Dio, chi pregherà ancora per lui?” (1 Sam 2,25) poiché colui che si è consacrato a Dio e poi si ritira per vivere diversamente, diventa un ladro sacrilego, poiché ha sottratto sé stesso al Signore ed ha ripreso l'offerta fatta a Dio.

È dunque giusto che i fratelli non gli aprano più la loro porta, anche se ritornasse, semplicemente di passaggio, per chiedere un riparo; poiché la regola apostolica è chiara: ci ordina di stare molto lontani da qualunque indisciplinato, e di non ammetterlo fra noi, affinché si vergogni e rientri in sé stesso (2 Ts 3,14).

 

 

D - 15 - A partire da quale età si può permettere di consacrarsi a Dio e di considerare l'impegno alla castità come valido?

 

R. - Il Signore ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me” (Mc 10,14), mentre l'apostolo loda coloro che hanno studiato le sacre Scritture fin dalla loro infanzia (2 Tm 3,15), ed esorta ad istruire i figli disciplinandoli e correggendoli nel Signore (Ef 6,4).

Ci sembra dunque che a qualsiasi età, anche nella prima infanzia, si possa venire da noi ed essere accolti. Accoglieremo coloro che non hanno più genitori, per diventare, sull’esempio di Giobbe (Gb 29,12), padri degli orfani, e quelli che verranno condotti dai loro stessi genitori noi li ammetteremo in presenza di testimoni, per non dare pretesti a chi li cerca e per chiudere la bocca a quelli che ci calunniano.

Per questa stessa ragione occorre certamente riceverli, ma non di primo acchito, e non bisogna metterli nel gruppo e sullo stesso piano dei fratelli nella Comunità, per paura che il disagio di un fallimento ricada sulla vita consacrata a Dio.

Senza dubbio conviene educare questi fanciulli con amore come fossero figli di tutti i fratelli, ma nelle Comunità, sia di uomini che di donne, si devono dare loro alimenti ed alloggi distinti. In tal modo non si comporteranno con troppa libertà o con troppa audacia nelle loro relazioni con i più anziani e, trovandosi solo di rado con loro, conserveranno il necessario rispetto verso i loro superiori.

D'altra parte ci sarebbe da temere che, alla vista dei fratelli più vecchi puniti per inadempimenti al loro dovere commesso in seguito a disattenzione, questi giovani acquisiscano a volte, anche a loro insaputa, qualche inclinazione al male, o che si inorgogliscono constatando che più i vecchi sono spesso in difetto, in circostanze in cui essi stessi agiscono correttamente. Infatti non differiscono affatto dai  bambini coloro che ragionano come bambini; non è dunque eccezionale incontrare gli stessi difetti sia negli uni che negli altri.

E neanche deve succedere che ciò che gli anziani fanno correttamente a causa della loro età i ragazzi, in seguito al contatto continuo con loro, non siano anch’essi tentati di farlo, ma prematuramente e male.

Per queste ragioni e tanti altri motivi di convenienza, occorre separare l'alloggio dei giovani da quello dei fratelli. La residenza degli asceti che sono già formati non sarà dunque neppure disturbata dalle lezioni e dagli esercizi necessari per i giovani. Tuttavia, le preghiere stabilite alle varie ore del giorno saranno comuni agli uni ed agli altri, poiché i più giovani si abituino alla compunzione seguendo l'esempio degli anziani, e coloro che li istruiscono ricevano da loro nella preghiera un ammirevole aiuto.

Si fisserà adeguatamente per i ragazzi un regime particolare ed un regolamento speciale per ciò che concerne il sonno e le vigilie, l'ora, la quantità e la qualità dei pasti.

Si metterà alla loro testa l’anziano che avrà maggiore esperienza e che sarà conosciuto per la sua pazienza. Con una paterna bontà e con sagge parole, correggerà gli errori dei giovani, e darà a ciascuno la cura che conviene alla sua mancanza, col fine di punire il colpevole e di esercitare allo stesso tempo il suo cuore a controllare le passioni. Uno di loro, ad esempio, si è arrabbiato con un suo compagno? Che sia obbligato a servirlo, e a mettersi a sua disposizione, nella stessa misura del suo comportamento; poiché essendo l'orgoglio ciò che di solito stimola in noi la collera, la pratica dell'umiltà spezza nell’anima l’impulso della sua violenza. Ha preso alimenti fuori del tempo fissato? Che resti senza mangiare la maggior parte del giorno. Lo si è visto mangiare smoderatamente o disordinatamente? Sia messo ad osservare gli altri mangiare come si deve, senza potere mangiare lui stesso, in modo da essere allo stesso tempo corretto dalla privazione, ed impari a comportarsi in modo conveniente. Ha emesso qualche parola inutile, offensiva per il prossimo, qualche menzogna o altra parola proibita? Che sia punito col digiuno e con lo stare in silenzio.

È necessario anche dare ai ragazzi un'istruzione conforme all'obiettivo che perseguono. Devono dunque apprendere a servirsi di parole tratte dalla Scrittura e, invece delle favole, si devono insegnare loro meravigliosi racconti della storia, informarli delle sentenze prese nel Libro dei Proverbi, e dare loro ricompense per la memoria che conserveranno dei nomi e dei fatti. È dunque con piacere e come se giocassero che raggiungeranno lo scopo, senza difficoltà e senza penose esperienze.

Facendo le cose nel modo giusto, si otterrà facilmente da questi giovani l’attenzione e la pratica da non farsi distrarre, se i loro maestri chiedono loro in ogni momento ciò che pensano e su cosa riflettono. La semplicità della loro età, la loro ingenuità e la loro inattitudine alla menzogna farà loro esporre senza indugio i segreti del loro cuore. Per la paura di essere costantemente sorpreso in pensieri proibiti, il ragazzo eviterà di lasciare errare il suo spirito e, per timore della vergogna inerente ai rimproveri, si riprenderà da sé stesso, appena i suoi pensieri non saranno ciò che devono essere.

È dunque quando l’anima è ancora malleabile, tenera e molle come la cera, capace di ricevere facilmente le forme che le vengono date, che occorre immediatamente esercitarla al bene. Quando sopraggiunge la ragione e arriva la capacità di giudicare, può prendere il suo slancio, forte delle nozioni elementari ricevute prima e della formazione alla pietà che le sarà stata data. La ragione le farà cogliere l’occasione di comportarsi bene e la pratica la faciliterà nell’agire.

A questo punto si potrà accettare la promessa di castità, promessa infine sicura, formulata con giudizio e convinzione personale, in pieno esercizio della ragione. Da questo momento ricompense e punizioni saranno distribuite dal giusto Giudice a coloro che vi si conformeranno o a coloro che la infrangeranno, secondo il merito delle loro azioni.

Come testimoni di questa risoluzione, occorre prendere i superiori ecclesiastici, affinché consacrino il corpo del professo come offerta fatta a Dio e confermino il valore della professione con la loro testimonianza, “perché, è detto, ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni” (Mt 18,16). Così da un lato non si potrà rimproverare la sollecitudine dei fratelli, e, dall'altro colui che si sarà promesso a Dio, se in seguito vuole andarsene, non troverà nessuna scusa alla sua impudenza.

Chi non abbraccia la vita di castità, perché gli è impossibile applicarsi alle cose di Dio, sarà congedato dinanzi agli stessi testimoni.

Infine colui che si impegna deve riflettere lungamente, ed occorre lasciarlo decidere da solo per parecchi giorni per non dare l’impressione di attirarlo malgrado lui, ma in seguito occorre accoglierlo e considerarlo nel novero dei fratelli, facendolo partecipare alla mensa e all’alloggio dei professi.

Abbiamo dimenticato di dire, ma è ancora tempo di parlarne, che poiché occorre insegnare alcuni lavori fin dall'infanzia, quando alcuni di questi fanciulli sembrano atti a ricevere questo insegnamento, non impediamo loro di passare la giornata con i loro istruttori, ma per la notte e per i pasti devono trovarsi con i loro coetanei.

 

 

D - 16 - La temperanza è necessaria a coloro che vogliono vivere santamente.

 

R. - Che si debba vivere con temperanza non ci sono dubbi. Innanzitutto, perché l'apostolo considera la temperanza tra i frutti dello Spirito Santo (Gal 5,23), in seguito perché afferma che grazie ad essa il suo ministero è integerrimo: “Nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza” (2 Cor 6,5), ed altrove: “Fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni” (2 Cor 11,27); aggiunge anche: “Ogni atleta è disciplinato in tutto” (1 Cor 9,25).

Il fatto è che nessuna regola è più adatta della temperanza per mortificare e controllare il corpo. L'effervescenza della gioventù e l'entusiasmo delle passioni trovano in essa un freno potente che le contiene.

“Allo stolto non conviene una vita agiata” dice Salomone (Pr 19,10), e cosa c’è di più insensato della carne che si offre ai piaceri, e della gioventù che vaga disorientata? È per questo che l'Apostolo dice: “Non lasciatevi prendere dai desideri della carne.” (Rm 13,14), e: “Quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta” (1 Tm 5,6).

L'esempio del ricco che aveva vissuto nelle delizie ci mostra anche la necessità della temperanza, se non vogliamo sentirci ripetere ciò che gli è stato detto: “Ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni” (Lc 16,25).

L'apostolo ci dice ancora quanto l'intemperanza sia da temere quando cita fra i caratteri dell’apostasia: “Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, …” (2 Tm 3,1-2), e dopo avere enumerato alcune forme del male, aggiunge: “… senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, …” (2 Tm 3, 3).

Esaù peraltro, provò quanto l'intemperanza sia il più grande dei mali quando, per un solo piatto di alimenti, vendette i suoi diritti di primogenitura (Gn 25,33). E la prima disobbedienza dell'uomo ebbe origine nell'intemperanza.

Al contrario tutti i santi hanno meritato questa testimonianza di aver vissuto nella temperanza. L’intera vita dei beati e l'esempio del Nostro Signore nel suo soggiorno mortale ci spingono a viverla.

È a seguito di una lunga perseveranza nel digiuno e nella preghiera che Mosè ricevette la legge (Dt 9,9) e intese la parola di Dio “Il Signore parlava con Mosé faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Es 33,11). Elia fu giudicato degno di vedere Dio soltanto dopo aver digiunato nella stessa misura (1 Re 19,8). E che dire di Daniele? Come raggiunse le sue straordinarie visioni? Non è stato dopo il ventesimo giorno di digiuno? (Dn 10,3) Come i tre fanciulli estinsero la violenza del fuoco? Non fu forse grazie alla temperanza? (Dn 1,8) e Giovanni? Fin dall'inizio egli visse nella temperanza (Mt 3,4; Lc 1,15). Il Signore stesso cominciò la sua vita pubblica praticandola (Mt 4,2).

Chiamiamo ovviamente temperanza non la completa astensione degli alimenti, poiché ciò causerebbe inevitabilmente la morte, ma la rinuncia alle cose piacevoli, praticata per calmare l'orgoglio della carne a vantaggio della vita di pietà. Insomma, quando ci sottoponiamo alle regole della perfezione noi dobbiamo moderarci in tutto ciò di cui vogliono godere coloro che vivono secondo le loro passioni.

Non è soltanto contro i piaceri della bocca che è diretta la pratica della temperanza, poiché comprende anche la rinuncia a tutto ciò che potrebbe ostacolare la pratica della virtù. Chi vive nella temperanza perfetta non controlla il suo ventre per essere in seguito vinto dalla gloria umana; non controlla i suoi cattivi istinti, senza dominare anche l'appetito della ricchezza e qualsiasi altra inclinazione spregevole: alla collera, alla gelosia o ad altre sensazioni, che dominano di solito le anime ribelli.

Penso proprio che si possa osservare in modo particolare, a proposito del precetto della temperanza, ciò che si constata riguardo ai comandamenti, e cioè che sono uniti tra loro e che è impossibile osservarli separatamente. Umile è colui che domina il suo desiderio di gloria; povero nello spirito come vuole il Vangelo colui che si modera nell'impiego della ricchezza e amabile colui che comanda alla sua rabbia e alla sua passione.

La temperanza perfetta esige essenzialmente che si imponga una misura alla propria lingua, dei limiti agli occhi e la semplicità alle orecchie: chi non è fedele in ciò è un uomo senza moderazione e senza freni. Vedete come attorno a questo solo precetto tutti gli altri si mettano in ordine come in un coro?

 

 

D - 17 - Occorre moderarsi anche nel ridere

 

R. - Ecco un punto molto trascurato e tuttavia ben degno di una speciale attenzione da parte di quelli che praticano l'ascetismo.

Consegnarsi all'riso rumoroso e smodato è un segno d'intemperanza e prova che non si è capaci di controllare se stessi, né di reprimere la frivolezza del cuore con la santa ragione. Non è sconveniente mostrare l'illuminarsi di gioia dell’anima con un allegro sorriso, come indica questo proverbio della Scrittura: “Un cuore lieto dà serenità al volto” (Pr 15,13), ma scoppiare dalle risa e scuotere il corpo  suo malgrado, non è di chi ha un cuore tranquillo, sicuro o padrone di sé stesso.

Questo genere di riso, L’Ecclesiaste lo rifiuta anche come se fosse il grande avversario della stabilità dell’anima: “Del riso ho detto: «Follia!»” (Qo 2,2), e: “perché quale il crepitio dei pruni (che ardono) sotto la pentola tale è il riso degli stolti.” (Qo 7,6).

Il Signore stesso ha voluto provare tutte le sensazioni inseparabili dalla natura umana e mostrare la sua virtù quale esempio nella fatica o nella compassione verso gli infelici ma, come la attestano i resoconti evangelici, non ha mai ceduto al riso; invece egli deplora quelli che ridono. (Lc 6,25).

Non lasciamoci tuttavia fuorviare dall'equivoco, poiché la Scrittura chiama spesso ridere la gioia del cuore ed il piacere causato da diverse specie di beni; così esclama Sara: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio” (Gn 21,6), di stesso Gesù detto: “Beati voi, che ora piangete, perché riderete” (Lc 6,21), e Giobbe: “Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso” (Gb 8,21). Tutte queste espressioni riguardano la gioia che si fonda sulla contentezza dell’anima.

Se qualcuno è dunque al di sopra delle passioni, non subisce l'attrazione del piacere, o almeno non gli cede, ma si domina con fermezza in presenza di ogni piacere nocivo, costui si controlla perfettamente, ed è evidente che comportandosi così si allontanerà da ogni peccato. Vi sono delle circostanze in cui occorre astenersi dalle cose permesse e necessarie alla vita, ed è così quando l'interesse di un fratello lo richiede, come dice l'Apostolo: “Se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne (Ndt: qui sta parlando della carne consacrata agli idoli)” (1 Cor 8,13). Egli aveva la facoltà di vivere del Vangelo (Ndt: ovvero delle ricompense dovute a chi predica il Vangelo), ma non ne fece uso per la paura di ostacolare questo stesso Vangelo di Cristo. (1 Cor 9,12).

La temperanza è la distruzione del peccato, l’annullamento delle passioni, la mortificazione del corpo, fino nelle sue voglie ed nei suoi desideri, il principio della vita spirituale e l'impegno verso i beni eterni, poiché spezza in sé stessa lo stimolo del piacere. Il piacere è, infatti, la grande esca del male che rende noi uomini così propensi al peccato e dal quale ogni anima è attirata verso la morte come da un amo. Non facendosi indebolire da esso, né curvare sotto il suo giogo si sfugge, grazie alla temperanza, ad ogni peccato. Tuttavia se, dopo essergli sfuggiti nella maggior parte delle occasioni, gli si cede, fosse anche per una sola volta, non si è temperanti, così come non è in buona salute colui che è colpito da una sola malattia e così come non è libero colui che è dominato da un solo padrone ed anche per una sola volta.

Le altre virtù, perché si esercitano nel segreto dell’anima, appaiono poco agli occhi degli uomini, mentre chi possiede la temperanza è riconosciuto subito da quelli che incontra. Così come la corpulenza ed i bei colori caratterizzano l'atleta, così la magrezza ed il pallore che derivano dalle privazioni fanno riconoscere il cristiano poiché, essendo atleta di Cristo, è nell'indebolimento del corpo che vince il suo nemico e mostra fin dove può sostenere i combattimenti spirituali, secondo queste parole: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10).

Quanto è utile il solo vedere la condotta del temperante! Non appena usufruisce, ed in piccole dosi, di ciò che è necessario, si alza rapidamente da tavola per affrettarsi al lavoro, come per rendere alla natura un servizio che gli pesa e crucciandosi del troppo tempo che vi occorre dedicare. Credo proprio che nessun discorso potrebbe toccare il cuore di chi è schiavo del suo ventre e portarlo a convertirsi, quanto un solo incontro con chi è temperante.

Ecco, mi sembra, ciò che vuole dire mangiare e bere per la gloria di Dio: significa fare in modo che, anche a tavola, le nostre buone azioni risplendano per glorificare nostro Padre, che è nei cieli.

 

 

D - 18: Occorre gustare tutti i cibi che ci vengono proposti

 

R.: Certamente è necessario stabilire questo principio che la temperanza è richiesta agli atleti della pietà per dominare il corpo: “Ogni atleta è disciplinato in tutto” (1 Cor 9,25); ma non occorre cadere nell'errore di quelli che si sono intorpiditi la coscienza e, conseguentemente, si astengono dagli alimenti creati da Dio per gli uomini affinché i medesimi ne utilizzino rendendogli grazie (1 Tm 4,2-3). Occorre dunque, quando se ne presenta l'occasione, venire in contatto con tutti gli alimenti quanto basta per manifestare agli occhi di tutti che per i puri tutto è puro (Tt 1,15), che ogni cosa creata da Dio è buona e che non si deve respingere nulla di ciò che si può prendere con azioni di grazie: “Perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1 Tm 4,4-5). Quanto all'obiettivo della temperanza lo si realizza in questo modo: da un lato si utilizzano le cose più semplici secondo le proprie necessità, necessarie alla vita, evitando ogni sazietà, e dall'altro ci si astiene da tutto ciò che è soltanto per il piacere.

Così smusseremo lo stimolo del piacere, eviteremo da parte nostra l’errore di quelli che si sono anestetizzati la coscienza, e sfuggiremo al sospetto d'eccesso nell'uno o nell'altro senso. Dice l’Apostolo: “Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui?” (1 Cor 10,29).

La temperanza è il segno che si è morti con Cristo e che si mortificano le proprie membra sulla terra. Noi sappiamo che essa genera la castità, procura la salute e infine rimuove i molti ostacoli alla fecondità in buone opere nel Cristo poiché, secondo la sua espressione, le preoccupazioni di questo mondo, i piaceri della vita e tutti gli altri desideri soffocano la parola di Dio e la rendono sterile (Mt 13,22). È anche dinanzi ad essa che i demoni fuggono, poiché il Signore stesso ci ha insegnato che questa razza è messa in fuga soltanto dal digiuno e dalla preghiera. (Mt 17,20).

 

 

D - 19: Quale è la regola della temperanza?

 

R.: Per ciò che riguarda le passioni dell’anima c'è soltanto una misura da fissare alla temperanza: è la rinuncia completa a tutte quelle che tendono al piacere immorale.

Quanto agli alimenti, al contrario, poiché le necessità differiscono per gli uni e gli altri secondo l'età, le occupazioni e la costituzione fisica, occorrono regimi e trattamenti diversi. Ne risulta che non si possono inglobare in una sola regola tutte quelle che si impongono nell'esercizio della pietà ma, fissando ciò che conviene alle normali costituzioni fisiche, permettiamo ai superiori di stabilire prudentemente delle eccezioni per i casi particolari. Non è possibile infatti parlare di ciascuno; occorre limitarsi a dare direttive comuni e generali.

D'accordo in ciò con colui che ha detto: “Dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,45), i superiori terranno sempre ragionevolmente conto delle necessità, per procurare sollievi con cibi adatti ai malati, a coloro che sono prostrati dal lavoro sostenuto, ed a quelli che si preparano ad una grande fatica, come un viaggio o qualsiasi altro duro sforzo.

Non è possibile determinare per i pasti né l'ora, né la qualità, né la quantità, ma sarà generalmente in vista del soddisfare le necessità. Riempirsi il ventre ed appesantirsi con gli alimenti merita questa maledizione del Signore: “Guai a voi, che ora siete sazi!” (Lc 6,25). Del resto, in questo modo il corpo diventa senza vigore ed esposto al sonno o alle malattie.

Non occorre neppure mangiare per golosità, ma per vivere, evitando di dedicarsi al piacere, poiché essere schiavo del piacere non è diversa cosa che farsi un Dio del proprio ventre. Perché il nostro corpo si svuota e si esaurisce costantemente, ha bisogno di rifocillarsi, ed è per ciò che la necessità di nutrirsi è nella natura stessa, ma la norma giusta che ci prescrive la ragione è di bere e mangiare per quanto sia necessario, per sostenere il corpo restituendogli ciò che ha perso.

I prodotti alimentari da utilizzare sono quelli più semplici da preparare. È ciò che insegna il Signore quando si incaricò di nutrire il popolo affaticato, per paura che venisse meno durante  il cammino, come lo racconta il Vangelo (Mt 15,32). Infatti, mentre avrebbe potuto fare un miracolo più eclatante ideando nel deserto uno splendido pasto, egli offrì a coloro che lo avevano seguito dei cibi così semplici e così frugali, che si riducevano a pane d'orzo con un po' di pesce (Gv 6,9). Di bevanda non se ne fa menzione, poiché abbiamo tutti a nostra disposizione l'acqua che fornisce la natura in sufficienza per le nostre necessità, a meno che questa sia nociva a qualche malato e debba essere evitata come Paolo consiglia a Timoteo (1 Tm 5,23).

Del resto tutto ciò che nuoce deve essere evitato poiché, per sostenere il corpo, non occorre prendere degli alimenti che siano in seguito nemici del corpo e lo ostacolino nel compimento del suo dovere, e questo ci insegna anche a prendere l’abitudine di rifuggire dagli alimenti nocivi, anche quando ci piacciono.

Si devono in ogni caso preferire i cibi più facili da procurarsi e non dare, sotto pretesto d'astinenza, molta cura ai cibi più ricercati e più costosi preparando gli alimenti con i migliori condimenti. Si sceglierà al contrario ciò che si trova più facilmente nella regione, ciò che costa poco e d'impiego comune; si useranno i prodotti alimentari portati dell'esterno, come l'olio o cose simili, soltanto in caso di necessità vitale o per alleviare un ammalato, ancorché ciò sia possibile senza troppe difficoltà, inquietudini e preoccupazioni.

 

 

D - 20: Quale tavola offrire agli ospiti?

 

R.: La vanagloria, il desiderio di piacere agli uomini e l’agire per essere visti sono comportamenti assolutamente vietati ai cristiani in ogni circostanza poiché, anche quando si osserva la legge, se lo si fa per essere notati o lodati dagli uomini, si perde il diritto alla ricompensa. Coloro che hanno abbracciato l'umiltà sotto tutte le forme per obbedire al Signore devono dunque fuggire innanzitutto la vanagloria.

Noi vediamo la gente all’esterno arrossire per l’umiliazione della povertà e poi gli stessi preparano una tavola abbondante e sontuosa agli ospiti che ricevono. Temo che, senza rendercene conto, potremmo cadere anche noi nello stesso errore e meriteremmo l’accusa di arrossire anche noi della povertà, proclamata tuttavia beata da Cristo. (Mt 5,3).

Dunque non ci occorre procurarci dall'esterno vasi d’argento, tovaglie di porpora, un letto morbido e delle preziose coperte, così come non possiamo ideare pasti che escono molto dal nostro ordinario. Se corriamo alla ricerca di ciò che non è strettamente richiesto dalla necessità, ma è stato concepito per servire al misero piacere o alla funesta vanagloria, la nostra condotta è indegna ed incompatibile col nostro ideale. Ben di più, fa un torto considerevole a coloro che vivono nella leggerezza e che spostano la beatitudine ai piaceri del ventre, vedendoci volgere verso le loro stesse spregevoli preoccupazioni.

Se il piacere è un male odioso, non dobbiamo mai consegnarci ad esso, poiché assolutamente nulla di ciò che è riprovevole in sé stesso può convenire in nessuna circostanza. Coloro che vivono nelle delizie, utilizzano i migliori profumi e bevono i vini più fini, incorrono nella condanna del Vangelo (Am 6,6), e la vedova che cede al piacere è considerata come già morta pur essendo viva (1 Tm 5,6); quanto al ricco, è stato privato del paradiso a motivo della sua vita di piacere. (Lc 16,22).

Cosa ci importa il fasto? Sopraggiunge un ospite? Se è un confratello che persegue lo stesso nostro obiettivo riconoscerà la sua tavola; ciò che ha lasciato da lui, ecco ciò che troverà da noi. Ma è stanco per il viaggio? Diamogli allora ciò che è necessario per ritemprarsi.

E’ arrivato un altro. È del mondo? Apprenda con i fatti ciò di cui la parola non lo ha persuaso e che gli si mostri il modello e l'esempio della frugalità nel cibo. Gli si rammenti la tavola dei cristiani e la povertà sopportata senza vergogna per l'amore di Cristo. Se non lo capisce, e anzi trova ciò ridicolo, non ci annoierà una seconda volta.

Ma noi, quando vediamo i ricchi mettere al primo posto il godimento dei piaceri, gemiamo molto su di loro: passando la loro vita nella vanità e facendo delle delizie i loro dei, non si accorgono che ricevono in questa vita la loro parte di beni, ed usufruendone quaggiù, si precipitano nel fuoco ardente che è stato preparato per loro. Se ne abbiamo l'occasione non esitiamo a dirlo loro.

Qualora anche noi cadessimo in questi errori e cercassimo con tutto il nostro potere i piaceri della tavola ed il fasto piacevole agli occhi, temo che in realtà demoliamo ciò che abbiamo l'aria di costruire e inoltre ci condanniamo con gli stessi principi che ci servono a giudicare gli altri. Sarebbe vivere da ipocriti, occupati a prendere a volte un atteggiamento ed a volte un'altro, fino ad arrivare a cambiarci d’abito quando ci incontriamo con un personaggio sfarzoso.

Se ciò è spregevole, lo è tuttavia ancora di più il modificare il nostro regime a causa degli amanti della buona tavola. C'è soltanto uno solo modo di vivere da cristiano, poiché c'è un solo scopo: la gloria di Dio. “Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”, dice Paolo parlando in Cristo. (1 Cor 10,31).

La vita delle persone del mondo, al contrario, è varia e multiforme perché cambiano costantemente per piacere al primo venuto.

Ne consegue che tu stesso, quando prepari sulla tavola di tuo fratello dei cibi abbondanti e destinati a lusingarne il gusto, tu lo accusi di ricercare il piacere e tu lo insulti facendolo apparire goloso, poiché tu gli attribuisci tali inclinazioni. Molto spesso non è vedendo quale tavola è preparata e come lo è, che indoviniamo chi si aspetta e ciò che vale?

Il Signore non ha affatto lodato Marta, molto occupata nel servirlo, ma ha detto: “Tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno” (Lc 10,41-42). “Poco”, significa ovviamente ciò che è da preparare; “una cosa sola”, lo scopo che si considera, cioè la necessità da soddisfare. Non ignorate del resto neppure quale pasto il Signore stesso ha fatto servire ai cinquemila.

La preghiera di Giacobbe è così concepita: “Mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi” (Gn 28,20), e non: “Dammi feste e vestiti sontuosi”

E che dice il saggio Salomone? “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: «Chi è il Signore?», oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio” (Pr 30,8-9).

Egli intendeva per “sazietà”: la ricchezza, per “indigenza”: la mancanza di tutto ciò che è necessario alla vita, e con “il necessario in sufficienza”: questo stato di cose in cui non si manca di nulla e nello stesso tempo non si ha nulla di superfluo. Ma ciò che basta ad uno differisce da ciò che basta all'altro, secondo lo stato fisico e la necessità del momento. Ad uno occorreranno alimenti più abbondanti e sostanziosi perché lavora, all’altro un cibo più gradevole e leggero e proporzionato in tutto alla sua debolezza; ma in generale occorre dare alimenti più ordinari e più facili da procurarsi.

Certamente si deve sempre avere una tavola servita con cura e in modo sufficiente, ma non si devono mai superare i limiti del necessario. Quando si ricevono ospiti, si cerchi di accontentarli in tutto ciò di cui hanno bisogno, senza però abusare delle cose di questo mondo. Come dice l'Apostolo: “Quelli che usano i beni del mondo, (si comportino) come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!” (1 Cor 7,31). L'abuso è l'utilizzo che supera la necessità.

Non abbiamo denaro? Non ce ne sia. Le nostre dispense non abbondano? Viviamo giorno per giorno, e le nostre mani ci procureranno il cibo. Perché dunque dovremmo prendere il cibo che Dio da a quelli che hanno fame per soddisfare il piacere degli amanti della buona cucina? Noi peccheremmo doppiamente: aumentando a quelli le angosce dell'indigenza, e a questi la triste conseguenza della sazietà.

 

 

D - 21: Quale sistemazione e quale posto occorre prendere a tavola ai pasti di mezzogiorno e della sera.

 

R.: Poiché, per abituarci ovunque all'umiltà, il Signore ha voluto che mettendoci a tavola si prenda l'ultimo posto (Lc 14,10), chiunque vuole obbedire in tutto deve anche osservare questo precetto.

Se abbiamo per commensali degli uomini del mondo, occorre in questo modo mostrare loro l'esempio che non occorre né innalzarsi né scegliere il primo posto.

Quando invece quelli che sono a tavola hanno le stesse aspirazioni e vogliono quindi dare in ogni occasione la prova della loro umiltà, anche se è vero che spetta a tutti di scegliersi l'ultimo posto, sarebbe comunque sconveniente disputarsi per averlo. Sarebbe come distruggere l'ordine e causare il tumulto, poiché litigare e tenersi testa a vicenda per l'ultimo posto è la stessa cosa che disputare per i primi. Occorre dunque anche qui avvalersi di circospezione e sapere agire come conviene, cioè lasciare a colui che riceve il compito di determinare i posti, come del resto lo ha prescritto il Signore dicendo che spetta al padrone della casa fissare l'ordine dei commensali (Lc 14,10).

E’ così che ci sosterremo reciprocamente nella carità conservando ovunque l'ordine e la correttezza di comportamento e noi mostreremo che non pratichiamo l'umiltà a dispetto di tutti, per ostentazione e spirito demagogico. È, infatti, piuttosto obbedendo che saremo umili, poiché c’è più orgoglio ovviamente nel contestare che nel prendere il primo posto quando ci viene assegnato.

 

 

D - 22: Quale abito conviene al cristiano.

 

R.: Ciò che abbiamo detto precedentemente mostra la necessità dell'umiltà, della semplicità, della povertà in tutto e della parsimonia, se si vogliono trovare nelle necessità del corpo soltanto poche cause di distrazioni.

Per l'abito, occorre dunque attenersi agli stessi principi, poiché se dobbiamo cercare di essere gli ultimi di tutti, dobbiamo esserlo anche in questo campo. Tanto i vanitosi si fanno gloria degli abiti di cui si coprono perché amano essere ammirati ed invidiati per la ricchezza del loro abbigliamento, altrettanto colui che si abbassa con l'umiltà al rango più trascurabile deve naturalmente anche cercare ciò che c'è di più povero in fatto di vestiti.

I Corinzi furono rimproverati (1Co 11,22) perché, durante i pasti comuni, i ricchi avevano umiliato coloro che non avevano nulla; ugualmente colui che pretende di superare gli altri negli abiti che porta di solito in pubblico, fa ovviamente arrossire i poveri originando una specie di confronto.

Poiché l'Apostolo dice: “Non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile” (Rm. 12,16), che ciascuno si chieda se è meglio per il cristiano somigliare a quelli che abitano nei palazzi e portano abiti preziosi o a colui che ha annunciato e proclamato l'avvento del Signore e del quale si dice che fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di lui (Mt 11,8-11), voglio dire di Giovanni, figlio di Zaccaria, il cui abito era di pelo di cammello (Mt  3, 4). Del resto i santi di un tempo se ne andavano anche loro rivestiti di pelli di pecora e di pelli di capra (Eb 11,37).

Lo scopo dell'abito ci è indicati da una parola dell'Apostolo: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci” (1 Tm 6,8). Egli riteneva che abbiamo bisogno soltanto di coprirci, senza cadere, per non dire di peggio, nell’illecita frivolezza, a causa della ricerca dell'ornamento e dell’illusoria soddisfazione che ne risulta, poiché quelle sono cose introdotte nell'umanità mediante arti vane e superflue.

Si sa del resto quale fu il primo abito in uso, dato da Dio stesso, quando ce ne fu bisogno. Dice la Scrittura: “Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì” (Gn 3,21), poiché per nascondere la vergogna della nudità questa tunica bastava.

In seguito, a questa necessità venne ad aggiungersene un'altra: quella di riscaldarsi coprendosi; occorse dunque bene adattare l'impiego dell'abito a questa doppia esigenza, cioè: nascondere la propria nudità e difendersi dai danni del freddo.

Tuttavia, siccome alcuni abiti possono rendere più servizi ed altri meno, sarà meglio preferire quelli che sono utili a più impieghi, per non peccare contro l’essenza della povertà. Non avremo dunque vestiti speciali da portare in pubblico ed altri da portare in casa, così come non ne avremo neppure diversi per il giorno e per la notte, ma troviamo un abito che può servire a tutto: ad avvolgerci decorosamente il giorno e coprirci con calore la notte. Ne conseguirà che avremo tutti ugualmente lo stesso vestito, ed anche che ci sarà nell'abbigliamento un segno distintivo per il cristiano, poiché le cose che tendono allo stesso fine di solito si somigliano tra di loro.

Il portare un abito speciale è dunque molto utile per fare conoscere la professione di ciascuno, e dimostrare la sua intenzione di vivere per Dio, di modo che coloro che li incontrano si aspettino di vederli comportarsi di conseguenza. Una condotta impropria o inopportuna, infatti, non ha lo stesso peso per il primo venuto e per colui che ha assunto grandi impegni.

Se un uomo del popolo, ad esempio, o chiunque, da o riceve percosse in pubblico, emette parole indecenti, entra nelle taverne o d'altra parte si comporta in modo così volgare, nessuno vi farà attenzione, poiché si capirà che sono fatti ordinari della vita corrente; ma se qualcuno tende alla perfezione e manca al suo dovere, fosse per caso soltanto per una sola volta, tutti lo osserveranno, lo copriranno di ignominia e faranno come è detto nella Scrittura: “Perché poi si voltano per sbranarvi” (Mt 7,6).

Il fatto di essere segnalati dal loro vestito sarà dunque per i più deboli come un avvertimento e li allontanerà dal male, anche a dispetto di loro stessi.

Come il soldato, il senatore e altri si distinguono da una particolarità nell'abbigliamento che indica di solito il loro rango, così conviene anche al cristiano un modo di vestirsi che salva la modestia richiesta dall'Apostolo, che prescrive sia al vescovo di essere vestito modestamente (1 Tm 3,2), sia alla donna di portare un abito semplice (1 Tm 2,9), essendo a suo parere che la modestia, senza dubbio, risponde meglio alle disposizioni del cristianesimo.

Per le scarpe dirò la stessa cosa: e cioè che occorre in qualsiasi occasione scegliere ciò che vi è di più semplice, di meno costoso e che si adatti meglio all'impiego che se ne fa.

 

 

D - 23: Della cintura

 

R.: La vita dei santi che ci hanno preceduti ci mostra la necessità della cintura.

Giovanni portava attorno ai reni una cintura di pelle (Mt 3,4) e prima di lui Elia, poiché la Scrittura ne parla come di una delle sue caratteristiche dicendo di lui: “Era un uomo coperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi” (2 Re 1,8).

Pietro ovviamente ne portava una anche lui, come si intuisce dalle parole che l'angelo gli indirizzò: “Mettiti la cintura e légati i sandali” (At 12,8). Così pure il beato Paolo, secondo la profezia che fece Àgabo al suo riguardo: “L’uomo al quale appartiene questa cintura, i Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani” (At 21,11).

Giobbe ricevette dal Signore l'ordine di mettere la sua cintura come un indice di virilità ed un segno che era pronto ad agire: “Cingiti i fianchi come un prode” (Gb 38,3), ed è ovvio che tutti i discepoli di Gesù avevano anche l'abitudine di portare una cintura, poiché fu loro vietato di conservarvi del denaro (Mt 10,9).

D'altra parte, chi vuole mettersi al lavoro deve avere i movimenti facili e liberi; la cintura gli sarà dunque utile per adattare adeguatamente la tunica al corpo, in modo da tenerlo più al caldo rinchiuso nelle pieghe e da rendergli più liberi i movimenti. Il Signore stesso, quando si prepara a servire i suoi discepoli, prese un grembiule e se ne cinse (Gv 13,4).

Non abbiamo bisogno di parlare del numero di abiti, poiché abbiamo abbastanza detto su quest'argomento trattando della povertà. Se colui che ha due tuniche è obbligato a darne una a chi non ne ha (Lc 3,11), è chiaro che gli è fatto divieto di averne più di una per il suo uso. E allora a che pro dare regole sul modo di utilizzarle, se non si possono avere due tuniche?

 

 

D - 24: Soddisfatti di questi insegnamenti, vorremmo ora apprendere il modo di vivere gli uni con gli altri.

 

R.: Poiché l'Apostolo ha detto: “Tutto però avvenga decorosamente e con ordine” (1 Cor 14,40), chiameremo condotta decorosa e ben ordinata quella che nelle relazioni tra fedeli si basa sulle relazioni tra membra di uno stesso corpo. Avrà dunque la funzione d'occhio colui che ha ricevuto, nell'interesse della Comunità, la missione di giudicare ciò che è stato fatto e di prevedere prudentemente ciò che c'è da fare; quella dell'orecchio colui che ha l’incarico di ascoltare; quella della mano colui che deve agire, e così via secondo l'attività di ciascuno.

Non è senza pericolo per il corpo che un membro trascuri di svolgere la sua funzione o rifiuti di servirsi di un altro membro secondo la finalità che ha ricevuto dal divino Creatore. Così se la mano o il piede non obbediscono alle indicazioni dell'occhio, la prima corre il rischio di toccare ciò che gli sarà nocivo ed il secondo inciamperà necessariamente o cadrà in un precipizio. Se è l'occhio che si chiude e rifiuta di vedere, perirà certamente con tutte le altre membra alle quali succederà ciò che abbiamo appena detto.

Ma è altrettanto pericoloso per il superiore essere negligente, poiché dovrà rendere conto di tutti; quanto all'inferiore, se è disubbidiente, ne subirà il danno e la pena, e specialmente quando sarà di  scandalo per gli altri.

Invece, se qualcuno mostra nel posto che occupa l'ardore del suo zelo conformemente all'avvertimento dell'Apostolo: “Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito” (Rm 12,11), riceverà l'elogio che merita la buona volontà; mentre al negligente sarà certamente riservato come triste destino quest'anatema della Scrittura: “Maledetto chi compie fiaccamente l’opera del Signore” (Ger 48,10).

 

 

D - 25: Quanto sarà terribile il giudizio per il superiore che non riprende i peccatori

 

R.: Il superiore, al quale è affidata la cura di tutti, deve dunque agire come dovendo rendere conto per ciascuno.

Che lo sappia, se uno dei fratelli viene a cadere in una colpa perché non gli avrà mostrato la legge di Dio, o se qualcuno resta nel peccato perché non gli avrà indicato il mezzo per correggersi, secondo la Scrittura (Ez 3,20), egli risponderà del suo sangue. Sarà così in particolare se non è per ignoranza che si infrange la volontà divina, ma perché a forza di assecondare le mancanze di ciascuno, il superiore ha lasciato che la disciplina perdesse il suo rigore: “Le tue guide ti traviano, dice la Scrittura, distruggono la strada che tu percorri” (Is 3,12), “Ma chi vi turba subirà la condanna, chiunque egli sia” (Gal 5,10).

È per questo che, se non vogliamo che questa minaccia si realizzi per noi, quando parliamo ai fratelli dobbiamo obbedire a questa regola dell'Apostolo: “Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri” (1 Ts 2,5-6).

Chi sarà libero da tali vizi andrà quasi certamente senza errore in una via che lo condurrà alla ricompensa e condurrà coloro che lo seguono alla salvezza eterna. Non lasciandosi guidare né da considerazioni umane né dal timore di offendere i peccatori o il desiderio di essere a loro gradito, ed ispirandosi soltanto alla carità, trasmetterà liberamente una parola giusta ed onesta, poiché sarà deciso a non alterare in nulla la verità. È dunque ad un tale superiore che saranno applicate queste parole: “Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1 Ts 2,7-8).

Colui che non è in queste disposizioni è una guida cieca che getta sé stesso nel precipizio e vi conduce quelli che lo ascoltano.

Da quanto detto si può dedurre di quale danno si è responsabili quando, anziché condurre un fratello sulla buona via, si è causa del suo errore! Del resto questo è un segno che non si compie neppure il precetto della carità, poiché nessun padre si disinteressa di suo figlio quando lo vede sul punto di cadere in un precipizio o lo abbandona alla morte una volta che vi è caduto. Ma è necessario dire quanto è ancora più terribile abbandonare alla sua perdizione un’anima che è scivolata nell'abisso del peccato?

Il superiore è dunque obbligato a vegliare sulle anime dei fratelli e a preoccuparsi di ciò che occorre fare per salvare ciascuno di loro, perché dovrà renderne conto. Deve anche essere così attento a ciò, che il suo zelo si mostri capace di andare fino alla morte, non soltanto perché il Signore, parlando della carità ordinaria che si deve a tutti, ha detto: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13), ma anche perché l'apostolo ne ha fatto un precetto speciale dicendo: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita” (1 Ts 2,8).

 

 

D - 26: Occorre rivelare al superiore perfino i segreti del cuore.

 

R.: Per ciò che è degli inferiori, se vogliono fare dei progressi apprezzabili e vivere secondo i precetti del nostro Signore Gesù Cristo, non devono conservare nascosto alcun movimento segreto del cuore, né proferire parola che non sia stata controllata. Occorre al contrario che rivelino gli arcani del cuore a coloro che sono designati ad occuparsi con benevolenza e misericordia dei fratelli più deboli: il bene che si trova in loro sarà rafforzato ed il male opportunamente corretto.

Grazie a questa collaborazione si arriverà con un continuo progresso fino alla perfezione.

 

 

D - 27: Se il superiore viene ad indebolirsi, sarà ripreso da quelli che hanno autorità nella fraternità.

 

R.: Poiché il superiore è obbligato a dirigere i fratelli in tutto, così gli altri devono ammonirlo, a loro volta, non appena ravvisino una mancanza da parte sua. Tuttavia, è ai fratelli più avanzati in età ed in giudizio che spetta fare questa osservazione se non si vuole distruggere il buon ordine.

Infatti, se lui deve essere corretto in qualche cosa, noi renderemo servizio ad un fratello e lo ricondurremo sulla retta via. Attraverso di lui ne gioveremo anche noi, poiché questo fratello è la regola della nostra vita e perché la sua buona condotta deve essere per noi come un richiamo non appena la nostra diventa cattiva.

 

D'altra parte, se alcuni si turbano senza ragione a causa del superiore, quando saranno persuasi dall’evidenza che i loro sospetti non erano fondati, saranno liberati dai loro dubbi su di lui.

 

 

D - 28: Come si devono comportare tutti riguardo a chi non obbedisce.

 

R.: Quando un fratello obbedisce a malincuore ai precetti del Signore, occorre cominciare con l’avere pietà di lui, come di un membro malato, ed il superiore deve provare a guarirlo con le sue esortazioni.

Se persiste nella sua disobbedienza e non acconsente a correggersi, occorre riprenderlo con severità, in presenza di tutti i fratelli, ed esortarlo in modo insistente per salvarlo; ma se, dopo molti ammonimenti, non si riprende né corregge la sua condotta, occorre considerarlo secondo il proverbio (Pr 18,9) come una peste per sé stesso e, sull'esempio dei medici, forse con lacrime e con tristezza, tagliarlo dal corpo come un membro corrotto e completamente inutile.

Infatti, quando i medici hanno a che fare con un membro colpito da una malattia incurabile, hanno l'abitudine di toglierlo con il ferro o con il fuoco, per paura che il male si diffonda attaccando le parti vicine. Occorre fare la stessa cosa riguardo a coloro che si comportano da nemici dei comandamenti di Dio ed impediscono agli altri di osservarli, poiché il Signore ha detto: “Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te” (Mt 5,29). La bontà che si mostra a tali fratelli somiglia alla debolezza colpevole di cui Eli diede prova verso i suoi figli, contro la volontà del Signore, e che gli fu rimproverata. (1 Sam 3,13).

Conservare un atteggiamento benevolo riguardo ai malvagi significa tradire la verità, innalzare ostacoli alla Comunità ed abituarsi all'indifferenza riguardo al male poiché, a causa di non avere fatto ciò che dice l'Apostolo: “E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile!?” (1Cor 5,2), arriva necessariamente ciò che aggiunge: “Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?” (1 Cor 5,6).

“Quelli poi che risultano colpevoli, rimproverali alla presenza di tutti”, ed aggiunge immediatamente la ragione: “perché anche gli altri abbiano timore” (1 Tm 5,20).

Insomma: chi non accetta il farmaco che gli offre il superiore contraddice anche sé stesso, poiché se non vuole riceverne le direttive e persiste nella sua volontà propria, perché resta con lui? Perché lo prende come regola della sua vita?

Se qualcuno ha accettato di essere incorporato nella Comunità, una volta giudicato “vaso utile al padrone di casa” (2 Tm 2,21), anche se crede che l'ordine superi le sue forze, deve rimettersi al giudizio di colui che così comanda al di là delle sue forze, e mostrarsi docile ed obbediente fino alla morte in ricordo del Signore, “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). Rivoltarsi e contraddire è indice di molte mancanze: fede debole, speranza traballante, orgoglio e superbia di carattere. Nessuno, infatti, disobbedisce senza avere dapprima disprezzato colui che comanda. Al contrario, chi ha fiducia nelle promesse divine e spera fermamente in esse, non esiterà certamente a compiere gli stessi difficili ordini che gli vengono imposti poiché, lo sa bene, “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura” (Rm 8,18).

Inoltre, colui che crede che “chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23, 12), mostrerà ancora più ardore di quanto non ne attenda il superiore poiché, egli lo sa, “Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,17).

 

 

D - 29: Dell'orgoglio e della mormorazione nel lavoro.

 

R.: Senza dubbio, quando un fratello è sorpreso a mormorare o ad inorgoglirsi durante il suo lavoro, ciò che avrà fatto non potrà essere messo assieme al lavoro di coloro che hanno il cuore umile e contrito, né servire in nessun modo a coloro che hanno il timore di Dio, poiché “Ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Lc 16,15). L'Apostolo stesso dà un avvertimento dicendo: “Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore” (1 Cor 10,10), e: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza” (2 Cor 9,7).

Un lavoro di questo genere è dunque inaccettabile, come un sacrificio degno di biasimo, e non è bene unirlo al lavoro degli altri. Come coloro che avevano portato sul loro altare il fuoco straniero furono sottoposti a una punizione esemplare (Lv 10,1-2), allo stesso modo non sarebbe pericoloso accettare il lavoro compiuto in cattive disposizioni riguardo a Dio, per attuare i suoi comandamenti? “Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?” (2 Cor 6,14-15). È per questo che Dio disse: “Uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo,… uno presenta un’offerta e poi sangue di porco, … essi si dilettano dei loro abomini” (Is 66,3).

Occorre dunque assolutamente allontanare dalla fraternità il lavoro dell’ozioso e del mormoratore.

Da parte loro i superiori devono vegliare a non trasgredire loro stessi la dottrina di Colui che ha detto: “Chi cammina nella via dell’innocenza, costui sarà al mio servizio. Non abiterà dentro la mia casa chi agisce con inganno” (Sal 101,6-7). Non bisogna dunque che, grazie ai superiori, colui che mescola il peccato all’osservanza dei comandamenti e rovina il suo lavoro eludendo la pena o inorgogliendosi della sua superiorità, lo stesso continui nella perversità, perché gli stessi superiori accettano le sue opere e gli tolgono così l'occasione di rendersi conto dei suoi mali.

Da un lato, il superiore deve sapere che, se non è per suo fratello una vera guida, si espone ad una grave ed inevitabile punizione poiché, secondo la Scrittura “della sua morte io domanderò conto a te” (Ez 3,18); d'altra parte, il sottoposto deve essere pronto a non sottrarsi da nessun ordine, neanche dal più penoso, nella persuasione che egli avrà una ricompensa più abbondante nei cieli.

Che la speranza della gloria rallegri dunque il discepolo che obbedisce, e gli faccia compiere il lavoro del Signore con pazienza e gioia!

 

 

D - 30: Con quale spirito i superiori devono occuparsi dei fratelli

 

R . : Il superiore non s’inorgoglisca a causa della sua posizione di rilievo, per non incorrere nel rischio di decadere dalla beatitudine promessa agli umili (Mt 5,3), o di cadere accecato di superbia sotto la condanna del demone (1 Tm 3,6); sia invece ben persuaso di ciò: che governare è servire.

Colui che presta le sue cure ad un ferito, raschia il marcio delle sue piaghe ed usa rimedi secondo la natura del male che incontra, non si vanti per nulla del servizio reso, ma vi trovi una ragione d'umiltà, di sollecitudine e d'afflizione. Così, a fiortori, colui al quale è stato affidata la cura di guarire la Comunità, come servo di tutti e tenuto a rendere conto di ciascuno, deve accettare le preoccupazioni e l’inquietudine. È allora che raggiungerà realmente il suo scopo, secondo la parola del Signore: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc 9,35).

 

 

D - 31: E’ necessario accettare i servizi del superiore.

 

R.: I fratelli devono accettare anche i servizi materiali che vengono loro prestati da quelli che occupano il posto di superiori nella fraternità, poiché fa parte dell’essenza dell'umiltà che il superiore serva e che l'inferiore accolga volentieri questo servizio.

Infatti l'esempio del Signore mostra che, se non ha creduto indegno di sé il lavare i piedi dei suoi discepoli, costoro non hanno neppure avuto l'audacia di resistergli e Pietro, che per la sua devozione verso di lui teneva il primo posto, non avendo inizialmente accettato, si affretta tuttavia ad obbedire non appena viene informato del pericolo che correva sottraendosi.

L'inferiore non deve dunque temere di non potere praticare l'umiltà anche se a volte il superiore lo serve, poiché quest'ultimo lo fa spesso per istruirlo o per dargli il buono esempio, molto più che non per una urgente necessità. È obbedendo ed imitando che mostrerà la sua umiltà, mentre se resiste sotto pretesto d'umiltà, darà prova d'orgoglio e di superbia, poiché la resistenza indica uno spirito d'indocilità e d'indipendenza ed è un segno dell'orgoglio e del disprezzo piuttosto che dell'umiltà e della docilità in tutto.

Obbediamo dunque a Colui che ha detto: “Sopportandovi a vicenda nell’amore” (Ef 4,2).

 

 

D - 32 Quale atteggiamento occorre prendere riguardo ai membri della propria famiglia.

 

R. A coloro che sono stati definitivamente ricevuti nella fraternità i superiori non devono assolutamente permettere di allontanarsene per nulla, separarsi dai fratelli ed andare a vivere senza testimoni, sotto pretesto di visitare i loro parenti, o di assumere la tutela degli interessi dei membri della loro famiglia.

Occorre, infatti, respingere assolutamente l'impiego delle parole “mio” e “tuo” tra fratelli, poiché sta scritto, “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (At 4,32). Di conseguenza, se i genitori o i fratelli di qualcuno vivono secondo Dio, che siano onorati da tutti nella fraternità come padri e fratelli di tutti, il Signore avendo detto: “Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50), e ci sembra che spetti al superiore della fraternità prendere cura di loro.

Quando sono implicati nella vita ordinaria, noi non abbiamo nulla in comune con loro, noi che ci sforziamo di praticare esattamente e senza sosta la legge di Dio poiché, oltre al fatto che noi non possiamo rendere loro nessun servizio, noi riempiremmo ancora la nostra vita di turbamento e d'agitazione, e ci lasceremmo trascinare alle occasioni di peccare.

Molto più, se i nostri parenti di un tempo sono detrattori delle leggi divine e disprezzano la vita religiosa, noi non possiamo riceverli normalmente quando vengono a visitarci perché non amano il Signore che ha detto: “Chi non mi ama, non osserva le mie parole” (Gv 14,24). Ma “Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, … o quale collaborazione fra credente e non credente?” (2 Cor 6,14-15).

Occorre specialmente fare di tutto per allontanare con cura le occasioni di peccare da coloro che si esercitano ancora alla virtù - delle quali occasioni la più disastrosa è la memoria della vita passata - per paura che si verifichi ciò che esprimono queste parole: “Torniamo in Egitto” (Nm 14,4) e cioè che tornarono con i loro cuori in Egitto; ma questa disgrazia arriva spesso in seguito ad incontri frequenti con i parenti.

In generale non occorre dunque permettere a chiunque, parenti od estranei, di avere un colloquio con fratelli, a meno che non si sia sicuri che lo fanno per l’edificazione ed il progresso spirituale dell’anima.

Se a volte è necessario parlare con ospiti, si affidi questo incarico a coloro che hanno ricevuto il carisma della parola, perché possono parlare ed ascoltare con saggezza per l’edificazione della fede. L'Apostolo ci insegna chiaramente che non è dato a tutti di sapere parlare, ma che è un carisma accordato di rado: “A uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza” (1 Cor 12,8), ed aggiunge altrove: “Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori” (Tt 1,9).

 

 

D - 33: Quale regola osservare nelle relazioni con le sorelle.

 

R.: Colui che ha rinunciato per sempre al matrimonio rinuncerà molto più ancora alle inquietudini di cui si preoccupa un uomo sposato che vuole piacere a sua moglie (1 Cor 7,33), e respingerà del tutto ogni preoccupazione di piacere ad una donna, poiché temerà il giudizio di Colui che ha detto: “Dio ha disperso le ossa di coloro che piacevano agli uomini” (Sal 52,6).

Non avrà mai dunque un colloquio con una sorella e nemmeno con un uomo, nel solo desiderio di piacergli, ma quando la sua utilità lo richiederà andrà al colloquio in questo spirito di carità che Dio vuole che ciascuno trovi nel suo prossimo.

Questi incontri non devono dunque essere concessi né a tutti coloro che lo desiderano, né in qualunque momento, né in qualsiasi posto. Se, obbedendo al precetto dell'Apostolo, non vogliamo essere un argomento di scandalo (1 Cor 10,32) agli Ebrei, ai Greci ed alla Chiesa di Dio, ma fare tutto con decenza, ordine ed edificazione, ci occorre scegliere e determinare con cura le persone, il momento, l'argomento ed il luogo. Con ciò, si eviterà anche ogni ombra di sospetto del male e coloro che saranno stati riconosciuti capaci di vedersi e di intrattenersi con argomenti piacevoli a Dio, sia per il servizio del corpo sia per l'utilità dell’anima, manifesteranno la loro riserva e la loro modestia in tutto il loro modo di agire.

Che non siano mai meno di due da ogni lato, poiché ad essere soltanto uno da una parte ed uno dall'altra si fa facilmente nascere il sospetto, per non dire di più, e le parole che verranno dette avranno meno forza probante, poiché la Scrittura afferma prudentemente: “Il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni” (Dt 19,15; Mt 18,16). Che non siano tuttavia più di tre per non ostacolare il desiderio di zelo voluto dal nostro Signore Gesù Cristo.

Se dei fratelli devono dire o ascoltare cose personali, non si accorderà l'incontro agli interessati stessi, ma altri fratelli scelti fra gli anziani si incontreranno con delle sorelle ugualmente anziane e la questione sarà trattata tramite l’intermediazione degli anziani. Questa misura deve del resto essere osservata non soltanto dagli uomini riguardo alle donne e dalle donne riguardo agli uomini, ma anche dagli uomini e dalle donne tra di loro.

Oltre ad avere il timore di Dio e la gravità in tutto, questi intermediari scelti saranno prudenti nelle loro interrogazioni e nelle loro risposte, fedeli e saggi nei loro discorsi, e realizzeranno questo avvertimento: “Parlerà con discernimento” (Sal 111,5), in modo da rispondere all'attesa di coloro che avranno avuto fiducia in loro ed a dare loro ogni rassicurazione su ciò che avranno trattato per loro.

Altri fratelli avranno ugualmente l’incarico di vegliare sulle necessità corporali e saranno anch’essi ben valutati, avanzati in età, degni nella loro condotta e nel loro modo di vivere, affinché nessun cattivo sospetto non venga a ferire alcuna coscienza, perché: “Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui?” (1 Cor 10,29).

 

 

D - 34: Quali qualità sono richieste a quelli che distribuiscono il necessario ai fratelli.

 

R.: Occorre assolutamente che ci siano fratelli incaricati di distribuire il necessario in ogni ordine di cose, capaci di fare come è detto negli Atti: “Veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,35).

Avranno particolarmente a cuore di essere misericordiosi e miti verso tutti e non prestare il fianco al sospetto di simpatia o di preferenza per alcuni, secondo l'avvertimento dell'Apostolo: “Non fare mai nulla per favorire qualcuno” (1 Tm 5,21); eviteranno anche di sembrare animati da questo spirito di litigio dichiarato dallo stesso Apostolo estraneo al cristiano: “Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio” (1Cor 11,16), poiché in seguito a questa disposizione rifiuterebbero il necessario ai loro avversari, e darebbero con eccesso ai loro amici: da un lato sarebbe l’odio tra fratelli, e dall'altro l'amicizia particolare, amicizia estremamente deplorevole, perché distrugge l'armonia, frutto dell'amore fraterno, e perché ne conseguono i cattivi sospetti, le gelosie, le discussioni e la negligenza nel lavoro.

Per queste conseguenze e per molte altri simili, è in sommo grado necessario che coloro che sovvengono alle necessità degli altri nella fraternità siano liberi da questo spirito di contesa e da queste simpatie particolari. Loro stessi e tutti coloro il cui compito è di essere utili ai fratelli, devono sentire interiormente e mostrare esteriormente che servono non degli uomini ma il Signore stesso, poiché nella sua grande bontà Lui ritiene come resi a sé stesso l'onore ed lo zelo resi a quelli che gli sono consacrati, e promette in ricompensa l'eredità del Regno dei Cieli: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, … perché tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,34-40).

Invece riconosceranno quanto la negligenza è disastrosa quando si ricorderanno di colui che ha detto: “Maledetto chi compie fiaccamente l’opera del Signore” (Ger 48,10) poiché non soltanto saranno respinti dal Regno dei Cieli, ma intenderanno ancora questa temibile e terribile sentenza: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Mt 25,41).

Poiché coloro che devono servire gli altri e vegliare sulle loro necessità ricevono tale ricompensa per il loro zelo o incorrono in tale punizione per la loro negligenza, con quale fervore, coloro che ricevono il favore, devono rendersi degni di essere chiamati fratelli del Signore? È bene, infatti, ciò che insegna il Signore dicendo: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50).

È in grande pericolo colui che non si è proposto come scopo di tutta la sua vita di fare la volontà di Dio, così da mostrare lo sforzo della sua carità mediante il suo zelo nel lavoro per il Signore quando è in buona salute, sia manifestando nella gioia la sua pazienza e la sua sopportazione quando è malato. È in pericolo anzitutto e soprattutto perché si è separato lui stesso dal Signore e dalla Comunità dei fratelli allontanandosene con la sua disobbedienza, in secondo luogo perché osa indegnamente prendere parte a ciò che è riservato per coloro che l’hanno meritato.

Qui ancora è dunque necessario ricordarsi di ciò che dice l'Apostolo: “Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio” (2 Cor 6,1). Coloro che sono chiamati ad essere fratelli di Cristo devono guardarsi dal disprezzare una così grande grazia di Dio e dal tradire tale dignità trascurando di compiere la volontà del Signore. Obbediranno piuttosto all'Apostolo che ha detto: “Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto” (Ef 4,1).

 

 

D - 35: Occorre stabilire diverse fraternità in una stessa località?

 

R . : L'esempio così spesso usato delle membra del corpo ci servirà nuovamente qui.

Abbiamo visto che per agire adeguatamente e normalmente in tutto ciò che fa, il corpo ha bisogno degli occhi, della lingua e delle altre membra, tutte necessarie ed indispensabili. Ma in una comunità è indubbiamente ben difficile trovare qualcuno che può svolgere la funzione dell'occhio. Se occorre dunque, per bene agire, che colui che dirige i fratelli debba essere prudente, sappia parlare, sia sobrio, misericordioso, e cerchi la giustizia con un cuore perfetto, come se ne possono trovare molti che riuniscono in sé queste qualità in uno stesso posto?

Se anche se ne trovano due o tre, cosa che è difficile e, a nostra conoscenza, non è mai successo, sarà di gran lunga preferibile che assumano insieme il carico di una sola comunità e se ne riducano reciprocamente il peso. In questo modo, quando uno è assente o occupato o in altre situazioni, ad esempio se uno di loro lasciasse la Comunità, l'altro sarà sempre là per consolare i fratelli della sua assenza, a meno che egli stesso non si rechi in un'altra comunità dove manca di superiore.

Possiamo anche fare qui il raffronto con ciò che avviene nel mondo. Coloro che sono abili nella loro professione invidiano i loro rivali e ovviamente ne risultano latenti inimicizie. Così anche succede generalmente nel nostro stato di vita tra Comunità vicine: si comincia col fare a gara di virtù e ci si cerca di superare sia nella ricezione degli ospiti, sia nell'assunzione dei fratelli, sia in altri punti simili, e si finisce di solito in litigi.

Quando dei fratelli sono di passaggio, anziché trovare la pace, cadono nell'incertezza e nel dubbio perché non sanno a quale Comunità (della zona) rivolgersi, temendo di scontentare qualcuno con la loro scelta e non potendo tuttavia, soprattutto se hanno fretta, accontentare tutti.

Coloro che volessero impegnarsi nella stessa vita cadranno anch’essi nell’inquietudine poiché non sapranno chi scegliere per guida e se scelgono gli uni dovranno bene escludere gli altri; ne seguirà naturalmente per loro che, fin dai primi giorni, sentiranno i danni dell'orgoglio perché, anziché sottomettersi come discepoli, si saranno comportati come i critici ed i giudici della fraternità.

Poiché non c'è nessun vantaggio riconosciuto a una tale divisione, ma soltanto ci sono al contrario così gravi inconvenienti, è dunque completamente inadeguato stabilire comunità a poca distanza una dell'altra. Se per caso qualcuno ha avuto la presunzione di farlo, si affretti di ritornare sulla sua decisione, soprattutto quando ne avrà provato gli svantaggi, poiché persistere nel proprio modo di vedere sarebbe come mostrare lo spirito di contesa. Come dice l’Apostolo:  “Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio” (1 Cor 11,16).

Del resto, quale ragione troveranno per impedire l'unione? Forse per come procurarsi il necessario? Ma è molto più facili procurarsi ciò di cui si ha bisogno quando si è riuniti, poiché basta allora una sola lampada, un solo focolare e così via giacché in ciò, come in tutto il resto, occorre mirare a procurarsi agevolmente ciò che serve e nella misura dello stretto necessario. Inoltre occorreranno più fratelli per andare fuori a cercare ciò di cui si ha bisogno se le comunità sono divise, e meno, se sono riunite in una sola. Ora voi sapete senza che ve lo dica quanto è difficile trovare un uomo che non disonori il nome del Signore e conservi un atteggiamento degno della sua professione nelle sue relazioni esterne con gli estranei.

Del resto, coloro che restano così allontanati dalla Comunità come potranno edificare i loro fratelli unendoli nella pace, se è necessario, o esortandoli al compimento dei comandamenti, giacché il solo fatto che non sono in mezzo a loro causa già perfidi sospetti?

Sappiamo inoltre che Paolo scriveva al Filippesi: “Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.” (Fil 2,2-4). Ma quale più grande segno d'umiltà da parte dei superiori che non il sottomettersi uno all'altro, poiché se sono dotati di carismi il loro comune sforzo sarà tanto più prezioso. Come il Signore ce l'ha mostrato inviando i suoi discepoli due a due (Mc 6,7), ciascuno vorrà sottomettersi all'altro con gioia nel ricordo della parola: “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Se, al contrario, uno è più dotato dell'altro, sarà tanto più utile a chi è meno favorito l’essere assistito da colui che lo è maggiormente.

La moltitudine di comunità come non costituirebbe anche una violazione manifesta del precetto dato dall'Apostolo: “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.” (Fil 2,4)? Credo, infatti, che sarebbe difficile conformarsi in questa divisione, poiché ogni comunità si occuperebbe soltanto di ciò che riguarda i suoi membri, non preoccupandosi in nessun modo degli altri, cosa che, dobbiamo dirlo, si oppone chiaramente all'avvertimento dell'Apostolo.

Infine, i santi di cui si parla negli Atti portano anche la loro prova, poiché è detto al loro riguardo che “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32), e che “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune” (At 2,44). È ovvio che non c'era nessuna divisione tra loro, che nessuno viveva appartato, e che tutti erano sottoposti ad una stessa e unica guida, e questo quando erano una folla di cinquemila persone e fra esse ce n'erano certamente ed in buon numero che, secondo il  giudizio umano, erano invece adatti ad impedire l'unione. Poiché i fratelli che si possono trovare in uno stesso posto sono molto meno numerosi, perché dovrebbero restare divisi?

E’ piaciuto al cielo che non soltanto i fratelli di una stessa borgata ma anche le fraternità disperse in luoghi diversi possano essere riunite e sottoposte ad un’unica guida, al comando di superiori capaci di dirigere fermamente e prudentemente gli interessi di tutti nell'unità dello Spirito e nel vincolo della pace!

 

 

D - 36: Di quelli che escono dalla fraternità.

 

R . : Coloro che hanno assunto l'impegno di vivere insieme non possono più andarsene a loro gradimento, e così il fatto di non perseverare nella loro risoluzione è imputabile a due ragioni: o ad inconvenienti che derivano dalla vita in comune, o all'instabilità di spirito di colui che cambia idea.

Chi se ne parte per evitare che i fratelli gli nuocciano non deve conservare segreta la ragione che lo spinge a fare ciò, ma piuttosto rimproveri i suoi fratelli nel modo che indica il Signore, dicendo: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo” (Mt 18,15). Se raggiunge il suo scopo egli avrà guadagnato i suoi fratelli ed egli non dovrà infliggere un affronto alla comunità, ma se vede che persistono nel male e non accettano di correggersi, ne farà parte a quelli che sono in grado di giudicare e se ne andrà in presenza di testimoni. Non saranno più allora dei fratelli quelli che lascerà, ma degli estranei, poiché il Signore ha chiamato pagano e pubblicano colui che persevera nel male: “Sia per te come il pagano e il pubblicano” (Mt 18,17).

Quando colui che vuole abbandonare la comunità lo fa per leggerezza personale si corregga della sua debolezza e, se non vi consente, sia considerato come indesiderabile.

A volte, tuttavia, è per obbedire al Signore che l'uno o l'altro si vede trascinato di qua e di là; ma coloro che sono in questa situazione non lasciano realmente la comunità: essi compiono un dovere.

Nessun’altra ragione di separazione dai fratelli è ammissibile, innanzitutto perché è come disprezzare il nome unificatore del nostro Signore Gesù Cristo, inoltre perché ciascuno conserverà difficilmente la sua coscienza pura nei confronti di suo fratello in seguito ai sospetti che sorgeranno, e ciò si oppone ovviamente al precetto del Signore: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24).

 

 

D - 37: Occorre trascurare il lavoro col pretesto della preghiera e della salmodia? Quali sono i momenti opportuni per la preghiera? E, in primo luogo, occorre lavorare?

 

R . : Il nostro Signore Gesù Cristo ha detto non “ciascuno”, né “chiunque”, ma: “Chi lavora ha diritto al suo nutrimento” (Mt 10,10), e l'Apostolo ha voluto che ci si procuri con il lavoro onesto delle proprie mani ciò che occorre dare a quelli che hanno bisogno. (Ef 4,28). Ne risulta dunque evidentemente che occorre lavorare con zelo.

Non occorre mettere davanti la pietà per scusare la pigrizia o il timore dello sforzo, ma prevedere l'occasione di combattere, soffrire maggiormente e praticare la pazienza nelle difficoltà, per potere dire: “Disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete” (2 Cor 11,27). Tale condotta è necessaria non soltanto per mortificare il corpo, ma anche perché la carità verso il prossimo lo richiede, di modo che, per mezzo nostro, Dio doni ai nostri fratelli bisognosi ciò di cui hanno bisogno.

L'Apostolo ci dà l'esempio di questa carità negli Atti: “In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando” (At 20,35), e dice altrove: “Per poter condividere con chi si trova nel bisogno” (Ef 4,28). Se facciamo ciò, saremo degni di comprendere questo invito: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere” (Mt 25,34-35).

È necessario dire quanto sia colpevole l’ozio, quando l'Apostolo ci informa chiaramente che colui che non lavora non ha il diritto di mangiare? (2 Ts 3,10).

Così come gli alimenti quotidiani sono necessari a ciascuno di noi, così è necessario che si lavori il più possibile, poiché non è invano che Salomone ha detto nella sua lode della donna forte: “Non mangia il pane della pigrizia” (Pr 31,27), e l'Apostolo ha detto: “Non abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno” (2 Ts 3,8) e, tuttavia, operaio del Vangelo, gli era permesso di vivere del Vangelo.

Il Signore ha anche associato la pigrizia alla malvagità dicendo: “Servo malvagio e pigro” (Mt 25,26), ed il saggio Salomone non soltanto loda, come abbiamo detto, colui che lavora, ma rimprovera ancora il pigro comparandolo con il più piccolo degli animali: “Va’ dalla formica, o pigro” (Pr 6,6).

Temiamo dunque che questo stesso rimprovero non ci venga indirizzato anche nel giorno del giudizio, quando Colui che ci ha dato la forza di lavorare ci chiederà conto di opere conseguenti, “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto” (Lc 12,48).

Alcuni tuttavia, evitano il lavoro col pretesto della preghiera e della salmodia, ma occorre sapere che, se esistono, secondo la parola dell’Ecclesiaste: “Tutto ha il suo momento” (Qo 3,1), delle occupazioni per le quali alcuni momenti sono particolarmente adeguati, tutti i momenti sono invece favorevoli alla preghiera, alla salmodia ed ad altre occupazioni di questo genere. Così, mentre le nostre mani sono occupate, possiamo, con la bocca se è possibile o utile all’edificazione dei fedeli, o almeno col cuore, lodare Dio in salmi e cantici spirituali, conformemente alla Scrittura (Col 3,16), ed adempiere al dovere della preghiera pur lavorando. In questo modo noi ringrazieremo Colui che ha dato alle nostre mani l'abilità al lavoro ed al nostro spirito l'attitudine ad acquisire la scienza, e che ci ha fornito inoltre la materia, sia quella che consiste negli attrezzi che quella che lavoriamo nelle diverse occupazioni; infine noi chiederemo che le opere delle nostre mani siano dirette verso lo scopo che ci proponiamo e che è quello di essere graditi a Dio.

Del resto, il mezzo per custodire la propria anima nel raccoglimento è quello di chiedere a Dio, quando si è occupati, di condurre a buon fine il lavoro e di rendere grazie a chi ci ha fatto il dono di effettuarlo, mantenendo il proposito, come abbiamo appena detto, di essergli graditi; altrimenti, come potrebbero conciliarsi le parole dell'Apostolo: “Pregate ininterrottamente” (1 Ts 5,17), e: “Abbiamo lavorato duramente, notte e giorno” (2 Ts 3,8).

Tuttavia, poiché ci è anche prescritto da una legge di rendere sempre grazie e persino la natura e la ragione ce ne mostrano la necessità, non per questo bisogna trascurare le ore di preghiera ufficialmente stabilite, e da noi scelte, nelle fraternità, a motivo del particolare favore del Signore ricordato da ciascuna di esse.

Prima di tutto, la preghiera dell'alba (il mattutino) dedica a Dio i primi movimenti dell’anima, poiché non occorre preoccuparsi di nulla, prima di avere rallegrato in Dio il proprio cuore, secondo la parola della Scrittura: “Mi sono ricordato del Signore ed ho gioito” (Sal 76,4 - LXX), e non si deve impegnare il corpo nel lavoro, se non si è fatto inizialmente ciò che dice il salmista: “Io ti invierò la mia preghiera, Signore, e, fin dal mattino, ascolterai la mia voce. All’alba io sarò davanti a te per contemplarti” (Sal 5,4-5 - LXX).

All’ora terza si starà in piedi per la preghiera, e si riunirà la fraternità, anche se tutti sono occupati ai vari lavori. Si ricorderanno allora che lo Spirito Santo è stato dato agli Apostoli alla terza ora, si prosterneranno tutti insieme per meritare anche di essere santificati da lui, e chiederanno che li guidi e li istruisca secondo le loro necessità. Per ciò diranno con il salmista: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo Santo Spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso” (Sal 50, 12-13), o anche: “Il tuo spirito buono mi guidi in una terra piana” (Sal 142,10). Dopo ciò, si riprenderà il lavoro.

Se poi succede che, in seguito alla natura del loro lavoro o della disposizione dei luoghi, alcuni sono distanti e staccati dei fratelli, devono assolutamente e senza esitare compiere tutti gli uffici comuni dove si trovano, poiché il Signore ha detto: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Ci sembra che occorra anche pregare all’ora sesta, ad imitazione dei santi che dicono: “Di sera, al mattino, a mezzogiorno vivo nell’ansia e sospiro, ma egli ascolta la mia voce” (Sal 54,18). In quel tempo si reciterà il salmo novantesimo, per essere salvati degli attacchi del demonio di mezzogiorno (Sal 90,8).

L’ora nona deve essere ugualmente dedicata alla preghiera, secondo ciò che ci insegnano gli Apostoli negli Atti, in cui si racconta che Pietro e Giovanni se ne andarono al Tempio “Per la preghiera delle tre del pomeriggio” (At 3,1).

Alla fine del giorno, si ringrazierà Dio per i doni ricevuti o le buone azioni che sono state felicemente compiute. Confesseremo anche le nostre mancanze volontarie o involontarie, anche se la colpa è stata commessa nel segreto, sia che si tratti di peccato in parole, o in azioni o nel fondo del cuore e, infine, si cercherà di pacificarsi con Dio mediante la preghiera. È infatti estremamente utile rivedere le colpe passate, per non ricadere più negli stessi errori; è per questo che è detto: “Tremate e più non peccate, nel silenzio, sul vostro letto, esaminate il vostro cuore” (Sal 4,5)

All'inizio della notte avremo bisogno di pregare nuovamente per procurarci un riposo tranquillo e libero da sogni; in questo tempo si dirà ancora il salmo cinquantesimo.

Per quanto attiene alla metà della notte, Paolo e Sila ci hanno mostrato che occorre dedicarla alla preghiera, come riporta il resoconto degli Atti: “Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio” (At 16,25), ed il salmista dice: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti grazie per i tuoi giusti giudizi” (Sal 118,62).

Infine, occorre un'altra volta ancora alzarsi per pregare prevenendo l'alba, affinché il giorno non ci sorprenda addormentati sui nostri letti, secondo queste parole: “Precedo l’aurora e grido aiuto, spero nelle tue parole. I miei occhi precedono il mattino, per meditare sulla tua promessa” (Sal 118,148).

Quando si è presa la risoluzione di vivere cercando soltanto la gloria di Dio e del suo Cristo, non si può trascurare alcuna di queste occasioni. Credo tuttavia che sia utile immettere varietà e diversità nelle preghiere e nella salmodia indicate alle diverse ore, per il motivo che l’anima sovente si stanca dell'uniformità e si abbandona alla distrazione, mentre ritrova l'ardore e rinnova il suo sforzo d'attenzione quando cambiano i salmi o varia la struttura degli uffici.

 

 

 

D - 38: Ora che ci sono stati sufficientemente mostrati l’imprescindibile dovere della preghiera e la necessità del lavoro, vorremmo sapere quali lavori sono compatibili con la nostra professione.

 

R.: Determinare con precisione alcuni lavori non è cosa facile, perché l'opportunità di ciascuno varia secondo il carattere dei luoghi e dal tipo di lavori di ogni regione. Si può tuttavia delineare questo principio generale, ovvero che occorre scegliere quei lavori che conservano alla nostra vita pace e tranquillità, che non offrono molte difficoltà nell'acquisizione delle materie prime, né di difficoltà per la vendita dei prodotti ottenuti e che non esigono da noi riunioni inopportune o nocive con uomini o donne.

Occorre, d'altra parte, pensare a ricercare come obiettivo soltanto ciò che è semplice ed ordinario, evitando di soddisfare le funeste e  disastrose passioni umane fabbricando ciò che queste richiedono. Per la tessitura, occorre ammettere soltanto i tessuti d'impiego nella vita corrente e non quelli che gente senza scrupoli inventa per attrarre i giovani e prenderli nelle loro reti. Ugualmente per il lavoro di ciabattino; effettuare soltanto ciò che è necessario nella vita.

I lavori di muratore, di carpentiere, di fabbro e di contadino sono necessari essi stessi, e procurano grandi vantaggi; quindi è, in generale, preferibile non respingerli, a meno che, per caso, non siano causa di turbamento e non privino i fratelli della vita comune: nel qual caso è necessario respingerli. Dobbiamo, infatti, preferire i lavori che conservano la nostra vita raccolta ed applicata al Signore, e non impediscono a coloro che vogliono esercitarsi nell’ascesi della pietà, di dedicarsi alla preghiera, alla salmodia ed agli altri normali esercizi.

Purché non comportino nulla di svantaggioso al nostro genere di vita, molti lavori sono dunque degni della nostra scelta, e molto specialmente la cultura dei campi, perché procura essa stessa ciò di cui si ha bisogno, e dispensa coloro che vi si dedicano dal viaggiare molto o dal correre qua e là, dal momento che, come abbiamo detto, non ne deriva né disordine né agitazione per noi, a causa dei vicini o di quelli che vivono con noi.

 

 

D - 39: Come occorre vendere i prodotti del lavoro e come viaggiare a questo scopo.

 

R.: Occorre stare attenti a non vendere lontano i prodotti del nostro lavoro, e a non andare noi stessi a portarli sul mercato; è molto più adatto restare a casa propria, molto più utile anche all’edificazione degli altri ed alla conservazione della vita regolare. È per questo motivo che è meglio abbassare e diminuire un po'i prezzi, piuttosto che andarsene fuori per un magro profitto.

Se l'esperienza ci mostra che è cosa impossibile, che si scelgano almeno posti e città dove regna il timore di Dio, per paura che il viaggio sia senza frutto. I fratelli si recheranno ai mercati designati in gran numero e portando ciascuno il prodotto del proprio lavoro; questi viaggi devono essere fatti in gruppi, per permettere la recita delle preghiere e dei salmi, come pure l’edificazione reciproca durante il tragitto. Arrivati sul posto, sosteranno nello stesso alloggio, per vegliare gli uni sugli altri, per non lasciarsi sfuggire di notte e da giorno nessuna occasione di pregare, e per non lasciarsi fuorviare, trattando da soli con gente difficile ed avida, poiché anche i più violenti temono di commettere l'ingiustizia in presenza di testimoni numerosi.

 

 

D - 40: I mercati che si tengono in occasione delle feste religiose.

 

R.: La Scrittura ci dice tuttavia che fare commercio nei luoghi dedicati ai martiri non è adatto a noi.

Per farsi vedere nei posti dedicati ai martiri o nella loro vicinanza, i cristiani non devono avere altre ragioni se non il desiderio di pregare o di convertirsi allo stesso zelo dei Santi, ricordandosi che loro hanno perseverato nell'amore di Dio fino alla morte. Si ricorderanno anche di questa terribile collera del Signore, sempre dolce e umile di cuore, come dice la Scrittura (Mt 11,29), e che tuttavia sollevò la frusta soltanto contro coloro che vendevano e facevano affari nel tempio (Gv 2,15), perché avevano trasformato la casa della preghiera in un covo di ladri.

È vero che già in molti hanno preteso di rompere con il costume in vigore un tempo presso i Santi. Anziché pregare gli uni per gli altri, anziché prosternarsi insieme e piangere dinanzi a Dio invocando la sua pietà per i propri peccati, anziché rendere grazie ed edificarsi a vicenda con pietosi discorsi, ciò che ci ricordiamo ancora di avere visto, approfittano del posto e dell'occasione per trattare gli affari, fissare i tempi dei mercati e trattare degli appalti pubblici; ma non è per ciò che dobbiamo  seguirli, e ratificare questa scorrettezza con la nostra partecipazione.

Il nostro dovere è piuttosto di imitare quelle riunioni tenute, dice il Vangelo, attorno a Nostro Signore, ed osservare le prescrizioni dell'Apostolo in accordo con tale modello; scrive infatti: “Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle: tutto avvenga per l’edificazione” (1 Cor 14,26).

 

 

D - 41: Della volontà propria e dell'obbedienza.

 

R.: Per quanto riguarda i lavori ammessi, non occorre che ciascuno si dedichi a quello che conosce o vuole apprendere, ma a quello per il quale sarà stato riconosciuto capace; poiché colui che ha rinunciato a sé stesso ed ha respinto tutte le sue volontà non fa ciò che vuole, ma ciò che gli viene insegnato. Anche ragionevolmente non gli è permesso di scegliere lui stesso ciò che gli conviene, perché, una volta per tutte, ha affidato ad altri il governo di sé stesso: costoro, che giudicano in nome del Signore, lo inseriranno nel lavoro che avranno trovato adatto per lui.

Colui che sceglie da sé stesso la sua occupazione, porta la sua condanna: innanzitutto perché lui ricerca sé stesso, inoltre perché, se preferisce questo lavoro, è per il gusto della gloria umana, per speranza di guadagno o altro sentimento di questo genere, o ancora se sceglie il lavoro più facile, è per pigrizia o indolenza; ma, il fatto di avere tali tendenze prova che non ci si è ancora sbarazzati del male delle passioni.

Colui che vuole soddisfare i suoi desideri personali non ha rinunciato a sé stesso, e non si è ritirato dagli affari del mondo, poiché ha ancora la passione del guadagno e della gloria. Non ha neppure mortificato le sue membra qui in terra, colui che non sopporta di faticare nel lavoro, e dà prova di presunzione nell’immaginare che il suo giudizio sia più sicuro dell'opinione degli altri.

Se qualcuno conosce un mestiere non disapprovato dalla comunità, non occorre che lo abbandoni, poiché disprezzare ciò che si ha è indice di uno spirito instabile e di una volontà indecisa; ma se non ne conosce, non scelga lui stesso ed accetti piuttosto ciò che i superiori avranno deciso per lui, in modo che l'obbedienza sia garantita in tutto.

Così come è dimostrato che non conviene seguire la propria volontà, è anche censurabile il non accettare la decisione altrui. Di più, se qualcuno ha un lavoro non ammesso nella fraternità, lo abbandoni volentieri, mostrando così di non essere attaccato a nulla in questo mondo.

Compiere i desideri dei propri pensieri appartiene, secondo l'Apostolo, a quelli “che non hanno speranza” (1 Ts 4,13), mentre obbedire in tutto merita l'elogio, poiché lo stesso Apostolo loda alcuni perché “si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio” (2 Cor 8,5).

In ogni caso, ciascuno deve prestare attenzione al proprio lavoro, applicarsi con cura e compierlo interamente, come sotto lo sguardo di Dio, comportarsi con operoso zelo e con rapida sollecitudine, per potere sempre dire: “Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni, così i nostri occhi al Signore nostro Dio” (Sal 122,2).

Non bisogna neppure passare da un'occupazione all'altra, poiché la nostra natura è incapace di occuparsi di più funzioni allo stesso tempo, ed è molto più utile perfezionarsi con zelo in un lavoro, piuttosto che di provarne superficialmente molti. Dividendo i propri sforzi su molte cose e passare dall’una all'altra si finisce per non fare nulla perfettamente e, inoltre, è indice di un carattere leggero oppure lo rende tale, se non lo è.

Se del caso, colui che ne è capace può dare il suo aiuto in un altro genere di lavoro che non il suo, purché non sia di sua iniziativa, ma soltanto su richiesta di altri, poiché dobbiamo fare ciò soltanto se le circostanze lo esigono, come per le membra del corpo, ad esempio, sostenendoci sulla mano quando il piede vacilla.

Ancora una volta, poiché non ci si può applicare ad un lavoro per iniziativa personale, si è degni di biasimo quando non si accetta un lavoro imposto, poiché non bisogna né alimentare il vizio della presunzione, né infrangere la legge dell'obbedienza e della sottomissione.

Anche la cura degli attrezzi riguarda soprattutto, in ogni lavoro, l'operaio che se ne serve; ma se si incontrasse della negligenza, i primi che se ne accorgono devono provvedervi diligentemente, perché si tratta di oggetti che appartengono a tutta la comunità, e, se il loro impiego è riservato ad alcuni, l'utilità che ne risulta è per tutti. Disprezzare ciò che serve ad un altro mestiere, come se non servisse a noi, significa comportarsi come degli estranei.

Certamente, non bisogna che coloro che esercitano un lavoro si arroghino il possesso degli strumenti, al punto di non lasciare che il superiore della fraternità li usi come vuole, e che si permettano di venderli, scambiarli o disporne diversamente, o anche comperarne altri oltre a quelli che hanno. Chi ha deciso una volta per tutte di non essere più padrone delle proprie mani, rimettendo ad un altro la cura della propria l'attività, come farà ad agire ancora conformemente alla sua decisione, se si impadronisce degli attrezzi e li tratta come se appartenessero a lui?

 

 

D - 42: Per quale fine e con quale disposizione d’animo occorre lavorare.

 

R.: Chiunque lavora, sappiamolo, deve farlo non per sovvenire col suo lavoro alle sue necessità, ma per compiere il comandamento del Signore che ha detto: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35).

Pensare a sé stessi è assolutamente vietato da queste parole: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete” (Mt 6,25). “Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani” (Mt 6,32).

Lo scopo che ciascuno deve avere nel suo lavoro è dunque di venire in aiuto ai poveri e non di rimediare alle sue necessità. E’ così che eviteremo il rimprovero di amare sé stessi, e che saremo benedetti dal Signore per avere amato i propri fratelli, poiché ha detto: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

E che nessuno pensi di opporci queste parole dell'Apostolo: “Guadagnarsi il pane lavorando” (2 Ts 3,12), poiché questo discorso è rivolto a degli oziosi sregolati, per far loro capire che anziché vivere nell'ozio, è meglio occuparsi almeno ciascuno dei suoi interessi, e non essere a carico agli altri. “Sentiamo infatti, dice l’Apostolo, che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (2 Ts 3,11-12). L’Apostolo esprime altrove lo stesso pensiero: “Abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi” (2 Ts 3,8); poiché, per carità e per correggere i disordini, si sottoponeva lui stesso al lavoro, non tanto perché fosse stato stabilito per lui. È, del resto, avvicinarsi alla perfezione il lavorare giorno e notte per dare a chi ne ha necessità (Ef 4,28).

Il fratello che conta su sé stesso o su colui che è incaricato di distribuire il necessario, e crede che il suo lavoro e quello del vicino bastino a farlo vivere, è come colui che ripone la sua speranza nell'uomo, ed incorre in questa condanna: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore” (Ger 17,5).

Con queste parole: “che confida nell'uomo”, la Scrittura proibisce di affidarsi ad un altro, e con queste parole: “pone nella carne il suo sostegno”, proibisce di confidare in se stessi. Vengono chiamate apostasia l’una e l'altra di queste disposizioni, ed aggiunge quale ne è il risultato: “Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17,6). La Scrittura ci mostra dunque che rimettere la propria fiducia in se stessi o in un altro, significa allontanarsi dal Signore.

 

 

 

D - 43: Queste regole da seguire nel lavoro per il momento ci bastano, poiché con l'esperienza apprenderemo a scoprire il resto. Ora noi vorremmo che ci fosse spiegato chiaramente quali qualità devono avere i preposti della comunità e come devono guidare quelli che stanno con loro.

 

R.: Noi abbiamo già detto alcune parole a proposito di questo incarico, ma poiché volete un ragguaglio più ampio - del resto con ragione - poiché tale è il superiore e tale è di solito anche la condotta dell'inferiore, siamo obbligati a non passare oltre come se fosse senza importanza. Ricordandosi dunque dell'avvertimento dell'Apostolo: “Sii di esempio ai fedeli” (1 Tm 4,12), il superiore farà della sua vita un modello lampante di rispetto della legge divina ed i suoi discepoli non avranno così alcun pretesto per affermare che anche soltanto un comandamento del Signore è impossibili da effettuare o può essere disprezzato.

Egli deve innanzitutto e in primo luogo praticare l'umiltà nella carità di Cristo di modo che, anche quando non parla, l'esempio della sua condotta sia un insegnamento più potente di qualsiasi discorso.

Se la regola della vita cristiana è, infatti, di imitare Cristo nei limiti della natura umana che ha assunto e ciascuno secondo la sua vocazione, coloro che hanno l’incarico di dirigere gli altri devono fare progredire i fragili, mediante la loro mediazione, nell'imitazione di Cristo, secondo la parola del beato Paolo: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1).

Essi saranno dunque i primi ad esercitare l'umiltà come lo vuole il nostro Signore Gesù Cristo, e diventeranno dei modelli perfetti di questa virtù, poiché Egli ha detto: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Che l'umiltà e la dolcezza siano quindi le caratteristiche del superiore, poiché se il Signore stesso non ha disdegnato di servire i suoi discepoli ed ha acconsentito a farsi lui stesso servo di questa terra e di questo fango che ha lavorato e rivestito della forma umana - “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) - cosa non dobbiamo fare per i nostri simili prima di poterci credere somiglianti a lui?

Ecco dunque innanzitutto come deve totalmente comportarsi il superiore: che sia anche misericordioso e sopporti con pazienza coloro che mancano al loro dovere per ignoranza; che non conserva il silenzio sulle mancanze commesse, bensì tratti i colpevoli con dolcezza applicando loro con grande misericordia e moderazione la salutare correzione, poiché lui deve essere capace di trovare la terapia adatta per ogni stato di animo. Non deve fare rimproveri con arroganza, ma informare e correggere con dolcezza come vuole la Scrittura (2 Tm 2,25), essere saggio nel presente, lungimirante per il futuro, capace di combattere con i forti e di sopportare l'impotenza dei deboli, ed infine deve anche dire e fare tutto ciò che occorre per la correzione dei suoi compagni.

Nessuno si arrogherà il governo della fraternità, poiché spetta soltanto ai superiori delle altre Comunità di conferirlo a colui che avrà dato prove sufficienti del suo carattere: “Perciò siano prima sottoposti a una prova, dice l’Apostolo, e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio” (1 Tm 3,10).

Chi soddisfa queste condizioni assumerà dunque l’incarico di superiore, veglierà alla disciplina fra i fratelli e distribuirà i lavori secondo le attitudini di ciascuno.

 

 

D - 44: A chi permettere di assentarsi e come interrogare coloro che rientrano dal viaggio.

 

R.: Si permetterà di viaggiare solo a coloro che possono farlo senza detrimento per la loro anima e in modo da essere utile agli altri.

Se nessuno ne è capace, è meglio mancare del necessario e soffrire, anche fino alla morte, in qualsiasi emergenza e con qualsiasi restrizione, piuttosto che trascurare anche solo un sicuro danno spirituale per ottenere un sollievo materiale. Come dice l'apostolo “Preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!” (1 Cor 9,15). Ma per lui si trattava di osservanze facoltative; quanto è dunque necessario agire così quando si tratta dell’osservanza dei comandamenti?

Grazie alla carità, tuttavia, questa situazione non è senza soluzioni, poiché se non c'è nessuno nella fraternità che si possa inviare all’esterno, i fratelli che hanno degli interessi vicini suppliranno organizzando spedizioni in comune e gruppi ben uniti, di modo che coloro che sono deboli nell’anima o deboli nel corpo trovino la loro salvezza nella compagnia dei più forti. Colui che ne è incaricato adotterà del resto i suoi accorgimenti in anticipo, per paura che venga a mancare il tempo per potersi procurare al momento voluto ciò di cui si ha bisogno.

Al ritorno si interrogherà colui che si è assentato su ciò che ha fatto, le persone che ha incontrato, le conversazioni tenute con esse, i suoi stessi pensieri; gli si chiederà se ha vissuto giorno e notte nel timore di Dio e se non ha trasgredito o violato qualcuna delle decisioni prese, sia cedendo alle occasioni esterne, sia lasciandosi trascinare dalla sua negligenza. Ci si congratulerà allora con lui se si è comportato bene e, se ha commesso una mancanza, lo si riprenderà con una giusta e saggia esortazione.

Coloro che saranno in cammino saranno allora più vigilanti, sapendo di dover rendere conto del loro viaggio e, d'altra parte, vedranno che noi non perdiamo di vista la loro salvezza, anche quando sono lontani.

Il racconto degli Atti ci mostra come questa fosse anche l’abitudine dei santi, e ci insegna come Pietro, tornando a Gerusalemme, renda conto della sua condotta nei confronti dei gentili (At 11,5), e come Paolo e Barnaba, al loro ritorno, radunarono i fedeli ed esposero loro ciò che il Signore aveva fatto per loro e come infine tutto ilo popolo taceva per ascoltare Paolo e Barnaba raccontare ciò che Dio aveva operato (At 15,12).

Occorre sapere, in ogni caso, che le fraternità devono assolutamente respingere le frodi, le speculazioni ed i guadagni sleali.

 

 

D - 45: E’ necessario che, dopo il superiore, quando quest'ultimo è assente o impedito, ci sia un fratello capace di assumere la direzione della fraternità.

 

R.: Dato che succede spesso che il superiore della fraternità si allontani da essa a causa di una malattia, di un viaggio necessario o per un’altra ragione, occorrerà, per sostituirlo in queste circostanze, un fratello designato ed approvato da lui stesso e dai fratelli capaci di esprimere il loro parere. Quest'ultimo prenderà cura della fraternità in mancanza del superiore, di modo che ci sia almeno qualcuno per esercitare verso quelli che restano il ministero della parola, poiché se resta priva del superiore essa potrebbe trasformarsi in una specie di democrazia nella dimenticanza della regola e della disciplina tradizionale.

Egli dovrà difendere lo spirito delle regole giudiziosamente stabilite per la gloria di Dio e rispondere a proposito agli ospiti di passaggio per edificare degnamente coloro che chiedono l'elemosina della parola per qualunque motivo, ed evitare così che la Comunità arrossisca per l’imbarazzo. Precipitarsi tutti insieme per parlare sarebbe infatti causa di confusione e segno d'indisciplina: così l'Apostolo non permette a coloro che sono onorati del dono di insegnare, di prendere la parola nello stesso tempo, quando dice: “Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia” (1 Cor 14,30), e disapprova ancora la scorrettezza di tale indisciplina dicendo: “Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi?” (1 Cor 14,23).

Se un estraneo interroga un altro per errore, colui che sarà così interrogato al posto di suo fratello, anche se fosse capace di rispondere perfettamente, rispetterà tuttavia la regola e non parlerà, ma indicherà colui al quale questo incarico è stato attribuito, come gli Apostoli lo fecero nei confronti del Signore, affinché il ministero della parola sia esercitato nell'ordine e secondo le competenza. Quando si tratta delle cure del corpo, non spetta a chiunque di applicare il ferro al paziente, ma a colui che ha una lunga esperienza e che è stato istruito in quest'arte con un lungo studio, tramite l'insegnamento degli esperti; allo stesso modo, sarebbe ragionevole che i primi venuti si intromettano ad amministrare il rimedio della parola? Soprattutto perché la minima mancanza può in questo caso causare grandi danni.

In una fraternità dove non si permette a chiunque di distribuire il pane, ma dove si pensa di dovere affidare questo incarico ad uno solo e dopo un’attenta valutazione, quanto più è necessario che l’alimento spirituale sia dato con saggezza e prudenza a coloro che lo chiedono tramite uno dei fratelli più capaci? Significa dunque dare prova di imprudente presunzione se si osa rispondere così con sicurezza ed all'improvviso quando si è interrogati sulla legge divina, anziché indicare colui che è incaricato del ministero della parola e che, tesoriere fedele ed accorto, è stato scelto per dispensare gli alimenti spirituali a tempo debito (Lc 12,42) e fare con discernimento l'elemosina della parola (Sal 111,5), come è scritto.

Se sfugge qualcosa a colui che deve rispondere e che un altro se ne accorge, non deve precipitarsi immediatamente per riprenderlo, ma dirgli il suo pensiero in privato; succede spesso infatti che degli  inferiori trovino là un'occasione di innalzarsi contro il superiore. È per questo che se qualcuno risponde ad un estraneo, forse anche bene, ma a sproposito, incorre nella pena dovuta a chi causa disordine.

 

 

D - 46: Non bisogna dissimulare né il proprio difetto né quello altrui.

 

R.: Ogni colpa deve essere dichiarata al superiore o da parte di chi l’ha commessa o di quelli che ne sono al corrente, quando non possono rimediarvi essi stessi secondo la prescrizione del Signore, poiché un vizio mantenuto segreto è una malattia latente dell’anima.

Non è colui che rinchiude in sé questi germi mortali che chiameremo benefattore, ma al contrario colui che li scopre a prezzo di sofferenza e di dolore, affinché possano essere vomitati o, solitamente, si trovino facilmente rimedi adeguati grazie all'evidenza della malattia. Allo stesso modo, conservare nascosto il suo peccato, significa preparare la morte del malato stesso, “Il pungiglione della morte, dice la Scrittura, è il peccato” (1 Cor 15,56) e “Meglio un rimprovero aperto che un amore nascosto” (Pr 27,5).

Un fratello dunque non dissimulerà la mancanza di un altro se non vuole diventare il suo assassino piuttosto che il suo amico; e non nasconderà neppure il suo peccato, “Chi è già indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore” (Pr 18,9).

 

 

D - 47: Coloro che non ammettono le decisioni del superiore.

 

R.: Colui che non accetta le decisioni prese dal superiore deve, in pubblico o in privato, addurre contro lui, conformemente alla Scrittura, una ragione valida se ne ha, altrimenti compia il comando in silenzio.

Se non osa parlare, lo faccia tramite un altro. Se l'ordine dato è in contrasto con la Scrittura salverà così sé stesso e preserverà i suoi fratelli dal male che ne risulterebbe.

Se, al contrario, si dimostra che l'ordine è conforme alla Scrittura, sarà lui stesso liberato da dubbi inutili e pericolosi. Dice la Scrittura: “Chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza” (Rm 14,23). D'altra parte, i più semplici non dovranno cadere nella disobbedienza per causa  loro, come dice la Scrittura: “Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare” (Mt 18,6).

Coloro che persistono a non obbedire e mormorano segretamente, anziché dichiarare apertamente ciò che li frena, saranno espulsi della fraternità, poiché seminano il dubbio nei fratelli, rovinano la fiducia negli ordini dati ed insegnano l'insubordinazione e il disordine: “10Scaccia lo spavaldo, dice la Scrittura, e la discordia se ne andrà” (Pr 22,10), ed ancora: “Togliete il malvagio di mezzo a voi! Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?” (1 Cor 5,13:6).

 

 

D - 48: Non bisogna controllare la condotta del superiore, ma occuparsi di ciò che si deve fare.

 

R.: Affinché nessuno cada troppo facilmente in questo vizio della critica e nuoccia così a sé stesso ed agli altri, occorre fare in modo che assolutamente nessuno nella fraternità si ingerisca nella condotta del superiore e si occupi inopportunamente di ciò che avviene, eccetto soltanto coloro che, per  la loro posizione e la loro prudenza, sono qualificati presso il superiore affinché ne senta l’opinione ed il consiglio per deliberare sulle questioni riguardanti la Comunità, conformandosi in ciò a quanto dice la Scrittura: “Non fare nulla senza consiglio” (Sir 32,19).

 

Se abbiamo affidato ad un fratello la direzione della nostra vita, ben sapendo che dovrà renderne conto a Dio, è del tutto irragionevole rifiutargli la nostra fiducia nelle circostanze più ordinarie, ed accumulare in sé stessi o stimolare negli altri dei sospetti assurdi contro lui.

Per evitare ciò, che ciascuno resti nel posto per il quale è stato designato e si applichi soltanto a ciò che gli è stato detto di fare, senza occuparsi della condotta degli altri, imitando così gli Apostoli che avrebbero certamente potuto nutrire dei sospetti nei riguardi della Samaritana, ma nessuno di loro chiese: “Che cosa cerchi?” o: “Di che cosa parli con lei?” (Gv 4,27).

 

 

D - 49: Controversie che si riscontrano nella comunità tra fratelli.

 

R.: Per ciò che riguarda le controversie che possono emergere, se dei fratelli sono in disaccordo non si contrasteranno con accanimento, ma si rimetteranno alla decisione di coloro che hanno autorità in materia.

Per evitare il disordine e le occasioni di chiacchiere o di distrazioni che si creerebbero se tutti potessero sempre interrogare, si designerà un fratello che sia in grado di sottoporre all'esame della comunità le questioni poste da alcuni, o per riferirne al superiore. Queste questioni saranno così esaminate in modo più normale e più saggio poiché, se in ogni circostanza occorre della conoscenza e dell'esperienza, ne occorre in modo particolare in questa occasione e, se nessuno affida degli strumenti a chi non sa servirsene, a maggior ragione si permetterà di parlare soltanto a quelli che ne sono capaci. Questi devono potere distinguere dove, quando e come si può interrogare, comparare con dolcezza e prudenza, ascoltare con saggezza e risolvere le questioni proposte per l’edificazione della comunità.

 

 

D - 50: Come il superiore deve reprimere gli errori.

 

R.: Il superiore non deve rimproverare sotto l’impulso della passione, poiché fare con rabbia e con violenza dei rimproveri ad un fratello non significa liberarlo del suo errore, bensì precipitare sé stesso nel peccato; è per questo che sta scritto: “Dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro” (2 Tm 2,25).

Non si sdegnerà dunque quando lui stesso sarà offeso, ma anzi in seguito si mostrerà clemente verso il colpevole quando sarà offeso un altro e mostrerà al contrario in quest'ultimo caso un rincrescimento più grande. Sfuggirà in tal modo dal sospetto d'amor proprio ed indicherà con la sua così tenera condotta, a seconda che si tratti di sé stesso o di un altro, che non odia il colpevole ma cerca soltanto di ostacolare il peccato. Al contrario, se mette più indignazione, non quando si tratta di un altro, ma quando si tratta di sé stesso, mostra che si indigna meno a causa di Dio o del pericolo corso dal colpevole, piuttosto che per amor proprio e spirito autoritario.

Infatti, ciò che occorre è mostrare dello zelo per la gloria di Dio screditata dall'infrazione alla sua legge, dare prova di carità e di misericordia per salvare il fratello messo in pericolo dal suo errore, poiché “Chi pecca morirà” (Ez 18,4), contrastare ogni peccato in quanto tale e manifestare l'ardore del proprio animo mostrando, con l’impegno volto a ottenere la riparazione, l’ardore della propria anima.

 

 

D - 51: Come occorre correggere la mancanza di chi ha peccato.

 

R.: Si deve correggere come in medicina si curano i malati, senza andare in collera contro le debolezze, ma combattendo la malattia ed opponendo un ostacolo alle passioni, sottoponendo l’anima ad un regime dei più duri, se è necessario per il suo male. Si curerà ad esempio l'amore della vanagloria imponendo occupazioni umili. Si guariranno i chiacchieroni con il silenzio, i dormiglioni con le vigilie di preghiere; si rimedierà alla pigrizia con i lavori faticosi, alla golosità con il digiuno, alla mormorazione con l'isolamento, di modo che nessuno osi lavorare con il mormoratore e che anche ciò che egli fa sia messo da parte, come abbiamo già detto, a meno che la penitenza accettata con sincero pentimento non mostri che il colpevole si sia corretto; si riceverà allora il lavoro intriso di mormorazione. Tuttavia non lo si metterà al servizio dei fratelli, ma lo si utilizzerà differentemente: la ragione è stata già prima sufficientemente esposta.

 

 

D - 52: Con quali sentimenti occorre ricevere la correzione.

 

R.: Come il superiore, abbiamo detto, deve applicare senza passione la salubre correzione ai deboli, così pure coloro che ne sono l’oggetto devono accettare le punizioni senza animosità, e non considerare una tirannia la sollecitudine che, per misericordia, viene usata nei loro confronti per la salvezza della loro anima.

Sarebbe una vergogna l’ accordare ai medici del corpo abbastanza credito per dare loro il titolo di benefattori, anche quando tagliano, bruciano o impongono una pozione amara, e non avere lo stesso atteggiamento verso quelli che curano i nostri cuori, non appena si danno da fare per salvarci facendoci soffrire; poiché l'Apostolo ha detto: “Chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato?” (2 Cor 2, 2) e ancora: “Quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio!” (2 Cor 7,1 1).

Colui che considera la fine deve dunque considerare come un benefattore chi lo affligge secondo Dio.

 

 

D - 53: Come coloro che insegnano i lavori devono correggere i giovani colti in errore

 

R.: Certamente, se nell'apprendistato dei lavori i giovani commettono errori relativi al mestiere stesso, i maestri stessi devono rimproverarli della loro negligenza o correggere il loro errore.

Tuttavia, quando queste mancanze sono indice di difetti del carattere come le disobbedienze, le polemiche, la pigrizia nel lavoro, l'ozio, la menzogna o altre trasgressioni alla legge di Dio, occorre condurre i ragazzi a colui che è incaricato della disciplina generale e umiliarli davanti a lui; quest'ultimo potrà allora determinare in quale misura e come correggere gli errori.

Infatti, se imporre una punizione non è altra cosa che il curare un’anima, non spetta al primo arrivato di occuparsene, come neppure spetta a tutti fare il medico, ma soltanto a colui al quale il superiore ne avrà affidato l’incarico dopo maturo esame.

 

 

D - 54: Del dovere per i superiori delle fraternità di trattare insieme le incombenze che li riguardano.

 

R.: E’ bene che i superiori delle fraternità si riuniscano in tempi ed in posti determinati. Si metteranno al corrente delle difficoltà incontrate nel risolvere le questioni o nel governo delle anime, ed il modo in cui si saranno comportati in queste circostanze. In questo modo se uno di loro ha commesso un errore, la discussione lo farà certamente emergere, e colui che avrà agito bene vedrà la sua condotta confermata dalle approvazioni che riceverà.

 

 

D - 55: Se il ricorso alla medicina è conforme allo spirito della vita religiosa.

 

R.: Ciascuna delle varie arti c'è stato data da Dio per rimediare all'insufficienza della natura: l'agricoltura, ad esempio, perché i prodotti della terra non sorgono spontaneamente in abbastanza grande abbondanza per le nostre necessità, l'arte della tessitura perché ci occorrono assolutamente abiti per coprirci decorosamente e proteggerci contro i morsi dell'aria; inoltre l'arte di costruire, ed è così certamente per l'arte della medicina.

Il corpo è soggetto a numerose malattie che provengono da cause esterne o interne come i prodotti alimentari, ed esso soffre a volte per eccesso, a volte per insufficienza; è per questo che Dio, regolatore di tutta la nostra vita, ci ha fatto dono della medicina, e questa, rimuovendo ciò che è in eccesso e fornendo ciò che manca, simbolizza l'arte di curare le anime.

Poiché non avremmo dovuto preoccuparci della terra né lavorarla nel Paradiso di delizie, noi non dovremmo ora ricorrere alla medicina, se fossimo al riparo dalla malattia quanto noi lo eravamo prima della caduta, grazie ai doni ricevuti nella creazione. Tuttavia, dopo essere stati espulsi e dopo la sentenza: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gen 3,19), noi abbiamo potuto porre rimedio alle conseguenze della condanna poiché, attraverso esperienze nel lavoro duro della terra, e con l'ausilio dell'intelligenza e la comprensione che il Signore ci diede di quest'arte, abbiamo inventato l'agricoltura.

Allo stesso modo, rinviati sulla terra da cui noi eravamo stati tratti, legati ad una carne di dolore, destinati alla morte a causa del peccato, e, conseguentemente, sottoposti a tutte le malattie, ottenemmo da Dio il sollievo che la medicina procura ai malati nella misura in cui essa lo può.

Non è affatto per caso che germinano sul suolo delle piante che hanno proprietà particolari per guarire ogni malattia; al contrario, è ovvio che il Creatore le vuole per il nostro utilizzo. Si trovano dunque delle qualità naturali nelle radici, nei fiori, nelle foglie, nei frutti, o nei succhi, in ciò che si trova nei metalli e nel mare; tutto ciò è adatto al bene del corpo similmente ai normali cibi e bevande.

Tuttavia, il cristiano deve evitare ciò che è superfluo, ricercato, che richiede molta preparazione o sembra orientare tutta la nostra vita verso la cura del corpo e, quando si deve ricorrere alla medicina, occorre stare attenti a non attribuirle esclusivamente la salute o la malattia, ma accettare le sue prescrizioni per manifestare la gloria di Dio e come una figura delle cure che noi dobbiamo all’anima.

Facendo difetto i sollievi della medicina, non occorre vedere in essa la nostra sola speranza di cura, poiché il Signore, non lo dimentichiamo, non permetterà che soffriamo al di là delle nostre forze (1 Cor 10,13). Forse anche agirà assieme a noi, come quando prese del fango, se ne servì come fosse un unguento ed ordinò al cieco di lavarsi alla fontana di Siloe (Gv 9,6-7), o quando si accontentò di esprimere un ordine dicendo: “Lo voglio: sii guarito (letteralmente: purificato. Ndr)!” (Mt 8,3), o anche quando lasciò che altri fossero messi alla prova nella sofferenza, per renderseli più amabili attraverso la prova.

A volte, infatti, Lui ci tocca segretamente ed a nostra insaputa, quando ne vede l'utilità per le nostre anime. A volte anche considera buona cosa il portare ai nostri mali rimedi materiali, per rendere più duraturo il ricordo del beneficio con la lunghezza del trattamento, o, come ho detto, per darci un'immagine delle cure che noi dobbiamo accordare all’anima; poiché, se occorre togliere al corpo ciò che dà fastidio e procurargli ciò che gli manca, così occorre allontanare dall’anima ciò che non conviene ad essa, e darle ciò che la sua natura richiede. Infatti il Signore ha creato gli esseri umani retti (Qo 7,29) e ci ha creati perché le nostre opere siano buone e affinché noi camminiamo in esse.

Quando si tratta di guarire il corpo noi accettiamo incisioni, amputazioni o medicine amare perciò, nell'interesse della nostra anima dobbiamo accettare anche i richiami taglienti e la pozione amara dei rimproveri. Il profeta scoppia proprio in pianti contro coloro che non si sono lasciati correggere: “Non v’è più balsamo in Gàlaad? Non c’è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo?” (Ger 8,22).

Alcune malattie sono lunghe ed esigono per la cura medicine varie e dolorose da prendere: ci fanno pensare che occorra, per correggere alcuni vizi dell’anima, una preghiera perseverante, una penitenza continua ed una disciplina rigorosa adeguata ragionevolmente in vista della guarigione.

Dunque non dobbiamo rifiutare assolutamente i vantaggi della medicina per il motivo che alcuni ne fanno un cattivo impiego. Similmente noi non dobbiamo astenerci completamente dall'arte del cuoco, del panettiere o del tessitore, perché ci sono persone intemperanti dedite al piacere e che lo cercano abusando di queste arti; al contrario, serviamocene ragionevolmente, per sminuire coloro che ne utilizzano male. Così ne è della medicina, dono di Dio, che non occorre respingere per il cattivo uso che alcuni ne fanno.

Certamente, è insensato mettere tutte le proprie speranze di cura tra le mani dei medici, come lo vediamo fare da parte di alcuni sventurati, che non esitano a chiamarli i loro salvatori, ma è anche un'ostinazione il rifiutare gli aiuti della loro arte.

Ezechia, tuttavia, non considerò il dolce di fichi come la principale causa della sua salute, e non gli attribuì affatto la sua guarigione (2 Re 20,7), ma rese grazie a Dio di avere creato anche i fichi. Così noi, quando Dio, buono e saggio moderatore della nostra vita, ci invia delle infermità, chiediamogli inizialmente di farci conoscere le ragioni per le quali ci colpisce, in seguito preghiamolo di concederci conforto e pazienza affinché con la prova ci dia il mezzo per uscirne (1 Cor 10,13), di modo che possiamo sopportarla.

Quando la grazia della guarigione ci è concessa, sia col vino e l'olio, come per il viaggiatore caduto nelle mani dai briganti (Lc 10,34), sia con dei fichi, come per Ezechia (2 Re 20,7), riceviamola con riconoscimento senza distinguere se Dio ci ha aiutati in modo invisibile o se lo ha fatto tramite le cose visibili. Questo atteggiamento ci porta molto più spesso a riconoscere i benefici accordatici dal Signore. Succede spesso che le malattie ci servono da insegnamento e per informarci che siamo condannati a rimedi dolorosi. Allora non è dunque ragionevole sottrarci alle ablazioni, alle cauterizzazioni, ai fastidi delle pozioni aspre e amare, alle diete, a rigorose restrizioni, alla privazione di ciò che è nocivo purché, lo ripeto, risulti chiaro che lo scopo è il vantaggio dell’anima. Questa vi trova anche un'immagine del trattamento che deve applicare a sé stessa.

Si correrebbe tuttavia grande rischio di ingannarsi, se ci si immaginasse che qualsiasi malattia abbia bisogno dei sollievi della medicina. Le diverse infermità non hanno tutte delle cause naturali; non sono tutte prodotte da una dieta sbagliata o da altre cause di ordine fisico, contro le quali riconosciamo utile l'impiego dei medicamenti. Al contrario sono spesso punizioni per i nostri peccati che ci vengono inflitte per il nostro emendamento: “Perché il Signore corregge chi ama” (Pr 3,12). “È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo.” (1 Cor 11,30-32).

Bisogna dunque che costoro, una volta riconosciuto il loro errore, restino calmi, rinuncino ai sollievi della medicina, e sopportino i loro mali, secondo la parola: “Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui” (Mi 7,9). Devono anche correggere la loro condotta, per produrre frutti degni di penitenza, e ricordarsi le parole del Signore: “Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (Gv 5,14).

A volte la malattia ci raggiunge su richiesta dello spirito del male. È allora come un grande combattimento, nel quale il Signore che ci ama entra in lotta con lo spirito maligno e confonde la sua insolenza con la pazienza inalterabile dei suoi servi: tale fu, lo sappiamo, il caso di Giobbe (Gb 2,6).

Altre volte, Dio vuole dare a coloro che non sopportano la sofferenza l'esempio di quelli che sono restati fermi nel dolore fino alla morte, come si verificò per Lazzaro (Lc 16,20). Quest'ultimo fu afflitto da tanti mali, e la Scrittura non dice da nessuna parte che egli implorò il ricco o che fu insoddisfatto della sua sorte, ma che avendo ricevuto i mali in questa vita, ottenne il riposo nel seno di Abramo (Lc 16,22-25).

Conosciamo ancora un’altra ragione per la quale le infermità colpiscono i Santi, come l'apostolo Paolo. Affinché non sembrasse distaccarsi dalle leggi della natura, e che nessuno immaginasse in lui un essere superiore sotto aspetti materiali, (errore degli abitanti di Licaònia che gli offrono corone e tori (At 14,12)), egli si vide afflitto di sufficienti infermità per dimostrare la sua natura umana.

Quale vantaggio trarre dalla medicina in queste circostanze? Non c’è dunque piuttosto il pericolo di fuorviarsi curando il corpo?

Tuttavia, coloro che si attirano le malattie con un cattivo regime alimentare possono certamente curarsi, e ciò è per loro, come lo abbiamo del resto già detto, un'immagine ed un simbolo delle cure da dare all’anima. Ci sarà dunque utile astenerci, conformemente alla medicina, di ciò che può nuocerci, di scegliere ciò che ci conviene e di osservare gli avvertimenti che ci sono dati: il ritorno del corpo alla salute dopo la malattia ci servirà come un incoraggiamento a non disperare dell’anima, come se non potesse, grazie alla penitenza, uscire dal peccato e ritrovare la sua integrità.

Pertanto non occorre né respingere completamente quest'arte né mettere in essa tutte le nostre speranze. Ma come coltiviamo la terra, pur chiedendo a Dio la fertilità, e come lasciamo il timone al pilota, pregando tuttavia il Signore di farci sfuggire ai pericoli del mare, così ricorriamo al medico non appena la ragione ce lo suggerisce, senza tralasciare tuttavia di avere fiducia in Dio.

Da parte mia, credo inoltre che quest'arte ci aiuti molto nella pratica della temperanza, poiché la vedo tagliare i piaceri, respingere la sazietà e la molteplicità delle vivande, condannare la ricerca esagerata dei condimenti, fare, insomma, della sobrietà la madre della salute; anche qui i suoi consigli non ci sono dunque inutili.

In ogni caso, sia che osserviamo le regole della medicina o, per le ragioni suddette, sia che le trascuriamo, occorre avere sempre in vista l’essere graditi a Dio, tendere al bene dell’anima e compiere il precetto dell'Apostolo: “Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10,31).


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10 dicembre 2014                       a cura di Alberto "da Cormano" Grazie dei suggerimenti alberto@ora-et-labora.net