IL MONACHESIMO SIRIACO

Di VITTORIO BERTI

 

 

Estratto dal libro: “Monachesimo orientale - Un’introduzione” a cura di Giovanni Filoramo

MORCELLIANA 2010

e disponibile anche sul sito www.academia.edu

 

Premessa

 

Scrivere un’introduzione al monachesimo cristiano di lingua siriaca significa anzitutto porre dei confini geografici e linguistici nient’affatto scontati. L’influenza culturale esercitata da questo idioma, infatti, trascendeva, nei secoli che prenderemo in esame (IV-VII), il quadrante siro-mesopotamico – inteso come comprendente, grossomodo, gli attuali Iraq, Siria e Kurdistan, cioè quell’area che si è soliti chiamare unitariamente Mezzaluna Fertile. Il siriaco, ultima variante dialettale aramaica che svolse il ruolo di koiné nella regione prima dell’imporsi dell’arabofonia, tracimava infatti a occidente, come lingua parlata, in Palestina, territorio che nei secoli tra il V e il VII fu forse il più tenace baluardo dell’ellenismo (Taylor, 2002); a Sud, tramite mercanti aramei e missionari cristiani, era parlata fin dentro la penisola arabica; mentre a oriente si propagò eminentemente come lingua letteraria e liturgica delle missioni cristiane, giungendo a radicarsi in Persia, Asia centrale (Turkestan), Cina, Tibet, come pure sulle coste dell’India (Contini, 2006). Ciò detto, la nostra presentazione, da un punto di vista geografico e linguistico, sarà circoscritta al solo quadrante mesopotamico (romano e persiano).

Per altro verso la storia del monachesimo siriaco si lega strettamente alle vicende delle chiese separatesi a seguito dei concili cristologici del V secolo: la chiesa siro-occidentale, la chiesa siro-orientale e le chiese calcedonesi. In questa sede, sia detto in esergo, limiteremo il nostro sguardo al monachesimo siriaco sorto dapprima nella chiesa indivisa del IV secolo e poi cresciuto, a seguito delle suddette fratture, nelle prime due chiese sopra nominate, lasciando invece da parte le vicende del monachesimo “calcedonese” dell’area della grande Siria dato che, sebbene condivise molti tratti originari con il mondo ecclesiale sorto a Est dell’Eufrate, gravitò con maggiore compattezza entro la storia e la religiosità bizantine, e al loro interno va piuttosto compreso.

 

1. Le chiese siriache dagli imperi all’Islam: uno sguardo d’insieme

 

Secondo una recente interpretazione (Drijvers, 1984, 1992) la prima introduzione del cristianesimo in Siria sarebbe fin dal principio segnata da una forte impronta ellenizzante, in quanto legata al centro maggiore della cultura greca nel Vicino Oriente, Antiochia, mentre per altri deriverebbe piuttosto da alcune frange dell’ebraismo della diaspora orientale (Brock, 1979, Weitzmann, 1982, 1992). Probabilmente è più corretto immaginare una poligenesi del cristianesimo siriaco, differente da contesto a contesto. In ogni caso il processo iniziò presto, probabilmente a partire già dai primi decenni del II secolo. Possediamo addirittura una notizia degna di attenzione negli Atti di Mari, ove si menziona l’antica presenza di una chiesa sita nella località di Kokhe, nei pressi di Seleucia-Ctesifonte: l’informazione sembrerebbe risalire ad un periodo in cui il corso del Tigri separava Kokhe da Seleucia – situazione mutata, secondo Fiey, tra il 79 e il 116 d.C., (Fiey, 1967, p. 399, 402-403). Questo potrebbe collocare la prima evangelizzazione in età subapostolica, ma questa deduzione non viene però accettata da tutti (Chaumont, 1988, p. 28).

La rapida diffusione della nuova predicazione si appoggiò principalmente al favore accordatole da due piccoli ma nodali regni di fondazione ellenistica, l’Osroene e l’Adiabene, stati cuscinetto dai confini mutevoli posti tra il mondo romano, l’Armenia e l’Iran dei Parti (Sartre, 2001). Di fondamentale importanza per la storia di queste comunità ecclesiali fu la missione condotta nella capitale dell’Osroene, Edessa, il cui locale dialetto aramaico, appunto il siriaco edesseno, attestato già in epigrafi risalenti al I secolo, si impose ben presto come la lingua letteraria (e liturgica) di tutte le Chiese sbocciate nell’area. In questa prima fase, si accennava, deve aver giocato un ruolo decisivo la presenza della cospicua e influente diaspora ebraica mesopotamica, di cui abbiamo sicure testimonianze per l’Adiabene, dove regnava una dinastia convertita al giudaismo, mentre per l’Osroene possediamo la sola, ma fondamentale, impronta costituita dalla traduzione siriaca delle Scritture di Israele (la Pešita, ovvero «la semplice», versione delle Scritture di Israele condotta da dotti ebrei edesseni, o comunque di area osroenica – stando alla lingua – tra la prima e la seconda metà del II secolo, a partire da un testo ebraico). Fu comunque sul tronco delle comunità giudaiche arameofone della diaspora orientale che si innestarono alcune tra le prime missioni cristiane. Va perciò fin da qui ribadito come, a più riprese, si possano scorgere nelle opere di molti autori di questa letteratura gli echi profondi di un confronto ininterrotto con quel mondo ebraico in cui essi stessi affondavano parte delle proprie radici: una relazione forse in nessuna altra chiesa antica così stretta. Queste comunità ecclesiali mantennero del sostrato giudaico in cui si erano impiantate non pochi e non marginali aspetti. L’ebraismo di quest’area, dal canto suo, per quel che se ne desume dall’analisi delle scelte di traduzione delle Scritture in siriaco, pare fosse parzialmente alternativo sia ai coevi modelli gerosolimitani sia a quelli giudeo-ellenistici, e, secondo un’interessante interpretazione (Weitzmann, 1992), potrebbe aver riconosciuto nella predicazione cristiana, e nell’esegesi delle scritture di Israele da essa propugnata, una forte prossimità teologica ai temi sentiti come più decisivi entro le proprie comunità.

Il tratto aramaico e più generalmente semitico del primo cristianesimo di Siria non va comunque enfatizzato in senso univoco: il tasso di ellenizzazione che ebbe corso fin dal principio in queste chiese – almeno nelle città maggiori – fu nel complesso molto elevato (Millar, 1998). L’area di Antiochia era infatti restata sempre greca, e il greco fu diffusamente studiato anche tra le élites delle regioni dell’entroterra semitico. La stessa Edessa, culla del siriaco, era città profondamente ellenizzata (Segal, 1970). L’affermarsi del suo idioma come lingua letteraria dominante non significò infatti per i maggiorenti cristiane della capitale dell’Osroene la rinuncia al retaggio della paideia ellenistica, anzi, implicò semmai una sua versione nella propria lingua, insieme al mantenimento di un vero e proprio bilinguismo. Bardesane, uno tra i primi esponenti di questa letteratura, palesa tra fine II e inizi III secolo un rapporto affatto maturo con il retaggio ellenico (Drijvers, 1966). Greca è del resto pure l’organizzazione ecclesiastica che si imporrà dal IV secolo in poi; greche le cristologie che, dalla fine del V secolo, si confronteranno polemicamente entro queste chiese; greci molti dei caratteri impressi all’insegnamento delle celebri scuole cristiane di Mesopotamia; e, come vedremo, greci (o meglio, greco-copti) alcuni tra i più importanti paradigmi monastici che avranno fortuna in tutta quest’area. Insomma, questa tensione tra paideia ellenistica e retroterra aramaico ed ebraico, in qualche modo «tra Atene e Gerusalemme», rimane un aspetto di fatto felicemente irrisolto lungo tutto il largo spicchio della storia siriaca cristiana che prenderemo qui in esame.

Nel IV secolo, si diceva, le chiese della Siria occidentale appaiono già organizzate sul territorio secondo un sistema diocesano e metropolitano analogo a quello che si era imposto diverse generazioni prima entro l’ecumene romana, mentre assai più lentamente (nel V secolo) una simile strutturazione attecchirà anche nella Siria orientale. La sede patriarcale di riferimento di tutte queste comunità, Antiochia, stava allora divenendo fucina di una «scuola» esegetica letteralista o tipologica che si sarebbe contrapposta all’allegorismo propugnato dai maestri alessandrini (Simonetti, 1985). Dalla riflessione esegetica antiochena autori come Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e il patriarca di Costantinopoli Nestorio ricavarono una cristologia difisita, tendente a sottolineare nel Cristo insieme alla divinità del Verbo anche la completa umanità di Gesù: una prospettiva che entrò in schietto conflitto, da ultimo, con la proposta del patriarca Cirillo di Alessandria, che affermava l’una natura incarnata del Dio-Verbo. Non possiamo dare qui notizia nel dettaglio dell’ampio e complesso spettro comprendente le posizioni teologiche sorte in merito al rapporto tra uomo e Dio in Cristo lungo la prima metà del V secolo, tesi attorno a cui, come si è accennato, si divisero i cristiani della pars orientis dell’impero (Meyendorff, 1989). Basti qui annotare i due passaggi chiave che determineranno la fisionomia geografica e confessionale delle chiese di Siria: il concilio di Efeso (431 d.C.), che condannò i tratti di più acuto difisismo antiocheno (in particolare le formule di Nestorio); e il concilio di Calcedonia (451 d.C.), che cercò di correggere le proposizioni del movimento cristologico monofisita che parevano perdere di vista l’umanità del Cristo.

La fortuna del monofisismo travalicò in effetti i confini egiziani diffondendosi cospicuamente già dagli anni trenta del V secolo in area siriaca, in particolare a Edessa, anche per reazione all’esegesi letteralista antiochena allora proposta nella celebre scuola teologica di quella stessa città tramite le traduzioni tecniche, completate intorno alla metà del secolo, dei testi di Diodoro e di Teodoro di Mopsuestia, la cui adozione di fatto marginalizzava la più antica esegesi simbolica, in specie quella del diacono Efrem di Nisibi († 373), alla cui grande opera poetica e teologica restavano invece legati ampi segmenti della chiesa siriaca che videro nella proposta cirilliana una linea più prossima alla propria sensibilità teologica (Van Roey, 1951). L’impegno versato in tal senso dapprima del vescovo Rabbula di Edessa († 435) (Blum, 1969), e successivamente da Filosseno di Mabbug († 523) e Severo di Antiochia († 538) condurrà, fin dal principio del VI secolo, a guadagnare alla confessione alessandrina la sede patriarcale antiochena e la maggior parte delle diocesi e dei monasteri della Siria occidentale. Si tratta invero di un processo alquanto complesso e contrassegnato da alterne vicende, soprattutto a causa dei rapporti altalenanti intrattenuti dal clero di confessione monofisita con l’amministrazione imperiale: se infatti tra la fine del V e l’esordio del VI secolo la propaganda cirilliana aveva trovato un campo abbastanza libero, con l’avvento sul trono imperiale di Giustino I, nel 518, la prima espansione monofisita entrò in crisi, sia per la repressione attuata dall’impero, sia per i decessi ravvicinati dei più vivaci attori della propaganda cirilliana, Filosseno e Severo di Antiochia. Solo più tardi, a partire degli agli anni trenta del VI secolo, Giacomo Baradeo riorganizzerà le comunità monofisite di Siria, che per lui prenderanno il nome dispregiativo di «chiesa giacobita».

Dal canto loro gli ultimi difensori dell’esegesi e della cristologia antiochena, fuoriusciti dall’impero, cacciati dalla scuola di Edessa, ove si erano precedentemente impiantati, ripiegarono nella seconda metà del V secolo in territorio persiano, nella città di Nisibi (Fiey, 1977) – in un lontano passato sede di una accademia ebraica –, ove costituirono una scuola ben presto divenuta celebre in tutto l’ecumene cristiano (Vööbus, 1965; Reinink, 1995; Becker, 2006). Regnava in quei territori da più di due secoli una nuova dinastia persiana di religione zoroastriana, i Sassanidi, i quali, strenuamente legati alla propria identità etnica e religiosa, avevano fino ad allora tenuto con le chiese diffuse in Persia (la cui prima evangelizzazione risaliva, come si diceva, alla prima metà del II secolo) un atteggiamento che alternava aperture a persecuzioni (Panaino, 2004). Queste ultime si erano accresciute in particolare nei periodi di più acceso conflitto con Bisanzio, data la condizione di sospetto in cui vennero a trovarsi i cristiani di quei territori a seguito della stagione costantiniana, che aveva stretto i destini di Roma al cristianesimo. La diffusione della cristologia di Teodoro di Mopsuestia nella chiesa persiana, avvenuta grazie all’energica attività di Bar S.auma di Nisibi (negli anni ottanta del V secolo), e più complessivamente, nel lungo periodo, tramite l’opera di inculturazione promossa dalla scuola cristiana di quella città, può dunque essere letta in parte anche in questa prospettiva di politica ecclesiastica: l’adozione di un’identità teologica alternativa a quella delle chiese d’occidente consentiva ai cristiani di Persia, in qualche modo, di sostenere la sincerità della loro lealtà verso il re sassanide (Hage, 1997; Brock, 1982).

Il VI secolo sarà dunque l’età della sedimentazione delle identità divergenti acquisite da queste due chiese in seguito a Calcedonia – una stagione peraltro connotata dalla crescente frequenza e intensità dei conflitti bellici tra Bisanzio e la Persia, con un continuo rovesciamento di fronti che porterà ad acuire la crisi di governabilità interna delle chiese mesopotamiche e ad aumentare le distanze tra esse, in un processo quasi speculare di affinamento identitario e confessionale. Tuttavia, se il «canone» teologico-spirituale della chiesa siro-occidentale – costituito dalle opere di Filosseno, Severo e Giacomo di Sarug († 521) – si chiude già ben prima della metà del VI secolo, per quella siro-orientale, che certo ha nel dottore nisibeno Narsai († 502 ca.) il suo primo grande campione, il vero punto di svolta si pone però tra VI e VII secolo, con Babai il Grande († 628), che opererà una sintesi decisiva per la chiesa siro-orientale tra la cristologia propriamente nestoriana e la spiritualità evagriana, costituendo la premessa fondamentale alla grande fioritura letteraria e spirituale di questa chiesa tra VII e VIII secolo.

Strette attorno alla propria confessione cristologica, le due opposte gerarchie si confronteranno politicamente lungo i decenni più incerti della guerra bizantino-sassanide, di fatto convivendo in territori ove correva il mobile confine tra i due opposti imperialismi. La forte pressione monofisita, va detto, riuscirà proprio nel corso del VII secolo a guadagnare terreno anche in aree interne all’impero sassanide, tradizionalmente soggette al catholicos di Seleucia-Ctesifonte, e di lì in poi si avranno regioni come l’Adiabene o il Bet Garmai ove sarà presente una doppia, giustapposta gerarchia ecclesiastica (Fiey, 1965, 1968). Tale prossimità tra le due chiese condurrà a fenomeni di contaminazione culturale reciproca, in particolare in ambito monastico, spesso grazie alla pseudonimia: testi del cirilliano Filosseno verranno letti dai siro-orientali, opere del teodoriano Isacco di Ninive dai siro-occidentali (e vi sono altri esempi analoghi).

Nei decenni in cui si consuma e stabilizza la giustapposizione tra le due chiese in Nord Iraq fiorirà anche l’espansione asiatica della chiesa siro-orientale, con la fondazione di missioni ed episcopi in territorio iranico, indiano, centro asiatico e cinese (Nicolini-Zani, 2006). A questa prima grande evangelizzazione dell’Asia lungo le vie commerciali della seta e dell’incenso, seguiranno d’appresso analoghe, ma meno clamorose, imprese missionarie monofisite (come pure calcedonesi).

Questo, grossomodo, il quadro storico, geografico, linguistico e confessionale delle chiese nella grande Siria tardo-antica. Quando poi, dal quarto decennio del VII secolo, l’espansione militare dell’Islam avrebbe travolto i territori orientali dell’impero romano, annettendoseli, e liquidando al contempo in pochi anni il plurisecolare impero sassanide, tutta la regione si sarebbe trovata unificata sotto un unico regime politico. Le due chiese (siro-occidentale e siro-orientale) che, separate e in lotta l’una contro l’altra, erano state fino ad allora alla ricerca, ciascuna per sé, di uno spazio di legittimità entro quei due imperi loro ostili, con l’ingresso degli Arabi avrebbero condiviso un unico spazio politico, il Dar al-Islam, un solo sovrano, il califfo e, progressivamente, una sola lingua, l’arabo.

 

2. Statuto teologico e spazio ecclesiale dell’ascetismo pre-monastico in Siria

 

Il dibattito sulle origini del movimento monastico in Siria si confronta da una parte con la difficile interpretazione e datazione delle fonti in nostro possesso, dall’altra, soprattutto, con le influenze esercitate dallo sfuggente retaggio del primo ascetismo siriaco (Murray, 19751). In particolare su questo ultimo elemento non si trova unanime accordo tra gli studiosi, né in ordine alle sue origini, né relativamente alla precisa collocazione che esso doveva tenere nel quadro della vita delle chiese (tra le molte proposte che tentano di dare una lettura complessiva cfr. Vööbus, 1958: Brock, 1988; Abouzayd, 1991; Escolan, 1999). Conviene pertanto fornire alcune indicazioni su questo importante sostrato ascetico.

L’astensione dalle nozze, l’esercizio della povertà, la rigidità della dieta, il rifiuto del denaro e del lavoro: tutti questi sono tratti invero ampiamente riscontrabili in molte comunità cristiane dei primi secoli, ancora segnate da un’accesa tensione etica ed escatologia, ma nelle chiese siro-mesopotamiche tali caratteri appaiono in modo particolarmente marcato. V’è chi ha evidenziato come già nel Vangelo di Luca, tradizionalmente connesso all’ambiente antiocheno, si riscontrino delle varianti delle parole di Gesù che veicolano una particolare concretezza nei riferimenti al distacco dal mondo, alla povertà e alla continenza a cui il Cristo invita chi vuole partecipare al Regno (Brock, 1973). Tale prospettiva tendenzialmente encratita, così accesa in parte del primitivo cristianesimo siriaco, si trova ben rappresentata in Taziano († post 175), segnatamente nelle varianti che egli introduce ai testi evangelici nella redazione del suo Diatessáron. Si tratta di un retaggio che, nelle sue punte più estreme, poteva spingersi a interpretare il messaggio cristiano in termini dualistici, di netta contrapposizione tra materia e spirito. Di un simile punto di vista estremo sembrano testimoni, ancora, le due lettere pseudo-clementine Sulla verginità, giunteci significativamente in redazione siriaca. Ma sono gli Atti di Tommaso, scritti in questa stessa lingua in fasi successive a partire dal III secolo, con tutti gli articolati problemi redazionali e teologici che presentano (non ultimo quello del loro utilizzo in contesto manicheo), a essere l’opera-chiave per farsi un’idea dell’atteggiamento di sostanziale rifiuto tenuto da queste prime comunità nei confronti della generazione, e del particolare statuto che caratterizzava l’apostolo (e in ultima analisi il battezzato), descritto come «gemello» del Cristo.

Entro le comunità che hanno prodotto queste opere il celibato pare essere stato inteso come condizione se non necessaria, certamente preferibile per accedere al battesimo (Vööbus, 1951; Murray, 19752). Possiamo dire che a determinare questa concezione era l’insieme di quattro elementi: da una parte l’importanza del comportamento personale nel corrispondere al volere di Dio, secondo una prospettiva di diretta derivazione dal giudaismo; poi il dover corrispondere a tale volere tramite la rinuncia, secondo la puntuale interpretazione in chiave ascetica delle figure centrali del testo biblico ed evangelico – Noè, Mosè, Elia, Eliseo, Giovanni il Battista, Paolo e lo stesso Cristo –; una diffusa tendenza a interpretare i simboli in chiave letterale che implicava precise condotte nella vita del battezzato; infine una corrispondenza all’uso profetico di porre segni, che qui attestano univocamente l’alterità del Regno già presente al mondo. Lettera e simbolo si fondevano così in queste comunità con una particolare forza e agivano nella carne e nei giorni dell’asceta siriaco. Si è perciò appropriatamente descritto l’esito di questo fenomeno come un «comportamento simbolico» teso a creare uno spazio di comunicazione tra divino e umano (Harvey, 19901). Questo spazio veniva descritto come la camera nuziale in cui il battezzato incontrava lo sposo, ovvero il Cristo, già qui sulla terra (ad es. nel testo delle Odi di Salomone – una delle raccolte più antiche e di difficile contestualizzazione tradite nella letteratura siriaca – in particolare nell’ode XL; o per esempio in Efrem, Inni sulla fede 14.5). Tale prerogativa non va però estesa in toto alla cristianità di Siria. È chiaro che il richiamo all’assenza di nozze terrene e alla continenza in nome dello sposalizio celeste a cui introduceva il battesimo sembra essere stato un tratto riscontrabile in ampi settori di queste chiese, come parte essenziale e non accidentale della vita cristiana, ma oggi gli studiosi tendono a rifiutare una ricostruzione che veda nella prima chiesa siriaca sic et simpliciter una comunità completamente composta da «vergini» (betule) e da «consacrati» (qudše, coppie sposate che decidevano di vivere in completa castità). Forme di ascesi sembrano attestate in tutti gli ordini della vita cristiana, ma probabilmente si potevano dare diversi gradi di intensità partecipativa a tali condotte: v’era una prassi ascetica del vescovo (si veda più avanti il caso di Giacomo di Nisibi) ve n’era una tra i presbiteri e i diaconi (come Efrem il Siro: cfr. Paikatt, 1992; Koonammakkal, 1999), e ve n’era una diffusa entro le famiglie. Veglie, digiuni, astinenza dal sesso, dalle attività lucrative e da quanto, più genericamente, legava al mondo, dovevano essere pratiche che potevano per alcuni divenire esercizio quotidiano, vita consacrata a Dio, per altri rimanere un orizzonte di riferimento a cui corrispondere secondo le proprie forze o in particolari periodi della propria esistenza.

Accadrà ancora che, con la diffusione di queste condotte ascetiche entro lo spazio della polis, uomini e donne legati al giogo del Cristo decidessero di condividere uno spazio di vita comune: costoro erano i cosiddetti agapeti (letteralmente «i diletti», un titolo cristologico, su cui: Guillaumont, 1969), la cui condizione promiscua e di potenziale scandalo per la comunità susciterà dal IV-V secolo in poi una vasta diffidenza e opposizione negli ambienti della gerarchia episcopale.

Certo, il «cuore» di queste prime chiese, la parte maggiormente attiva sotto il profilo caritativo, nella sfera liturgica, nella dottrina e più complessivamente nei termini della condotta evangelica, sembra essere stata una particolare istituzione sulle cui origini e significato ancora oggi si discute: si tratta della comunità di vergini nota come «Figli e Figlie del Patto». È a questa istituzione che, nella prima metà del IV secolo, Afraat indirizza le sue Dimostrazioni, in particolare la sesta. Molto importante nel IV secolo, ed inizialmente trasversale e non coincidente con la gerarchia (figlio del patto poteva essere un semplice cristiano come pure un vescovo), con l’affermarsi di modelli ecclesiastici occidentali, il «Patto» verrà progressivamente «clericalizzato» e sottomesso al controllo episcopale – come emerge dai canoni attribuiti a Rabbula (Vööbus, 1960, pp. 34-50) – andando via via a coincidere con una sorta di suddiaconato, ma riuscirà in ogni caso a sopravvivere fino ai primi secoli dell’epoca islamica. Chiesa nella chiesa, il «Patto» in questione è una delle traduzioni proposte del siriaco qeyama (che corrisponde per senso all’ebraico berit) dalla radice qom «stare», «istituire» ma anche «risorgere». Non possiamo dare qui conto di tutte le interpretazioni che sono state proposte per rendere questa intrigante espressione (oltre che con «Figli del Patto» essa è stata resa anche, tra l’altro, con «Membri dell’Ordine» e «Figli della Resurrezione»). Possiamo dire che la critica oggi tende a leggerla in termini di intenzionale polisemia, rinunciando a darne una traduzione univoca (si veda il riepilogo delle tesi in Escolan, 1999, pp. 28-34). In tale prospettiva l’orizzonte concettuale di riferimento implicherebbe per la comunità del qeyama la dimensione dello «stare», tenersi in piedi, come vigilanti, in attesa della parousìa, del ritorno del Cristo: una «stazione» che sembra rimandare alla promessa della Resurrezione, ordine del nuovo patto istituito da Dio con gli uomini tramite Gesù. Una comunità, insomma, la cui condotta si ispirava ad una cittadinanza angelica, che rifiutava di contrarre nozze col mondo, ma che tuttavia nel mondo, nella polis, rimaneva conducendo la propria vita.

V’era dunque tra le comunità cristiane siro-mesopotamiche l’insistenza sul condurre una vita di perfezione, come sembra illustrare un testo di controversa collocazione cronologica e dunque in ultima analisi di difficile interpretazione, il Liber graduum, nel quale si presenta il doppio regime possibile per il battezzato: la via del giusto e la via del perfetto. Secondo questo scritto ciò che in Adamo era perfetto (gmir) prima della caduta non era tanto la sua stessa persona, ma la sua condotta, la sua adesione al comandamento divino. Con l’infrazione del comandamento, Adamo passò dallo stato di perfezione a quello di giustizia, connotato dalle nozze e dalla generazione. È grazie a Cristo che sarà possibile per l’uomo ritornare allo stato primitivo di perfezione. Cristo infatti è venuto per «mostrare» all’uomo, tramite la sua vita, morte e resurrezione, come l’uomo avrebbe dovuto essere, come era stata pensata la sua vita creaturale da Dio. Cristo si rivestì dell’Adamo incorrotto, «stola prima», e così dovrà fare anche chi deciderà di perseguire la via della perfezione in questa terra (Kowalski, 1989). Sia chiaro che conoscere, tramite il Cristo, il fine della creazione di Adamo non è, in questo orizzonte, un astratto atto noetico, bensì è un portare a compimento, un attuare, nella propria carne, una rivelazione ricevuta. L’adesione al comandamento, d’altro canto, non sembra limitare l’orizzonte del battezzato ad una dimensione «legale» o delle opere, in quanto il comandamento non è qui quello mosaico, ma quello a cui era chiamato Adamo in Eden, a custodia e signoria del creato. La via del perfetto, dunque, si prefigge come scopo di raggiungere già qui il tenore della vita posseduta prima della caduta di Adamo, in un orizzonte escatologico che, nel Liber graduum, sembra far coincidere il Regno venturo con l’Eden passato, o comunque lega strettamente insieme queste due dimensioni – si parla infatti di «paradiso del Regno». E d’altra parte non pare inutile rilevare in questa direzione come semantica della vita e orizzonte della salvezza si compenetrino fin dal più antico siriaco (Lenzi, 2006).

E’ in tale prospettiva edenico-escatologica, tra verginità e celibato – via della perfezione accordata a pochi, non coincidente in sé con l’orizzonte della salvezza – che va compreso l’uso, a designare il figlio del patto, dell’appellativo i¢idaya, «solitario», termine che in seguito diverrà la traduzione del greco monachos. In questa prima stagione l’i¢idaya viene però ancora inteso come «uno in sé» di fronte all’Uno, un «unigenito» come l’Unigenito. L’i¢idaya vive solo, certo, ma dentro la città, di fatto condividendo tempi e spazi in compagnia degli uomini, tenendo una condotta che si pretende conforme a quella di Adamo in Eden, del «protoplasmo» indifferenziato, in qualche modo androgino. Nella solitudine e pienezza che lo connota, egli si pone sull’orlo dell’abisso faccia a faccia con Dio, compiendo con la propria ascesi una liturgia celeste che prende nutrimento dalla familiarità accordatagli dal suo Signore, secondo Adamo: una libertà di parola (parresìa) riacquisita dunque con la Pasqua e la Pentecoste (Bettiolo, 1996).

Tale indirizzo, insomma, connotato dal recupero dello statuto di Adamo, insieme antropologico ed escatologico, caratterizzerà anche l’approccio alla vita solitaria proprio della storia monastica siriaca, questa volta «nel deserto», con esiti che porteranno ad un’intelligenza ecclesiologica incline, nei suoi toni più accesi, a subordinare i sacramenti della chiesa terrestre, e con ciò tutto l’ordine in essa costituito, a quelli della chiesa celeste, angelica, dei perfetti, alla cui comunione gli i¢idaye miravano, di fatto esponendosi a possibili fraintendimenti da parte delle istituzioni episcopali che, con un certo ritardo rispetto all’occidente, come si è già ricordato, assestavano tra IV e V secolo la propria centralità non solo liturgica, ma pure di governo e magistero.

 

3. La transizione verso il monachesimo: prime testimonianze da Giuliano Saba a Giovanni il Solitario (IV-V sec.)

 

Nonostante da una certa stagione in poi vedremo il monachesimo siriaco, in almeno alcuni suoi importanti segmenti, rileggere le proprie origini attribuendo l’introduzione delle prassi di vita solitaria nel proprio territorio all’influenza esercitata da modelli egiziani, o ad un’esplicita «propaganda» egiziana, pare piuttosto che la trasformazione dell’ascetismo del patto in un fenomeno che possiamo far rientrare nella famiglia del monachesimo, sia avvenuto grossomodo contemporaneamente e per gran parte in maniera indipendente rispetto all’insorgenza dalle corrispettive forme monastiche greche e copte. Certo, si può annotare un legame rintracciabile tra le frange più entusiaste del monachesimo cappadoce «eustaziano» e alcune correnti monastiche siriache, sospette di messalianismo: una connessione che potrebbe risalire al viaggio dello stesso Eustazio di Sebaste in Siria, Mesopotamia e Armenia. Così pure è postulabile una qualche relazione con il monachesimo copto, ma di ciò possediamo tracce frammentarie che al vaglio critico delle fonti paiono di scarsa utilizzabilità e in ogni caso tali da non consentire complessivamente una ricostruzione in senso diffusionista.

La comparsa di una qualche condotta monastica in Siria non pare risalire a prima dei decenni centrali del IV secolo e il suo luogo d’origine potrebbe essere stato, con molta probabilità, l’Osroene. Una serie di documenti attribuiti dalla tradizione ad Efrem testimonierebbe a favore di una radicata presenza monastica già a questa altezza. Tuttavia tali testi, tra i quali spicca per importanza una Lettera a coloro che abitano le alture, sono di assai controversa attribuzione (Melki, 1983, pp. 56-82) e paiono piuttosto palesare una precisa opzione ideologica di epoca più tarda, interessata a connettere la figura di Efrem alle origini del monachesimo siriaco, secondo un processo che, nei suoi esiti estremi, porterà a fare dello stesso celebre diacono di Edessa un monaco: in queste vesti infatti costui viene ricordato anche in area greca, come, tra gli altri, attesta Sozomeno nella sua Storia ecclesiastica (Storia ecclesiastica III,16,1). Nel controverso corpus ascetico efremiano rientra insomma vario materiale che pare più facilmente riconducibile al V secolo, nella cerchia di alcuni suoi discepoli, se non ad epoche ancor più tarde (Amar, 1992). Tra i testi la cui autenticità non è più accettata si pongono alcuni inni a celebrazione della vita del recluso Abramo di Qidun, che si vorrebbe monaco vissuto intorno alla metà del IV secolo nei pressi di Edessa, ma la cui vita è parsa essere improntata su quella di Abramo del deserto di Calcis, più tardi vescovo di Harran, conosciuto dalla Storia Filotea di Teodoreto di Cirro, che si presenta come la fonte principale per i primi due secoli del monachesimo in Siria (su cui: Canivet, 1977).

A fianco di Abramo di Qidun, l’altra figura che viene celebrata in questa letteratura come radice prima di una vita ascetica di tipo eremitico è il vescovo Giacomo di Nisibi, uno dei padri del concilio di Nicea (Peeters, 1920). Secondo l’immagine che di lui ricaviamo dalla Storia Filotea, questi avrebbe praticato una condotta di vita ascetica all’aria aperta, dormendo tra i monti e rifiutando i segni della civiltà urbana. Se alcuni suoi comportamenti ascetici sembrano registrati dai Carmina Nisibena di Efrem e condivisi dai suoi successori sulla cattedra episcopale nisibena, Babu e Vologese, la sagomatura monastica che Teodoreto fa della figura di Giacomo pare aggiunta posteriormente. La fortuna della memoria di Giacomo giungerà fino in Persia e influenzarà lo stesso Abramo di Kaškar, riformatore, come vedremo, del monachesimo siro-orientale. Possiamo pertanto dire che, nella memoria delle origini elaborata dai circoli ascetici del V secolo, il monachesimo non sarebbe nato in contrapposizione con la gerarchia episcopale, ma sorto in qualche modo entro il suo seno e in diretta relazione con l’appartenenza al «Patto».

Diverso sarebbe il caso di Giuliano Saba († 377) (Griffith, 1994). Costui è infatti ricordato da diverse fonti greche (oltre a Teodoreto, Storia Filotea, è conosciuto anche dalla Storia Lausiaca di Palladio e dalla succitata Storia ecclesiastica di Sozomeno, tutte opere importanti per il proto-monachesimo siriaco) e da alcuni testi attribuibili se non direttamente ad Efrem forse ad un suo discepolo (Melki, 1983, p. 60). Giuliano visse in Osroene, non molto distante da Edessa, dove praticava vita eremitica. Egli non avrebbe fondato, v’è da dire, un vero e proprio monastero, ma avrebbe avuto comunque alcuni discepoli.

Stando così le fonti, per questi primi decenni la vita monastica in Siria presenta una traccia ancora debole, riferibile con certezza, in ultima istanza, al solo nome di Giuliano. Tuttavia nell’arco di una generazione le cose mutano drasticamente, e, al declinare del IV secolo, incontriamo una grande fioritura di comportamenti che, nella prospettiva terminologica a cui facciamo riferimento in questa presentazione, possiamo chiamare autenticamente monastici.

Sia detto anzitutto che in regioni in cui non giunsero gli effetti della pace costantiniana (in particolare a Est dell’Eufrate), la figura del monaco non proseguì nel deserto, sostituendola, quella del martire – come in parte può essere avvenuto in occidente, almeno sotto il profilo dell’auto-rappresentazione monastica –, bensì poté sovrapporsi e confondersi con essa. Ancor di più, in un modo sostanzialmente rovesciato a quello che riscontriamo per esempio nella Vita di Antonio di Atanasio, che costruisce una successione tra martirio e monachesimo, furono le prime passioni siriache di martiri ad attingere al più antico immaginario ascetico mesopotamico, e non il contrario (Harvey, 19902).

Detto questo, dare ragione dello spostamento d’asse che vediamo compiersi dall’ascetismo del «Patto» a una vita stricto sensu monastica, nel deserto, rimane compito piuttosto difficile. Da un lato si può insistere sulla continuità del monachesimo con il precedente retaggio ascetico fiorito entro le città, vedendo così nella vita solitaria condotta fuori dal consorzio umano una sorta di riforma interna del «Patto», che risemantizzava il lessico dell’ascesi cittadina e ne spingeva l’azione nel deserto (su questo: cfr. Guillaumont, 1968-1969). Di converso si può sottolineare, in parallelo alla realtà egiziana e cappadoce, la discontinuità tra i due momenti, riconoscendo nel sorgere del monachesimo siro-mesopotamico un complessivo rifiuto delle forme assunte dall’istituzione ecclesiastica che avevano profondamente alterato i precedenti assetti della comunità; e però v’è da notare, in contrappunto, che il più delle volte il monaco si sottometteva al controllo diretto del vescovo, e alla stessa dignità episcopale, va detto, saliranno moltissimi solitari siriaci. Quello che pare ad ogni modo chiaro è che, con l’attestarsi della proposta monastica, le precedenti prassi ascetiche, quando non si ricollocarono all’interno della nuova forma, persero peso politico-ecclesiastico venendo progressivamente inserite nelle oramai solide strutture gerarchiche del clero «secolare», così esaurendo, poco alla volta, la propria esperienza storica. In questo difficile percorso, che attraversa i decenni finali del IV secolo e la prima metà del V, si compie, parallelamente, la trasformazione semantica del termine i¢idaya, che viene progressivamente ad indicare il solitario, tanto da divenire il soprannome dell’autore più rappresentativo di questa stagione: Giovanni, appunto, «il solitario» (De Halleux, 1983). Secondo questo monaco di Apamea (probabilmente un’Apamea di Mesopotamia, non l’Apamea di Siria, nonostante talune fonti lo vogliano identificare nel Giovanni il veggente di Lycopolis) nel suo Dialogo sull’anima e le passioni degli uomini, la vita del solitario si compie seguendo tre tappe, una detta somatica, coincidente con l’ascesi corporale, le veglie e i digiuni; una psichica, a cui si è introdotti una volta pacificati i sensi, e che si caratterizza per la lotta contro i pensieri, i desideri, le paure; e infine una tappa spirituale, connotata dall’ingresso in un orizzonte di pace e contemplazione, sorretta dallo spirito, appunto, meta a cui perverranno, a tratti, solo i solitari più provati (Nin, 2005). Questa struttura fungerà da canovaccio essenziale per la vita monastica siriaca successiva, orientale e occidentale, e verrà, nei secoli a seguire, intesa come un percorso che accompagna il monaco dal suo noviziato in cenobio all’ingresso nella cella, fino all’eventuale raggiungimento di uno stato di provata sapienza (Beulay, 1987, pp. 97-125). La stagione e gli ambienti a cui appartenne Giovanni, si deve aggiungere, sono ritenuti maggiormente ellenizzati di quelli che li precedettero anche solo di una generazione (Brock, 1988), e segnano un primo passo verso un progressivo ripensamento della radice autoctona dell’ascetismo siriaco. Non pare tuttavia che essi abbiano subito ancora l’influenza del massimo teorico del monachesimo greco-egiziano del IV secolo, Evagrio, che tanta parte giocherà nella riformulazione immediatamente successiva della vita monastica siriaca e ne sarà il vero cardine riformatore.

 

4. Eremo, anacoresi, vita comunitaria

 

Le forme «estreme» che la vita solitaria ha assunto in Siria e Mesopotamia tra IV e V secolo furono oggetto di una curiosità esotizzante antica forse quanto il monachesimo siriaco stesso, vuoi in termini elogiativi, vuoi in senso dispregiativo. Le pratiche ascetiche ben raccontateci da Teodoreto nella Storia Filotea, andavano dall’anacoresi all’eremitismo, il quale a sua volta si sottodivideva in ipetrismo, cioè vivere all’aria aperta – lo stilitismo, ovvero lo stazionare sopra colonne o pilastri, sembra esserne stata una variante (cfr. tra l’altro Delehaye, 1923; Sansterre, 1989) – in dendritismo, che consisteva nel vivere entro cavità di grandi alberi (Charalampidis, 1995), o nella clausura, entro una grotta o in una torre (Peña, 1980). V’era chi praticava forme di ritorno ad una vita selvaggia, con conseguente rifiuto del cibo cotto e della carne, delle vesti, dei bagni, e, ancora, chi assumeva condotte di sapore più dichiaratamente penitenziale, come lo stazionare in piedi sempre nel medesimo luogo o il coprirsi di catene; infine v’erano monaci che ibridavano queste tipologie tra loro. Tali prassi esprimevano una religiosità e un rapporto con il corpo che è sembrato ad alcuni riconducibile ad una sorta di dualismo di sapore manicheo (su tale linea generativa si è mossa ad esempio la ricerca di Vööbus, 1958-1988, specialmente nel suo primo volume, ma contro cfr. Gribomont, 1965). Si è detto di come nell’assetto teorico di Taziano e in altri testi legati alla più antica tradizione siriaca, possiamo riconoscere effettivamente un filone dualistico. Tuttavia proiettare così automaticamente in avanti i tratti più marcati di un sostrato che all’epoca dell’attestarsi del monachesimo cominciava a sbiadire è un’operazione che riduce in maniera semplificatoria i complessi percorsi seguiti da questo fenomeno. Inoltre spesso lo studio di queste forme estreme di ascesi si porta dietro un affrettato, e scientificamente inopportuno, giudizio di valore. Nella letteratura critica appare di frequente l’aggettivo «bizzarro» per descrivere le gesta di queste prime generazioni di monaci siriaci, schiacciando con ciò la visuale del nostro sguardo sulla memoria e sull’immagine che del fenomeno ci ha fornito, in particolare, il greco Teodoreto, il quale, oggi è chiaro, era interessato a presentare al suo colto pubblico cittadino un preciso modello ascetico che si poneva in alternativa alla vita condotta entro la tarda città ellenistica, secondo uno schema retorico per il quale, enfatizzando i tratti disturbanti e dissociativi del fenomeno monastico, se ne affermava la paradossale cittadinanza edenica. Senza voler arrivare a sottovalutare una così radicata propensione a vincere le passioni a cui corpi (e anime) sono soggetti, occorre riconoscere la banale evidenza di come per questi monaci fosse proprio il corpo lo spazio ove esercitare l’ascesi, e in quanto tale lo strumento donato da Dio per raggiungere la perfezione, attraverso la propedeutica conoscenza di se stessi e delle realtà create. Dunque fin dalla sua comparsa il monachesimo siriaco, nella sua parte maggiore, rifiutò l’acosmismo e il dualismo: non si spiegherebbero d’altro canto in una prospettiva simile gli interventi taumaturgici di molti monaci, così ben attestati, a favore della generazione in aiuto a coppie che non riuscivano ad avere figli – anche se v’è da dire che i nascituri contraevano un rapporto privilegiato con il mondo monastico e buona parte di loro avrebbe seguito quella via.

Nella nostra analisi del fenomeno eremitico eviteremo di bloccarci nella posizione del lettore tardo-antico della Storia Filotea. Conviene piuttosto domandarsi con maggiore pazienza quale sia stata la ragione interna, al di là della mera polarità dialettica con «il mondo» (spiegazione che appare sempre più un criterio a posteriori), e quali le concrete condizioni di pensabilità e realizzabilità che consentirono l’insorgenza di prassi tanto radicali. Risulterà comprensibile come sembrino due, soprattutto, i perni su cui hanno potuto innestarsi queste forme di controllo del corpo e della psiche da parte dell’eremita siriaco. Il primo snodo è concettuale: l’idea, già più volte ribadita, per cui la natura nel solitario veniva superata come segno dell’operazione attuale della grazia propria del mondo nuovo inaugurato col secondo Adamo. L’altro punto è un presupposto materiale, ed è elemento paradigmatico in molta della storia monastica siriaca: l’assenza di lavoro. Come risulterà anche dal prosieguo della nostra presentazione, questa tendenza, che andrà acutizzandosi in gruppi sospetti di messalianismo, per poi attenuarsi coi secoli, è la differenza sociologica maggiore rispetto alla tradizione monastica egiziana, che, invece, elaborò ben presto una profonda riflessione teologica e antropologica sul lavoro del monaco, anche semplicemente nei termini dell’auto-sussistenza. Il rifiuto del lavoro, o più realisticamente la sua forte limitazione, come coerente uscita dalla punizione di Adamo, quand’anche non generalizzabile a tutto il primo monachesimo di Siria, è comunque di esso un tratto caratteristico, soprattutto per quanto riguarda la vita solitaria. Il monaco siriaco, uscito dalla città, viene spesso supportato economicamente dalle vicine comunità cristiane, grazie alla fama di santità che circondava gli asceti anche per la prodigiosa potenza taumaturgica loro attribuita (sul finanziamento del monachesimo siriaco cfr. Escolan, 1999, pp. 183-225). Stiliti e reclusi sovente si ponevano lungo le vie di comunicazione, e dunque certo fuori dalla città, ma non propriamente nel «deserto», essendo costantemente visitati dalle popolazioni locali loro devote, o da viandanti di passaggio.

La forma ascetica che sembra si sia imposta per prima nell’instaurarsi del monachesimo in Siria fu quella eremitico-anacoretica, anche se la diffusione della vita comunitaria fu quasi contemporanea e in ogni caso ebbe un rapido successo. Questo vale anche per il territorio mesopotamico. L’antica e ben radicata presenza di un monachesimo comunitario induce a non caricare di un’eccessiva enfasi il ruolo generativo esercitato dalla vita solitaria sul monachesimo stesso. Pare cioè fallace voler risalire a un modello monastico originario; piuttosto conviene comprendere come anche in quest’area si sia manifestata una vitalità polimorfica e a tratti sincretistica fin dal principio di questa storia: una pluralità che procedeva piuttosto dall’emergere, questo sì unitario, di alcune questioni che però inducevano una variegata serie di risposte e di prassi, diverse da ambiente ad ambiente. Detto ciò, possiamo comunque affermare che l’esercizio di certe forme di vita stanziale in un preciso luogo sia stato uno dei punti di partenza su cui si sono innestate e sviluppate successivamente comunità monastiche di tipo «cenobitiche». L’esempio dei reclusi (in una torre, entro una grotta), o degli stiliti, paiono in tal senso chiari. Attorno alla memoria delle condotte esercitate da questo o quel solitario – memoria elaborata e tramandata dai discepoli nelle vite – gli spazi fisici che ne avevano ospitato le gesta divenivano luoghi del ricordo e una calamita per nuovi monaci, e ciò col passare del tempo comportava l’erezione di nuclei cenobitici a custodia di quei siti. Se è forse esagerato parlare, come si è fatto, di forme «pubblicitarie» di ascesi (Mango, 1978, p. 46) è certo che queste tipologie di vita solitaria – in particolare lo stilitismo – esercitavano un forte carisma sulle popolazioni cristiane, grazie al fatto che il corpo stesso del monaco, la sua postura, il suo stare, divenivano i media più dirompenti della proposta monastica. Alla condotta anacoretica – che era praticata, v’è da dire, quanto quella eremitica, quando non accanto ad essa – si deve invece la propagazione stessa del monachesimo, la sua crescita culturale e, in molti casi, la stessa evangelizzazione delle campagne siro-mesopotamiche e iraniche. Lo spaesamento, il divenire straniero al mondo, alla propria gente, al proprio paese, alla propria lingua, divenne uno dei patterns ascetici più ricorrenti, uno dei comportamenti più praticati, tanto che aksenaya (dal greco xenos, straniero) divenne uno dei titoli con cui definire per antonomasia il monaco.

Accanto alle pratiche più radicali di vita solitaria, si svilupparono ben presto nuclei di monaci che decisero di vivere a una certa distanza gli uni dagli altri, e che accettarono di dotarsi di una comune regola, magari imposta dall’autorità episcopale. La più ricorrente struttura di questi complessi è, come si è già detto, la laura. Al centro della laura era situata solitamente una chiesa, punto gravitazionale del monastero ove i solitari si ritrovavano una volta a settimana per officiare il servizio domenicale. Secondo un modello che richiama analoghe esperienze egiziane, a fianco della chiesa sorgeranno spesso nuclei che più propriamente definiremmo cenobitici, luoghi della formazione dei novizi, ove ospitare una scuola monastica, magari una biblioteca e uno xenodochio (un tale quadro di insieme è ricavabile dalla lettura di Lassus, 1947; Canivet, 1977; Falla Castelfranchi, 1987; Palmer, 1990).

Occorre qui una piccola nota terminologica. Il siriaco possiede diverse espressioni per designare i complessi comunitari di vita monastica. Tali parole, lungi dal possedere un senso univoco, paiono invece traducibili in modo diverso da contesto a contesto, da periodo a periodo. Se per esempio il grecismo qenubin (cenobio), usato a partire dal VI secolo, sembra indicare propriamente la laura, composta da un alveare di celle, la parola ‘umra (dimora) appare espressione più genericamente traducibile con monastero, e non consente di chiarirci se coincida con una precisa tipologia. Maggiori difficoltà si hanno con il termine dayra: questa espressione siriaca, così frequente, corrispondente al più tardo arabo deyr, oggi indicante i complessi monastici di cui vi sia una percepibile struttura architettonica, in età sassanide, in particolare per i secoli V e VI, non si riferiva solo a monasteri ma anche a centri di vita scolastica organizzati secondo un regime di vita ascetica comune (cfr. quanto ha notato di recente Bettiolo, 2007, p. 302 n. 17), e solo tra VI e VIII secolo sarà ristretta ad un senso univocamente monastico. La storia di queste parole, ancora poco studiata, è di fatto un complemento rilevante per una comprensione corretta della più complessiva storia del cenobitismo siriaco.

 

5. I focolai monastici della Siria occidentale

 

Riordinando le notizie fin dal principio numerose che emergono dalle fonti relative al nascente monachesimo siriaco tra IV e V secolo, appare agli studiosi con una certa nettezza la fortuna che la vita monastica ebbe in Siria occidentale, in un’area in cui al siriaco, va ribadito, si affiancava il greco. Tentiamo dunque di riassumere l’ampio affresco che ne emerge, senza pretese di completezza, attraverso uno sguardo a volo d’uccello che renda ragione delle maggiori, almeno, tra queste fondazioni, quelle che contrassegnarono la vita monastica della regione nella tarda antichità pre-islamica.

Ci basiamo di seguito in particolare sulla ricerca condotta da Canivet (cfr. Canivet, 1977) e sulla geografia ecclesiastica ricostruita da Honigmann (cfr. Honigmann, 1951). In Osroene i primi nuclei monastici sembrano essere sorti da un lato nei pressi di H.arran, e più precisamente a Fadana, dall’altro a breve distanza da Edessa, in prossimità di Gadala, ove sarebbe nata la comunità di Giuliano Saba. I suoi monaci sembrano aver avuto origini etniche diverse, annoverando tra gli altri anche dei persiani. La condotta imposta da Giuliano avrebbe previsto la preghiera individuale ininterrotta durante il giorno, con la possibilità di girovagare nel deserto in solitudine, per ricongiungersi alla sera nella celebrazione liturgica comunitaria.

Nel territorio dell’Eufratesia, a non molta distanza dalla città di Zeugma, ancora un poco più a occidente rispetto ad Edessa, troviamo uno dei monasteri di maggiore importanza della Siria, e tra i più noti, fondato dal monaco Publius (o Paulus). Anche in questo caso le fonti raccontano di una comunità multietnica, divisa tra un ramo siriaco e un ramo greco che accoglieva anche degli armeni. Se questi due rami erano diretti da due distinte linee di igumeni, tuttavia vi si svolgeva ugualmente un’unica vita comunitaria, regolata da uno stretto controllo, e raccolta attorno alla chiesa del monastero, ove tutti i monaci si ritrovavano al mattino e alla sera per celebrare un ufficio bilingue comune.

Dei monasteri che sorsero a settentrione di Antiochia, ricordiamo ancora soltanto l’esistenza nel territorio dell’Amanus di alcune fondazioni legate al nome di Simeone l’Anziano, e, nella Cilicia Seconda l’opera di Teodosio di Rhosos.

Il monachesimo si installò presto anche nella regione di Antiochia – non nella città però, che ancora all’epoca di Teodoreto era priva di monasteri veri e propri, pur possedendo il celebre Asceterion fondato da Diodoro di Tarso, un istituto scolastico caratterizzato da vita comune ascetica, ove trovò la sua prima formazione anche Giovanni Crisostomo. È piuttosto sul monte Silpius, a Sud-Est della metropoli, che, tra le sue rocce e le sue grotte, presero dimora alcuni celebri asceti ricordati nella Storia Filotea, tra cui il persiano Afraate (da non confondere con l’omonimo e più antico scrittore siriaco), Pietro il Galata e Macedonio.

Sempre nel territorio della Siria Prima, alle pendici del massiccio calcareo del Sheih Barakat (noto all’epoca come monte Corifeo), situato lungo la via che conduceva da Antiochia ad Aleppo, fiorirono presto altri complessi di spiccata rilevanza, di cui ricordiamo i due principali: Teleda (o Tell ‘Ade), fondato dal monaco Ammianos, e Telanissos, ove rimangono visibili i resti di tre monasteri del VI secolo, ma che certamente dovette avere una fase più antica, comunque successiva al 410. Sembra che anche molti dei villaggi che costeggiano la pianura di Dana, a Sud del Corifeo, annoverassero diversi assembramenti monastici, essi pure ricordati da Teodoreto. Nelle cosiddette Lettere Monofisite, del 567-568, inoltre, troviamo menzione di molti antichi monasteri disseminati su tutto il massiccio calcareo del Corifeo. Si tratta dunque nel complesso di una zona che, anche per la particolare condizione ambientale che presentava, favoriva l’insediarsi di questo tipo di comunità. Teleda, con le sue varie filiali sparse attorno al Corifeo, diverrà nel VI secolo il cuore monastico dell’area antiochena – un centro che manifesterà peraltro rapidamente il rifiuto del concilio di Calcedonia. Fin dai suoi esordi, la presenza, anche qui, di monaci provenienti dall’Osroene, legati alla figura di Giuliano Saba, favorirà l’insediarsi di un influsso propriamente siriaco sulla vita solitaria dell’area.

Nelle vicinanze di Teleda e di Telanissos, a Nord del Corifeo, e in parte intrecciata a questi luoghi, si svolge la vita solitaria di Simeone lo Stilita († 459), probabilmente l’asceta più celebre del monachesimo siriaco (Peeters, 1943). La singolare forma di vita che intraprese dopo periodi in cui visse da cenobita e da recluso, consistente in un continuo stazionamento sopra la cima di una colonna, diverrà uno dei modelli di riferimento per gli asceti delle generazioni successive, e sarà qua e là riproposta come condotta contrassegnata da una particolare severità. Simeone, più volte chiamato in causa da imperatori e patriarchi, a causa del prestigio che lo circondava, per testimoniare la propria posizione su controversie teologiche e di politica ecclesiastica, dovette certamente esercitare una pesante influenza sulla sua generazione, anche se non si possiedono elementi certi per valutare in quali direzioni egli muovesse, anche sotto il profilo cristologico. Va comunque detto che fin dalla seconda metà del V secolo il monachesimo della Siria occidentale pare aver optato con una certa compattezza per il monofisismo cirilliano, di fatto anticipando in questo passaggio la gerarchia e le élites intellettuali della Siria occidentale – e di fatto non è improbabile che anche Simeone parteggiasse per questa fazione.

Teodoreto ricorda la presenza di monasteri anche nella zona della Calcidia, legati in particolare alla figura dell’eremita Marciano, vissuto nel IV secolo, certamente uno dei padri fondatori, insieme a Giuliano, del monachesimo siro-occidentale.

Nella città di Apamea furono gli asceti Agapeto e Simeone a introdurre la vita monastica, e con essa, probabilmente, la stessa fede cristiana. La città, infatti, era, ancora alla fine del IV secolo, una roccaforte pagana: qui aveva la cattedra di retorica Geronzio, corrispondente di Libanio; qui risiedeva la scuola neoplatonica di Giamblico. La fine del secolo costantiniano vide l’acuirsi rapido degli scontri tra cristiani e pagani nell’area, la persecuzione degli antichi culti e l’instaurarsi della nuova religione. Il maggiore centro di vita monastica fu quello di Nikertai, un borgo ove si insiedarono moltissimi monaci sotto la guida del succitato Agapeto.

Nel territorio che gli era direttemante sottoposto, ovvero Cirro e la Cirrestica, Teodoreto menziona la presenza di tre monasteri, uno a Cirro stessa, fondato prima del 430, uno a Thalassios, e uno ad Asichas. A questa terra resta legata la memoria del monaco Maron, morto certamente nella prima metà del V secolo. L’altra figura di riferimento per l’area della Cirrestica è il monaco Zebinas, la cui morte va posta prima del 426. Gli allievi di costoro si diffusero nella regione, chi nella pianura e chi sulle zone montagnose del distretto, i primi praticando, pare, una vita contrassegnata da condotte meno severe rispetto ai secondi.

Il nascente monachesimo siro-occidentale si spinse ben oltre l’area interessata dalla narrazione di Teodoreto. L’ultimo ambito geografico coinvolto nel movimento monastico monofisita (ma che ospiterà anche importanti segmenti del monachesimo siro-orientale), che qui ricordiamo, destinato a divenire nei secoli il maggior baluardo dell’esperienza monastica e cristiana in tutta la regione siro-mesopotamica, è il T.ur ‘Abdin. Già questo nome ci rimanda ad un orizzonte monastico, T.ur ‘Abdin significa infatti montagna dei servi. La prima storia del monachesimo in quest’area ci è narrata da due fonti maggiori, la Cronaca 819 e la Trilogia di Qartmin, che ci espongono la vicenda di Samuele di Eshtin (morto nel 410 ca.) e dell’abbazia di Qartmin, da lui fondata nella seconda metà del IV secolo, e il decisivo ruolo giocato dai monaci di questo monastero nella diffusione del monachesimo nella regione, ma anche e più complessivamente nella vita della chiesa siro-occidentale: molti furono infatti i vescovi che provenivano da questo monastero, e non va dimenticato come l’imperatore Atanasio favorì questo complesso monastico di frontiera con donazioni molto cospicue. Si tratta cioè di una realtà maggiore, che proietterà la radice monastica siriaca fin oltre i secoli medievali (Palmer, 1990).

 

6. La Siria orientale dal ciclo di Mar Eugenio al sospetto nei confronti del celibato

 

Nel territorio della Mesopotamia sassanide, gli inizi di una condotta monastica, intesa come vita solitaria fuori dalla città, risalgono al più presto alla seconda metà del IV secolo, ma la loro precisazione ci è resa difficile dalla rielaborazione della memoria delle origini che tra il VII e il IX sarà portata avanti da alcuni importanti circoli monastici. È sicuro che anche in oriente ebbero un qualche ruolo i racconti relativi alla vita ascetica di Giacomo di Nisibi, ma è in particolare attorno alla figura e all’opera di un certo Mar Eugenio che questo più tardo monachesimo ricostruirà la propria storia. Va detto subito che i contorni del personaggio, ad un vaglio critico delle fonti, risultano un poco evanescenti. Sembra oramai assumibile come dato veridico che un monaco del IV secolo di nome Eugenio (Awgin) esistette e dovette fondare un monastero sul monte Izla, nel T.ur ‘Abdin (Fiey, 1962); il fatto  è che questo padre viene presentato da tarde vite come un allievo diretto di Pacomio, proveniente egli stesso dall’Egitto, e come tale introduttore-fondatore nel territorio mesopotamico di un monachesimo a suo modo «cenobita», di stampo egiziano, laddove l’esperienza monastica siro-orientale sembra sia stata inizialmente intesa con accenti ben diversi, insistenti sulla vita di solitudine e su una continenza di stampo encratita, sospettosa nei confronti del lavoro, in linea cioè con le tendenze già riscontrate nella Siria occidentale. È dunque lecito domandarsi quanto del ritratto agiografico di Eugenio sia il frutto della ricerca, da parte di un monachesimo che nel VI secolo si volle riformare proprio in senso «egiziano», di un padre nobile che fosse del tutto estraneo agli eccessi di un celibato entusiastico che a quell’altezza, come vedremo, richiamava immediatamente in ambienti ecclesiastici l’orizzonte «eversivo» messaliano, da cui ci si voleva pubblicamente distanziare. Quanto, allora, il ruolo di Eugenio nella storia monastica siro-orientale è stato enfatizzato da questo clima, e quanto tale insistenza ne ha alterato i tratti biografico-ascetici? Il monastero che porta il suo nome sul monte Izla, e che da lui fu verosimilmente fondato, di fatto sembra essere andato ben presto in rovina, e la memoria stessa dell’esperienza eugeniana pare aver subito, inizialmente, la medesima sorte, per venire riscoperta solo più tardi. Va detto inoltre che Eugenio viene descritto come maestro di moltissimi discepoli, fondatori a loro volta di nuove comunità. Si tratta di una delle famiglie monastiche che, per come emerge dalla tradizione, risulta tra le più cospicue di tutta la Mesopotamia. Anche qui tuttavia non pare possibile precisare con nettezza la reale entità dell’apporto di questa discendenza, una volta che si riconosca l’ampliamento che hanno subito i dati dalla tradizione. Quanti monasteri possono infatti aver voluto rivendicare in un qualche momento della loro storia la figura di Eugenio a proprio fondatore per mere ragioni di convenienza? D’altra parte è pensabile che, se non l’intero gruppo, almeno un certo numero, di quei monasteri che le fonti fanno dipendere dal ceppo di Eugenio, sia stato realmente fondato da qualcuno dei suoi discepoli. Qualunque ne sia stata la somma, sembra di poter scorgere in questa famiglia monastica, dietro le riletture enfatiche e deformanti che ci veicolano complessivamente la vicenda, una sorgente reale – e probabilmente autoctona – del monachesimo mesopotamico. La linea delle fondazioni eugeniane sembra comunque riguardare nel complesso monasteri presenti nelle regioni settentrionali del Bet Qardu, del Bet Zebdai e del Bet Nuhadra.

Se questo ciclo agiografico appare dunque falsato dalla chiara volontà di far derivare il monachesimo siro-orientale da salde radici egiziane, non sembra tuttavia escludibile che una qualche influenza «greca», o più probabilmente greco-sira, si sia davvero esercitata sugli esordi del monachesimo in questi territori. Tommaso di Marga, nel IX secolo, entro la sua Storia monastica, riportando notizie che afferma provenire da «antichi scrittori», ci informa dell’arrivo di «metropoliti e asceti greci» in Persia esiliati dall’impero durante il regno di Valente (364-378), e del loro stanziamento sul monte Maqlub, a breve distanza da Ninive. Qualunque realtà si celi dietro questa indicazione, pare interessante sottolineare come le enclaves monastiche sorte su quel primitivo tronco paleseranno una linea teologica «occidentale», tale da rendere gli assembramenti di solitari del Maqlub tra i meno inclini ad accettare il processo di «nestorianizzazione» che prese mossa dalla fine del V secolo. Il percorso di propagazione di questo cuneo «greco» del monachesimo siro-orientale pare aver seguito la rotta della cosiddetta via del re, che attraversava le alte terre adiabenite.

Anche nella Mesopotamia centrale e meridionale l’ingresso del monachesimo sembra avvenire presto. Tra i monasteri di questa prima fase, alcuni dei quali sono legati alla memoria dei martiri, ci limiteremo a segnalare quelli meglio documentati: nella regione del Bet Garmai il monastero del Martyrion a Kirkuk, fondato probabilmente a seguito delle persecuzioni di Šapur (339-379); nel Bet Aramaye, la regione patriarcale, il monastero fondato da Mar Abda, chiamato anche Deyr al-Qunni, posto nel distretto del Ba Daraye (Fiey 1968, p. 189) e quello di ‘Abdišo‘, suo discepolo, sito vicino a Hira, entrambi, pare, risalenti alla seconda metà del IV secolo, nonché il monastero di Giovanni di Kaškar, che sembra essere stato fondato all’inizio del V secolo (Fiey, 1968, p. 157); Badma, martire nel 376/378, avrebbe fondato un asceterio nella regione dell’Elam.

Molto di questo primo monachesimo persiano, peraltro, non si stringeva attorno a fondazioni stabili, né d’altronde poteva contare sempre su vicine comunità ecclesiali, bensì spesso viveva anacoretico e missionario in un mondo ove il paganesimo iranico possedeva ancora una forte vitalità e teneva strette le redini del potere. Di converso, quando gruppi di asceti decidevano di intraprendere una vita comunitaria, spesso lo facevano entro le mura di città o villaggi, oppure si spostavano di città in città. Monaci solitari o gruppi itineranti di asceti dunque (difficile a questa altezza distinguere tali fenomeni, o parlare di un monachesimo coerente con le categorie fin qui usate, dato che diversi caratteri paiono compenetrarsi vicendevolmente: vita celibe, ascesi, itineranza, presenza nelle città, ma pure rivendicazione di una marcata alterità rispetto alla vita secolare), costoro erano anche apostoli volti al martirio, e ciò li configurava come nucleo forte delle comunità cristiane: una posizione, questa, che pensava la vita di imitazione del Cristo nei termini di una testimonianza radicale, articolata in modo diverso da quella dell’ecclesiologia proposta dalla gerarchia episcopale. E così, questo rigoglio plurale e polimorfico andò a frapporsi tra i fedeli e il clero, in quello spazio non sempre facilmente disciplinabile in cui sorge la paternità spirituale, la ricerca del consiglio dei padri, o di un loro intervento taumaturgico: elementi che contribuirono ad accendere dentro la chiesa nuovi focolai d’autorità, i quali, volenti o nolenti, si posero in diretta concorrenza con l’autorità del clero. Nel V secolo, si accennava, prima ancora che la chiesa di Persia acquisisse la sua confessione cristologica schiettamente teodoriana, assistiamo alla rapida diffusione dei gruppi definiti messaliani, monaci entusiasti che insistevano sul ruolo privilegiato e di per sé decisivo dell’orazione nella vita del cristiano (cfr. il paragrafo seguente), lungo questo antico reticolato composto da comunità ascetiche e monasteri. A tali inquiete presenze si sommerà la pressione, entro i territori persiani, delle chiese «monofisite», la cui attività di proselitismo attecchirà con particolare efficacia proprio nel mondo monastico. Questa morsa susciterà reazioni affatto decise da parte dei vescovi, che inizieranno a vedere nella via monastica e più generalmente celibe uno snodo per loro problematico, sia sotto il profilo pastorale, che sotto quello teologico e, in ultima istanza, anche sotto quello politico: l’enfasi sulla continenza sembra aver contribuito in effetti ad acuire l’ostilità e le incomprensioni del clero zoroastriano. È su questo scenario che va compresa sia la decisione assunta dal sinodo riunito da Bar S.auma, vescovo di Nisibi, a Bet Lapat. (484), di autorizzare i vescovi a contrarre nozze, sia, due anni dopo, il divieto, formulato dal sinodo presieduto da Acacio, di praticare vita comunitaria entro le mura cittadine (Synodicon Orientale, vol. 2, pp. 299-309, Camplani, 2007). L’opera di disciplinamento della vita monastica sarebbe durata, con fasi alterne, per tutto il VI secolo: nel 576 il sinodo del Cattolico Ezechiele lamenterà la presenza di messaliani vestiti con l’abito monastico (Synodicon Orientale, vol. 2, pp. 374-375); nel 585, ancora, il sinodo di Išo‘yaw I tornerà ad imporre ai solitari e alle monache di non interferire nella condotta delle comunità locali, di dimorare in luoghi coerenti col loro stile di vita – e alle monache di non condurre vita solitaria ed eremitica, cosa che, va da sé, era stata fino ad allora una pratica possibile –, ingiungendo al contempo ai semplici fedeli di non disertare l’eucaristia celebrata nelle chiese, andando a cercare magari tra celle e monasteri una più intensa forma di partecipazione al divino (Synodicon Orientale, vol. 2, pp. 407). Si tratta di alcuni indizi – ma se ne potrebbero evidenziare anche altri – relativi a come, nel confrontarsi con l’ingombrante eredità del primo ascetismo siriaco, e con i suoi frutti più inquietanti maturati entro le nuove forme di vita monastica, la gerarchia siro-orientale abbia cercato, tra V e VI secolo, delle soluzioni normative tese a separare coloro che attendevano, in un modo o nell’altro, alla vita perfetta dal resto del popolo cristiano.

 

7. La questione messaliana

 

Si è già detto di quanto il fenomeno chiamato messalianismo abbia segnato fin dal principio il monachesimo siriaco – questo stando alle fonti eresiologiche, che sembrano enfatizzare la larga fortuna che ebbe il movimento e i suoi stretti legami con l’insorgenza del monachesimo in queste terre. Alcuni dei caratteri segnalati come tratti costitutivi del monachesimo siriaco sembrano essere stati in effetti oggetto di drammatiche radicalizzazioni fin dal IV secolo, e i conflitti che ne scaturirono furono di tale gravità da turbare la vita delle chiese per tutto l’arco temporale qui preso in esame. La costellazione di pratiche e credenze che le tradizioni eresiologiche siriache e greche hanno posto sotto il nome unitario di messalianismo è però in realtà fenomeno di complessa decifrazione (forse il miglior quadro di insieme è ad oggi Stewart, 1991). Il termine messaliani, d’origine siriaca (me@alleyane), significa letteralmente «oranti», e sottolinea pertanto la centralità in cui era tenuta la preghiera entro questo movimento. Non pare tuttavia adeguato descrivere il fenomeno in termini di eresia – la quale solitamente viene definita dall’avversario di turno sulla base di un nucleo dottrinale forte –, sembra invece più corretto parlare di una particolare interpretazione del monachesimo, contrassegnata da un’antropologia pessimista e da una decisa enfasi riservata al ruolo della preghiera, in base alla quale si sarebbe configurato un rapporto con Dio che di fatto scavalcava la grazia e, soprattutto, il sacramento.

È Epifanio di Salamina, nel suo Panarion, a informarci della presenza di questi monaci ad Antiochia intorno al 376/377. Si trattava di un gruppo composto di uomini e donne, proveniente dalla Mesopotamia, noto anche allo stesso Efrem, il quale ne aveva dato cenno pochi anni prima componendo a Edessa i suoi Inni sulle Eresie. Diffusisi rapidamente anche in Asia Minore, saranno oggetto di una prima condanna da parte di un sinodo presieduto a Side nel 388 da Anfilochio di Iconio, seguita due anni dopo da un’altra censura, voluta in un sinodo antiocheno dal patriarca Flaviano. Teodoreto, questa volta nella sua Storia ecclesiastica, ci fornisce importanti notizie prosopografiche sugli inizi del movimento. I principali nomi dei capi messaliani, attorno a cui si concentrò l’attenzione preoccupata della gerarchia, erano quelli di Sabas, Adelfio, Hermas e Simeone. In particolare sembra essere stato Adelfio, stando a quanto riporta la testimonianza di Filosseno di Mabbug nella sua Lettera a Patrizio, la figura di punta del movimento, colui che in qualche modo avrebbe dato vita a questa particolare interpretazione del monachesimo, e in ultima istanza del cristianesimo. Certo, indipendentemente dal grado di esattezza e veridicità dell’informazione, il tratto più rilevante che va segnalato è il rapporto che secondo Filosseno legava Adelfio ad uno dei padri del monachesimo siriaco, Giuliano Saba. Quand’anche non fosse storicamente fondato, ciò ci suggerisce come agli occhi del vescovo di Mabbug i semi messaliani provenissero in qualche modo da una distorsione dell’intelligenza spirituale cresciuta sul tronco originario del monachesimo di Mesopotamia, e non è piccola indicazione.

Le condotte nelle quali si sarebbero distinti costoro scandalizzavano le comunità ecclesiali della Siria orientale e occidentale: monaci itineranti, praticavano una sorta di parità di genere tra uomini e donne, rifiutavano il lavoro, pretendevano per sé, proclamandosi autentici poveri in spirito, l’elemosina che le comunità ecclesiali avrebbero di principio dovuto destinare a orfani e poveri; sminuivano la funzione dei sacramenti: in particolare – punto di partenza antropologico e teologico – ritenevano il battesimo incapace di liberare l’uomo dal demone che, secondo una dottrina loro attribuita, abitava ogni figlio di Adamo dalla caduta in poi. Solo una preghiera incessante avrebbe potuto eliminare col tempo questa maligna presenza creando di lì uno spazio nel cuore dell’uomo ove fare abitare, di necessità e non per grazia, lo Spirito di Dio, celebrando, nel suo fuoco, un «battesimo spirituale». Ed è attorno alla sensibile presenza pneumatica del divino che deve essersi declinato con particolare vigore il carisma di questi gruppi. L’insistenza sulla percezione, persino fisica, dell’operazione dello Spirito, è un tratto che li avrebbe contraddistinti, così come l’indifferenza verso la gerarchia ecclesiastica e i suoi riti. Raggiunto lo stato di perfezione e riacquisita la medesima libertà di Adamo, si ritenevano di fatto esentati dalla liturgia terrestre, in quanto del tutto e per sempre partecipi della liturgia celeste. Una condizione che rendeva possibili visite divine sotto forma di visioni e profezie. La certezza di aver acquisito lo stato di perfezione sarebbe stato anche alla base di un profondo rilassamento dei costumi ascetici, in quanto il preteso raggiungimento dell’impassibilità avrebbe reso legittimo per loro un comportamento sociale e sessuale libero e non contrassegnato da pathos, come quello di Adamo in Eden, il quale poteva unirsi ad Eva senza patire concupiscenza.

Certo, le notizie che possediamo, e che ci permettono di tratteggiare le linee guida di questo movimento, sono tutte di provenienza eresiologica e in quanto tali certamente inclini da una parte a comporre in un quadro unitario un fenomeno che unitario probabilmente non era, dall’altra a enfatizzare o snaturare alcuni aspetti dottrinali o comportamentali che riguardavano forse solo delle frange o dei singoli, facendo invece apparire tali tratti come caratteristiche comuni a tutto il movimento. La difficoltà di valutazione delle fonti si palesa particolarmente quando ci si confronta col grave intrico di questioni attinenti al cosiddetto Asceticon dei messaliani, un testo che sarebbe stato quasi il manifesto del gruppo, condannato, insieme a tutto il movimento, al concilio di Efeso del 431. Dörries ha voluto identificare questo perduto scritto con le Omelie dello Pseudo-Macario, attribuendone l’autorialità al più sopra nominato Simeone di Mesopotamia (Dörries, 1941). È di fatto vero che alcune delle proposizioni contestate a Efeso, riportateci da Timoteo di Costantinopoli e da Giovanni Damasceno, si avvicinano e in certi casi coincidono con passi del corpus pseudo-macariano, ma sono ugualmente riscontrabili sue differenze significative nei confronti del complesso dottrinale messaliano, almeno per come emerge dagli eresiografi: nelle Omelie non v’è disprezzo per il lavoro, né si può riscontrare l’indifferenza alle opere di carità tradizionalmente attribuita ai messaliani, né sembra corretto attribuire al corpus pseudo-macariano un atteggiamento sfavorevole nei confronti del sacramento del battesimo. Vi è insomma il sospetto che, al di là di alcune punte maggiormente indisposte nei confronti della gerarchia e dei suoi sacramenti, attorno o dentro al «messalianismo» si ponessero tradizioni ascetiche e monastiche più moderate e articolate, come quella presente nell’opera dello Pseudo-Macario, la quale però, in una stagione contrassegnata da frettolose riduzioni, è stata fatta oggetto di un grave e tendenzioso fraintendimento.

Espulsi formalmente dai territori dell’impero romano in base alle decisioni del concilio di Efeso, i messaliani si diffusero prepotentemente nel territorio sassanide, turbando in tal modo la vita pastorale delle chiese siro-orientali, che, a differenza di quelle poste sotto Bisanzio, non potevano contare sul braccio secolare per reprimere queste forme, bensì solo sull’ostracismo promosso dalla disciplina interna della chiesa. Così, tra V e VII secolo, si moltiplicarono le condanne indirizzate a questo movimento nei sinodi delle chiese persiane. Anche qui si tratta, ad ogni modo, di gruppi monastici (nei quali entravano chierici, figli del patto e semplici fedeli) che scandalizzavano le comunità ecclesiali sia per la promiscuità tra uomini e donne, sia per la loro continua itineranza e il rifiuto del lavoro, sia per le fratture che causavano, in tutti i luoghi ove sostavano, entro la gerarchia ecclesiastica e tra i fedeli. Si è detto delle disposizioni a regolamentare la vita celibe durante il VI secolo. Al principio del VII secolo sarà Babai il Grande a opporsi sistematicamente ai messaliani che si erano diffusi in modo capillare nei monasteri siro-orientali – è di questi decenni la vicenda, esemplare, del monaco «messaliano» Afnimaran, che, cacciato di monastero in monastero, dovette diffondere il proprio insegnamento in maniera vivace in molti assembramenti di solitari della Mesopotamia settentrionale. La dura lotta contro questa fioritura messaliana si intrecciò ad altri due pericoli che, ad avviso di Babai, minacciavano la chiesa di Persia: uno, il monofisismo severiano, che proveniva dall’occidente; l’altro, l’origenismo di H.enana di Adiabene, che sorgeva dall’interno – H.enana era infatti dottore della scuola di Nisibi. L’intreccio che Babai volle cogliere e istituire tra monofisismo, origenismo e messalianismo (Guillaumont, 1978), quasi una sorta di complessa patologia alla quale in particolare i monasteri erano esposti, sembra essere divenuto un accostamento tradizionale, che ritroviamo fino al declinare dell’VIII secolo, in una stagione nella quale messaliani veri e propri in questi territori non ve n’erano più, allorquando di questo complesso di dottrine ereticali, in particolare intorno al problema della possibilità o impossibilità della visione di Dio da parte dell’uomo, il patriarca Timoteo I condannerà gli scritti di due importanti autori spirituali, Giovanni di Dalyatha e Giuseppe H.azzaya unitamente a un terzo, misterioso, personaggio, Giovanni d’Apamea, che i più distinguono da Giovanni il Solitario (Guillaumont, 1958, Beulay, 1977-1978). Ugualmente verrà accusato di messalianismo anche un allievo di Giuseppe H.azzaya, Nestorio, che dovrà sottoscrivere un protocollo d’abiura prima di salire alla cattedra vescovile del Bet Nuhadra (Berti, 2005; Berti, 2009).

 

8. L’Egitto greco-copto in Siria: la rilettura di Antonio e l’influsso di Evagrio su Filosseno

 

Accanto ai temi e ai modelli autoctoni, fin dal V secolo cominciarono ad entrare in circolazione nel monachesimo siriaco testi di area egiziana che presentavano strategie e finalità diverse dell’agire del monaco rispetto a quelle fin qui dominanti. Va anzitutto premesso che in quei decenni centrali del V secolo prendeva più generalmente slancio la grande stagione delle traduzioni di testi greci nella lingua di Edessa. Oltre che diretto a rendere disponibile in lingua siriaca l’antica sapienza delle «genti di fuori», i filosofi e medici pagani ellenici, tale movimento mirava con particolare vigore alla diffusione degli scritti dei padri della Chiesa greca, specialmente delle loro opere di natura esegetica e teologica, come i testi degli antiocheni Teodoro di Mopsuestia e Diodoro di Tarso, per parte difisita, e degli “alessandrini” Atanasio e Cirillo, e poi di Severo, per quella monofisita – ma anche e soprattutto, di Gregorio di Nazianzo, apprezzato quale esempio sommo di retorica cristiana, che assurse a modello di riferimento per lo stile di scrittura e di argomentazione nelle accademie siriache di Edessa e poi di Nisibi. Oltre a queste traduzioni, espressione del mondo scolastico, crescevano parallele le versioni della sapienza monastica egiziana di lingua greca e forse copta. L’influenza procedente da questa grande impresa di trasmissione letteraria modificò parzialmente l’assetto comportamentale e dottrinale del monachesimo di queste terre. L’ascendente si esercitò, principalmente, su due generi: l’agiografia e la letteratura ascetico-mistica. Per il genere agiografico possiamo dire che sono in particolare due i testi che, in traduzione siriaca, introdussero, reinterpretandolo, il retaggio monastico egizio: l’Historia Lausiaca di Palladio e la Vita di Antonio attribuita ad Atanasio. Per la letteratura ascetica e mistica, di massima importanza è la traduzione di molte opere di Evagrio Pontico, alcune delle quali giunte a noi nella sola versione siriaca.

Ci soffermiamo in particolare sulla traduzione della Vita di Antonio, poiché con questo testo ci troviamo dinnanzi ad un vero e proprio «punto di incontro» tra il monachesimo egiziano e l’ascetismo autoctono siriaco, secondo l’efficace presentazione che ne ha dato un suo interprete (Takeda, 1988), un plesso illuminante sia per comprendere la specificità siriaca, sia per cogliere i modi dell’introduzione di modelli monastici alternativi nell’immaginario e nella prassi dell’ascetismo siriaco. Al di là delle possibili origini della traduzione siriaca della Vita da uno strato testuale greco «copticizzante», antecedente alla redazione tramandataci in greco, tema su cui si è divisa la critica, quel che è sembrato maggiormente degno di nota è il riadattamento della figura di Antonio operato dall’anonimo traduttore siriaco. In esso Antonio assume alcune caratteristiche tipiche dell’asceta siriaco. Descritto come immagine del Cristo, egli viene tratteggiato come santo fin dall’infanzia, capace di discernere il bene e il male e di divenire insegnante dei suoi stessi genitori. Diversamente da quel che riscontriamo nell’Antonio «greco», presentato come uomo comune in cerca di acquisire una pienezza di virtù, l’Antonio siriaco non vive un’iniziazione mistica, non necessita di alcuna evoluzione spirituale, né di un’educazione alle virtù tramite l’esercizio di una pratica ascetica e orante, ma sta come un angelo in forma umana, il cui scopo eminente è combattere i demoni. È, in definitiva, un perfetto unificato come il Cristo, un i¢idaya. Tuttavia questi adattamenti risultano essere stati dei sagaci accorgimenti nell’opera di introduzione in ambito siriaco di temi e modelli propri del monachesimo egiziano, al fine di rendere più accostabili queste esperienze. Non pare un caso che, con l’andare del tempo, le ulteriori versioni siriache della Vita di Antonio si facciano via via più letterali e le modifiche sopra elencate sfumeranno.

Ma a trasformare dal profondo il monachesimo siriaco, a conferirgli un ricco strumentario interpretativo e una solida struttura teoretica e pratica furono le versioni degli scritti di Evagrio. La penetrazione di questo corpus letterario seguì diverse linee, ed ebbe, in genere, una complessa ricezione, anche a causa della negativa reputazione che gli scritti teologici del monaco pontico acquisirono nel mondo greco e che porteranno alla condanna sua e di Origene nel Concilio di Costantinopoli del 553. Decisiva, in prima istanza, è la traduzione delle Centurie Gnostiche, il testo dottrinalmente più controverso del monaco Pontico. Esso ci è giunto solo in siriaco e in una doppia recensione: la prima (denominata S1), più diffusa e citata, ritenuta dai monaci siriaci l’autentico insegnamento evagriano, è in realtà contenente un testo fortemente rielaborato dal traduttore, che ha teso ad eliminare i passaggi in cui più chiaro appariva l’apporto del pensiero cosmologico ed escatologico origenista nel magistero del monaco pontico; una seconda, denominata S2, che invece è stata riconosciuta come fedele all’originale greco, giuntoci solo in frammenti (Guillaumont, 1962, Bettiolo, 1988-1989).

Il primo a testimoniare di una lettura intelligente, e affatto originale, del dettato evagriano, è Filosseno di Mabbug. È questi l’autore di riferimento per il monachesimo siro-occidentale, nonostante non pare abbia ricevuto, a giudizio del suo più profondo interprete, una vera e propria formazione monastica (De Halleux, 1963). Le opere teoriche in questo campo che ebbero maggior impatto furono il corpus dei suoi discorsi parenetici e, soprattutto, la Lettera a Patrizio. In tali testi emerge chiaramente il ruolo di mediatore giocato da Filosseno nell’introduzione della disciplina monastica evagriana entro il tronco della riflessione siriaca sulla vita solitaria, non solo per la terminologia teologica e cosmologica, ma anche per le nozioni ascetiche utilizzate (Harb, 1969, Vööbus, 1988, pp. 135-140). In esordio ad alcuni suoi scritti, Filosseno si sarebbe proposto di seguire e di illustrare, sulla scorta di Evagrio, il cursus monastico dal suo esordio, contrassegnato dalla lotta ascetica contro i demoni, attraverso le fasi in cui, tramite la pratica quotidiana della preghiera e della lettura, si svolgevano di fronte al monaco la serie delle contemplazioni teorizzate da Evagrio, fino al difficile ingresso nella preghiera pura e nella retta conoscenza della misericordia di Dio. Nonostante tali intenti, però, l’opera che di lui ci è rimasta si concentra solo sulle prime fasi della vita di solitudine. Si può notare ad ogni modo come Filosseno enfatizzi il ruolo della taxis (ordine) nel percorso della vita spirituale, secondo cui la fede precede il battesimo, a cui segue il timore di Dio, la custodia dei comandamenti e di lì l’accesso alla vita contemplativa vera e propria, secondo un metodo che porterà l’anima a separarsi dal peso del corpo. Il fine ultimo del monaco, sulla scorta di Evagrio, è in effetti il raggiungimento di uno stato di apatheia, in siriaco la mašušuta (Harb, 1974). Ed è dal conseguimento di questa quiete interiore, scesa sulle tre parti dell’anima – secondo i dettami della psicologia evagriana – che origina l’azione dell’amore. Dunque, quanto Filosseno recepisce in misura maggiore dall’insegnamento del maestro pontico è quel che concerne l’ascetica e la spiritualità, mentre il vescovo di Mabbug si dimostra più prudente a riguardo di altri ambiti del pensiero di Evagrio, come la cosmologia e, soprattutto, la teologia dell’incarnazione. Qui sta il contributo più originale di Filosseno: inserire la tramatura ascetica e mistica evagriana entro le maglie della cristologia monofisita, trovando in essa le ragioni più intime per l’unione tra uomo e Dio in Cristo, a cui il monachesimo tende.

 

9. La legislazione dei cenobi siro-occidentali

 

Una via seducente per accostare la dimensione comunitaria del monachesimo siro-occidentale tra V e VII secolo, soprattutto per quanto concerne la sua quotidianità, può consistere nel prestare ascolto proprio ai testi canonici elaborati per regolamentare la vita e i ritmi dei cenobi. C’è in tale prospettiva d’indagine, va detto, un rischio soggiacente che è bene denunciare prima di proporre un pur rapido tratteggio, e consiste nell’indagare questa letteratura con uno sguardo eccessivamente malizioso che, quasi automaticamente, supponga dietro ad ogni prescrizione una prassi contraria che ne abbia occasionato la stesura. Una simile suggestione a mio avviso presenta un grave inconveniente. Molto di questo materiale canonico, infatti, è tradizionale, e non è per niente facile affermare quanto di questo o quel testo sia legato all’esperienza specifica sotto il cui nome ci è stato tradito, o quanto piuttosto dipenda da fonti e contesti precedenti – o anche successivi, se esso ha subito, come può accadere, tarde alterazioni e adattamenti. Oppure quando non sia palesemente uno pseudo-epigrafo, come nel caso dei «canoni di Efrem». Quest’ultima è una raccolta di precetti ascetici probabilmente elaborata all’interno di una comunità monastica alcune generazioni dopo la morte del diacono e innografo edesseno: dalle pagine efremiane si è preso parziale spunto nel redigere canoni che richiamano il genere della letteratura sapienziale, e si concentrano un po’ genericamente sull’idea della sottomissione del monaco ai suoi superiori, nell’esercizio di una corretta ascesi e di una costante pratica orante.

Detto questo, va comunque riconosciuto che in alcune circostanze è possibile evidenziare i caratteri della politica monastica adottata dall’autentico estensore di una raccolta canonica: ne è esempio il fortunato caso dei canoni di Rabbula († 436), almeno secondo l’autorevole opinione di Drijvers (Drijvers, 1999, p. 147). Per la loro particolare posizione – questi canoni rappresentano il monachesimo come lo vorrebbe l’autorità episcopale – ci concentreremo di seguito su tale raccolta, anche perché essa riporta alcune definizioni che potremmo dire paradigmatiche di tutto questo genere letterario, e successivamente completeremo questo tratteggio con una scorsa selettiva su alcuni passaggi interni alle altre raccolte canoniche siro-occidentali edite da Vööbus (Vööbus, 1960).

Tra gli elementi maggiori, il primo, piuttosto ovvio, e però centrale, è l’enfasi sulla separazione dal mondo, sulla continua dimora all’interno del monastero e della propria cella. Finanche nella malattia il monaco dovrà evitare il più possibile di entrare in contatto con la città, e tanto più con le donne, eccetto quelle della sua famiglia che, casomai, potranno prendersi cura di lui nella sua indigenza entro lo spazio del monastero e solo con il beneplacito dell’igumeno. La stessa vita solitaria, lontano dal cenobio, deve essere concessa solo dopo un lungo periodo di tempo di prova. Così pure di fronte al trasferimento di un monaco da una comunità ad un’altra la legislazione prevede una forte prudenza: egli dovrà portare con sé una carta di presentazione del suo precedente igumeno, al fine di evitare che si introducano nel monastero elementi che hanno in precedenza dato scandalo in altre comunità. Perfino la morte del monaco deve essere «gestita» solo da monaci, in modo che la celebrazione del funerale non possa diventare luogo di pubbliche acclamazioni.

L’esercizio dell’umiltà è uno dei fuochi su cui si concentra il lavoro del monaco. Se anche questi è rivestito di una qualche autorità all’interno del monastero, come nel caso del sa‘ura (i.e. = l’economo, o anche il visitatore), e in quanto tale chiamato di quando in quando a recarsi in città per curare gli interessi della propria comunità, in simili occasioni dovrà evitare di indossare l’abito monastico, per non godere del prestigio connesso al suo stato; dovrà poi dormire nella chiesa di un qualche monastero, se ve n’è uno, e non entro case private. I tratti esteriori della vita monastica, in tale prospettiva, non devono interagire con lo spazio della polis. All’igumeno compete di garantire la custodia dello zelo entro il monastero, e pertanto gli è prescritto di non consentire visite o incontri tra i monaci e i propri parenti. Egli non ha una libertà d’azione assoluta entro il monastero, bensì, almeno in linea teorica, risponde direttamente al vescovo. L’autorità episcopale sembra in effetti percepire i rischi di sedizione interni ad un genere di vita che si pone in qualche modo fuori dal diretto controllo della gerarchia, e tenta di porvi rimedio. I monaci non possono assolutamente, ad esempio, dare l’eucarestia (a meno che non siano anche sacerdoti, evidentemente), né possono fornire risposte a chicchessia (ovvero ai semplici fedeli) prendendo spunto dalle Scritture: in pratica si tenta di ridurre al minimo il rischio che sorga una paternità spirituale fondata sui testi sacri e fuori dalla linea gerarchica. Queste prerogative sono riscontrabili anche nel divieto di tenere entro le mura del monastero ossa dei martiri, le quali piuttosto, se autentiche (sic!), andavano consegnate al vescovo per essere collocate in appositi martyria: era questa, evidentemente, una politica volta a evitare che alcuni monasteri potessero venire promossi a santuari dal popolo cristiano fuori da un preciso progetto o avvallo gerarchico.

Questa netta separazione dal mondo si doveva estendere anche alle letture del monaco, chiamato com’era a nutrire una quotidiana, personale confidenza con le Scritture e una sostanziale diffidenza nei confronti dei testi procedenti dalla sapienza profana. In questo particolare caso possiamo affermare senza esitazione che a una simile prescrizione, piuttosto ricorrente anche in altre raccolte, e in genere nella letteratura ascetica, non corrisposero comportamenti coerenti. Ne è prova l’ampio lavoro di traduzione e copiatura di testi di filosofia, medicina ed etica condotto proprio entro importanti cenobi. Il divieto di compiere letture profane, va detto, era indirizzato in particolare a quelli che si instradavano verso la cella, e in linea di principio non doveva coinvolgere chi, fuori da un indirizzo di vita solitaria, entro le scuole monastiche perseguiva una mera formazione intellettuale. Ad ogni modo possiamo sospettare che anche per coloro che entravano nella cella fosse difficile restare del tutto immuni dalle influenze della sapienza «di fuori».

Mezzo secolo dopo, le poche Regole attribuite a Filosseno, redatte sotto forma di «ingiunzioni bibliche», mostrano come questo strenuo difensore della cristologia cirilliana abbia tentato di rispondere con grande severità a una stagione di crisi che vedeva le chiese di Siria divise e in lotta. Filosseno mette in guardia il monaco dallo svendere il Cristo per denaro, dall’essere intimorito dal potere, allora incarnato dalla proposta calcedoniana legata a Costantinopoli, dal diventare silente nei confronti della verità, coincidente per lui con le formule cristologiche cirilliane, dall’associarsi ai «nuovi Giudei» (ovvero i difisiti), dal restare in disparte nel momento della battaglia. È evidente, da questi pochi cenni, come questo piccolo testo documenti con particolare efficacia il tentativo, invero riuscito, di coinvolgere direttamente il mondo monastico siriaco nelle controversie cristologiche del tempo, diatribe che non avevano solo una dimensione teologica, ma anche politica, in quanto mettevano in discussione l’autorità imperiale con una modificazione sostanziale dell’ordito teologico-politico di queste comunità. Il monaco pertanto è chiamato ad una lealtà anzitutto nei confronti della verità, anche a costo di una rottura del paradigma costantiniano.

Dalla prima delle due Regole attribuite a Giovanni Bar Qursos, vescovo di Tella († 538), rileviamo come, a differenza che per Rabbula, in questa più tarda stagione si consigli di non celare i tratti esteriori della vita monastica, dall’abito alle «opere visibili», in un processo di rivalutazione anche del ruolo del lavoro nella vita monastica. Vi è poi una sostanziale apertura nei confronti dell’educazione entro i monasteri per quei fanciulli che siano stati indirizzati dai genitori al «patto», anche se si sottolinea la differenza tra questa educazione monastica e quella fornita dai centri scolastici dedicati al sapere profano.

Possediamo poi delle Regole redatte per delle monache, sicuramente collocabili tra il V e l’VIII secolo. Si tratta di un testo di eccezionale rarità in ambito siriaco, ma un poco deludente quanto ai contenuti, anche perché certi passaggi sono resi indecifrabili a causa di pesanti lacune nel manoscritto che ci riporta la collezione. Le regole si concentrano ad ogni modo soprattutto sulla custodia delle monache da ogni contatto col mondo, coi vizi e con l’universo maschile, compreso quello monastico. Praticamente tutte le prescrizioni hanno questo come oggetto, più o meno esplicitamente, e sembrano poco interessate a normare altri aspetti della vita monastica femminile che pure avrebbero potuto essere oggetto di una riflessione canonica (vita intellettuale e di preghiera, relazioni interne alla comunità, con le anziane, con il lavoro).

 

10. Il monachesimo siro-occidentale da Giovanni di Efeso († 589) alla sapienza di Qennešre (VI-VIII sec.)

 

Per completare il quadro della stabilizzazione delle forme monastiche mature che si ebbe entro il territorio della Siria occidentale nella seconda metà del VI secolo, dobbiamo affidarci a un altro grande affresco del monachesimo siriaco, quello dipinto da Giovanni di Efeso nella sua Vita dei santi orientali (Harvey, 19901). Questo scrittore era originario del distretto armeno-siriaco dell’Ingilene, a Nord della Mesopotamia, ove nacque attorno al 506, un territorio sottoposto alla giurisdizione di Amida. Dopo aver intrapreso lì la vita monastica, intorno al 520 Giovanni si trasferì ad Amida, nel monastero di Mar Giovanni ‘Urtaya. Erano gli anni in cui iniziavano le persecuzioni contro i monofisiti. Giovanni, a differenza di Teodoreto, campione della fede antiochena, fu uno strenuo difensore del monofisismo cirilliano, e anche per questo pare che, per via diretta, egli non abbia utilizzato il testo della Storia Filotea. Insieme alla sua comunità perseguitata, Giovanni partì per numerose peregrinazioni, giungendo fino a Costantinopoli, dove si pose per un periodo sotto la protezione dell’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano. In questo periodo tormentato il monachesimo siriaco diventa un fenomeno che coinvolge pure le altre regioni orientali dell’impero. Giovanni, dopo una vita compiuta tra missione e governo della sua nascente chiesa (egli infatti fu segretamente ordinato vescovo in un programma di ristabilimento di una gerarchia monofisita), morì imprigionato.

V’è chi ha sottolineato come la dimensione ascetica del monachesimo siro-occidentale, quale viene descritta da Giovanni di Efeso, sembri caricarsi di una funzione sociale, di un pubblico servizio, secondo le parole che l’autore pone a descrizione della vita del monaco Habib, il primo uomo santo descritto nelle Vite dei santi orientali. La dimensione politica di questo monachesimo viene evidenziata fin dall’inizio del testo. Habib, dopo una formazione monastica di venti anni, in seguito alla morte del suo maestro inizia ad esercitare il suo carisma in interventi di carattere sociale, quali la remissione dei debiti. Quand’anche un monaco, come il celebre Za’ura, discepolo di Habib, decide di salire su una colonna e di condurre una vita da stilita, ciò non avviene come soluzione di continuità dalle cure della comunità cristiana. L’impegno sociale di questo monachesimo è perciò parte integrante della vocazione monastica, e non un esito indiretto di essa. Per gli asceti descritti da Giovanni, la mortificazione ascetica è meno importante che per la tradizione che lo precede. V’è insomma un notevole cambiamento nella auto-narrazione di questo monachesimo, forse da attribuire ad una distorsione prospettica delle fonti (Teodoreto aveva un pubblico ed uno scopo letterario diverso da quello di Giovanni), forse attribuibile al differente clima politico ed ecclesiale sorto a seguito delle intermittenti persecuzioni che le chiese siro-occidentali, oramai monofisite, pativano dal potere bizantino, e dal ruolo di guida spirituale e dottrinale assunto dai monaci nelle comunità cristiane: esito diretto dell’impegno profuso dai monasteri nella propaganda cirilliana tra V e VI secolo.

L’altra grande innovazione di questa stagione è da legarsi in particolare alla vicenda di un monastero voluto dal monaco e retore Giovanni Bar Aphtonia: si tratta del celebre monastero di Qennešre (letteralmente «nido delle aquile», sito non ancora identificato con certezza). Giovanni, ci viene detto dalla Vita (su cui Watt, 1999) composta da uno dei suoi discepoli, era nato nell’ultimo quarto del V secolo da un retore pagano di Edessa e una donna cristiana di nome Aphtonia, da cui il giovane prese il nome. Ebbe la sua prima formazione alla vita ascetica entro il monastero di San Tommaso a Seleucia sull’Oronte. Sembra che abbia ricevuto una formazione scolastica: non abbiamo notizie dirette, ma egli viene ricordato come retore e (ex-)avvocato. Con la morte dell’imperatore Atanasio e la recrudescenza delle persecuzioni anti-monofisite in età giustinianea, anche il monastero di San Tommaso venne coinvolto nei torbidi, e Giovanni fu scelto come igumeno per gestire quella difficile stagione. Il suo impegno tuttavia durò poco, dato che sappiamo che uscì da questa comunità intorno alla fine degli anni ’20 del VI secolo per fondare il monastero di Qennešre. Il suo impegno per la causa monofisita lo porterà nel 531 fino alla corte imperiale di Costantinopoli. Alla sua morte, nel 537, il monastero verrà guidato da Alessandro. Il carattere che Giovanni impose alla sua comunità la configurò come una netta innovazione nell’ambito del monachesimo siriaco. Qennešre divenne un centro preminente del sapere e una laboriosa officina di traduzioni dal greco al siriaco, paragonabile solo a quanto era iniziato circa un secolo prima a Edessa e poi Nisibi. Ma in questo caso non si trattava di una scuola, bensì di un centro di vita monastica. Questa inclinazione a raccogliere e a produrre il sapere, ad indirizzare la vita del monaco verso un impegno profondo e radicale nella vita intellettuale non si concentrò solo sugli studi biblici (Tommaso di Harkel, che revisionerà la versione del NT intorno al 616, avrà qui la sua formazione), ma anche su quelli logici, matematici e astronomici – tra i maggiori esponenti vanno citati Severo Sebokht († 666/667), Giacomo di Edessa († 708) e Giorgio degli Arabi († 724). Fu questa una novità assoluta, anche se v’è da dire che molto di frequente in Siria al monaco (come peraltro anche al semplice cristiano) era richiesto di saper leggere, e quindi di possedere una qualche formazione scolastica. Tuttavia l’impresa di cui si fece promotore questo centro è qualitativamente innovativa: per organizzare un simile laboratorio era indispensabile concepire la vita del monaco in una continua relazione di lavoro con altri confratelli, quindi stemperando l’enfasi sulla vita solitaria come primario scopo della scelta celibataria e monastica.

 

11. Da Abramo di Kaškar alla grande dispersione: ripensamento e fioritura delle comunità monastiche siro-orientali (VI-VII sec.)

 

Avevamo lasciato la chiesa siro-orientale, alla fine del V secolo, in un periodo di crescente sospetto nei confronti della vita ascetica e celibe. Sarà l’opera di riforma di Abramo di Kaškar a far uscire il monachesimo persiano da questa impasse (Chialà, 2006). Abramo, originario di Dadwaran, una località della diocesi mesopotamica del Kaškar, nacque all’epoca del Cattolico Babai I (497-503). Dopo un primo periodo di formazione nella scuola del suo villaggio natio, il giovane si sarebbe recato nella città di Hirta, forse per condurvi un primo periodo di vita solitaria, forse per dedicarsi all’apostolato nei confronti dei pagani del luogo. Successivamente avrebbe intrapreso un viaggio al monastero di Scete in Egitto, al Sinai e a Gerusalemme. Nonostante il fatto che il viaggio dei monaci siriaci verso le fonti del monachesimo egiziano sia un topos molto ricorrente, alcuni elementi sembrano conferire un qualche grado di attendibilità al caso di Abramo, non ultimo dei quali la forma – e la retorica – egiziana che conferirà al suo monastero. Al termine di questo pellegrinaggio si situa il periodo di studi presso la scuola teologica di Nisibi. In seguito ad una serie di guarigioni da lui operate, la fama che lo circondò lo avrebbe spinto a cercare riparo nella vita monastica. Si sarebbe a questo punto installato sul monte Izla, dapprima abitando la grotta che la memoria indicava come dimora della vita ascetica di Giacomo di Nisibi, poi, con l’arrivo di altre persone, fondando un monastero con un corpo centrale ove svolgere tutti insieme il servizio domenicale, e, a una certa distanza, le celle, nelle quali ogni monaco pregava e lavorava.

Molte fonti concorrono a restituire la storia di questo monastero, ma sono le Regole a essere il testo più rilevante per comprendere la cifra del contributo che la comunità di Abramo di Kaškar diede al monachesimo siro-orientale, essendo peraltro il primo scritto del genere in questa letteratura monastica. Giunteci sotto il nome del fondatore, esse si presentano in realtà come il frutto maturo di un’esperienza comunitaria che parla e decide al plurale. Una comunità che, fin dall’esordio della regola, si pone sotto la guida del vescovo metropolita di Nisibi, significativo segnale di un cambiamento di rotta nei confronti del rapporto con la gerarchia, rispetto alle tendenze anarchiche di cui si è detto. Le Regole citano autori e testi propri della sapienza monastica egiziana: i Detti dei padri del deserto, Marco il monaco, Isaia di Scete. Inoltre manca, ed è aspetto degno di nota, qualunque riferimento a padri siriaci. Che la comunità guidata da Abramo volesse ripensare l’esperienza monastica su basi «nuove» è provato dall’insistenza sul rapporto tra lavoro e quiete, per nulla tradizionale in Mesopotamia; o sul legame tra preghiera, lettura e officio delle ore, segno di una presa di distanza dall’orazione entusiasta dei messaliani; o ancora sulla custodia della propria dimora, il divieto di girovagare oziosamente tra celle e monasteri, di andare nei centri abitati senza previa autorizzazione della comunità, o di frequentare case dei semplici fedeli: persino in caso di malattia si invita il monaco, per non esser di peso a nessuno, a recarsi nell’apposito ospizio (xenodochio), e non in casa d’altri. La comunità si pensava come «cenobitica» e il modello, sotto il profilo degli intenti, era quello pacomiano, anche se a ben vedere la comunità era organizzata, come si è detto, come una laura.

Custodia dalla mormorazione, dalla sedizione e dal disprezzo, attenzione alla mitezza, alle pratiche di digiuno, al silenzio, alla solitudine: questi sono i parametri comportamentali che vengono proposti come ossatura della regola della comunità. Nessuna parola, significativamente, viene proferita sul ruolo del celibato. Esso era, come è ovvio, praticato entro la comunità, tuttavia l’eccessiva enfasi con cui fino ad allora questo elemento era stato vissuto nel monachesimo mesopotamico, deve aver suggerito ad Abramo un prudenziale silenzio.

La «riforma» monastica del monte Izla non sembra essere stata inizialmente intesa come complessivo ripensamento del monachesimo siro-orientale, bensì, più modestamente, come formula a cui era pervenuto un gruppo di monaci che prendevano ad esempio in modo esplicito i padri del monachesimo egiziano e che, al contempo, erano cresciuti nell’area di influenza della scuola di Nisibi. Va evidenziato lo stretto legame che vediamo agire tra questo monastero e il cuore teologico della chiesa siro-orientale costituito dall’accademia cittadina. Lì Abramo aveva studiato l’opera di Teodoro di Mopsuestia, e fu da questo incontro che la teologia difisita di stampo antiocheno si ricavò uno spazio importante nella riflessione esegetica del monachesimo persiano.

Tra i molti allievi di Abramo, si deve ricordare certamente Bar ‘Edta, il primo e forse il più importante di loro, la cui Vita è uno dei testi fondamentali per comprendere i caratteri del monachesimo siro-orientale di questa stagione. Nato a Resafa dell’Eufrate nei primi decenni del VI secolo e morto, per le fonti, ultracentenario, Bar ‘Edta aveva trascorso ventitré anni nel monastero di Abramo sul monte Izla, per poi uscirne e fondarne uno proprio intorno ai primi anni sessanta del VI secolo, probabilmente nella diocesi di Marga, a Nord-Est di Mossul. Solitario dal carisma profetico, costui, a detta delle fonti, avrebbe predetto la grande dispersione di monaci dal monastero della Santa Montagna, che sarebbe avvenuta nella più tarda stagione di Babai il Grande.

La diffusione che il nuovo modello di vita monastica elaborato a Izla ebbe nel resto della Mesopotamia, infatti, fu un fenomeno di doppia natura, in parte voluto, con l’invio di alcuni discepoli nelle terre più orientali, Abramo vivo, a introdurre questa formula nel resto della chiesa di Persia, come nel caso di Bar ‘Edta, in parte dovuto alle crisi sorte dentro al monastero, segnatamente a seguito della morte del fondatore (586), nel periodo dei suoi successori, Dadišo‘ e Babai il Grande. Le regole elaborate da questi due igumeni mostrano come sia emersa con una certa urgenza la necessità di definire con maggiore dettaglio di quanto fatto nella prima regola quali fossero i comportamenti consoni alla comunità di fronte a precise questioni e ad alcuni amari dissensi, anche cristologici, cresciuti dall’interno, che andavano incrinando la comunione della laura e che minavano la sua stessa tenuta. Nelle Regole di Dadišo‘ († 604), viene in particolare specificato il ruolo del Rabbaita, che sembra essere stato una figura a metà tra un vice igumeno e l’economo del monastero, oltre che il visitatore mensile delle celle. Si tratta dell’indizio della ricerca di una configurazione che assicurasse il controllo interno della comunità. Dadišo‘ stesso, che era legato al monastero, ma che proveniva da fuori, pare essere stato indicato da Abramo in punto di morte come nuovo igumeno, forse perché entro la fraternità non si riusciva ad individuare una possibile successione. Ma questa crisi si paleserà soprattutto nella difficile stagione di Babai. Da qui inizierà una vera e propria diaspora di solitari da Izla verso tutta la Mesopotamia: una disseminazione che porterà al suo acme storico la vita monastica siro-orientale. Va detto che Babai, anni dopo, assumerà un ruolo di primo piano più complessivamente nella vita della chiesa siro-orientale. Negli anni di vacanza del seggio patriarcale (ca. 609-628) causati dal divieto di Kosroe II di scegliere un nuovo Cattolico dopo la morte di Gregorio, Babai, insieme all’arcidiacono Aba, guiderà spiritualmente e politicamente la chiesa. Sarà allora visitatore dei monasteri del settentrione della Mesopotamia al fine di rilevare e punire la presenza messaliana, e sarà lui, come si è detto, sia a creare un’indebita, ancorché letterariamente fruttuosa, solidarietà dottrinale tra Evagrio e Nestorio, sia a costruire l’altrettanto arrischiata connessione ideologica tra messalianismo, origenismo e monofisismo (Guillaumont, 1978). Nonostante il grande zelo con cui lo si può vedere svolgere questa attività di governo nella maturità, se noi rivolgiamo lo sguardo a come egli gestì il monastero di Abramo, l’immagine della sua opera si incrina, in particolare per l’infelice gestione di un caso che diverrà paradigmatico: la vicenda del solitario del monte Izla Giacomo di Lašom. Fu questo scontro, v’è da dire, a produrre l’effetto involontario di maggiore portata per la storia monastica successiva. Giacomo, accusato di aver taciuto il peccato di alcuni suoi vicini confratelli che avevano condotto delle donne entro le proprie celle e con esse costituito famiglie, dovette lasciare il monastero di Abramo anche e soprattutto, pare, per la mancanza di capacità di governo di Babai (cfr. Bettiolo, 2007). Giacomo, partito assieme ad altri monaci, fonderà nella diocesi di Marga quello che diverrà il più importante monastero siro-orientale dei primi secoli dell’Islam, Bet Awe («la casa dei padri») dove avranno il loro esordio alla vita monastica protagonisti della vita della chiesa come Išo‘yaw III e Martirio/Sahdona, dove il grande mistico Isacco di Ninive riceverà la sua ordinazione episcopale, e dove, ancora più tardi, il celebre Timoteo I vedrà, ragazzo, profetizzata la sua ascesa al patriarcato (780), per fare solo alcuni esempi. Un monastero, questo, che darà moltissimi missionari, vescovi, metropoliti e patriarchi, e la cui storia ci è narrata, per i suoi primi due secoli, da una delle opere maggiori della letteratura siriaca, e di quella monastica in particolare: il Libro dei Superiori, scritto dal vescovo Tommaso di Marga (IX sec.), il quale ci narra tutta la vicenda del chiostro da Giacomo fino agli anni del suo episcopato.

Ma la riforma di Abramo sembra essere divenuta un testo normativo anche aldilà della concreta diffusione dei suoi discepoli. Tale per esempio pare essere il caso del più celebre, e tuttavia misterioso, monastero del Sud dell’Iraq, per la precisione nel Bet Huzaye (Elam): il monastero fondato da Rabban Šabur. Stando a quanto ci dicono l’anonima Cronaca di Séert e il Libro della Castità di Išo‘dnah. di Bas.ra,

Šabur, vissuto nella prima metà del VII secolo, era inizialmente interprete delle scritture in una scuola della regione. Desiderando condurre vita monastica, insieme ad alcuni suoi allievi avrebbe intrapreso un pellegrinaggio in direzione del Monte Izla. Tuttavia lungo il tragitto, un solitario, presso il quale Šabur e i suoi compagni stavano sostando, avrebbe sconsigliato di proseguire il viaggio e avrebbe consegnato al maestro una copia delle Regole di Abramo in suo possesso – traccia ulteriore, se autentica, della fortuna di questo testo. Tornato allora nel suo paese con la nuova guida spirituale, Šabur fondò un monastero sul monte Šušter, ove riceverà anche la visita del patriarca Išo‘yabh III (tra il 649 e il 659). A questo monastero, nella seconda metà del secolo, già sotto il dominio islamico, sembrano legate le tre più importanti figure della letteratura ascetica e mistica di quegli anni: Isacco di Ninive, Simone di Taibuteh e Dadišo‘ Qat.raya. Tutti costoro denunciano nei loro scritti una forte dipendenza da Evagrio, e, con diversi accenti, un consapevole confronto con la cultura delle scuole (Bettiolo, 1986; 1990; Chialà, 2002). L’influenza di Šabur attestata dal Libro della Castità e dal Libro dei Superiori, come anche da altre fonti, deve essere stata molto vasta e avere inciso profondamente sul monachesimo della Mesopotamia meridionale. Ai suoi monaci in effetti di deve la fondazione di numerosi monasteri tra VI e VII secolo.

Di diverso tenore pare la vicenda monastica di Rabban Hormizd, persiano d’origine, il quale ebbe il suo floruit all’epoca del patriarca Išo‘yaw II (628-647 ca.). Le vite giunte fino a noi (su cui cfr. Fiey, 1965, pp. 535-537) raccontano di come, dopo il classico pellegrinaggio a Gerusalemme e in Egitto, egli si sia stabilito a Mossul, e lì abbia iniziato la sua vita monastica entro la comunità fondata da Bar ‘Edta, nella quale sarebbe rimasto una quarantina d’anni, trentadue dei quali in perfetta solitudine. Dopo aver acquisito una certa fama per i miracoli compiuti, una notte avrebbe lasciato di nascosto e senza preavviso il monastero, dirigendosi con un gruppo di altri monaci al monastero di Reša, sul monte Maqlub.

Dopo un periodo di sette anni la fonte d’acqua che alimentava il monastero si estinse e questo obbligò la compagnia a sciogliersi. Tutti i componenti diverranno importanti fondatori di monasteri nel Nord Iraq del VII secolo. In particolare della fraternità del monte Maqlub faceva parte, ricordo qui, un altro importante attore di questa rinascenza monastica: Mar Yozadaq, che fonderà un monastero nel Bet Qardu dove il secolo successivo prenderanno l’abito i due mistici Giovanni di Dalyatha (su cui cfr. Beulay, 1990) e Nestorio di Nuhadra.

Sciolta la fraternità, Rabban Hormizd raggiunse le vicinanze di Alqoš, ove, grazie all’appoggio finanziario di alcuni maggiorenti, tra cui il governatore di Mossul, riuscirà finalmente ad impiantare il suo monastero. Il quotidiano scontro con la controparte monofisita, nella continua ricerca del sostegno dell’autorità politica, sembra aver segnato gli anni di Rabban Hormizd come igumeno. Nel gestire lo scontro, Hormizd si contraddistinse per un impegno vigoroso che ottenne, tra l’altro, di far distruggere il rivale monastero giacobita di Bezkin. Ma v’è un altro elemento su cui vale la pena soffermarsi. Le fonti che riportano la vita di Rabban Hormizd testimoniano una tradizione monastica che si esprime con toni diversi da quelli propri della riforma di Abramo di Kaškar e dei suoi più rilevanti epigoni. V’è qui infatti una marcata insistenza sul soprannaturale e sul magico che tracima dalla soglia su cui solitamente si attesta il genere agiografico siriaco. La magia, il dato soprannaturale non è nelle vite di Rabban Hormizd solo un elemento del racconto, o un codice interno al genere letterario, ma un paesaggio culturale ed etnografico di cui gli estensori delle vite sembrano essere testimoni interni: tutti elementi decisivi nella presentazione della vicenda di questo monaco, descritto a tratti come uno stregone.

 

Non sappiamo quanto il clima culturale che emerge da questo ramo laterale della tradizione monastica siro-orientale rispecchi una mentalità diffusa nei contesti immediatamente meno ricettivi dell’influsso greco-copto nel monachesimo siriaco. Ciò che possiamo affermare è che comunque, anche entro questo monachesimo settentrionale, innervatosi tra le regioni montagnose del Qardu e dell’Adiabene, si diffonderà, proprio nelle prime generazioni del dominio islamico, quel grande retaggio monastico tradotto in siriaco, in particolare Evagrio, tanto che alcuni grandi interpreti dell’insegnamento spirituale del monaco pontico, lungo l’VIII secolo, fioriranno proprio nel grembo di comunità assai prossime al monastero di Rabban Hormizd, che, a sua volta, diverrà già in epoca abbaside un deposito di manoscritti e sapienza riassuntivi della complessiva stagione monastica siriaca.

 


Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


29 maggio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net