LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO

 XX

CONFERENZA DELL’ABATE PINUFIO

SULLA FINE DELLA PENITENZA E SUI SEGNI DELLA SODDISFAZIONE


Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965


 

Indice dei capitoli

I. Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento.

II. Il nostro arrivo alla sua cella.

III. Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione.

IV. Risposta sull’umiltà della nostra interrogazione.

V. Modo della penitenza e prova del perdono.

VI. Domanda; è bene ricordare le colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore?

VII. Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe commesse.

VIII. Le varie forme della penitenza.

IX. Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati.

X. Il ricordo dei peccati più orribili è da evitare.

XI. Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati.

XII. In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine.

 

I. - Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento

Accingendomi a riferire gl’insegnamenti dell’abate Pinufio a proposito della penitenza, mi parrebbe di mutilare il mio discorso, qualora non spendessi qualche parola in lode dell’umiltà straordinaria di quest’uomo illustre e veramente unico. È vero che su Pinufio ho già detto qualcosa nel quarto libro delle Istituzioni Monastiche, che s’intitola: « Del modo di formare coloro che rinunciano al mondo ». Ma tutta la voglia che ho di non annoiare i lettori, non mi permette ora di tacere del tutto. Penso anche che molti leggeranno questa Conferenza senza aver letto prima, né leggere dopo, il libro delle Istituzioni ricordato sopra; mi parrebbe quindi di togliere qualcosa all’autorità dell’insegnamento se nascondessi il merito di colui che insegna.

Pinufio dirigeva, con autorità d’abate e di prete, un grande monastero vicino a Panefisi, che è — come spiegavo nelle Istituzioni — una città egiziana. Virtù e miracoli avevano reso celebre questo monaco in tutta la regione; l’avevano anche innalzato a tal grado di gloria che egli credeva d’aver già ricevuto, nelle lodi degli uomini, il premio delle sue fatiche.

Per timore che il grande (ma temuto) favore popolare avesse a togliergli il frutto della ricompensa eterna, fuggì di nascosto dal suo monastero e si ritirò nell’eremo abitato dai monaci di Tabenna. Egli non cercava la solitudine riposante, non la tranquillità della vita solitaria, quella tranquillità che, mossi da superbia, talvolta cercano anche i monaci imperfetti, stanchi di praticare l’obbedienza nei monasteri di vita cenobitica. No: Pinufio cercava il giogo della vita comune in quel celebre monastero.

Per timore che il suo abito di monaco lo tradisse, indossò vesti secolaresche e andò a mettersi davanti alla porta di quel monastero. Là fu lasciato per molti giorni, secondo un uso proprio a quei monaci. Si prostrò ai piedi di tutti e dovette sostenere molte villanie che gli venivano inflitte per mettere alla prova la sua vocazione. Lo accusavano di essersi rivolto alla vita monastica quand’era ormai alla fine dei suoi giorni, gli rinfacciavano che era stato il desiderio di procacciarsi il pane a buon mercato il motivo della sua richiesta, sostenevano insomma che non abbracciava sinceramente la santità della vita monastica.

C’era in quel monastero un giovane monaco addetto all’orto, Pinufio gli fu dato come aiuto. Il vecchio abate faceva tutto ciò che gli comandava il suo superiore, o che stimasse richiesto dal suo ufficio; e lo faceva con tanta umiltà da far nascere in tutti meraviglia. Di più. Pinufio lavorava anche la notte, per fare certi servizi necessari, ma che gli altri monaci non volevano fare, a motivo del disgusto che ne provavano Avveniva così che al mattino tutta la comunità rimaneva meravigliata nel veder fatto quel lavoro, senza sapere chi fosse stato a compierlo. Avendo passato allegramente quasi tre anni nelle fatiche più dure e nella sottomissione più assoluta, un monaco che lo conosceva, e che era, come lui, partito dalla provincia d’Egitto, venne a quel monastero. Subito e senza sforzo riconobbe Pinufio, ma gli abiti di cui lo vedeva vestito e gli uffici vili che gli vedeva sbrigare, lo fecero rimanere a lungo esitante. Lo osservò ancor meglio finché un giorno tutti i dubbi svanirono. Allora il monaco pellegrino cadde in ginocchio davanti a Pinufio. Sul principio gli altri monaci rimasero stupefatti, poi, quando fu rivelato il nome di colui che lo straniero onorava in modo tanto insolito — un nome la cui fama di eminente santità risuonava da ogni parte — alla meraviglia successe il dolore. Quei buoni monaci si dolevano e si vergognavano di aver usato in mansioni così basse un uomo d’altissimo merito, e per di più insignito della dignità sacerdotale. Pinufio però piangeva copiosamente e rimproverava al demonio invidioso di averlo così tradito.

I confratelli gli si schierarono attorno come una guardia d’onore e lo ricondussero al suo monastero; però vi rimase poco. Offeso nuovamente dai segni d’onore resi alla sua dignità, salì di nascosto sopra ima nave e salpò alla volta della Palestina, provincia della Siria. Là fu ricevuto, come principiante e novizio, nel monastero in cui vivevamo Germano ed io, e l’abate comandò che abitasse con noi nella stessa cella. Scoperto ancora, come la prima volta, fu ricondotto al suo monastero con i più grandi segni d’onore che si possano immaginare. Così, per gli altri anni, fu costretto ad essere quello che veramente era.

 

II. - Il nostro arrivo alla sua cella

Quando, poco tempo dopo, il desiderio di essere istruiti nella scienza dei santi, obbligò anche noi ad emigrare in Egitto, ricercammo Pinufio con immenso affetto e desiderio di rivederlo. Ci ricevette con tanto amore che ci volle alloggiare, come vecchi compagni di cella, in una capanna che si era costruito nell’angolo estremo del suo orto. In quella stessa capanna, ad un monaco che voleva porsi sotto il giogo della regola, Pinufio dette — in presenza di tutti gli altri monaci — quegli insegnamenti austeri e sublimi che ho riferito con la più grande brevità nel quarto libro delle Istituzioni. Quando giungemmo da lui, le vette della vera rinunzia ci sembravano tanto incomprensibili e tanto sublimi, da credere che la nostra miseria non avrebbe mai potuto raggiungerle. Abbattuti dallo scoraggiamento e palesando nel volto l’amarezza che c’invadeva il cuore, ricorremmo al santo vecchio con l’anima in tumulto. Egli, senza porre tempo in mezzo, domandò quale fosse la causa della nostra grande tristezza. Germano gli rispose così, sospirando profondamente.

 

III. - Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione

Il tuo discorso ci ha scoperto una scienza sconosciuta, ci ha mostrato la via ardua della più sublime rinuncia. Diradando le nubi che in certo modo oscuravano la vista, tu ci hai fatto ammirare una rinuncia che penetra con la sua cima fino in cielo. Ma quanto più bella e alta è stata la visione, tanto più profondo è lo scoraggiamento che ci assale. Quando confrontiamo la grandezza del compito che ci attende, con la pochezza delle nostre forze; quando paragoniamo la bassezza della nostra ignoranza, con l’altezza infinita della virtù di cui tu ci hai parlato, non solo ci sentiamo incapaci di arrivare fin lassù, ma temiamo di cadere anche da quel grado in cui ora ci troviamo. Sì: oppressi dal peso d’un immenso scoraggiamento, dalla bassezza in cui ci troviamo, roviniamo ancora più in basso. Una sola cosa, e di valore inestimabile, può aiutarci e portar rimedio alle nostre ferite: voglio dire qualche insegnamento sul termine della penitenza e soprattutto sui segni dai quali si può intendere che i nostri debiti con Dio sono annullati. Quando siamo certi che le colpe sono cancellate, acquistiamo coraggio per tentare la scalata alle vette della perfezione di cui ci hai parlato.

 

IV. - Risposta sulla umiltà della nostra interrogazione

Mi rallegro molto dei bei frutti di umiltà che trovo in voi. Già un’altra volta, quando fui ospite della vostra cella, potei ammirare le prove della vostra umiltà, ne fui commosso e ne concepii una stima non comune. Ora sono molto contento che voi riceviate aiuto da me, ultimo dei servi del Signore (per il quale l’audacia della parola è forse l’unico merito). Sono contento che riceviate da me qualche insegnamento. Le parole che vi dirò saranno da voi messe in pratica con uno zelo non inferiore a quello che me le detta: così vedo e credo per chiari segni. Sono certo che voi farete quanto io sto per dirvi: le vostre azioni saranno pari all’austerità delle mie parole. Tuttavia dovrete nascondere il merito della vostra virtù come se delle pratiche a cui vi applicherete ogni giorno non aveste mai sentito far cenno.

La modestia con la quale confessate la vostra ignoranza circa i mezzi per raggiungere la santità — quasi che voi foste in questo campo gli ultimi arrivati — è degna di essere altamente lodata. Perciò io vi esporrò brevemente, e nel modo migliore possibile, quella dottrina che avidamente mi domandate. È dovere per me, in nome della nostra familiarità dei tempi passati, obbedire al vostro invito in modo da superare la mia stessa possibilità e capacità.

Della potenza e del merito della penitenza hanno già parlato molti, sia a viva voce che per scritto. È stato detto quanto sia grande la sua utilità e quanto sia grande la virtù e la grazia che possiede. Se così mi è permesso esprimermi, dirò che la penitenza resiste a Dio, offeso dalle nostre colpe passate e pronto a scagliarci i castighi per i nostri delitti. La penitenza trattiene — se così posso dire — la mano punitrice di Dio.

Penso che la vostra naturale perspicacia e lo studio continuo della sacra Scrittura vi abbiano rese familiari queste verità; credo che proprio di qui sia incominciata la vostra conversazione. Del resto, a voi non preme conoscere la natura della penitenza, ma il suo termine e i segni da cui si possa giudicare che tutto ciò che apparteneva al peccato è stato cancellato [i]. Voi domandate, con un quesito acutissimo ciò che gli altri hanno lasciato nell’ombra.

 

V. - Modo della penitenza e prova del perdono

Per soddisfare con brevità e chiarezza al desiderio da voi manifestato, diamo prima la definizione piena e completa di penitenza. La penitenza consiste nel non commettere più quei peccati dei quali ci pentiamo e dei quali la nostra coscienza prova rimorso. Il segno invece della soddisfazione, o del perdono ottenuto, consiste nell’aver cacciato via dal nostro cuore ogni affetto al peccato. Nessuno — sappiatelo bene — può ritenersi completamente libero dai suoi peccati passati finché l’immagine di quelle colpe, o di altre somiglianti a quelle, si mostra dinanzi al penitente e, pur non provocandogli compiacenze di sorta, ne infesta le parti segrete dell’anima.

Perciò colui che veglia tutto intento ad ottenere la soddisfazione dei suoi peccati, potrà conoscere di essere stato assolto e perdonato dalle sue colpe, da questo segno: se il suo cuore non sarà più commosso neppure dal ricordo di quei vizi.

Noi dunque portiamo, nella nostra coscienza, un giudice informatissimo sulla penitenza fatta e sul perdono ottenuto. Prima ancora del giorno del giudizio, mentre viviamo nella carne mortale, quel giudice ci manifesta l’assoluzione delle nostre colpe, il termine della soddisfazione, la grazia del perdono. Per riassumere tutto quel che ho detto in una forma più concettosa, dirò così: noi dobbiamo credere che le nostre colpe passate sono state rimesse, quando i desideri e i turbamenti dei piaceri terrestri saranno completamente cacciati via dai nostri cuori.

 

VI. - Domanda: è bene ricordare le colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore?

Germano. Ma se allontaniamo dal cuore il ricordo dei peccati, da dove ci verrà quella santa e salutare compunzione che è propria di uno spirito umile? Non è vero che la Scrittura ci presenta la compunzione con questi accenti attribuiti a un’anima penitente? « Ora confesso e non nego il mio peccato. A te dissi: mi confesso in colpa » (Sal 31,5-6).

E come potremo dire le parole che seguono: « E tu gli empi miei falli perdonasti » (Sal 31,5-6)?

E come faremo, prostrati in preghiera, ad eccitarci alle lacrime di una sincera confessione, per meritare il perdono dei nostri peccati, secondo quelle parole dei salmi: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio, irrigo di lacrime il mio letto » (Sal 6,7)? A me pare, al contrario, che noi siamo obbligati ricordare tenacemente i nostri peccati; il Signore infatti comanda: « Io non mi ricorderò delle tue colpe, ma tu ricordale » (Is 43,25-26 LXX).

Per questa ragione io sono solito richiamare alla mente i miei peccati, non solo mentre sto lavorando, ma anche quando prego. E così, più efficacemente sospinto verso la vera umiltà e la contrizione del cuore, trovo il coraggio per dire col profeta: « Osserva, Signore, la mia umiltà e il mio affanno, e perdona tutti i miei peccati » (Sal 24,18).

 

VII. - Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe commesse

Pinufio. La vostra domanda, come è già stato detto sopra, non riguarda la natura della penitenza, ma il suo termine e i segni della soddisfazione. E se questa era la domanda, mi pare di aver dato una risposta conveniente e soddisfacente. Peraltro quel che avete detto sul ricordo dei peccati, è veramente utile e necessario, ma a coloro che fanno ancora penitenza. Tocca a loro battersi il petto e ripetere incessantemente: « Le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi » (Sal 50,5). E ancora: « Sto in angustia per il mio peccato » (Sal 37,19). Finché facciamo penitenza e sentiamo il rimorso delle nostre colpe, è necessario che le lacrime di un’umile confessione cadano come pioggia sull’anima nostra e spengano il fuoco accesovi dal peccato. Ma se uno è stato tanto tempo in questa umiltà del cuore e contrizione di spirito; se si è dato continuamente alle fatiche e ai gemiti, può darsi che alla fine il ricordo del male commesso si sia cancellato e che la spina del rimorso sia stata tolta dal midollo dell’anima, per una grazia della divina misericordia. Ecco il segno sicuro che quest’uomo è giunto al termine della soddisfazione e che ha conquistato la completa remissione: ogni macchia dei suoi peccati passati è tolta. A questa perfetta dimenticanza del male commesso si giunge soltanto con la estirpazione dei vizi e delle passioni della vita antecedente, con una perfetta e integrale purità di cuore. Nessuno di coloro che, per pigrizia o malizia, trascurano di correggere i loro vizi, potrà giungere a questa meta. Vi giungerà solo colui che, con lacrime, sospiri e penitenze continue, avrà tolto dal suo cuore fin la più piccola macchia dei suoi peccati passati, e potrà sinceramente dire al Signore, dal più profondo dell’anima: « Io ho manifestato il mio peccato, non ho cercato di nascondere la mia ingiustizia » (Sal 31,5). E ancora: « Le lacrime sono state il mio cibo, di giorno e di notte » (Sal 41,4). Costui, in risposta, meriterà di sentirsi dire: « Lascia di lamentarti, asciuga i tuoi occhi dal pianto, perché vi è un compenso alle tue pene » (Ger 31,16). E la voce del Signore gli dirà pure: « Ho fatto sparire le tue colpe come nubi, e come nebbia i tuoi peccati » (Is 44,22). Oppure: « Sono io che cancello le tue colpe e non ricordo più i tuoi peccati » (Is 43,25). Sciolta « dai lacci del peccato, nei quali ciascuno si trova legato » (Pr 5,22), l’anima canterà allora al Signore questo canto di ringraziamento: « Tu sciogliesti i miei ceppi. T’immolerò vittime di grazie » (Sal 115,16-17).

 

VIII. - Le varie forme della penitenza

Oltre alla grazia comune del battesimo, oltre al dono preziosissimo del martirio, che consiste nel versare il proprio sangue, ci sono ancora molti frutti di penitenza, maturando i quali si giunge alla espiazione delle colpe. La salvezza eterna non è promessa soltanto alla penitenza propriamente detta; voglio dire a quella penitenza di cui parla l’apostolo Pietro quando dice: « Fate penitenza e convertitevi, affinché i vostri peccati siano cancellati » (At 3,19). Neppure alla sola penitenza che predicarono il Battista e il Signore, quando dissero: « Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino » (Mt 3,2). Anche la carità è capace di togliere i più gravi peccati. Sta scritto: « La carità copre un gran numero di peccati » (1 Pt 4,8). Anche l’elemosina è una medicina alle nostre ferite spirituali, perché « Come l’acqua spegne il fuoco, così l’elemosina spegne la colpa » (1 Pt 3,33). Anche le lacrime hanno la virtù di togliere la lordura del peccato. Sta scritto infatti: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio, irrigo di lacrime il mio letto » (Sal 6,7). E subito dopo, per dimostrare che quel pianto non è inutile, il salmista soggiunge: « Via da me, voi tutti, o malfattori, perché il Signore udì il grido del mio pianto » (Sal 6,9).

Né bisogna dimenticare che anche la confessione dei peccati è un mezzo per cancellarli. Dice il Libro Sacro: « Confesso e non nego il mio peccato. Mi confesso in colpa. E tu gli empi miei falli perdonasti » (Sal 31,5). Oppure: « Racconta le tue iniquità per esserne perdonato » (Is 43,26: LXX). Il perdono dei peccati si ottiene altresì per mezzo dell’afflizione fisica e spirituale. Sta scritto a tal proposito: « Osserva, Signore, la mia bassezza e il mio affanno, e perdona tutti i miei peccati » (Sal 24,18). Soprattutto si ottiene il perdono di Dio correggendo la propria condotta. Dice il Signore: « Togliete dal mio sguardo la malizia dei vostri pensieri. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, aiutate l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, proteggete la vedova; poi venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Se i vostri peccati sono come lo scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; se sono rossi come la porpora, diventeranno come candida lana » (Is 1, 16-18).

Talvolta anche l’intercessione dei santi ci ottiene il perdono dei nostri peccati: « Se uno vede il suo fratello commettere un peccato che non lo conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà vita. Questo vale per coloro il cui peccato non conduce alla morte » (Gv 5,16). E altrove si legge: « Qualcuno di voi è infermo? Chiami gli Anziani della Chiesa, e gli Anziani preghino per lui; ungendolo con olio nel nome del Signore. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà, e se ha commesso dei peccati sarà perdonato » (Gc 5,14-15). In certi casi la macchia del vizio viene tolta per merito della misericordia e della fede, secondo quella parola che dice: « Per la misericordia e per la fede sono mondati i peccati » (Pr 15,27). Spesso possiamo liberarci dalle nostre colpe convertendo e conducendo a salvezza, per mezzo della nostra predicazione, altri peccatori. Dice il Signore: « Colui che ricondurrà un peccatore dalla via del suo traviamento, salverà quell’anima dalla morte e coprirà la moltitudine dei propri peccati » (Gc 5,20).

Possiamo in ultimo meritare il perdono delle nostre colpe dimenticando e perdonando le offese ricevute: « Se perdonerete agli uomini i loro falli, il vostro Padre celeste perdonerà anche a voi » (Mt 6,14).

Vedete dunque quante porte ci ha aperto la bontà del Salvatore perché possiamo giungere al suo perdono. E ha fatto così perché nessuno di coloro che desiderano la salvezza si lasci vincere dallo scoraggiamento, visto che tanti rimedi lo invitano alla vita.

Se per caso ti lamenti di non poter cancellare i tuoi peccati col digiuno, perché sei di salute malferma; se non puoi dire: « Sono fiacchi i miei ginocchi dal digiuno, e il mio corpo è scarno e dimagrito (Sal 108,24), perché di cenere io mi cibo come di pane e la mia bevanda mescolo col pianto » (Sal 101,10), potrai sempre riscattare i tuoi peccati con generose elemosine. Non hai nulla da dare ai poveri? Prima di tutto osserva che la scarsezza di denaro e l’indigenza più autentica non dispensano alcuno da quest’opera di misericordia: le due monetine della vedova evangelica furono preferite alle offerte grandissime dei ricchi; e per un bicchiere di acqua fresca il Signore promette di dare generosa ricompensa. Ma sia pur vero che tu sei povero; potrai sempre acquistare la perfezione della virtù con l’emendazione della tua vita.

Se ti pare impossibile acquistar la perfezione della virtù sradicando tutti i tuoi vizi, puoi applicarti con pietosa sollecitudine a procurare la salvezza degli altri. Ti lamenti di non essere tagliato a questo ufficio? Potrai ricoprire i tuoi peccati con sentimenti di carità. C’è in te una certa debolezza che ti rende mal disposto anche a questo proposito? Con sentimenti di sincera umiltà puoi implorare la medicina contro i tuoi mali dalla preghiera e dalla intercessione dei santi. In ultimo, chi è che non possa dire in tono supplichevole: « Ho fatto conoscere il mio peccato, non ho nascosto la mia ingiustizia » (Sal 31,5)? Chi farà questa confessione potrà anche aggiungere: « E tu, Signore, hai perdonato l’empietà del mio cuore » (Sal 31,5). Se la vergogna ti impedisce di manifestare i tuoi peccati dinanzi agli uomini, puoi però confessarli incessantemente e supplichevolmente a colui che ti vede, e del quale ti è impossibile fuggire lo sguardo. A lui puoi dire: « Le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi. Contro di te soprattutto io ho peccato e ho commesso il male nel tuo cospetto » (Sal 50,5-6). Chi ascolta una tale confessione ci risparmia la vergogna di svelare ad altri i nostri peccati e ci perdona senza maltrattarci.

Ma dopo questo mezzo di salvezza, così facile e così sicuro, la divina bontà ne ha preparato un altro ancor più facile. La scelta e l’efficacia di quest’altro rimedio è lasciata unicamente alla nostra libera volontà, cosicché la misura del perdono che ci viene accordato dipende dai nostri sentimenti di bontà verso il prossimo. Il Signore infatti ci ha insegnato a dire così: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6,12).

Chiunque desidera ottenere il perdono delle sue colpe, ne ha i mezzi: basta che si studi di usarli. Nessuno renda vano, per l’ostinazione del suo cuore indurito, un rimedio così salutare; nessuno si allontani da una fonte così abbondante di perdono. Già, perché non bisogna dimenticare che se non è la bontà e misericordia del Signore a perdonare i nostri peccati, tutte le opere che abbiamo enumerate fino ad ora non valgono a nulla. Dio, quando scorge in noi qualche segno di buona volontà, qualche ossequio che gli viene offerto con animo supplichevole, ricompensa questi nostri sforzi, piccoli e poveri, con una generosità senza limiti. « Sono io — egli dice — che cancello i tuoi peccati e non ricordo più le tue colpe » (Is 43,25). Ecco detto quale disposizione preliminare bisogna avere per ottenere il perdono delle colpe.

In seguito, i digiuni ininterrotti, le mortificazioni dello spirito e della carne, ci otterranno la soddisfazione. Sta scritto infatti: « Senza spargimento di sangue non c’è remissione » (Eb 9,22). E questo è giusto, perché sta scritto ancora che « la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio » (1 Cor 15,50). Perciò, chiunque trattiene la spada dello spirito, che è la parola di Dio (Ef 6,17), e impedisce questa effusione di sangue, sarà colpito certamente dalla maledizione del profeta Geremia: « Maledetto chi rifiuta d’ immergere la sua spada nel sangue » (Ger 48,1).

Questa è la spada che, con salutari ferite, fa sgorgare il sangue corrotto da cui nascono i peccati. Tutte le vegetazioni carnali o terrestri che trova nell’anima nostra le colpisce e le taglia. Ci fa così morire al vizio, per farci vivere a Dio, nel rigoglio delle virtù spirituali. Fatta che sia questa operazione, non è più il ricordo dei peccati commessi a far piangere il monaco, ma è invece la speranza della gioia futura. Allora l'anima, più intenta alla gioia futura che al male passato, non versa lacrime per il dolore d’aver peccato, ma per la contentezza dell’eterna gloria. Dimenticando « ciò che le sta dietro » (Fil 3,13) — cioè i vizi carnali — tutta si protende a « ciò che le sta dinanzi », cioè ai doni e alle virtù spirituali.

 

IX - Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati

Quel che tu hai detto poco fa, caro Germano, cioè di richiamarti a bella posta il ricordo dei peccati passati, è una cosa che non va assolutamente. Anzi, se quel ricordo viene senza averlo cercato, bisogna subito cacciarlo via.

Per tutti, ma specialmente per coloro che vivono nella solitudine, certi ricordi sono pericolosi: allontanano l’anima dalla contemplazione della purezza e la ravvolgono fra le brutture del mondo, cosicché viene quasi asfissiata dal fetore del vizio.

Se tu ripensi le colpe commesse per ignoranza o per intemperanza, quando seguivi il principe di questo mondo, voglio ammettere che in questi pensieri tu non provi alcuna compiacenza peccaminosa. Ma se si tratta di lussuria, è certo che anche il semplice ricordo dell’antico marciume corrompe l’anima col suo insopportabile fetore e ne allontana il profumo spirituale delle virtù, cioè la soavità del buon odore.

Perciò, quando il ricordo dei peccati passati tenta di entrare nella nostra mente, bisogna fuggirlo come un uomo serio e virtuoso fuggirebbe una donna di mala vita che lo affrontasse sulla pubblica piazza, per invitarlo a parole sconce e atti impudichi. Quest’uomo, se subito non si sottrae a quella vergognosa vicinanza, ma si ferma a rispondere anche per pochi momenti, non potrà fare a meno di perdere la sua buona fama e di meritare la condanna dei passanti, anche se non avrà acconsentito alle proposte che gli erano fatte. Anche noi quando un ricordo impuro ci vuol condurre a pensieri indegni, dobbiamo allontanarlo al più presto. Così metteremo in pratica il comando di Salomone che dice: « Esci subito, non ti fermare nella casa di una cortigiana, non posare gli occhi su di lei » (Pr 9,18: LXX):, altrimenti gli angeli che ci vedono occupati in pensieri impuri e vergognosi, non potranno dire — volando su noi — « La benedizione di Dio vi raggiunga » (Sal 128,8). È impossibile che l’anima s’intrattenga in buoni pensieri, se gli affetti principali del cuore son rivolti ad oggetti turpi e terreni. È vera la sentenza di Salomone che dice: « Se i tuoi occhi vedranno una donna straniera, la tua bocca dirà cose insensate, e tu sarai come un uomo coricato nel fondo del mare, come un pilota in mezzo ad una grande tempesta. Dirai allora: ”Mi hanno ferito e non ho sentito male, mi hanno canzonato e non me ne sono accorto” » (Pr 23,33-35).

Dopo aver disprezzato tutti i pensieri turpi e persino quelli semplicemente terreni, l’acume della nostra mente dev’essere sempre rivolto alle cose celesti, secondo la parola del Signore: « Là dove sono io, sarà anche il mio ministro » (Gv 12,26). Avviene infatti spesso, alle persone di poca esperienza, che mentre ripensano le proprie colpe o quelle degli altri, (allo scopo lodevole di piangerle), avviene dico che la freccia sottilissima del consenso peccaminoso li ferisca. Per tal modo, ciò che era incominciato col pretesto della pietà, finisce nella oscenità e nella colpa: « All’uomo talora sembra retta la via che poi — lo creda o non — conduce alla morte » (Pr 16,25).

X. - II ricordo dei peccati più orribili è da evitare

Da quanto detto consegue che dobbiamo eccitarci alla santa compunzione piuttosto con la brama della virtù, col desiderio del regno dei cieli, che col ricordo dannoso dei vizi. Se uno pretende di stare sopra una fogna e frugarne le immondezze, sarà necessariamente corrotto da quelle esalazioni pestilenziali.

XI. - Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati

Ripeto ora quel che ho detto più volte. Noi saremo certi di aver soddisfatto i nostri peccati quando i moti e gli affetti che a quei peccati ci sospinsero saranno scomparsi dal nostro cuore. Ma nessuno creda di poter ottenere questo effetto, se prima non avrà soppresso, con tutto il fervore dell’anima, ciò che fu occasione o causa delle sue colpe. Per esempio: se uno è caduto in peccato di fornicazione o di adulterio per l’eccessiva familiarità con donne, fugga con la più grande prontezza la stessa loro vista. Se invece si è lasciato trasportare a intemperanze nel mangiare e nel bere, combatta con rigorosa astinenza le attrattive della mensa. Potrà darsi che qualcuno sia caduto nel peccato di spergiuro, di furto, di omicidio o di bestemmia, per il desiderio smodato del denaro; costui dovrà allontanare da sé quegli oggetti che lo hanno ingannato sollecitando la sua avarizia. Chi dalla superbia è stato spinto al peccato d’ira, dovrà svellere la radice dell’orgoglio con la pratica di una profonda umiltà. E così di seguito. Per poter vincere un qualsiasi peccato bisogna prima trovare la causa o l’occasione che ce l’ha fatto commettere. Con la cura qui indicata si arriva infallibilmente alla dimenticanza delle colpe commesse.

 

XII. - In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine

La dottrina sulla dimenticanza delle colpe, da me fin qui esposta, riguarda soltanto i peccati mortali dei quali parla anche Mosè nella Legge, per condannarli. Siccome la nostra buona vita allontana questi peccati dall’anima e ne estirpa le radici, è naturale che la penitenza e la deplorazione d’averli commessi abbiano un termine. Ma per quanto riguarda le piccole colpe, nelle quali secondo la Scrittura « il giusto cade sette volte e. si rialza » (Pr 24,16), dirò che la penitenza non deve cessare mai. In esse cadiamo più volte al giorno, talvolta volontariamente, altra volta involontariamente. Pecchiamo per ignoranza o per dimenticanza; in pensieri, o in parole; per inavvertenza, o per necessità; per la fragilità della carne, o per turbamento degli stessi sogni. Di questi peccati chiedeva al Signore purificazione e perdono il profeta David, quando pregava: « Ma dei peccati, chi se n’avvede? Da quelli che mi sfuggono assolvimi, o Signore » (Sal 18,13-14).

E l’Apostolo dice: « Non faccio il bene che voglio, ma al contrario faccio il male che non voglio » (Rm 7,19). Per questo lo stesso Apostolo dice gemendo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? » (Rm 7,24). Noi cadiamo in queste colpe con tanta facilità che sembrano quasi una necessità di natura. Qualunque sia il grado di circospezione e d’attenzione che usiamo, non possiamo evitarli compietamente. Su tale argomento uno degli Apostoli, precisamente il prediletto del Signore, ha una parola molto forte: « Se diciamo di non aver alcun peccato, inganniamo noi stessi, e la verità del Signore non abita in noi » (1 Gv 1,8 e 10).

Peraltro, chi desidera raggiungere il culmine della perfezione, non basta che sia arrivato a far a meno della penitenza, cioè ad astenersi da ciò che è proibito. Egli deve anche esercitarsi infaticabilmente e continuamente in quelle virtù dalle quali si può arguire di essere giunti alla piena soddisfazione delle proprie colpe. Non basta astenersi dalle colpe vergognose che Dio aborre, bisogna anche acquistare la purezza del cuore e la perfezione della carità di cui parla l’Apostolo. Bisogna possedere quel buon odore della virtù di cui si compiace il Signore.

Qui finì la conferenza dell’abate Pinufio sui segni della soddisfazione e sul termine della penitenza. Il buon abate insiste lungamente e affettuosamente per indurci a rimanere nel suo monastero, ma noi eravamo attratti dalla fama di un altro luogo: il deserto di Scito. Visto che non poteva trattenerci, Pinufio ci lasciò partire.



NOTA

[i] La questione che qui affronta Cassiano è di grande importanza. Si tratta di sapere come si cancellano quei segni — affezioni e disposizioni cattive — che il peccato lascia in noi. I teologi chiamano questi segni « Reliquiae peccati ».

 


Ritorno all'indice delle "CONFERENZE SPIRITUALI" - Ritorno alla vita di Cassiano


Ritorno alle "Regole monastiche"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


24 settembre 2017                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net