Scriptura crescit cum legente:

un paradigma anche per l'agiografo?

Una rilettura del II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno.

Lorenzo Saraceno O.S.B. Cam.

 

Estratto da “Gregorio Magno e l'agiografia fra IV e VII secolo

Collana "Archivium Gregorianum", 12

SISMEL - Edizioni del Galluzzo – 2007


 

Premessa: esegesi biblica e narrazione agiografica in Gregorio

 

La lettura degli scritti di un gigante della cristianità latina, quale Gregorio indubitabilmente è, si colloca ogni volta nel quadro concettuale e nella prospettiva ermeneutica che sono propri di ciascuna epoca, e quindi destinati ad evolversi. Negli ultimi anni, per esempio, è stato dato rilievo particolare a due criteri ermeneutici che Gregorio stesso formula; fatto questo interessante di per sé, perché ci testimonia la particolare e originale autocoscienza e quindi la genialità dell’autore, ma soprattutto perché quanto egli afferma appare particolarmente vicino alla nostra sensibilità di lettori avvertiti e predisposti a individuare le dimensioni ermeneutiche della lettura, e dunque attratti da un approccio al testo che nasce da una parte, in ambito letterario, dagli studi di narratologia e sul ruolo del destinatario, dall’altra, in ambito degli studi di spiritualità, da un’attenzione più esigente al rapporto tra l’intentio autoris, (da considerare in una dimensione storico-critica, essenziale anche nella lettura di un testo a carattere religioso) e la sua attualizzazione: tra ressourcement (Ndr: rinnovamento) e aggiornamento insomma.

Il primo criterio è quello che sta a monte del metodo esegetico e omiletico gregoriano: divina eloquia cum legente crescunt [1] (Ndr: la Parola di Dio cresce con chi la legge). Sono evidenti le implicazioni di una simile affermazione dal punto di vista teorico, in quanto essa viene a indicare con chiarezza esemplare la problematica del «circolo ermeneutico» [2], ma merita qui di osservare come essa è anche particolarmente cara, fra l’altro, a tutti coloro che si pongono il problema metodologico intorno a ciò che viene chiamata la lectio divina, o «lettura spirituale» delle Scritture, nella tradizione monastica e nella tradizione spirituale della Chiesa tout-court [3]. Il secondo è quello con cui Gregorio stesso, in apertura alla sua opera agiografica, i Dialoghi, definisce il rapporto tra esegesi (lectio) biblica e racconto agiografico: in expositione [cioè nel commento biblico] qualiter invenienda atque tenenda sit virtus agnoscitur, in narratione signorum [cioè in ciò che Gregorio stesso si sta disponendo a scrivere riguardo ai signa, agli esempi di santità di cui, a dispetto delle apparenze, è ricca anche l’Italia] cognoscimus inventa ac retenta qualiter declaratur [4] (Ndr: Traduzioni aggiunte dal redattore del sito: Dal commento alla sacra Scrittura si apprende come si debba acquisire e custodire la virtù; dalla narrazione dei miracoli invece conosciamo come essa, quando la si è acquisita e coltivata, si manifesti palesemente.)

Possiamo in effetti riconoscere che questi due principi hanno un fondamento comune: l’idea che la vita è una forma di interpretazione, e quindi che il senso del messaggio cristiano, pur valido in assoluto nel suo riferirsi a una Parola rivelata, e dunque in prima istanza a un testo che lo fonda, è sempre autenticato dalla vita di chi lo testimonia [5]; per cui il progresso della vita è anche, o se si vuole essenzialmente, progresso della conoscenza di Dio, dunque «rilettura» di quella Parola. Dal punto di vista teologico, i due principi non sono che una conseguenza del processo dell’incarnazione di Dio nell’uomo come Verbo, Parola. Dal punto di vista letterario affermano che il testo vive nel lettore, il quale vi si specchia e ne trae motivi per riconoscersi e per mettersi in discussione, come già è avvenuto per l’autore stesso riguardo al protagonista del suo racconto [6]; e il fatto, evidentemente, non è senza riflessi per l’esperienza spirituale: per usare una celebre formula di Gregorio stesso, viva lectio est vita bonorum [7]

Queste osservazioni, per certi versi ovvie (ma forse non scontate), sono il retroterra delle note che seguono, le quali traggono la loro origine da un’ipotesi di lettura che posso esprimere in questi termini: il principio ermeneutico della expositio biblica (rappresentata dalla formula paradigmatica scriptura crescit cum legente), che si pone in una prospettiva diacronica di crescita del credente, è presente ed esercita un’influenza significativa anche sulla narrazione agiografica di Gregorio? Oppure resta estranea all’ottica in cui Gregorio scrive i suoi Dialoghi? Detto in altri termini: se, attraverso la lettura, la Scrittura diventa una sorta di work in progress, tale può essere anche il modello di santità che ci viene raccontato?

Prenderò come punto di osservazione il libro II dei Dialoghi, ovvero la narrazione della vita di san Benedetto: non solo per il rilievo oggettivo del modello di santità proposto, e per il fatto che è questa l’unica narrazione agiografica gregoriana ad avere un’estensione adeguata per svolgere un’indagine di questo tipo, ma anche per il rilievo strutturale che questa vita assume nel quadro dell’intera opera, collocandosi, come noto, al centro di una simmetria[8] costituita dai libri I - III.

 

La topica del genere e la prospettiva di una santità in progress.

Sappiamo che Gregorio non inventa il suo modo di raccontare le vicende dei santi che propone come esemplari; anzi, è ispirato e fortemente condizionato dai suoi modelli letterari, più o meno a noi noti, in particolare la Vita Antonii e le Vitae Patrum, che per lui costituiscono già una tradizione con cui misurarsi. Dalla prima, tra l’altro, trae lo schema del racconto della vocazione monastica come fuga mundi e il tema della lotta contro le tentazioni diaboliche come espressione eroica della santità; dalle seconde trae quel gusto aneddotico, solo apparentemente popolare, della narrazione breve ed esemplare, il quale è peculiare dei libri I e III, ma costituisce anche il modo narrativo dei vari episodi narrati nel libro II: la vita di san Benedetto è narrata attraverso il racconto di vari miracoli, ciascuno autosufficiente, e ciascuno con un suo ruolo esemplare concluso. Ma è anche vero che Gregorio, facendo da collettore di varie tradizioni, costituirà, se non altro per la fortuna che a loro volta conobbero i Dialoghi nella cristianità occidentale (senza dimenticare che questa è una delle poche opere che dal latino viene tradotta nelle lingue dell’est europeo, ed entra anche nel canone dell’agiografia bizantina [9]), il principale modello di riferimento per tutta la tradizione agiografica e spirituale successiva. Forse motivo non secondario di questa esemplarità è proprio la strategia narrativa del racconto, che assembla le varie sequenze narrative autosufficienti in una tessitura organica e sapiente, di cui si darà più oltre qualche cenno dimostrativo. Dunque solo a partire da una consapevolezza della dimensione topica del racconto può aver senso un’analisi dei temi e dei richiami che il testo propone.

Al riguardo, proprio l’inizio dell’opera ci propone una presentazione del personaggio che dovrebbe fare da chiave interpretativa per il resto della narrazione: gratia Benedictus et nomine, ab ipso pueritiae suae tempore cor gerens senile (D II, 1,1) (Ndr: Benedetto di nome e per grazia, ancora nella prima età egli già possedeva un cuore maturo): dunque si parla, per così dire, di un «Benedetto di nome e di fatto», quindi in qualche modo interprete di un destino già segnato in anticipo dal nome; e inoltre «dotato fin dall’infanzia di un animo senile», cioè della sapienza del vecchio maturato nelle esperienze. Sono questi, entrambi, topoi della tradizione agiografica [10]; ma il notarlo non ci esime dal riconoscervi il rilievo che l’autore loro attribuisce: dire che è topico - quindi storicamente non significativo come dato positivo e di importanza relativa come espressione del carattere di una santità e di una personalità specifica, perché in prima istanza atto di omaggio alle regole del genere letterario - non significa negare che questo esordio e la scelta di proporre questo topos fin nel suo incipit ci vengono a situare in una particolare prospettiva di lettura, di ricezione del messaggio, che l’autore intende presupporre. Il lettore attento viene insomma predisposto al fatto che si parlerà di un santo di cui fin dagli inizi sappiamo che si troveranno elementi che non ci metteranno in luce tanto una evoluzione spirituale, quanto il più o meno faticoso emergere agli occhi di tutti di questa santità, che di per sé era «fin dal principio»[11] .

Per di più, il primo episodio prodigioso che viene descritto, cioè il miracolo compiuto a favore della nutrice cui viene ricomposto il ventilabro spezzato, si conclude con l’esposizione nella chiesa dello strumento miracolosamente restituito alla sua integrità quatenus et presentes et secuturi omnes agnoscerent Benedictus puer conversationis gratiam a quanta perfectione coepisset (D II, 1,2) [12] (Ndr: perché sia i contemporanei che i posteri potessero conoscere quanto fosse già perfetto il giovane Benedetto). Non dovremo allora attenderci una storia di formazione: la narrazione è a valle della santità dimostrata precocemente, non ha il suo culmine in essa; il racconto avrà da questo punto di vista un ruolo dimostrativo più che «diegetico» in senso stretto. Questo fra l’altro è coerente con il procedere per pericopi autosufficienti, per exempla, e difatti sono estremamente limitati, ridotti all’essenziale gli elementi che ci forniscono dei riferimenti diacronici, che potremmo raccogliere in pochissime righe, per esempio così: Benedetto lascia il mondo e si ritira a Subiaco; ivi, dopo essere stato riconosciuto per la santità della vita, fonda dei monasteri, ma è costretto ad abbandonarli per la viltà dei monaci e a ritirarsi a Montecassino, dove infine fonda un monastero nel quale a un certo punto morirà. Tutto il resto degli episodi è collocato entro questa esile ossatura di tempi e di luoghi dell’azione, ma quasi in un mondo posto al di fuori dal concreto scorrere del tempo. Un tempo che pur tuttavia non è assente nella sua dimensione storica attraverso la caratterizzazione dei personaggi di contorno e dei luoghi, e indirettamente conserva una precisa dimensione di tempo di guerre e di carestie [13].

Detto questo, ci si può chiedere se ha senso allora procedere nell’ipotesi di partenza: non ci dovremo attendere dalla lettura della vita di Benedetto la storia di una crescita, di un progresso, se non forse nel senso del progressivo venire alla luce di quanto già c’è e non è da tutti riconosciuto, e forse neppure dallo stesso protagonista, in un primo momento almeno [14]. Le difficoltà pur numerose che il santo incontra nella sua vita - ostilità del demonio, incomprensione e gelosia degli uomini - non sono che l’espressione di cecità e del vano tentativo di soffocare la manifestazione della grazia, della benedizione e della saggezza propria del personaggio.

Ma proprio il fatto di prendere sul serio la prospettiva insita nella topica agiografica ci spinge a non fermarci a questo livello di ricezione del racconto. È certo importante avvertire che il topos del puer senex ha una ricchissima tradizione classica e cristiana, come fa il De Vogüé sulla scorta di un fondamentale saggio di A. J. Festugière [15], ma si deve per lo meno far notare che il topos diventa agiografico in senso cristiano solo a partire dalla utilizzazione che ne viene fatta già nel vangelo di Luca, nell’episodio di Gesù fra i dottori (Lc 2, 41-52): una reminiscenza e un’allusione che assumono in questo caso un vero ruolo fondante. Dire questo ci pone tuttavia all’interno di una logica paradossale tutta evangelica con cui leggere il topos e il suo valore esemplare: se Gesù è già saggio a dodici anni, nondimeno il versetto con cui si conclude l’episodio ci dice che «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52); e si tenga presente anche Lc 2,40, che immediatamente precede la pericope, come ad inclusione: «Intanto il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui». Gli esegeti, inoltre, segnalano che la crescita di Gesù, di cui qui parla Luca, a due riprese, agli inizi del suo Vangelo, va messa in parallelo con quanto agli inizi degli Atti degli Apostoli ci è detto della Parola di Dio, che «cresceva» tra i suoi discepoli (cfr. At 12,24). Sapienza, maturità, santità, tutto questo è grazia data e posseduta in pienezza, ma cresce nel suo concreto realizzarsi nella vita degli uomini: così è anche per Gesù, e così non può non essere nella logica del dono/risposta di chi lo imita, il vir Dei, vale a dire di chi interpreta nella propria vita quella grazia che ha ricevuto, in obbedienza alla Parola.

Se valgono queste osservazioni, possiamo andare in cerca degli indizi di strutture narrative più o meno esplicite che ci mettono di fronte alla crescita di questo puer, pur già così senilis nei suoi primi atti e nelle sue prime scelte.

 

Strutture di crescita nel racconto

Del resto questo terreno non è inesplorato: già altre letture complessive dell’opera di Gregorio, e del libro II in modo particolare, hanno messo in rilievo importanti indici strutturali nei quali possiamo riconoscere un processo di evoluzione verso il compimento. Richiamo quelle che più sembrano pertinenti.

La lettura della struttura narrativa proposta da De Vogüé [16] per il libro II resta a mio avviso quella fondamentale; ne ricordo i tratti essenziali in modo schematico:

 

 I parte (1-8a) *introduzione verso Subiaco (prove contro le passioni)ciclo di Subiaco
 °4 racconti di prodigi (ciclo di Mauro e Placido)
 *Conclusione abbandono di Subiaco (prova contro l’invidia)
 
 II parte (8b-38) *4 fenomeni demoniaci fondazione di Montecassinociclo di Montecassino
 °12 miracoli cognitivi (profezia)
 °12 miracoli di «prodigi» (potenza)
 *4 episodi sull’Aldilà itinerario verso la morte

[*= racconti di carattere diacronico; °= racconti a carattere sistematico-esemplificativo; in corsivo le sezioni a carattere diacronico]

 

Dal punto di vista in cui mi sono posto, trovo per lo meno singolare che quella esile ossatura diacronica di cui si è detto, ponendosi all’inizio, in mezzo e in fondo al libro, sia riconoscibile come il cardine strutturale della narrazione e delle simmetrie che la caratterizzano. L’insieme della strategia narrativa che ne deriva sembra voler dare un’idea di compiutezza come elemento peculiare della santità di Benedetto, la quale era in germe nel ragazzo nel momento in cui si era volto al deserto insoddisfatto della sapienza mondana, ed è giunta al suo telos nel vecchio che muore in piedi, tutto proteso verso il suo esodo definitivo [17].

Trovo di sicuro interesse anche la linea proposta da P. Boglioni, che a partire dall’analisi condotta sulla struttura da parte del De Vogüé conduce a riconoscere nelle varie prove superate da Benedetto un suo progressivo assumere la fisionomia di colui che ha adempiuto a tutte le dimensioni della conversione monastica: dalla lotta contro le passioni alla dimostrazione delle virtù, passando attraverso la lotta diretta con il demonio; dal rientrare in sé stesso (habitare secum) alla superiore uscita da sé degli ultimi capitoli [18]; per cui Gregorio, con la sua strategia narrativa costruisce un «racconto biografico che è insieme ascesa spirituale, e traccia un ritratto individuale che è insieme icona ideale» [19].

Tuttavia non si deve guardare solo alla struttura narrativa che fa da trama ai vari episodi biografici, ma anche alla intelaiatura costituita dai dialoghi-commento tra il narratore Gregorio e il narratario Pietro: lì senza dubbio, a mio avviso, si deve cogliere la chiave interpretativa della narrazione e la strategia dell’autore nel suo rivolgersi al lettore [20].

Osservazioni pertinenti dal nostro punto di vista mi sembrano quelle di D. von der Nahmer [21], quando individua una struttura sotterranea nei dialoghi tra Gregorio e Pietro, nel corso dei quali si approfondisce il tema di un legame sempre più stretto con Dio, riguardo al quale Benedetto assume il ruolo di paradigma. Ciò che sembra attrarre i due interlocutori è il modo in cui il santo è passato attraverso un processo di conoscenza progressivo, cui corrisponde una evoluzione nei prototipi biblici di riferimento: da Samuele, Giacobbe e Giovanni Battista all’inizio (II,1), ad Abramo nel lottare mediante la preghiera per la vita dei suoi monaci (II,17), fino, nella scena della morte, a Mosè, che prega a mani alzate durante la battaglia contro gli Amaleciti (cf. Es. 17,8-16): «La scena della morte, con il suo gestus mosaico, rappresenta la cima e la meta effettiva della Vita, l’elevazione verso i patriarchi» [22]. Dall’ascesi, insomma, all’intercessione; dalla santità centrata su di sé (quella dell’eremita) alla santità che si proietta sui monaci di cui Benedetto è responsabile, e infine sul mondo nel quale si svolge la battaglia decisiva tra il popolo della promessa e gli Amaleciti, tradizionalmente letti come simbolo del male.

A partire da queste acquisizioni possiamo allora intraprendere altre piste di ricerca in una duplice prospettiva di analisi, che si colloca su livelli per così dire più sotterranei, in quanto travalicano la dimensione esplicita dei contenuti, coniugando osservazioni più specificamente narratologiche con altre relative alle strutture semantico-lessicali.

Dal punto di vista narratologico ci si può chiedere se la storia, così come ci viene proposta, abbia il suo scioglimento proprio al momento della rappresentazione della morte. Di fatto, è vero che per certi versi essa conclude un trittico che costituisce una sorta di crescendo: morte di Scolastica, morte di Germano, morte di Benedetto stesso. Ma è pur vero che al centro di queste tre morti sta la rappresentazione più alta della santità e della conoscenza spirituale, laddove si racconta la fondamentale visione del mondo raccolto e concentrato in un unico raggio di sole: allora veramente Benedetto ha raggiunto la sua maturità, quando ha saputo guardare dall’alto quel mondo che all’inizio della sua conversione aveva abbandonato [23]. All’inizio (D II, prol, 1) c’era da parte di Benedetto un despicere il mondo e gli studi letterari (despexit iam quasi aridum mundum cum flore) (Ndr: Considerò il mondo come fiore inaridito), quale movente determinante della fuga da Roma e dell’ascesi; alla fine proprio quel guardare dall'alto [24] diventa l'atto di chi ormai di questo mondo sa vedere i limiti e la contingenza, ma anche in qualche modo lo sa guardare con lo sguardo lungimirante e misericordioso di Dio stesso. Così si viene a ricostituire un equilibrio che la scelta iniziale aveva deliberatamente spezzato.

Proprio questa visione costituisce così la pointe della narrazione: non a caso qui si sviluppa una delle discussioni più elaborate tra Gregorio e il suo interlocutore (D II,35,5-7), in cui si concentrano termini che rientrano nell’ambito semantico del crescere (quello che ha a che fare con il punto di vista che abbiamo assunto in queste note), e che sono tutti volti a caratterizzare l’ampiezza di prospettiva di questo sguardo contemplativo: laxatur, expanditur, ampliatur, dilatatus; ad essi corrispondono gli antitetici angusta, brevi, collectum/collectus (in totale 3 volte), contracta, e ancora, a conclusione quasi simmetrica, angusta. Nel giro di 22 righe dell’edizione del De Vogüé queste ricorrenze sono certamente di spicco: in quello sguardo dall’alto abbiamo il segno più espressivo di una crescita, di un essere giunti al culmine, al telos [25].

Il punto di arrivo sembra essere dunque la contemplazione: ma proprio a questo proposito sembrano opportune delle precisazioni. I termini contemplare e contemplatio sono certamente rilevanti nell’uso lessicale gregoriano (frequenze rispettive dei lemmi, nelle varie forme: 202 e 596 occorrenze), ma piuttosto rare nel libro dei Dialoghi (frequenze rispettive: 3 e 7), se confrontate con il numero di occorrenze globali rispetto all’intero corpus gregoriano (55.565 forme su un totale di 1.167.789) [26], che rappresentano all’incirca un ventesimo. Le occorrenze nel libro II sono in tutto quattro, e tutte concentrate nel cap. 3 dove Gregorio e Pietro discutono intorno al senso dell’espressione e dell’esperienza dell’habitare secum di Benedetto, quando questi lascia il monastero e i monaci che lo volevano avvelenare, per ritirarsi ancora in solitudine: il luogo certamente è capitale nella narrazione e nel commento che i due protagonisti del dialogo lungamente sviluppano, ma l’assenza dei termini dal resto del testo, e in particolare dal cap. 35, fa nondimeno riflettere.

Possiamo allora forse riconoscere una sorta di tensione tra i capitoli 3 e 35 [27], che costituiscono in entrambi i casi il momento del ritorno alla narrazione diacronica, l’uno alla fine della sezione concernente Subiaco, e l’altro a conclusione della sezione di Montecassino. A Subiaco, ritornando ad abitare con sé stesso al riparo del mondo per potersi vedere sempre sotto lo sguardo di Dio (in sua semper custodia circumspectus, ante oculos Conditoris semper aspiciens, D II,3,7) (Ndr: Sempre vigilando sul proprio cuore, sempre vedendosi davanti agli occhi del Creatore), Benedetto trova la via per poter con maggior libertà trascendere se stesso ed essere elevato verso le altezze della contemplazione di Dio (quotienscumque hunc contemplationis ardor in altum rapuit, se procul dubio sub se reliquit, D II,3,9) [28] (Ndr: Ogni volta che l’ardore della contemplazione lo rapì in alto, egli lasciò certamente se stesso al di sotto di sé), che è come un guardare dal mondo verso l’alto in un movimento ascensionale. A Montecassino il suo è ormai un guardare dall’alto il mondo nella luce del raggio di sole, guardare avvolto da quella luce, avere uno sguardo trasfigurato sulle cose e su di sé (non coelum et terra contracta est, sed videntis animus dilatatus, qui, in Deo raptus, videre sine difficultate potuit omne quod infra Deum est D II,35,7) (Ndr: Il cielo e la terra non si erano rimpiccioliti, ma piuttosto si era dilatata l’anima di colui che contemplava. Egli infatti, sollevato in Dio, poté facilmente vedere tutto ciò che si trova al di sotto di Dio). Se questa osservazione è valida, potremmo addirittura dire che contemplare, agli inizi del racconto agiografico, è ancora un aspetto del cercare Dio, mentre il guardare finale (non rappresentato in sé da alcun termine specifico ed emblematico, quasi a poterlo circoscrivere, ma espresso variamente con più termini dell’area semantica del vedere e di quella della luce) è ormai l'atto completo e in qualche modo definitivo di una perfezione ormai raggiunta, di cui la morte che immediatamente segue è solo la sanzione definitiva.

 

Perfezione ed esperienza del limite: il trittico delle morti a conclusione del libro II

Se di perfezione o di maturità si tratta, va tuttavia osservato anche che una tale visione si colloca in seconda posizione di quello che abbiamo già definito il trittico della morte finale (la narrazione in senso stretto prosegue poi oltre il terzo membro, costituito dalla morte del santo, con una coda ove si riferisce la visione della morte di Benedetto stesso da parte dei due monaci): una posizione centrale, in cui il primo e il terzo membro fanno come da cornice, e il secondo da epicentro. Il primo membro del trittico è l’episodio dell’ultimo incontro tra Benedetto e Scolastica, che termina con la morte di quest’ultima; episodio che, concludendo la serie dei miracoli, costituisce anche la cerniera tra narrazione per exempla e narrazione diegetica, tra narrazione atemporale e narrazione diacronica [29]. Collocazione anche questa non senza importanza dal punto di vista strutturale, che ci induce a riconoscere un evidente significato programmatico: se questo è l’ultimo della serie dei 12 miracoli di «potenza» [30], ed è anche l’ultimo miracolo che ha a che fare con Benedetto ancora in vita, si osserva anche che esso è in realtà l’espressione dell’impotenza del santo stesso, vinto in carità, e perciò anche in potenza, dalla sorella, o meglio da Dio per intercessione della sorella. Si viene così a relativizzare l’eroe della narrazione, nella sua stessa sapienza e preveggenza, e solo a questo punto egli stesso può essere condotto alla compiutezza dell’esperienza e della conoscenza di Dio: proprio al culmine di una traiettoria di crescita agli occhi di Dio e degli uomini, il patriarca è messo in questione nella sua superiorità, se non perfezione, e questo paradosso lo rende tanto più esemplare [31], aprendogli la via infine alla visione del mondo intero raccolto in un unico raggio di luce, nella sua contingenza e piccolezza, nel momento in cui il vescovo Germano torna al cielo. Quel raggio di luce che unisce la terra al cielo inoltre riprende, mediante un’allusione implicita [32], un tema classico nella spiritualità monastica, vale a dire quello della scala di Giacobbe, il ponte tra la terra e il cielo: è la scala dell’ascesi, la quale significativamente nella Regola di Benedetto diventa scala dell’umiltà [33]. Questa stessa allusione si può cogliere anche nella visione della morte di Benedetto stesso, che immediatamente segue: viderunt [,..]quia strata palliis atque innumeris corusca lampadibus via orientis tramite ab eius cella in caelum usque tendebatur  [34] (Ndr: Essi videro [infatti] una strada ricoperta di tappeti tutta risplendente di innumerevoli lampade, che partiva dalla sua cella e, in linea retta verso Oriente, s’innalzava fino al cielo). Solo in questa prospettiva, di una scala verso il cielo che è poi la scala di umiltà, prende il suo senso pieno la visione di Benedetto al cap. 35 come profezia della propria stessa morte.

 

Crescita del santo e crescita del lettore

Dunque Benedetto sembra cresciuto nella sua esperienza di Dio e nella sua santità, ma nella logica paradossale di chi ancora, al termine di una vita colma di grazia, si ritrova di nuovo, davanti a Dio, puer senex. Ma si può dire allora che questa santità è cresciuta come espressione della crescita di chi ha letto lungamente la Scrittura, e a suo tempo ha portato i suoi frutti (cfr. Salmo 1)? La santità di Benedetto, insomma, nasce dalla sua frequentazione delle Scrittura, o non piuttosto è semplicemente un commentario vivente, Scrittura interpretata? Sembra difficile trovare dei riscontri testuali nella prima direzione, per cui forse è improprio arrivare a tanto: di fatto, di un Benedetto lettore il racconto non ci dice nulla, una volta che questi si è ritirato nella sua docta ignorantia [35]. Anzi, possiamo dire di più: il termine stesso scriptura/scripturae, o l’equivalente divina eloquia, si trovano nel libro dei Dialoghi molto di rado, per di più nell’ambito del dialogo tra Gregorio e il suo interlocutore, e una sola volta nel libro II, unite nella perifrasi sacrae scripturae eloquia (D II, 16,7) [36]. Ciò non stupisce, visto che i Dialoghi non sono un’opera esegetica come altre, e dunque a priori la dimensione della lettura non è così importante [37]. Ma non sembra notazione casuale il fatto che gli ultimi due miracoli «esemplari» della potenza di Benedetto ci rappresentano il santo che legge (presumibilmente la Scrittura) senza farsi distogliere dalla lettura nonostante l’arroganza del goto Zalla (D II,31,2-3), e nell’atto di formulare una preghiera compiuta, la più elaborata dell’opera, che è peraltro desunta da un formulario liturgico (D II,32,3): Benedetto solo alla fine dunque sembra aver ricomposto la sua armonia con la doctrina, ormai solo impregnata di sapienza spirituale, e allora può infine essere esemplare anche nel suo leggere e nel suo sapere [38]. Di fatto solo proprio alle soglie del racconto della morte del santo Gregorio ricorda la scrittura della Regola, nella quale risalta, insieme alla luce di santità che promana dai tanti miracula, quella del verbum doctrinae: come ha osservato Pierre Boglioni, «un chiaro complemento al sapienter indoctus del prologo» [39], ciò che viene a costituire una delle tante simmetrie che caratterizzano la scrittura gregoriana.

Queste tuttavia potrebbero apparire osservazioni forse suggestive, ma non senza qualche forzatura se fossero l’unica conclusione del percorso di rilettura del testo qui proposto. Si deve però tenere conto che in realtà, proprio in forza del ruolo «esegetico» in senso lato che assume per Gregorio la narrazione della vita dei santi, considerata come forma di spiegazione attualizzata, come viva memoria delle Scritture, chi deve crescere, agli occhi dell’autore, non è tanto il santo, quanto il suo destinatario: non va dimenticato che era stato proprio quest'ultimo (sotto le spoglie del personaggio «narratario» Pietro) che agli inizi dei Dialoghi aveva formulato il criterio generale del racconto agiografico come forma di «esegesi narrativa», dichiarata efficace quanto il commentario biblico vero e proprio. Da quell'affermazione aveva preso le mosse il percorso di lettura proposto da queste note, e a quell'affermazione merita conclusivamente ritornare. C’è chi ha posto in luce come anche il ruolo del narratario e interlocutore sia sempre meno passivo nel procedere del dialogo, e come le sue domande siano sempre meno fittizie, nel senso che inizialmente hanno per lo più una pura funzione di pretesto per introdurre un nuovo argomento della narrazione o del commento proposto su di essa da Gregorio, mentre alla fine il discepolo disserta quasi alla pari con il maestro [40]. Progressivamente Pietro si è sentito chiarificare il modo in cui arrivare alla santità e alla conoscenza di Dio. È ancora lui che infine, dopo la discussione con Gregorio intorno alla visione «mistica» di Benedetto - la discussione che si è cercato di dimostrare da più punti di vista essere la più elaborata dal punto di vista concettuale e la più alta dal punto di vista spirituale -, esclama: ex tarditate mea tantum crevit expositio tua! (D II, 35,8) (Ndr: La mia lentezza a capire ti ha dato modo di approfondire ancor più la tua esposizione). Ora anche Pietro, destinatario ideale, è in grado di capire, perché è cresciuta in lui la disponibilità interiore e l’intelligenza spirituale che consente la comprensione. Sta poi alla vita il confermarlo in una sorta di passaggio di testimone continuo: dalle Scritture al santo che la interpreta, al fedele che, imitando il santo, a sua volta comprende le Scritture e le attualizza.

Se questa conclusione ha un fondamento, ci si può chiedere allora se anche in questo senso valga l’adagio patristico: Scriptura sui ipsius interpres. Il lettore trova nella Scritture stesse, assimilate attraverso la lettura nella fede e l'attualizzazione esemplare dei santi, l’intelligenza spirituale per diventare a propria volta «esegesi vivente» della Parola di Dio fatta carne, in un processo di conversione progressivo e sempre incipiente, come proprio Benedetto ci insegna nella sua Regola [41], che Gregorio stesso riconosce essere discretione praecipuam (D II,36) (Ndr: singolare per la sua discrezione).

 


(Nota del redattore del sito (Ndr): Ho inserito nel testo originale alcune traduzioni ricavate da "Opere di Gregorio Magno - Dialoghi" Città Nuova Editrice 2000 e dal sito ora-et-labora.net).

 

[1] Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 3, XX,1, Roma, Città Nuova, 1997 (Opere di Gregorio Magno I/3), p. 87. Al riguardo potremmo fornire un dossier di riferimenti bibliografici ricchissimo, ma dobbiamo anche osservare che spesso a Gregorio ci si riferisce per allusione, suggestionati dalle implicazioni ermeneutiche, ma ben di rado si è studiato criticamente questo testo gregoriano e altri simili in modo più sistematico. Da ultimo si veda C. Dagens, Saint Grégoire le grand. Culture et expérience chrétienne, Paris 1977, pp. 69-72; B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, Roma, 1994 (Studia Anselmiana 117), pp. 184-7; J. Leclercq, Gesù libro e Gesù lettore, in Id., «Ossa humiliata» I. Frammenti di spiritualità monastica, Abbazia San Benedetto, Seregno 1993, pp. 65-86; R.A. Markus, Gregorio Magno e il suo mondo, Milano 1997, pp. 41-59.

[2] . Per una discussione di per sé focalizzata sulle implicazioni nel linguaggio poetico di ispirazione biblica, ma con osservazioni e bibliografia di portata più generale si veda F. Stella, Ad supplementum sensus. Pluralità ermeneutica e incremento di senso nella poetica biblica dal Medioevo a Derrida. Le ragioni di un convegno, in La scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica, Atti del Convegno di Firenze 26-28 giugno 1997, a cura di F. Stella, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2001, in particolare le pp. 36-40.

[3] Può essere interessante notare il fatto che, anche se recenti documenti della Chiesa Cattolica rimandano almeno indirettamente a questa affermazione gregoriana (si veda ad esempio il paragrafo 8 «La sacra tradizione» della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, promulgata nel 1965, e il paragrafo «Approccio attraverso la storia degli effetti del testo» in Pontificia Commissione Biblica, L ’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano, 1993, pp. 49-50), essa non mi risulta citata da nessun documento ufficiale a carattere magisteriale.

[4] Utilizzo come edizione di riferimento Gregorio Magno, Storia di santi e di diavoli (Dialoghi), a cura di S. Pricoco, testo critico di M. Simonetti, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 2005. Pe il passo citato cfr. ivi vol. I le pp. XXIX-XXX; hanno segnalato l’importanza di questo passo S. Boesch Gajano, «Narratio» e «expositio» nei Dialoghi di Gregorio Magno, «Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per l’Alto Medioevo», 88 (1979), pp. 1-33, ora ripubblicato con aggiornamenti in Id., Gregorio Magno. Alle origini del Medioevo, Roma, Viella, 2004, pp. 231-52 ; B. Calati, Introduzione a Gregorio Magno, Dialoghi, Roma, Città Nuova, 2000 (Opere di Gregorio Magno IV), pp. 7-11, 46-50.

[5] Si osservi che questa è una delle dimensioni implicite nella formula paolina fides ex auditu (Rom 10,17).

[6] Da un punto di vista generale sono opportune le osservazioni di G. Luongo, Lo specchio dell’agiografo. I carmi XV e XVI di Paolino da Nola, Napoli 1992. Nel caso specifico di Gregorio e Benedetto, cfr. C. Dagens, Saint Grégoire le grand. Culture et expérience chrétienne, Paris, Études Augustiniennes, 1977, pp. 284-305.

[7] Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 3, a cura di P. Siniscalco, Roma, Città Nuova, 1997 (Opere di Gregorio Magno I/3), XXIV,16, p. 355.

[8] Fondamentale al riguardo la lettura proposta da A. De Vogüé, nella sua introduzione a Grégoire le Grand, Dialogues, Tome I, Paris, Cerf, 1978 (S.Ch. 251), pp. 51-55; 57-60.

[9] Cfr. Gregorio Magno, Vita di S. Benedetto nella versione greca di papa Zaccaria, a cura di G. Rigotti, Alessandria, ed. dell’Orso, 2001 (Hellenica 8), e C. Diddi, I Dialoghi di Gregorio Magno nella versione antico-slava, Salerno, Europa Orientalis, 2000 .

[10]  Cfr. i riferimenti proposti da De Vogüé in Grégoire le Grand, Dialogues, Tome II, Paris, Cerf, 1979 (S.Ch. 260), pp. 126-7.

[11] . Osservazioni in questo ambito fa A. De Vogüé, Saint Benoît et le progrès spirituel: l’auteur de la Règle entre sa source et son biographe, in Id., Études sur le Règle de Saint Benoît. Nouveau recueil, Abbaye de Bellefontaine, 1996, pp. 115-124, in particolare p. 116.

[12] Già il De Vogüé mette in rilievo come questa prospettiva che il racconto sembra voler indicare fin dagli inizi, viene poi smentita, cfr. Grégoire le Grand, Dialogues, I cit. p. 100.

[13] Cfr. A. De Vogüé, La foi et le monde au temps de saint Benoît, in Id. Autour de saint Benoît, Abbaye de Bellefontaine, 1975, pp. 45-60.

[14] Così si potrebbe interpretare, ad esempio, l’itinerario di Benedetto nella prima parte della vita (II, 1 -8), così come è schematizzato ancora dal De Vogüé (cfr. Grégoire le Grand, Dialogues, II cit. pp. 101-102), secondo cui il santo passerebbe successivamente attraverso le tre grandi tentazioni: vanagloria, lussuria e ira.

[15] A.-J. Festugière, Lieux communs littéraires et thèmes de folklore dans l’Hagiographie primitive, «Wiener Studien. Zeitschrift fur klassische Philologie» 73 (1961), pp. 137-39.

[16] Cfr. Grégoire le Grand, Dialogues, II cit, pp. 57-59. Ripreso e sviluppato in A. De Vogüé, Saint Benoît et le progrès spirituel cit. Se pure vanno prese in considerazione le osservazioni di S. Pricoco (cfr. Gregorio Magno, Storia di santi e di diavoli, cit. vol. I, pp. XVII-XXVI e 296-297), che mettono in guardia da eccessive preoccupazioni di rilevare un disegno strutturale omogeneo nei Dialoghi nel loro complesso, mi sembra difficile negare una specificità del libro II proprio nel suo essere sequenza unitaria e per molti aspetti autosufficiente all'interno di un’opera più composita (e con essa comunque in relazione); ciò che determina un alto grado di cura dell'ordo narrationis.

[17] Nel topos della morte in piedi e a mani alzate non è forse da riconoscere anche un riferimento a Es. 12,11 (che non trovo rilevato da altri)?

[18] Cfr. P. Boglioni, Gregorio Magno, biografo di San Benedetto, in Atti del 7° Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Norcia-Subiaco-Cassino-Montecassino, 29 sett.-5 ott. 1980, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1982, pp. 212-27.

[19] . Ibid., p. 217.

[20] Per uno status questionis sul ruolo più o meno rilevante della cornice narrativa dialogica, cfr. Boesch Gajano, Gregorio Magno. Alle origini del Medioevo cit, pp. 231-232, 243.

[21] D. von der Nahmer, Agiografia altomedievale e uso della Bibbia, Napoli, Liguori, 2001, pp. 189-225.

[22] Ibid. p. 225, cfr. pp. 213-214.

[23] Cfr. C. Dagens, La conversion de saint Benoît selon saint Grégoire le Grand, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 5 (1969), pp. 17-26. Su questa corrispondenza con l’episodio iniziale già attira l’attenzione il De Vogüé, Grégoire le Grand, Dialogues cit., I, p. 102-103, II, p. 241.

[24] Non si può non pensare al modello cui Gregorio si ispira, il ciceroniano Somnium Scipionis, ove questo sguardo dall’alto è definito appunto un despicere. Va però osservato che il termine qui utilizzato non è più despicere, quantunque altre parole diano l’idea di questo guardare dall’alto: deprecans, respiciens, desuper, inferiora. Per lo studio dei legami con il testo ciceroniano e dei possibili intermediari (Macrobio, per cui ora si veda R. Caldini Montanari, Tradizione medievale ed edizione critica del Somnium Scipionis, Firenze, Sismel - Ed. del Galluzzo, 2002), cfr. Th. Delforgue, Songe de Scipion et vision de S. Benoît, «Revue Bénédictine» 69 (1959), pp. 351-354, e P. Courcelle, La postérité chrétienne du «Songe de Scipion», «Revue des études latines» 36 (1958), pp. 204-205; e dello stesso, La vision cosmique de saint Benoît, «Revue des études augustiniennes», 14 (1967), pp. 97-117.

[25] Un’analisi retorica del passo in V. Recchia, La visione di S. Benedetto e la compositio del secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, «Revue Bénédictine» 82 (1972), pp. 146-7.

[26] I dati sono desunti dal Thesaurus Sancti Gregorii Magni, series A-Formae, curante Cetedoc, Turnhout, Brepols 1986. Si deve peraltro precisare che nel computo generale è incluso anche il Commento al Primo libro dei Re, il quale ormai secondo il suo ultimo editore va attribuito non a Gregorio Magno ma a Pietro di Cava: cfr. Grégoire le Grand (Pierre de Cava), Commentane sur le Premier Livre des Rois, a cura di A. De Vogüé, Tome III, Paris 1998 (S Ch. 432), pp. 9-10.

[27] Ad analoghi risultati giunge, per altre vie, V. Recchia, La visione di S. Benedetto cit. pp. 148-50.

[28] Merita notare che entrambi i passi e il loro contesto sono intessuti di giochi stilistici (figure di suono, di iterazione, di poliptoto e antitesi) che ribadiscono il valore argomentativo di questo primo approdo del racconto.

[29] Questa funzione di cerniera è già stata segnalata da A. De Vogüé, in Grégoire le Grand, Dialogues, I cit. p. 59.

[30] Cfr. Ibid. p. 58.

[31] La prospettiva è del resto soggiacente a tutto lo sviluppo dell’idea di santità che emerge nei Dialoghi, come già osserva ancora A. De Vogüé, in Grégoire le Grand, Dialogues, I cit, pp. 99-100, che così conclude: «queste notazioni danno al santo dei Dialoghi il suo vero volto di uomo fallibile e diviso, che ottiene la sua salvezza solo mediante la grazia divina, il pentimento e la fatica».

[32] Cfr. D II, 35,3 (in hoc splendore coruscae lucis [...] vidit Germani Capuani episcopi animam in spera ignea ab angelis in caelum ferri) (Ndr: nello splendore di quella fulgida luce, vide l’anima di Germano, vescovo di Capua, portata in cielo dagli angeli dentro una sfera di fuoco.) e D II, 35,6 (vir ergo qui globum igneum, angelosque quoque ad caelum redeuntes videbat). (Ndr: L'uomo [di Dio], dunque, che fissava il globo di fuoco e gli angeli che tornavano in cielo)

[33] Cfr. Benedicti Regula, cap.VI. È forse un caso che nel racconto di Gregorio immediatamente dopo si trovi (cfr. D II,36) l’unica allusione da parte di Gregorio alla Regula Benedicti? (Ndr: D II,36: Scrisse infatti anche una regola per i monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima forma.)

[34] Cfr. D II,37,3. Forse si potrebbe vedere un crescendo anche nelle immagini bibliche che soggiacciono ai segni che annunciano la morte: per Scolastica la colomba del Cantico dei cantici; per Germano il carro di fuoco di Elia; per Benedetto l’ingresso del Messia a Gerusalemme (il tappeto di mantelli) e la folgore che da Oriente a Occidente segna la venuta del Figlio dell’uomo (cfr. Mt 24, 27-30).

[35] Recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus (D II,1,1). (Ndr: Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio.)

[36] Alcuni dati: eloquia, nelle sue varie forme, è utilizzato nei Dialoghi 8 volte su un totale di 484; scriptura/scripturae 9 volte su un totale di 523, vale a dire circa il 2% rispetto a un corpus che rappresenta circa il 5% dell’intera opera gregoriana.

[37] Alcuni dati lemmatizzati: lectio 2/105; lector 0/45; legere 7/188 (per comodità, visto il puro ruolo orientativo del conteggio si sono per principio escluse le forme che per omografia potevano appartenere anche ai lemmi lectus sost., legare, lex).

[38] Segnalo per inciso alcuni riscontri statistici sull’uso nei Dialoghi di termini che hanno a che fare con il campo semantico della doctrina raffrontati con il resto dell’opera: doctrina 4/346; docere 6/393; sapiens 8/305; sapientia 3/347; sapienter 1/6; erudire, eruditus, eruditio 4/288. Dove si vede che i rapporti si aggirano sempre tra l’ 1% e il 2%, come i precedenti, fatta eccezione per sapiens.

[39] P. Boglioni, Gregorio Magno, biografo di san Benedetto cit p. 224.

[40] Cfr. M. van Uytfanghe, Scepticisme doctrinal au seuil du Moyen Age? Les objections du diacre Pierre dans les Dialogues de Grégoire le Grand, in Grégoire le Grand, a cura di J. Fontaine, Paris 1986, pp. 315-327; D. von der Nahmer, Agiografia altomedievale e uso della Bibbia cit. p. 192, 224; relativamente a tutto l’insieme dei Dialoghi cfr. anche J. Moorhead, The figure of the Deacon Peter in the «Dialogues» of Gregory the Great, « Augustinianum» 42 (2002), in particolare le pp. 475-479.

[41] Cfr. Benedicti Regula, 73, 1. (Ndr: Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica.)

 


Ritorno alla pagina sui "Dialoghi" di san Gregorio Magno


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


29 settembre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net