"Beata solitudo"?

Monachesimo cristiano e città postmoderna

di Mons. Pierangelo Sequeri

 

Estratto da "Un monastero alle porte della città" - Ed. Vita e Pensiero


E' veramente possibile anche oggi, per il credente comune, vivere nel mondo senza essere del mondo? La trasformazione del monachesimo cristiano e la sua diakonía nei confronti della chiesa cittadina hanno precisamente nel fuoco di questa domanda il loro punto d'incontro.

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E' già successo, dopo tutto. Fra la "Lettera a Diogneto" e "La Regola di Benedetto" non si osservano differenze tanto grandi, che non lascino apparire somiglianze ancora maggiori.

 


  

4. La concentrazione monastica intorno all'essenziale della fede comune: la Parola che fa fiorire il deserto intorno alle cattedrali.

 La forma monastica sfida l'impossibilità dell'essenziale. E mette il suo azzardo in ciò che è più comune.

La qualità della vita monastica dipende infatti dalla forza e dalla immediatezza con la quale essa indirizza l'intensità dello sguardo e la felicità del cuore intorno allo splendore della verità cristiana elementare sulla quale essa si concentra. Della stessa Parola di Dio che anche noi desideriamo ascoltare e che cerchiamo di intendere; quella che ci tiene in vita e senza la quale comprendiamo di non poter vivere la nostra relazione con il Signore. Della stessa eucaristia senza la quale non c'è vita cristiana per nessuno. Della stessa sapienza spirituale della vita che segna la qualità elementare della conversione della fede. Senza di essa, la fede - anche quella che sposta le montagne, fa miracoli in soccorso dei poveri, e getta la propria vita in fiamme - non diventa per nessuno l'affetto assoluto del cuore. Ossia l'agape di Dio, che ci salva.

L'interesse intramontabile della forma monastica, insieme con la sua singolarità cristiana, sta proprio nel fatto che essa rende speciale l'essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune.

Elementare l'esistenza, elementare la spiritualità. Le due cose insieme restituiscono al simbolo della via monastica la sua verità cristiana. In questo esercizio di ostinata riconduzione della fede e della vita all'elementare, perciò all'essenziale, la forma monastica ottiene a sua volta la restituzione della verità cristiana al radicale legame fra l'unum necessarium e la forma comune della fede. Scioglie ogni volta l'alibi della sua impraticabilità nella normalità del mondo e della chiesa. Perché è nella normalità di questo mondo e di questa chiesa che essa si apre - a forza - la via per la restituzione alla coscienza dell'impossibile umano, possibile a Dio, che abita la fede in quanto tale. Ed esalta al tempo stesso la felicità della fede più semplice, che riconosce lo splendore dello Spirito e della forza che abitano i doni elementari della fede: la rivelazione di Gesù Cristo e il sacramento, l'agape dell'abbà-Dio e la fraternità.

Il più comune è la "prossimità" solidale con il cristianesimo elementare: vivere del proprio lavoro, coltivare la fraternità, tenersi in vita con la Parola di Dio e il sacramento della presenza/assenza - dell'attesa - del Signore fra i suoi. La prossimità si realizza per altro a "distanza" dai vincoli mediante i quali le potenze mondane lo tengono per certi aspetti in ostaggio. La spregiudicata sottrazione del monachesimo al legami mondani (e non tanto l'esibizione di uno stato di maggiore costrizione, che spesso appare come il simbolo più eccitante) è in vista del vigore di una speranza che deve essere rigorosamente comune ai credenti. Nulla e nessuno possono separarci dall'amore di Cristo e dalla compiuta destinazione degli affetti degni di Lui.

Perciò le due cose vanno insieme. L'evidenza della prossimità indirizza persuasivamente il senso cristiano della distanza. La qualità cristiana - agnostica - della distanza, illumina il significato evangelico, non utilitaristico, della prossimità. Il monachesimo deve essere abitato da una tale qualità dell'esperienza dell'uomo e della vita, da rendere persuasivi i tratti essenziali della sapienza teologale che essa dispiega. Nella condizione attuale, questa reciproca evidenza è in molti modi oscurata.

L'opportunità storica/teologale del monachesimo la vedrei oggi proprio nella possibilità di scavare, nelle viscere della città moderna, la fitta rete di un vivace scambio simbolico fra il cristianesimo monastico (polarizzato dalla vocazione celibataria) e quello domestico (polarizzato dal legame coniugale).

E' evidente che la correlazione funziona se l'alleanza dialettica sta in saldo rapporto con una forma domestica dell'esistenza che mostri di avere integrato la novità cristiana: appresa, come sequela del Signore, nell'ascolto della parola e nella assimilazione di agape. Parliamo infatti del sacramento cristiano del legame dell'uomo e della donna, determinato dalla qualità personale del coinvolgimento sessuale, dalla cura responsabile della generazione, dalla stabilità etica della sua figura sociale. Parliamo dunque pur sempre, anche in riferimento al principio domestico della chiesa, di un azzardo cristiano/ecclesiale della fede evangelica, che scommette, in virtù della fede e in forza della benedizione di Dio, sulla consegna della relazione nuziale alla via della sequela testimoniale e della vocazione al discepolato. In tal caso infatti, nella reciproca frequentazione della ecclesia fidei, le due figure hanno l'opportunità di realizzare l'unità del simbolo ecclesiale cristiano. L'una viene efficacemente richiamata alla necessità di non rinchiudersi nell'arida applicazione alla "cura di sé" (sia pure in chiave spirituale); l'altra viene distolta dal pericolo di rasseganrsi ad una relazione teologale che integra semplicemente la "cura del mondo".

Battere insieme il puritanesimo gnostico e l'accomodamento mondano della vita cristiana è prospettiva dura e affascinante. Eppure, l'alleanza del principio monastico e del principio domestico, con le relative inclusioni simboliche della memoria dell'uno nell'altro (il monachesimo fraterno, aperto all'ospitalità; la chiesa domestica permeabile all'iniziazione contemplativa e all'esercizio del distacco) sarebbero un segno forte per la chiesa della città. Ma anche per la città moderna tout-court.

E' già successo, dopo tutto. Fra la Lettera a Diogneto e La Regola di Benedetto non si osservano differenze tanto grandi, che non lascino apparire somiglianze ancora maggiori.


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net