Enzo Bianchi - Priore della Comunità monastica di Bose

Ecumenismo: profezia della vita religiosa

Prima conferenza annuale in onore di Padre Paolo Wattson e Madre Lurana White

fondatori della Congregazione Francescana dell’Atonement

Trentennale della morte di Thomas Merton e Karl Barth

 (Conferenza tenuta al Centro Pro Unione, giovedì, 10 dicembre 1998)


 

Quando, in vista di questa relazione, ho iniziato la ricerca e la meditazione sul rapporto tra vita religiosa ed ecumenismo ho subito percepito la novità del tema. Cent’anni or sono, quando padre Paul Wattson e madre Lurana White davano inizio a una forma vitae segnata dall’ansia ecumenica, si sarebbero potute raccogliere solo rarissime testimonianze di riconciliazione e di unità da parte della vita religiosa in seno alla chiesa.

            Da circa un secolo non solo l’ecumenismo è apparso come via possibile di comunicazione tra le chiese ed è stato accolto dalla vita religiosa come un segno dei tempi, ma la vita religiosa, soprattutto quando ha assunto forme inedite attraverso nuove fondazioni, ha sentito l’ecumenismo non come un’opzione possibile tra le tante, ma come istanza con la quale si è intrecciata in modo radicale e indissolubile, a tal punto che, in molti dei suoi protagonisti, sarebbe difficile fare distinzioni tra testimonianza di vita religiosa e di ecumenismo.

            Il titolo della mia relazione indica l’ecumenismo come “profezia della vita religiosa”, ma certamente non vuole significare che l’ecumenismo sia la sola valenza profetica possibile della vita religiosa, né tanto meno vuole leggere questa vita, così com’è vissuta realisticamente e quotidianamente, come vita profetica. Non voglio pormi nel novero di quei religiosi che parlano sovente con entusiasmo della qualità profetica della loro vita per sentirsi investiti di un ruolo, per attribuirsi di diritto un’identità che invece può derivare solo dall’autenticità del loro essere e del loro vissuto quotidiano. Per questo, pur convinto che la vita religiosa è chiamata a essere profetica, nell’itinera­rio che vi propongo vorrei evidenziare anche le contraddizioni, le inadeguatezze che vanno assunte come peccati, anche se sovente peccati inconsapevoli, come tradimenti di quel Vangelo che si è scelto come “guida”: per ducatum Evangelii1, affermava Benedetto, e gli fa eco il documento del Vaticano II sulla vita religiosa: “essendo norma fondamentale della vita religiosa il seguire Cristo come viene insegnato dal Vangelo, questa norma deve essere considerata … come regola suprema”2.

 I. Una lucida confessione

            Ritengo e spero di non essere facile alle mode e dunque non voglio entrare nel coro di quelli che ricercano quasi per vezzo le colpe antiche ma, semplicemente come amante della verità, devo acconsentire alla lettura della vita religiosa del passato, soprattutto del monachesimo, come vita segnata da contraddizioni gravissime allo spirito di comunione e di riconciliazione. La vita religiosa si è trovata sovente compromessa nella mischia, nelle battaglie degli scismi e delle eresie e, in nome della verità, per servire la pretesa verità cristiana, ha usato anche le armi della violenza, della persecuzione dell’altro, del disprezzo e della negazione della diversità. Senza la vicenda monastica la storia delle divisioni non sarebbe intelligibile e ancora oggi sono sovente i monaci a opporsi a tentativi di riunificazione o riconciliazione. Si potrà dire che quelli erano altri tempi, che tutte le chiese erano coinvolte in atti e comportamenti che noi oggi capiamo come contraddicenti il Vangelo, ma io credo che una lucida confessione sia necessaria, a partire da questo interrogativo fondamentale: qual era quella “verità” cristiana – o quella concezione di verità – che accettava di lasciarsi servire dalla violenza? Quanto avvenne va letto come una ferita inferta al “veritatem facere in caritate” di Ef 4, 15, al rendere ragione della speranza che abita il cristiano con franchezza, con dolcezza e con rispetto verso tutti, con retta coscienza, come dice l’apostolo Pietro (1Pt 3, 15-16) alle comunità cristiane in diaspora nel mondo.

            Già al fiorire del monachesimo nel IV secolo, il grande padre con cuore ecumenico, Basilio il Cappadoce, evitava il termine “monaco” non solo perché lo sentiva come una possibile ferita all’unità del pleroma ecclesiale, ma anche perché quel termine indicava asceti con atteggiamenti di intolleranza e di violenza, uomini più fanatici che zelanti, che facevano opera più di divisione e di disprezzo dell’al­tro differente che non di koinônia.

            Ma ancora oggi, sarebbe inutile tacerlo, ci sono ambienti monastici che resistono all’ecumenismo, soprattutto nell’oriente cristiano. La certezza di essere la vera chiesa toglie il desiderio di poter ricevere qualche dono dalle altre tradizioni cristiane e coltiva una diffidenza verso ogni tipo di incontro, di confronto, di dialogo e di possibile cammino verso l’unità. Certamente occorre comprensione perché si possono dare diverse spiegazioni a questa diffidenza che a volte giunge anche ad atteggiamenti di aperta ostilità verso l’ecumenismo. Durante i settant’anni della cattività comunista l’attività ecumenica delle chiese dell’est era uno strumento usato dal potere statale che si serviva del dialogo tra cristiani sulla pace per un’operazio­ne di propaganda e di immagine ad uso esterno: in certi ambienti quindi “ecumenismo” è oggi un termine infangato, carico di significati ambigui. Inoltre i cristiani di quelle chiese, nel riscoprire oggi le proprie radici, subiscono la tentazione di riaffermare un’identi­tà del passato, sovente etnica e confessionale nel contempo, un’identità “contro”; di conseguenza finiscono per sentire l’ecumenismo come modernità portatrice di sincretismo, come un prodotto dell’occiden­te che invade le loro terre. E tuttavia a questi monaci – sovente infatti, come in Georgia e i Grecia, sono i monaci i protagonisti di questa ostilità verso l’ecumeni­smo – va ricordato, pur comprendendo le loro ragioni, che un’attitudine difensiva e negativa verso l’altro fratello nella fede contraddice l’agape, il grande e nuovo comandamento lasciatoci dall’unico Signore.

            Per quel che riguarda la vita religiosa in occidente un’opposizio­ne netta e chiara all’ecumenismo è rara, patrimonio solo di poche comunità legate al cattolicesimo post-tridentino assunto come “norma immutabile”, le quali temono l’ecumeni­smo vedendo in esso un irenismo che minaccia l’integrità del dogma cattolico. Tuttavia dobbiamo confessare che molte comunità religiose semplicemente ignorano questa via di riconciliazione, la considerano un optional, un carisma specifico, proprio delle comunità ecumeniche, e comunque progettano la loro forma vitae senza tener conto delle altre confessioni sia nella vita spirituale, sia, soprattutto, nella loro missione e nella loro presenza. Si pensi a quante congregazioni religiose, dopo la caduta della cortina di ferro, hanno trovato naturale lanciarsi in iniziative in territori in cui non erano presenti fedeli cattolici bensì chiese ortodosse sorelle: questa loro presenza, caratterizzata da efficienza, organizzazione, mezzi economici consistenti, appoggi sovranazionali, nei fatti non si sottrae all’accusa di proselitismo.

            Ma se questa è una confessione doverosa per non leggere in modo idilliaco il rapporto tra ecumenismo e vita religiosa, occorre ora mettere in evidenza ciò che noi oggi – grazie al Vangelo che comprendiamo meglio di ieri e grazie alla storia in cui Dio continua a operare – riusciamo a comprendere della vita religiosa come luogo ecumenico o di ecumenismo....

 II. Vita religiosa come luogo ecumenico

            Una premessa è necessaria: la vita religiosa, e in particolare il monachesimo, costituisce un fenomeno umano prima ancora che cristiano. Presente in tutte le grandi religioni, anche in quelle come l’islam che hanno cercato di negarlo di fatto, si nutre di un’antropolo­gia propria: il celibato, la vita comunitaria o la solitudine, la ricerca dell’assoluto, l’ascesi nelle differenti forme sono tutti elementi di una vita così segnata nella carne, nel corpo, in tutta la persona, che di fatto inducono alla consapevolezza di una somiglianza, di una “monotropia” tra quelli che li vivono pur in contesti religiosi differenti. Non a caso Thomas Merton poteva dire di sentirsi più vicino a un monaco buddista che a un ecclesiastico dell’apparato cattolico... Proprio per questo il dialogo interreligioso è praticato soprattutto nei monasteri e a partire dalla seconda metà degli anni sessanta (è del 1968 il convegno monastico interreligioso di Bangkok nel corso del quale Merton trovò la morte proprio in questo 10 dicembre) cresce e si intensifica in modo poco appariscente ma reale, soprattutto attraverso la pratica cortese dell’alterità e degli scambi reciproci di soste in monasteri e di condivisione della vita quotidiana. Non è forse anche per questa ragione antropologica che il monachesimo e la vita religiosa sono restati a lungo presenti nelle chiese della Riforma nonostante l’avversione dei riformatori, fino a riapparire – timidamente nel secolo scorso e con sempre più forza in questo – come forma vitae avente pieno diritto di esistenza e a raggiungere un irradiamento sorprendente?

            a) Limitando tuttavia il nostro esame alla vita religiosa presente nelle diverse chiese d’oriente e d’occidente, le ragioni che la fanno luogo ecumenico sono diverse e non possono essere eluse, pena il tradimento del Vangelo, regola ultima e ispiratrice della vita religiosa.

            Innanzitutto la vita religiosa – e in particolare la sua forma più antica, il monachesimo – risale a monte delle divisioni della chiesa: le sue radici si trovano addirittura nella ecclesia ex judaeis, presente in Siria come erede diretta delle comunità giudeo-cristiane neotestamentarie. È infatti in seno all’unica chiesa nel III e IV secolo che la vita religiosa è nata e ha assunto quei tratti essenziali e definitivi che la costituiscono. Di conseguenza nella vita religiosa restano come impressi indelebilmente i caratteri della chiesa indivisa: sovente caratteri liturgici e teologico-patristici, ma anche ecclesiologici. Come dimenticare, per esempio, che la testimonianza carismatica della vita religiosa nei tempi della chiesa indivisa era inserita nella koinônia della chiesa locale, il cui cuore era l’eucarestia presieduta dal vescovo? E come dimenticare che la vita monastica era vita di semplici battezzati, nient’altro che una diaconia tra le diverse presenti in una chiesa, una diaconia i cui membri si professavano impegnati semplicemente a vivere e sviluppare la vocazione battesimale, senza bisogno di definirsi “consacrati” né di vantare una specificità che non può aggiungere nulla al battesimo e che rischia di offuscare l’unità del pleroma ecclesiale? Come tacere che il monachesimo occidentale ha sempre riconosciuto la sua fonte in quello orientale dei padri del deserto, di Pacomio, di Basilio, percependolo sempre come orientale lumen? Esiste dunque questa prima ragione per fare della vita religiosa un luogo ecumenico, ed è una ragione iscritta nella sua origine, una ragione che porta ogni comunità a dire alla chiesa unita: “in te le nostre fonti” (Sal 87, 7). Vale la pena di ricordare a questo proposito la finale della Regola di Benedetto che invita il monaco che vuole progredire oltre lo stadio del principiante ad abbeverarsi alla “regola del nostro santo padre Basilio” e agli insegnamenti dei padri orientali contenuti nelle Collationes, nelle Vitae e negli Instituta3. Pierre Miquel, abate benedettino e profondo conoscitore della patristica, ha potuto affermare: “È nei monasteri che si può ritrovare meglio che altrove la chiesa indivisa”4. Del resto, nel corso della storia, le principali riforme della vita religiosa hanno cercato un ritorno alle fonti, alla “forma primitivae ecclesiae”, alla comunità degli Atti degli apostoli, contrassegnata innanzitutto dalla koinônia.

            b) La vita religiosa, non va dimenticato, è sorta in vista di una radicale sequela di Cristo, dunque come via di santità, ed è certo che la santità perseguita nella vita religiosa anche se in confessioni diverse è azione di unità anzi, usando l’espressione di san Bonaventura, è “sursum actio”, l’azione per eccellenza, quella più efficace in vista dell’unità. Chi ricordava questo con forza profetica e autorevolezza carismatica era Matta el Meskin, il padre spirituale del monastero di San Macario in Egitto, in un famoso scritto del 1967: l’unità vera della chiesa dev’essere perseguita innanzitutto nella vita spirituale come cammino che accetta la debolezza della croce in cui può trionfare la forza di Dio, come santità plasmata da Dio sul volto dei cristiani; è da rifuggire invece un’unità fondata solo sulla spinta affettiva, vissuta come protagonismo oppure come coalizione di forze “contro” qualcuno o ancora come desiderio di accrescere il numero e la forza5. Questa coscienza che la santità unisce al di là delle barriere confessionali è condivisa da tutte le chiese e tutti sottoscriverebbero le parole del metropolita Eulogio: “Uomini come san Francesco d’Assisi e san Serafim di Sarov nella loro vita hanno compiuto l’unità delle chiese”. Di fronte alla santità ci si accorge che i muri confessionali non salgono fino al cielo e che la paradosis del carisma monastico, vera trasmissione dello Spirito santo, è passata nelle diverse chiese. Le comunità religiose di tutte le chiese sono un eloquente segno dell’azione dello Spirito santo sempre all’opera e della grazia che malgrado le divisioni continua a dimorare in ciascuna di esse, segno questo della santificazione in atto.

            Oggi poi, in questa fine di millennio, siamo sempre più sovente testimoni della santità dei martiri sotto i regimi totalitari, e tra essi numerosissimi sono i religiosi. Giovanni Paolo II nella Tertio Millennium Adveniente auspica un martirologio ecumenico, strumento di consapevolezza di un’unità vissuta più in profondo di quanto ci si potesse immaginare: in quel “libro dei testimoni” di tutte le chiese gli appartenenti alla vita religiosa sono una presenza narrante il dono della vita per Cristo, ben al di là delle divisioni confessionali.

            Santità allora come forza di convergenza, di comunione e di lode comune: chi può dimenticare, per esempio, ciò che rappresenta in occidente – nell’occiden­te cattolico e riformato – un santo come il monaco Silvano dell’A­thos? E come dimenticare che nella chiesa ortodossa della “Panaghia Kera” di Creta si può ammirare un antico affresco raffigurante Francesco d’Assisi con la scritta “O Aghios Franziskos”? Se il monaco e il religioso rispondono davvero alla loro vocazione di unificazione interiore, di comunione vissuta, di riconciliazione sempre rinnovata, di misericordia continua – solo di questo infatti si deve nutrire la loro vita quotidiana – allora saranno servitori di unità, ministri e servi della comunione anche ecclesiale. “I santi – diceva ancora il metropolita Eulogio – sono cittadini della chiesa una e universale e abbattono i muri di separazione eretti da cristiani non fedeli al comandamento nuovo”.

            c) Un’altra ragione che fa della vita religiosa un luogo ecumenico, ragione a mio parere non sufficientemente rilevata, è il dato che la vita religiosa si vuole in ogni tempo vita di conversione, di ritorno alle fonti, al Vangelo. Non è un caso che si attribuisca ad Antonio, il padre dei monaci, un apoftegma in cui il santo afferma: “Oggi ricomincio!”. Proprio per questa dinamica la vita monastica, in oriente come in occidente, è caratterizzata dal sopraggiungere di “riforme”, come se la sua identità consistesse in una successione di riforme senza fine. Conversione e riforma fanno parte del cammino personale e comunitario della vita religiosa sicché questa deve essere costantemente rinnovata. È vero che l’adagio suona “ecclesia semper reformanda”, ma questo si è concretizzato poche volte nella storia della chiesa, e a volte con una lentezza tale da vanificare gli sforzi. Nella vita religiosa invece si può dire che ogni secolo – e a volte addirittura ogni generazione – ha conosciuto una riforma in cui si è cercato di ripartire da capo, di ricominciare in un’obbedien­za e fedeltà al Vangelo più profonda e rinnovata. Sì, nella vita religiosa, nonostante le contraddizioni dei suoi membri, lavora il fermento della parola di Dio, così, di riforma in riforma, il carisma e la diaconia della vita religiosa accompagnano la chiesa. Noi chiamiamo “fondazioni” queste dinamiche perché amiamo enfatizzare la persona dei fondatori, ma in realtà sovente essi sono solo “riformatori” perché la vita religiosa, e quella monastica in particolare, è paradosis, “tradizione” e non fondazione di qualcosa di nuovo. Basilio riforma il monachesimo eustaziano esistente, Benedetto riforma la vita monastica presente nella regione di Roma, Romualdo, Bruno, Bernardo riformano un monachesimo già strutturato… Analogamente in oriente in ogni monastero è sempre un uomo pneumatico che, senza bisogno di nuove “regole”, fa ripartire con rinnovato vigore la carovana monastica nel deserto…

            Questo dinamismo della riforma non risponde a quello stesso dinamismo presente nella vicenda delle chiese che, appunto, si dicono “della Riforma”? Il primato della parola di Dio – ascoltata, cantata, ruminata, vissuta – non è lo stesso fermento che impone un cambiamento di quelle forme di vita che, assunte, si sono indurite e svuotate della loro qualità evangelica? Se oggi le chiese della Riforma hanno accolto nel loro seno comunità di vita religiosa e monastica è forse proprio perché hanno intravisto nel loro sorgere quella stessa causalità che sta all’origine delle proprie identità ecclesiali. Per la centralità della parola di Dio e la conseguente dinamica della riforma, i religiosi possono essere autentici interlocutori con le chiese della Riforma, nativamente capaci di parlare lo stesso linguaggio.

            Non sorprende allora che uno dei massimi teologi riformati del nostro secolo – quel Karl Barth di cui per singolare coincidenza ricorre proprio oggi il trentesimo anniversario della morte – abbia potuto affermare: “L’esistenza monastica sussiste per il fatto che il Signore vuole questa vita, la fonda e la modella in ogni epoca e in ogni situazione, e per il fatto che l’esistenza monastica è sempre aperta al nuovo, disposta a vivere della libera grazia del Signore e a obbedire al suo libero comando”6.

            d) Infine scorgo un’altra ragione che fa della vita religiosa un luogo ecumenico, ed è quella dell’essere un’epiclesi, un’invocazio­ne continua dello Spirito, vissuta nelle chiese. Questa definizione di monachesimo come “epiclesi” è propria di Paul Evdokimov, ma sovente la si ritrova sotto la penna di Olivier Clément; sì, la vita del monaco o religioso è incastonata nel risuonare della parola di Dio durante il giorno e la notte e la comunità religiosa è innanzitutto un luogo d’ascol­to: la stessa Regola di Benedetto non si apre forse con “Ausculta, filii…”?7 Ora, questo ascolto richiede una risposta: innanzitutto l’obbedien­za della fede, accompagnata dalla confessione di fede, dalla lode e dall’intercessio­ne per la chiesa e per il mondo. È qui che avviene l’epiclesi, l’invocazione della discesa dello Spirito santo che come nella Pentecoste è forza di unità plurale, comunione nella distinzione dei doni e nelle differenze delle energie. In questa epiclesi – in cui nessuno è escluso, in cui si prega perché tutti gli altri fratelli e sorelle ricevano lo Spirito per essere più fedeli a Cristo e raggiungere la statura del cristiano maturo – l’anelito, il desiderio di comunione non può essere assente. Desiderio di unità, preghiera per l’unità che viene vissuta quotidianamente soprattutto attraverso l’accoglienza, l’ospitalità. Se il monachesimo è “accoglienza di Cristo che viene” (O. Clément), questa non si esaurisce in una dimensione soltanto escatologica, ma si invera nell’accoglienza di colui che viene: “ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35). Accoglienza di chi giunge anche inaspettato, non annunciato, accoglienza di chi diventa fratello anche se per la sua provenienza fosse ostile, accoglienza che non chiede la confessione di appartenenza… Le comunità religiose non dovrebbero forse avere impresse sulle loro porte e nei cuori dei loro membri quelle parole scritte da Angelo Roncalli nel 1934 quando era nunzio in Bulgaria: “Se qualcuno passa dinanzi alla mia casa di notte, costui troverà alla mia finestra un lume acceso: bussa, bussa! Non ti domanderò se sei cattolico o ortodosso, fratello: entra! Due braccia fraterne ti accoglieranno, un cuore caldo di amico ti farà festa”? In quegli anni forse i religiosi non erano sentinelle vigilanti, ma Dio preparava chi li avrebbe svegliati e invitati a scorgere i nuovi segni dei tempi: papa Giovanni!

            Accoglienza dell’altro, del diverso, dello sconosciuto, e riconoscimento della sua qualità di fratello nella fede quando è cristiano sono attestati ovunque oggi nella vita religiosa. Si avvera quello che diceva nel 1968 – lo stesso anno della morte di Merton e Barth – padre Paissios, il grande carismatico dell’Athos: “Quando dei monaci latini verranno all’Athos, vengano qui: ci capiremo subito!”8. Davvero quando dei monaci di diverse confessioni si incontrano in fraternità, sovente accade l’evento della comunione: ci si sente uno, non esistono più barriere confessionali, ci si sente monaci cristiani che condividono la stessa esperienza e si riconoscono, nel senso forte del termine, in una stessa grazia, in uno stesso spirito, in una stessa ricerca con uno stesso fine: l’acquisizione dello Spirito santo per essere trasfigurati in Cristo e prendere parte al regno di Dio. Sì, i monaci che si incontrano in verità si scoprono fratelli mai separati e, anzi, vicinissimi.

III. La profezia dell’ecumenismo nella vita religiosa

            Sul tema specifico dell’ecumenismo come profezia della vita religiosa ribadisco di voler restare discreto perché con troppa enfasi in questi ultimi decenni – in realtà segnati proprio dalla crisi della vita religiosa – si invoca questa qualità profetica per ritrovare un’identità in molti casi smarrita. I religiosi non hanno qualità profetica “ex officio”, ma la loro testimonianza può diventare profetica se è in obbedienza al Vangelo e ai segni dei tempi manifestatisi nell’oggi. Quando i religiosi non pretendono di camminare alla luce della visione (cf. 2Cor 5,7) ma sanno vivere con speranza, quando riguadagnano la consapevolezza della provvisorietà e dell’incompletezza di ogni forma vitae, quando hanno l’audacia di far prevalere sempre l’agape e la riconciliazione nei conflitti in cui sono implicati, quando accettano la loro marginalità e la loro debolezza come un dono e non come una perdita da saturare al più presto, allora appare anche in loro la profezia.

            Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 69) indicava nell’incarnazio­ne radicale delle beatitudini il carattere profetico della vita religiosa, ma questo significa vita religiosa povera, umile, mite, affamata di giustizia, operatrice di pace, perseguitata a causa di Cristo… E Giovanni Paolo II indica come profezia dei religiosi anche “l’esplorazione di vie nuove per mettere in pratica il Vangelo nella storia in vista del regno di Dio” (Vita consecrata n. 84), arrivando ad affermare che “la vita fraterna stessa è profezia in atto” (n. 85). Sì, occorre essere chiari: la vita religiosa può ricevere e vivere il dono della profezia come tutte le altre vocazioni ecclesiali. Sta a ciascuno dei suoi membri nella conversione quotidiana aderire a una via che – attraverso il radicalismo evangelico, il celibato che annuncia che questo mondo passa e la vita comune che dà un segno della comunione del Regno – ha qualità escatologica e si vuole profetica: ma il dono della profezia è grande e fragile!

            Con questa premessa, anziché vantare una qualità della vita religiosa, vorrei mettere in evidenza che in questo secolo che volge al termine l’ecumenismo è certamente stato profezia in alcune forme di vita religiosa nate per la risposta obbediente a Dio e ai segni dei tempi da parte di alcuni uomini e donne che, da vere sentinelle, hanno atteso, spiato, destato l’auro­ra. Non posso far altro che pronunciare nomi e nulla più, ma il semplice nominare questi testimoni adesso significa renderli presenti in mezzo a noi: essi sono nella comunione dei santi e con essi noi viviamo l’ecumeni­smo. Senza di loro l’ecumenismo praticato oggi sarebbe più povero, più azione diplomatica, più competenza delle autorità ecclesiastiche, e certamente meno audace. Ascoltiamo i loro nomi: p. Paul Wattson e m. Lurana White, dom Lambert Beauduin a Chevetogne, l’abbé Couturier e il suo “monastero invisibile”, Antoinette Butte a Pomeyrol, sr. Geneviève a Grand­champ, m. Basilea Schlink a Darmstadt, frau Vera a Imshausen, p. Sofronio a Maldon, p. Amphilokios a Patmos… Alcuni, come fr. Roger di Taizé o fr. Cesarius di Ostenback, sono ancora in mezzo a noi: con loro siamo avvolti da una nube di testimoni ecumenici che hanno rinnovato la vita religiosa, semper reformanda, ascoltando i segni dei tempi che chiedevano riconciliazione. Qui si ha vera profezia della vita religiosa, nel nascondimento di sr. Maria Gabriella Sagheddu o nell’irradiamen­to mondiale di fr. Roger…

            Ma ora, a conclusione di questa relazione, non posso non indicare un orizzonte profetico per la vita religiosa, un orizzonte tanto più urgente quanto più “invernale” si è fatta la situazione ecumenica: è l’orizzonte della condivisione di vita religiosa da parte di appartenenti a confessioni cristiane diverse non ancora riconciliate. Per questo è necessario sì tanto coraggio, audacia evangelica, parresia, ma anche tanta capacità di spoliazione delle ricchezze confessionali non essenziali alla sequela Christi, molta sottomissione reciproca, capacità di fare due miglia con chi ci chiede di farne uno, ci vuole il fuoco interiore, la passione della comunione che cerca l’unità plurale, indicando in avanti un’unità che va raggiunta insieme.

            Il sinodo sulla vita religiosa aveva ricevuto tra le proposizioni per la discussione l’invito a considerare questa eventualità di comunità religiose interconfessionali. Nessuna risposta è venuta, né nelle proposizioni finali né nell’esortazio­ne “Vita consecrata”, eppure qua e là questa vita interconfessionale inizia a mostrare un volto in cui l’ecumenismo diventa di nuovo profezia della vita religiosa in una nuova forma: vivere insieme la stessa vocazione, lo stesso ministero, anche se le chiese cui si appartiene non vivono ancora la comunione visibile…

            Che lo Spirito santo susciti questa nuova Pentecoste per la vita religiosa: allora ci sarà profezia per la chiesa e per il mondo!



Note

  1 Regula Benedicti, Prol. 21.

  2 Perfectae Caritatis 2.

  3 cf. Regula Benedicti 73, 4-6.

  4 Lettre de Ligugé, n. 219 (1983) 1.

  5 Cf. “L’unità dei cristiani” in: Matta EL MESKIN, Comunione nell’amore, (Magnano: Edizioni Qiqajon, 19992) 275-287.

  6 Cf. Aa.Vv., Visioni attuali sulla vita monastica, (Montserrat: s.n., 1966) 44.

  7 Regula Benedicti, Prol 1.

  8 Cit. da André LOUF in Collectanea Cisterciensia, (1970), I, 56.


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net