Regula Benedicti - Engelberg, Stiftsbibliothek, Cod. 72

P. Benedictus Gottwald, Catalogus codicum manu scriptorum qui asservantur in Bibliotheca Monasterii O.S.B. Engelbergensis in Helvetia, Freiburg im Breisgau 1891, p. 100.

Il monachesimo italiano dal

 

 
Maestro a san Benedetto;

 

la regola
benedettina

 

 


di Salvatore Pricoco

estratto da "Storia del cristianesimo: L’antichità"

a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi - Editori Laterza

 

 

 

Dopo la grande stagione del monachesimo provenzale, e certamente anche per suo influsso, nel VI secolo hanno luogo in Italia gli episodi di più forte e creativo rinnovamento monastico. Nelle regioni centromeridionali, sotto l’influenza ravvicinata della chiesa di Roma, vengono redatte le due regole più importanti e originali, quella del Maestro e quella di san Benedetto, e si sviluppa in alcuni monasteri - come quelli di Fulgenzio in Sardegna e di Eugippio in Campania - un fecondo dibattito dottrinale sulle idealità monastiche, sull’arianesimo, sul pensiero di Agostino.

Secondo il racconto tradizionale Benedetto nacque a Norcia nel 480 da una famiglia cospicua. Mandato a Roma per completare gli studi, ne ebbe presto disgusto e abbandonò la città per una vita più ritirata, e dopo avere vissuto per tre anni in assoluta solitudine in una spelonca presso Subiaco, allorché si raccolse attorno a lui un gruppo di discepoli attratti dalla sua virtù e dai suoi prodigi, li organizzò in dodici piccole comunità. Più tardi, lasciò i monasteri sublacensi per dare vita in una località ancora dedita a culti pagani, presso Frosinone, a un’unica, più grande comunità monastica: l’abbazia di Montecassino. Per essa il Santo scrisse la sua Regola gloriosa e in essa, dopo quasi vent’anni impegnati nelle opere di costruzione del convento, nell’evangelizzazione delle popolazioni circostanti, in un’esistenza fitta di atti miracolosi e di pratiche virtuose, si spense, tre giorni dopo la sorella amatissima, Scolastica. In realtà questo racconto non ha alcun fondamento documentario. Esso è ricavato dai Dialogi di Gregorio Magno, l’opera che l’insigne papa scrisse tra il 593 e il 594 sui santi italiani e i loro miracoli, riservando in essa a Benedetto l’intero libro secondo. Ma i Dialogi sono l’opera forse più discussa di tutta la letteratura altomedievale, oggetto di dibattito critico non meno che di scontri ideologici da quando, a partire dagli storici protestanti del XVI secolo, ci si è chiesti come fosse possibile collocare nella produzione letteraria di Gregorio un’opera di scoperta affabulazione popolaresca come i Dialogi e accordare il loro basso livello letterario, l’ingenuità dei racconti, il miracolismo esagerato con l’alta dottrina e la spiritualità del grande papa. Non sono stati pochi, perciò, gli studiosi che si sono pronunciati per l’atetesi dell’opera. Più di recente alcuni, di conseguenza, hanno finito col negare qualsiasi valenza documentaria alle pagine su Benedetto (rappresentato come «uomo di Dio», asceta di insuperabile virtù e, più ancora, operatore infaticabile di miracoli di ogni tipo, guaritore, suscitatore di morti, veggente, mai come legislatore sapiente e creatore geniale di nuove forme monastiche), hanno rifiutato l’identificazione del Benedictus al quale la maggior parte dei manoscritti attribuisce la Regola con l’eroe del libro gregoriano, hanno addirittura posto in dubbio che sia realmente esistito il personaggio del quale una storia millenaria ha fatto il fondatore del cenobitismo europeo.

Oggi non è più questione della realtà storica di Benedetto e le posizioni di massimalismo e oltranzismo critico hanno ceduto a convincimenti più equilibrati. Nel racconto dei Dialogi si riconosce, al di là del soverchiante impianto affabulatorio, un sostrato storico verificabile; l’attività di Benedetto nell’area circostante a Roma e il suo ruolo di fondatore di monasteri e di animatore di esperienze monastiche nuove non sono più in discussione. E se non sono più accettabili le date entro le quali la tradizione ha inscritto la biografia di Benedetto, la progredita conoscenza del quadro storico complessivo, una diversa e più puntuale ricognizione dei riflessi che la società dell’epoca ha lasciato nel testo benedettino, un più attento confronto con la legislazione imperiale, con le altre regole monastiche, con i testi letterari e biblici in circolazione consentono di fissare riferimenti temporali non perentori, ma di grande verosimiglianza e buona approssimazione. Il 490-500 per la nascita, il 530 circa per l’arrivo a Montecassino, il 560 circa per la morte sono le date sulle quali si è oggi realizzato il consenso quasi unanime degli studiosi. Entro di esse, dalla maturità alla morte del Santo, non è possibile assegnare una data precisa alla redazione della Regola. Di qualche capitolo è rintracciabile il terminus post quem o quello ante quem in virtù delle fonti che vi sono utilizzate, ma l’arco di tempo che se ne ricava è assai ampio e può estendersi anche a un trentennio: verosimilmente, il trentennio del soggiorno di Benedetto a Cassino, tra il 530 e il 560.

Sostanzialmente chiusa appare oggi anche l’altra questione (peraltro strettamente connessa alla prima), riguardante l’originalità della regola benedettina. La Regola di Benedetto coincide in modo manifesto, nei contenuti e nella struttura, con un altro testo, la cosiddetta Regola del Maestro. Nella parte iniziale, dal prologo al capitolo settimo, la coincidenza è letterale, parola per parola; nel resto vi sono forti e continue analogie di contenuto; solo gli ultimi sei capitoli, dal 68 al 73, non trovano riscontro nella Regula Magistri. Questa è la più lunga delle antiche regole latine (più che tripla rispetto alla Regola di Benedetto, doppia rispetto a quella di Basilio tradotta da Rufino) e la più ricca sia di precetti riguardanti la prassi monastica che di considerazioni teoriche sulla spiritualità ascetica. Per molto tempo le macroscopiche analogie tra le due regole non hanno inquietato i loro lettori e la Regula Magistri, rimasta a lungo pressoché ignorata, fu ritenuta nient’altro che una tardiva e prolissa amplificazione della regola benedettina. Ma alla fine degli anni Trenta alcuni studiosi rovesciarono il rapporto tradizionalmente accettato e sostennero che la Regula Magistri non è un’imitazione, ma la fonte primaria della Regula Benedicti. Ne derivò, specialmente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, una controversia accesissima, poiché riconoscere il testo benedettino tributario sino al calco letterale di una regola precedente significava incrinare consolidate certezze storiografiche e chiedersi fino a che punto fosse lecito continuare a vedere in Benedetto il grande, unico padre del monachesimo europeo.

Oggi si riconosce quasi da tutti l’anteriorità del Maestro rispetto a Benedetto. Ricche e approfondite analisi sono venute mostrando l’unità compositiva e stilistica della Regula Magistri e tutta una serie di peculiarità (nella lingua, nella completezza e concretezza normativa, nell’utilizzazione delle fonti, nella liturgia) che attestano in essa un testo elaborato organicamente e con originalità. Meglio inserita nel quadro della prima legislazione monastica, la Regula Magistri appare anche meno misteriosa; sono via via cadute molte delle proposte, talune criticamente inconsistenti e persino bislacche, sull’autore, sul luogo e la data di redazione. Essa viene oggi datata ai primi decenni del VI secolo, non prima del 500 circa, poiché non sono anteriori a questa data taluni scritti, come la Vita s. Silvestri, dei quali si colgono in essa tracce indubitabili, né dopo Eugippio, che intorno al 530 ne trasse numerosi escerti per la sua regola-centone. Il luogo della redazione, dopo le tante proposte avanzate - dalla Dacia e dall’ambiente di Niceta di Remesiana al Norico di san Severino, dalla Calabria di Cassiodoro alla Spagna, dalla Gallia del monastero del Giura o dell’isoletta di Lérins all’Italia settentrionale e Bobbio - viene oggi collocato nell’Italia centrale, in una zona d’influenza romana.

Dall’altro canto sono stati rintracciati nella Regula Benedirti sia significativi elementi di seriorità (nella liturgia, nella lingua ecc.), sia i procedimenti con i quali il legislatore di Cassino ha utilizzato la sua fonte. Essa non fu scritta di getto, da un teorico della vita monastica che vi abbia atteso a tavolino, nel chiuso del suo studio, ma, al contrario, fu composta, per così dire, sul campo, cioè nella concreta sperimentazione dell’esperienza vissuta e continua, da persona che si sia scontrata con le difficoltà e le esigenze della realtà quotidiana e ne sia stata con frequenza indotta a rivedere, riconsiderare, tornare indietro, modificare punti di vista e soluzioni normative. La personalità del legislatore è quella di uno spirito eminentemente pragmatico e perciò alieno dalle dissertazioni teoriche magniloquenti e anche bizzarre del suo modello, ma giammai dimentico dei fini unicamente spirituali della militanza monastica e perciò più attento al progresso spirituale dei fratelli che alle occupazioni concrete e agli adempimenti delle opere giornaliere, più compreso dell’alto compito pastorale dell’’abate, responsabile di fronte a Dio (è una notazione ricorrente nella regola) delle loro anime, che degli aspetti pratici della direzione, interessato a comporre i fondamenti spirituali della prassi cenobitica in una prospettiva rinnovata. Senza dimenticare la necessità del rapporto verticale, tra l’abate e il monaco, ora l’accento viene posto sui rapporti orizzontali, quelli che si stabiliscono tra i fratelli con l’applicazione costante della carità, la principale delle virtù predicate dal precetto evangelico. Si fa sentire più nettamente, tra tutte le voci della tradizione, l’influenza di Agostino e del suo concetto del cenobio, nel quale i monaci interiorizzano la loro personalità a immagine di Cristo donandosi ai fratelli in un continuo rapporto di mutua misericordia e di amore.

Oltre che con Agostino, Benedetto ha debiti continui con tutta la tradizione, e non soltanto in materia di dottrina e di istituzioni, ma nella struttura, nell’uso di immagini e metafore, nel vocabolario, perfino in talune movenze dello stile. Questo fitto ordito indica in lui, di contro al mito storicamente inconsistente del legislatore genialmente rivoluzionario, creatore ex nihilo di un nuovo ordine religioso, l’accorto erede della tradizione, l’abate sagace che ha fornito le sue comunità del frutto prezioso della sapienza monastica ricevuta dai suoi predecessori. Tutti i padri del monachesimo occidentale furono consapevoli di essere eredi del passato, di un patrimonio comune da conservare e trasmettere. Il testo benedettino fu più apprezzato di altri non per la sua originalità, ma per la ragione opposta, cioè perché sembrò, più e meglio di altri, una sintesi della precedente esperienza monastica: è questo il fondamento critico della comparazione con le altre regole che ne fece in età carolingia Benedetto di Aniane e del primato assegnatogli su tutte. Felicità della sintesi, equilibrata moderazione e vigile senso della misura (omnia mensurate fiant, è detto nel cap. 48), capacità di discernimento, realismo mai disgiunto dalla considerazione dei fini superiori, giusto rapporto tra prassi e teoria, chiarezza del progetto pedagogico: queste, e altre ancora, sono le qualità che sogliono essere riconosciute a Benedetto. Per esse la sua regola, a differenza di quasi tutte le altre, non è diventata documento di mero interesse storico-archeologico, ma è stata per secoli, e continua a essere, strumento di attiva e concreta vita monastica.

D’altra parte la diffusione della regola benedettina fu tutt’altro che rapida. Per più di due secoli, dopo la morte di Benedetto, essa non fu né largamente nota né diffusamente applicata. Dopo la distruzione di Montecassino a opera dei Longobardi (577 ca.) e l’esodo dei monaci cassinesi non conosciamo fondazioni benedettine nell’Italia suburbicaria né altrove; non furono di osservanza benedettina i monasteri romani e quello stesso di Sant’Andrea, nel quale condusse vita monastica Gregorio Magno. Fatta eccezione per le allusioni di Gregorio nei Dialogi, la prima menzione della Regola si legge in una lettera che Venerando, fondatore e abate del convento di Altaripa nell'Aquitania, inviò intorno al 620-630 al vescovo di Albi, Costanzo. Per tutto il VII secolo il codice benedettino è menzionato assieme ad altre regole, come un testo al quale ispirarsi per trarne - secondo la consuetudine della regula mixta - suggestioni e precetti, ma senza farne il regolamento imperioso e univoco della vita conventuale; echi e accenni negli scritti agiografici o in qualche canone conciliare non bastano a provarne l’uso esclusivo nei monasteri franchi. Fu solo nel secolo Vili che la Regula Benedirti cominciò ad avere diffusione europea, per finire poi - per volontà della monarchia carolingia - con l’imporsi sulle altre. Da allora, per secoli, l’Europa monastica sarà largamente benedettina.

Il nuovo introdotto da Benedetto nella prassi conventuale fu tutt’altro che rivoluzionario. In generale, c’è nella Regola di Benedetto un’attenzione più viva per i rapporti all’interno della comunità, che trae origine non solo dalla lezione agostiniana e dallo spirito pragmatico del legislatore, ma anche da una condizione di più allentata pressione gerarchica e di cresciute resistenze all’interno della comunità nei confronti dell’autorità dell’abate. Molta attenzione è dedicata alle norme sull’ingresso nel cenobio (cap. 58), poiché, a causa dei mutamenti sociali determinati dal lungo e rovinoso conflitto goto-bizantino e delle condizioni di miseria e di insicurezza, il monastero appariva spesso l’unica via alla sopravvivenza. La volontà della comunità di difendere l’accesso al chiostro ed evitare che il monastero diventi il rifugio di emarginati, fuggiaschi, miserabili è evidente in tutte le regole monastiche antiche e tutte hanno cercato di saggiare nei postulanti la sincerità della vocazione e la consapevolezza dei propositi. Complessivamente Benedetto non rende più difficili i riti e le condizioni per l’ammissione; le prove dì tolleranza e umiltà che Paco- mio richiedeva al postulante in attesa alla porta del monastero erano certamente più dure e spettacolari; più aspre erano quelle previste dalle Regole dei Padri. Ma ora vengono moltiplicate le riserve per assicurarsi se il postulante «cerca veramente Dio», revera Deum quaerit, vengono infittite le messe in guardia sulla radicalità dei mutamenti di vita che l’ingresso nel monastero comporta e sulla loro irreversibilità. Benedetto è ancora più cauto e difensivo del Maestro; egli abbrevia e sintetizza, come è suo costume, la sua fonte e ne attenua il tono inquisitorio e ostile, ma le limitazioni opposte al candidato sono in lui, sin dal secco ammonimento iniziale, più aspre e perentorie; la rapidità formulare con la quale lo avverte di come sia dura la via del Signore e inammissibile il ritorno allo stato laicale è indubbiamente più scoraggiante delle lunghe e minacciose allocuzioni del Maestro.

Trova frequente espressione, anche, la consapevolezza della debolezza dei fratelli e della decadenza dei loro costumi rispetto agli antichi modelli. Da qui una costante tendenza a mitigare gli obblighi e le fatiche della giornata monastica e a rivedere il regime penale. Il complesso delle pene previste per reprimere e correggere le infrazioni, se continua ad ammettere, com’era nello spirito dei tempi, lo scopo punitivo della norma e prevede senza troppe esitazioni la vindicta corporalis, cioè l’uso del bastone e della sferza, è complessivamente meno puntiglioso e fiscale, più misericordioso e più spesso ispirato dalla volontà di comprendere l’errore e di recuperare gli erranti. Per quanto riguarda la prassi quotidiana, sia in rapporto al Maestro che alle regole più antiche, sono diventati più brevi i tempi della preghiera comune e della liturgia, è allungato il periodo estivo, che accorcia l'ufficio notturno, è meno severo il regime dei digiuni. I capitoli sul regime liturgico hanno un’accuratezza nuova. Il servizio divino ha un ruolo prioritario rispetto agli altri adempimenti della vita conventuale e costituisce lo strumento primario per la formazione spirituale del monaco. Il suo andamento più svelto in confronto al Maestro e all’ufficio romano classico è da mettere in relazione con la diversa strutturazione imposta alla giornata monastica dalle nuove esigenze lavorative.

Il capitolo che è sembrato più nuovo di ogni altro è il cap. 48, sul lavoro, quello, per intenderci, dal quale deriva il precetto con cui si suole indicare l’essenza del monachesimo benedettino: ora et labora. Esso prevede il lavoro nei campi, ancora escluso dal Maestro, e fissa le ore lavorative e quelle destinate alla preghiera tenendo presenti le esigenze del lavoro nelle diverse stagioni. Ma vi si fa largo spazio anche alla lettura. Da Pasqua a ottobre i monaci sono tenuti a lavorare dalla prima ora alla quarta, dalla quarta alla sesta attendano alla lettura, lectioni vacent. Negli altri sei mesi, da ottobre a Pasqua, l’ordine è invertito: si attende alla lettura al mattino, fino all’ora seconda, poi si va al lavoro. Nei giorni di quaresima la lettura è protratta sino all’ora terza; inoltre, all’inizio della quaresima, tutti riceveranno un libro dalla biblioteca e lo leggeranno per intero, ordinatamente dal principio alla fine.

 

 In realtà, dunque, la celebre formula con la quale si suole compendiare la giornata del monaco benedettino, deve essere completata così: ora, labora et lege, «prega, lavora e leggi». Ed è per merito di questa triplice prescrizione che si è svolta nei secoli quell’opera preziosa di conservazione e trasmissione della cultura di cui siamo debitori agli antichi monasteri e, in particolare, a quelli benedettini.

Accanto alle grandi figure del Maestro e di Benedetto, ci sono anche altri personaggi da recuperare nel quadro del monachesimo del VI secolo. Da un monastero della Sardegna vandala, dove visse in esilio fino alla morte di Trasamundo (nel 523), il più alacre teologo di questi decenni fu l’africano Fulgenzio, che diffuse i suoi scritti contro l'arianesimo ed ebbe tra i suoi interlocutori vergini consacrate, come la nobile Proba, o monaci illustri, come Eugippio, abate del Lucullanum presso Napoli. E una rete di relazioni, questa, di non piccolo significato. Proba era un’aristocratica, forse la figlia di Quinto Aurelio Simmaco e perciò imparentata con Cassiodoro e Boezio; a lei Dionigi il Piccolo dedicò la traduzione della Vita di Pacomio; Fulgenzio le inviò due lunghe lettere sulla verginità, l’umiltà e la preghiera e ne esaltò le eccezionali virtù cristiane nella lettera alla sorella di lei, la vedova Galla. Era una donna colta, che possedeva una biblioteca notevole, nella quale erano accolti scritti di Agostino, gli stessi (almeno in parte) dai quali Eugippio trascelse un florilegio, che le dedicò. A comporre questa silloge di Excerpta Augustini l’abate del Lucullano probabilmente si servì della biblioteca di Proba, mentre alla biblioteca del Lucullano fece ricorso Fulgenzio. Con Eugippio fu in relazione anche Ferrando, il biografo di Fulgenzio, il quale indirizzò all’abate campano due lettere, una delle quali è un breve trattato dogmatico sulle differenze tra arianesimo e fede cattolica, stilato per rispondere alle domande che un nobile goto aveva rivolto a Eugippio. Risulta evidente, dunque, la presenza di questo monastero campano nel dibattito culturale di questi anni e indubbia l’opera di promozione e veicolazione da esso svolta almeno in un settore: quello della conoscenza dell’opera e del pensiero di Agostino. E si tratta di un tema di grande importanza per la comprensione del monachesimo italiano di questi anni, se si tiene presente, oltre al sicuro legame che l’agostinismo costituisce tra questi tre personaggi e i diversi ambienti che li esprimono, la crescente rilevanza che gli esegeti moderni sono venuti attribuendo alla presenza di Agostino nella Regola di Benedetto. Eugippio fu autore, oltre che della raccolta di escerti di Agostino, di una Vita di s. Severino del Norico e di una Regula mixta, redatta in anni prossimi alla morte (intorno al 530) e che accoglie due testi della Regola di Agostino e 45 estratti dalle regole di Basilio (nella traduzione di Rufino), del Maestro, di Paco- mio (nella traduzione di Girolamo), da Cassiano, dalla Regola dei quattro Padri. Non si tratta di semplici estratti di lettura, ma di un florilegio compilato con un ordine logico e con una destinazione pratica, cioè di una regola-centone, redatta per essere applicata in un monastero. Tra il Maestro e Benedetto ecco dunque un altro legislatore operare in questa parte dell’Italia. La sua regola-centone ha le dimensioni cospicue delle due grandi regole italiane ed è sulla loro linea nella selezione delle fonti. Anche Eugippio accoglie le voci delle massime tradizioni monastiche, l’Africa di Agostino, l’Egitto di Pacomio, l’Oriente di Basilio, la Gallia di Cassiano e, probabilmente, della Regola dei quattro Padri; addirittura egli sembra precorrere Benedetto nel privilegio accordato ad Agostino e al Maestro e dunque alla cooperazione di due concezioni della vita monastica, quella più severa e più autoritaria della tradizione egiziana, e quella più mite, caritatevole e unanimistica di Agostino.

In conclusione, se nel V secolo era stata la Provenza, con le comunità di Lérins e di Marsiglia, con il rifiuto delle tesi pelagiane ma anche dell'agostinismo più intransigente, con l’elaborazione delle prime regole occidentali, a diventare il più fervido e creativo centro monastico dell’Occidente, nel VI secolo è l’Italia, e più precisamente l’Italia centro-meridionale, a diventare la patria delle iniziative monastiche più importanti e durature. Nel meridione italiano, in Calabria, a Squillace, dopo la metà del secolo Cassiodoro fonda un monastero, il Vivarium, che non ebbe vita lunga e si estinse quasi sicuramente con il suo fondatore, ma svolse un grande ruolo nella cultura del tempo. Vi fu costituita una ricca biblioteca e per i monaci del Vivarium Cassiodoro fece tradurre numerose opere greche. Egli stesso compose per loro quelle Institutiones che restarono per secoli uno degli scritti fondanti della cultura medievale.


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27 luglio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net